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Visualizza Versione Completa : Le occasioni perdute della sinistra



Frescobaldi
01-08-14, 19:52
“La crisi delle ideologie e la sinistra italiana”. Così si intitolava, press’a poco, la tavola rotonda del 26 marzo 1981 a Roma in memoria di Ugo La Malfa, due anni dopo la morte: cioè del leader politico italiano che, alla testa di una forza di minoranza, più si è battuto, nel corso di oltre un trentennio, per “disideologizzare” la sinistra italiana, per affrancarla dai complessi atavici o ancestrali dei pregiudizialismi millenaristici o delle soluzioni messianiche e palingenetiche.
I testimoni di quella sera: tutti riuniti da un abito di libertà intellettuale, da un pari rifiuto di ogni dogmatismo. Lucio Colletti: lo studioso del marxismo che dalla lunga milizia comunista – responsabile per anni della rivista togliattiana per eccellenza, Società – ha tratto la forza e l’esperienza intellettuali sufficienti a mettere in luce, come ha fatto con l’ultimo libro, Il tramonto dell’ideologia, e particolarmente dell’ideologismo di sinistra, vulnerato dalla crisi della contestazione.
Giuliano Amato: il costituzionalista di abito e di fede socialista che riassume il senso della storia italiana post-repubblicana nella ricerca costante, e sempre fallita, di una sinistra di governo (“l’Italia è un paese che ha bisogno di una sinistra per governare e vede sempre una sinistra incapace di governare”). Eugenio Scalfari: il giornalista che per primo previde l’autunno della Repubblica e da sempre si batte su posizioni di frontiera, a volte a inserire i contenuti del pensiero laico-democratico, o liberal-progressista, in una specie di nuovo “connubio” con le forze più rappresentative del movimento operaio, senza discriminazioni a sinistra.
Constatazione comune: la crisi delle ideologie di sinistra, in tutte le loro forme. È nota la tesi di Colletti: l’ondata, impetuosa e spesso limacciosa, della nuova sinistra ha finito per investire in pieno le convinzioni e i punti di riferimento del marx-leninismo, nell’edizione scolastica e quindi acritica prevalente in Italia. La crisi dell’ideologismo di sinistra, nutrito da tutti i succhi e da tutti i miti della rivoluzione culturale cinese non meno che dalle influenze della scuola di Francoforte, ha finito per tradursi in una vera e propria crisi del marxismo (che nulla risparmia, che investe la sponda comunista e proietta a maggior ragione i suoi riflessi nella contermine sponda socialista, tesa ormai soltanto a fissare nella palizzate o confini con l’ortodossia o liturgia marxista). La contestazione post-sessantottesca è diventata – ecco la tesi conclusiva di Colletti – “l’ultimo e disperato tentativo di rianimare la dottrina marxista e imprimerle vita nuova”.
Fallito quel tentativo, rimane solo un mucchio di macerie. Nell’intervento sull’eredità lamalfiana, Colletti ha precisato la sua linea: le trasformazioni profonde, e in gran parte spontanee, della società italiana nel dopoguerra non hanno trovato una classe di governo adeguata al compito di incanalarle e guidarle. Solo la sinistra democratica, e minoritaria, una sinistra quasi di élite, si pose il problema di governare politicamente il rivolgimento sociale vissuto dal paese, soprattutto dopo gli anni sessanta, attraverso la programmazione, attraverso le riforme, attraverso la politica dei redditi. I grandi partiti di massa, non soltanto la democrazia cristiana ma anche le forze della sinistra di classe, socialisti e comunisti, si rivelarono incapaci, per cecità o per arretratezza ideologica, di intendere i problemi di una società industriale e moderna. La Malfa – ecco la conclusione di Colletti – finì per peccare di ottimismo, non di pessimismo.
