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Visualizza Versione Completa : La crisi perpetua. Il peggio deve ancora venire?



amaryllide
02-10-14, 20:04
Ripensando ai dieci anni successivi al crollo del mercato azionario del 1929, l'economista marxista, coeditore di "Scienza e società", Vladimir D. Kazakevich, scrisse della "crisi cronica" che persistette durante gli anni Trenta negli Stati Uniti (La guerra e la finanza americana, Scienza e Società, primavera 1940). Kazakevich richiamò l'attenzione sulla stagnazione che durò in quel decennio, rilevando che dopo la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti divennero l'economia dominante nel mondo. Eppure, "come più potente paese capitalista, gli Stati Uniti hanno sviluppato di conseguenza anche gli evidenti punti deboli finanziari, attribuibili, per la maggior parte, proprio alla loro posizione dominante in un mondo capitalista lacerato da contraddizioni economiche e frustrazione".

Kazakevich, che fu un buon marxista invece di essere un keynesiano riverniciato, rifletté sul crollo della crescita del settore dei beni di investimento durante il decennio del New Deal: "Queste cifre mostrano come l'attività dei capitalisti si ridusse enormemente negli anni Trenta, rispetto agli anni venti. La maggior parte delle spese federali del periodo del New Deal erano dirette a sostenere la domanda di "beni di consumo piuttosto che di capitali o beni di produzione... Anche se è stato ampiamente difeso e valorizzato, 'l'innesco della pompa' dal settore finale dei beni di consumo, si è rivelato una misura economica che ha completamente fallito nel suo proposito di rianimare l'organizzazione capitalistica frustrata da una cronica crisi".

I commentatori economici di oggi sono sempre più allarmati da un simile crollo dei capitali e dei beni di produzione che accompagna la nostra "crisi cronica". Poiché la crescita della spesa in conto capitale (e la spesa per beni strumentali) viaggia ben al di sotto della sua media di lungo periodo dell'8% (è cresciuta solo del 3% nel 2013), l'età media di macchinari e attrezzature industriali negli Stati Uniti ha superato i dieci anni, l'età media più alta dal 1938, quando Kazakevich dipingeva il suo terribile quadro! (The Wall Street Journal, 03/09/14) Così, il passo di lumaca dell'economia statunitense nel corso degli ultimi sette anni imita in modo rilevante quella stagnazione seguita al grande crollo che diede inizio alla Grande Depressione.

Mentre la spesa in conto capitale ora non può giocare il ruolo quasi decisivo che ha svolto nell'economia statunitense nel corso del 1930, essa rimane un forte indicatore della titubanza dei manager ad espandere la base produttiva dell'economia. Non riescono a vedere prospettive di espansione del profitto nella crescita estensiva dei mezzi di produzione o nella riconversione e nel riammodernamento del settore manifatturiero. Naturalmente tutto ciò non significa che i manager non sono alla ricerca di profitti o gli investitori non sono alla ricerca di un ritorno sugli investimenti. I gestori hanno raccolto più soldi in fusioni e acquisizioni nel corso del primo semestre del 2014 che in ogni altro periodo a partire dal 1999. Il che è anche tipico di una ristrutturazione capitalistica dopo un crollo severo. Questa razionalizzazione della produzione capitalistica serve ed è servita a ripristinare la crescita del profitto a seguito di una disavventura parimenti capitalista.

Sulla scia del crollo del 2007-2008 l'economia statunitense ha registrato un incremento drammatico della produttività del lavoro (in assenza di investimenti di capitale, questa è stata largamente dovuta a un aumento del tasso di sfruttamento del lavoro). Licenziamenti di massa, chiusure di impianti e debole leadership sindacale hanno determinato un combinazione tra stagnazione dei salari e sfruttamento estremo di una forza lavoro sempre più rimpicciolita. I profitti sono arrivati. E di conseguenza il tasso di profitto precedentemente in calo ha ripreso la sua crescita.

Sfortunatamente, per le prospettive del capitalismo, il tasso di crescita della produttività si è esaurito: la sua media negli ultimi cinque anni supera appena la metà della media dei 20 anni, con una produttività attualmente in calo dell'1,7% nel primo trimestre del 2014. Così questa strada al recupero del profitto e della crescita sembra essere ormai chiusa.