L’analisi non si fermò agli ultimi anni drammatici dell’emergenza incalzante, ma risalì al primissimo dopoguerra, alle speranze e ai fantasmi della liberazione. Soprattutto Amato insisté sull’occasione perduta di una grande forza laico-socialista, alternativa sia all’incipiente egemonia democristiana sia alla prevedibile chiusura comunista, quale La Malfa aveva proposto a Nenni alla fine del 1944 senza riuscire a superare le inibizioni e gli isolazionismi connessi alla tradizione socialista. “C’è una contiguità, quella fra socialisti e repubblicani – disse Amato – che è sempre decisiva, nel bene e nel male, nella storia italiana”. Scalfari, che proviene dall’esperienza del Mondo di Mario Pannunzio, non mancò di insistere sui limiti, quasi costituzionali, del dialogo Nenni-La Malfa: ben diverso fu, per esempio, egli aggiunge, il dialogo Pannunzio-La Malfa.
Non fu difficile, a chi scrive queste note, intervenire nel dibattito per sottolineare la portata dell’occasione perduta (ma in senso correttivo alla tesi di Amato). L’Italia aveva bisogno, nell’immediato dopoguerra, di grandi riforme democratiche, ma poteva attuarle solo se svincolate in partenza da ogni impostazione classista, e rese compatibili col ripristino, dopo il corporativismo e l’autarchia, di una libera economia di mercato, internazionalmente aperta. Era la condizione fondamentale per superare il paralizzante divario fra nord e sud; era la premessa necessaria per persuadere la maggioranza del paese, comprese le classi medie sempre decisive, alla “desiderabilità” delle riforme – è un’osservazione di Leo Valiani – a cominciare da quella delle istituzioni. Ci voleva, ma allora, una sinistra di governo: fuori da mitologie e utopie.
Il partito d’azione rappresentò il più nobile tentativo in questa direzione. Si spezzò, agli inizi del ’46, sulla rottura, quasi pregiudiziale, fra socialisti e non socialisti: prima ancora di aver potuto avviare un qualunque serio processo di revisione dell’ideologia socialista, ereditata tale e quale, e solo con l’amputazione del congresso di Livorno. Per arrivare a formulare un’ipotesi di “sinistra di governo”, ci vorrà il centro-sinistra: con tutta la complessità del suo travaglio ma anche con tutta la modestia dei suoi risultati.
Il Sessantotto liquidò il centro-sinistra, nel momento stesso in cui mise in discussione le tavole dell’ideologia di sinistra, molto spesso degenerate in formule teologiche o ripetitorie. Oggi tutto è in discussione. I miti delle nazionalizzazioni e delle socializzazioni, così forti nel dopoguerra, sono abbandonati non solo dai comunisti ma anche dai socialisti. La “demonizzazione” del capitalismo, contro la quale scrisse pagine mirabili Ugo La Malfa, non trova più seguaci se non in limitate e un po’ malinconiche frazioni della sinistra extraparlamentare, al di là del PCI (e talvolta corrette dal loro snobismo e radicalismo). Il socialismo autogestionario, la variante jugoslava, rimane in qualche frangia del PSI, ma senza convinzione né smalto.
Fuori d’Italia, la sinistra non è in crisi minore. Il laborismo britannico si è spaccato in due, e l’ala socialdemocratica occupa uno spazio vicinissimo a quei “liberali” inglesi che corrispondono alla sinistra democratica italiana, da sempre allergica alle seduzioni marxiste. Il dramma polacco lacera le ultime ipocrite convenzioni intorno al cosiddetto “socialismo reale”.
Craxi non ha fatto neanche in tempo a strappare l’etichetta “laborista” per sottolineare il nuovo corso del PSI. Ha dovuto tornare a Turati, riprendere l’aggettivo “riformista”. È un atto di coraggio: io ricordo i tempi – all’inizio degli anni cinquanta – in cui lo “scissionista” Saragat esitava a sposare il termine “riformismo”. Temendo che lo respingesse troppo sulla destra. È un bel vantaggio, almeno, dopo tanti errori e tante delusioni, aver superato la paura della topografia.

Da Giovanni Spadolini, Italia di minoranza. Lotta politica e cultura dal 1915 a oggi, Le Monnier, Firenze, 1983.