Naturalmente se gli ultimi aumenti di produttività fossero stati condivisi con la classe operaia, il capitalismo probabilmente avrebbe registrato un incremento dei ricavi (la gente avrebbe acquistato più beni e servizi) e una prospettiva più rosea di guadagni. Ma questo non è accaduto. Al netto dell'inflazione, la crescita cumulativa del reddito medio familiare è scesa precipitosamente dopo il crollo economico, attestandosi ai livelli del 1990. Di conseguenza, la crescita del fatturato aziendale che ha raggiunto un picco nel terzo trimestre del 2011 si è poi ridotta da allora.

Ne deriva che i tre indicatori dell'aumento del tasso di profitto - l'investimento di capitali, la produttività del lavoro e l'incremento dei ricavi - sono attualmente assenti nell'economia americana.

Non sorprendentemente, la crescita riferita degli utili delle imprese è in sofferenza. Dal suo picco nell'ultimo trimestre del 2009 (oltre il 10%), si è costantemente e stabilmente ridotta.

Profitti, profitti, profitti!

E' importante sottolineare che è il profitto la benzina del sistema capitalistico. Sebbene ciò appaia ovvio, questo è il punto di partenza della teoria marxista della crisi. Il sistema capitalista appare in buona salute solo quando il capitalista possa sia detenere il capitale ma anche aspettarsi un profitto da esso. Il sistema capitalista teme due cose: un capitale improduttivo (capitale senza alcuna prospettiva di profitto) e un tasso di rendimento stagnante ovvero in calo. Di conseguenza, il capitalismo genera una crescita sistemica se e solo se il capitale è abbondante, le opportunità di investimento sono diffuse e il tasso di profitto è sufficientemente allettante.

Ma questa legge dell'accumulazione capitalistica contiene i germi della crisi capitalista. Come sopra notato, la crescita del tasso di profitto è in calo da qualche tempo. Allo stesso tempo, l'accumulazione di capitale si sta espandendo più rapidamente dell'intera economia degli Stati Uniti. La massa relativa dei profitti - stimata come i profitti delle imprese statunitensi in rapporto al PIL - ha raggiunto livelli senza precedenti nel secondo trimestre del 2014 (un livello del rapporto profitto/PIL raggiunto solo due volte dal 1947: immediatamente prima del crollo e nel 1950). In altre parole, nonostante la caduta del saggio di profitto, il motore capitalista di generazione dei profitti sta producendo nuovo capitale potenziale più velocemente di quanto produca ricchezza. Seguono tre conclusioni: il capitale sta vincendo la guerra di classe, la crescita tarda a venire, la massa del capitale è in crescita rispetto alle dimensioni dell'economia, mentre il tasso di profitto è in calo.

E il nuovo capitale è in cerca di una casa, un luogo dove andare per accumulare ulteriore capitale.

Se uniamo il capitale generato dall'incasso dei profitti, la liquidità senza precedenti detenuta dalle imprese e la disponibilità di credito a buon mercato (a tassi di interesse quasi inesistenti), troveremo che la classe dei capitalisti si trova ad affrontare un compito arduo nel trovare opportunità di investimento per un ampio bacino di capitali.

Se questo suona familiare, è solo perché lo è. Prima del crollo dell'economia, molti commentatori economici hanno rilevato che il mondo finanziario è stato inondato di denaro liquido in cerca di opportunità d'investimento. Ho scritto nel mese di aprile del 2007 (Rivista di Politica Economica: La depressione che incombe, in Marxism-Leninism Today, 5 aprile 2007) che: "Pur essendo inondato di capitali, il potere finanziario è alla ricerca di opportunità di investimento senza alcun risultato. I teorici dell'economia sono rimasti spiazzati dalla disponibilità di bassi rendimenti anche negli investimenti ad alto rischio o a lungo termine. In circostanze normali, il rischio e la pazienza pagano un premio all'investimento, ma non oggi. Al contrario, l'enorme piscina di ricchezza concentrata in poche mani può attirare solo i prestatori a modesti tassi. C'è semplicemente troppa ricchezza accumulata in cerca di troppo poche opportunità di investimento".

E' per questo paradosso dell'accumulazione - troppo capitale, troppe poche opportunità - che crolla il tasso di profitto già sottoposto a stress e si rischia la crisi strutturale (o la crisi profonda, nel nostro caso). È questo paradosso dell'accumulazione che spinge gli investitori gonfi di capitale ad intraprendere strade di investimento più rischiose e più effimere.

Rischio

Ancora una volta un vasto serbatoio di capitali è alla ricerca di opportunità di investimento in costante diminuzione. Ancora una volta, come nel preludio al crollo dell'economia, i rendimenti si sono ridotti, guidando gli investitori verso investimenti più rischiosi e più speculativi. I fondi pensione e gli hedge funds si stanno muovendo verso le scommesse più arcane e meno sicure, sperando che il profitto faccia passare in secondo piano il rischio. Come Richard Barley osserva acutamente sul Wall Street Journal (11/08/2014):

... vi è una carenza di titoli di alta qualità. Eppure c'è ancora un eccesso globale di capitali in cerca di una casa... Tutto questo crea incentivi per l'ingegneria finanziaria. Nei mercati dei derivati del credito, ci sono segni che gli investitori si stanno facendo attrarre da prodotti "esoterici". Citigroup segnala un "forte aumento" nella negoziazione di prodotti finanziari che analizzano in modo multidimensionale il rischio di insolvenza all'interno di indici per le opzioni di trasferimento del rischio di insolvenza ("credit-default-swap" n.d.t.)... Prima della crisi, bassi rendimenti e condizioni di mercato apparentemente benevole hanno portato alla creazione di strumenti finanziari che alla fine pochi sono in grado di comprendere e maneggiare. Più a lungo persiste il gioco al rialzo, maggiore è la possibilità che gli investitori rivisitino un passato infelice.

Da qualche tempo, un inafferrabile gioco al rialzo ha portato alla rivitalizzazione del mercato dei titoli spazzatura ("junk bond" n.d.t.). Nei cinque anni dopo il crollo finanziario, quattro dei dieci fondi obbligazionari a più rapida crescita hanno detenuto notevoli quantità di debito a basso tasso di interesse, secondo gli analisti del WSJ ("Wall Street Journal" n.d.t.). Si noti che questo "... sviluppo sottolinea la forte domanda di profitto da investimenti finanziari, a partire dalla crisi del 2008".

Ma il flusso di cassa per il mercato degli alti rendimenti ha depresso i rendimenti stessi a livelli mai visti dalla fine del 2007. Ancora una volta aumentano i presagi degli investitori a proposito di una crisi economica mondiale e i bassi rendimenti costituiscono un segnale di pericolo.

La mania per le fusioni e acquisizioni ha finito per giocare in un campo rischioso e pericoloso. Nonostante le linee guida federali sollecitino la limitazione della leva finanziaria nel limite di sei volte gli utili lordi incamerati dalle banche che finanziano le acquisizioni, nel 2014 il quaranta per cento di acquisizioni in regime di "private equity" (acquisto di azioni di una società da parte di un investitore istituzionale - banche o fondi di investimento - sia mediante acquisto di titoli da terzi, che mediante l'acquisto a seguito di emissione di nuove azioni e aumento di capitali da parte della società finanziata n.d.t.) hanno superato la regola 6X. Questo tasso si sta avvicinando velocemente al livello pre-crisi del 2007.

L'effetto della ricchezza

Un mercato azionario apparentemente forte e un mercato del debito pubblico statunitense relativamente stabile contribuiscono a creare l'illusione di un'economia sana e prospera. Essi hanno, con grande efficacia, mascherato le gravi crepe nel capitalismo statunitense.

Il ritiro da lungo atteso della Federal Reserve dalla "QE (Quantitative Easing: l'acquisto da parte della FED del debito degli Stati Uniti e di altri paesi) non ha comportato quel disastro che molti nel mondo accademico e a Wall Street avevano temuto. Raramente notato, tuttavia, è il fatto che la Repubblica Popolare Cinese ha intensificato l'acquisto di titoli del Tesoro Usa quasi a un tasso "dollaro per dollaro", a fronte del ritiro della Federal Reserve.

La performance "stellare" delle azioni è un'altra questione. Un segno moderatamente allarmante è la marcia costante del saggio di rendimento dei capitali in una zona superiore alla media di lungo periodo e a un livello pari o superiore a quello del 2006-2007. Naturalmente questo da solo non spiega la performance del mercato.

Un aspetto sconcertante dell'espansione dei prezzi azionari è la storica bassa vitalità del mercato nel periodo seguito al crollo finanziario. Che cosa, allora, ha gonfiato i prezzi delle azioni?

Parte della risposta sta nel riacquisto di azioni societarie, una pratica che eleva il prezzo di mercato acquistando i titoli fuori dal mercato. Il Wall Street Journal (16/09/14) riferisce che 338.200 milioni di dollari in azioni sono state ri-acquistate dalle società nel primo semestre del 2014, il maggior quantitativo dal 2007. Lo stesso rapporto osserva che le società nel secondo trimestre del 2014 hanno speso "31% del loro flusso di cassa nel riacquisto di azioni".

Le società stanno accumulando denaro e ammassando debito a livelli senza precedenti (grazie a tassi di interesse bassi, le emissioni di obbligazioni societarie potrebbero avvicinarsi alla quota di 1.500 miliardi dollari di quest'anno, essendo cresciute con progressione geometrica nel corso degli ultimi vent'anni). Pertanto, l'attività societaria si è allontanata dagli investimenti nella crescita futura e si è orientata verso fusioni e acquisizioni e riacquisti di azioni proprie, attività che rafforzano il tasso di inflazione senza creare valore sottostante.

Prendete Apple, per esempio. Seduta su un grande mucchio di denaro contante, Apple ha comunque venduto 12 miliardi dollari del suo valore in obbligazioni societarie quest'anno. Allo stesso tempo, Apple ha riacquistato 32,9 miliardi dollari di proprie azioni, facendo salire in modo efficace il prezzo delle azioni rimanenti sul mercato.

Tutto questo è veramente creazione di ricchezza? O è uno stratagemma per tenere in vita la festa?

È interessante notare che non è solo l'itterico occhio marxista che sbircia attraverso la nebbia scorgendo davanti gli scogli. Rob Buckland, un analista di Citigroup, ritiene che l'economia americana sia entrata in "fase tre", la fase che precede una marcata flessione. Business Insider (15/08/2014) riassume la fase tre di Buckland come segue:

Fase 3: Questa è la parte difficile. I titoli stanno ancora volando alto, ma il prezzo del rischio di credito si sta ampliando mentre gli investitori diventano sempre meno disposti a finanziare ulteriormente il rischio. Gli amministratori delegati aziendali hanno ormai vissuto un lungo periodo di guadagni e sono diventati amanti del rischio. (E notiamo che le banche centrali stanno già parlando di stretta del credito aumentando i tassi di interesse.) Bolle speculative possono formarsi in fase 3, Buckland dice, allorché il mercato azionario che vola ad alta quota ignora i primi segni premonitori del deterioramento del mercato del credito... (CITI: Economy 'Phase 3' Where Bubbles Form Prior To Crash - Business Insider (http://www.businessinsider.com/citi-economy-phase-3-where-bubbles-form-prior-to-crash-2014-8#ixzz3DcJqF9tH))

E' in questo contesto che stanno emergendo preoccupazioni tra gli investitori. Alcuni gestori di hedge fund ribassisti stanno investendo ansiosamente in credit-default swap e si ritirano dagli investimenti ad alto rischio. Senza tener conto della disinformazione e delle illusioni promosse dal monopolio dei media, seri studiosi vedono la non fronteggiabile crisi in Europa, il rallentamento delle emergenti economie di mercato, le recenti battute d'arresto della Abe-nomic in Giappone (la politica economica del premier giapponese Shinzo Abe n.d.t.), e la perdita di slancio dell'economia della Repubblica Popolare della Cina come elementi da aggiungere alle contraddizioni nascoste sotto la superficie dell'economia statunitense.

Vladimir Kazakevich espresse i timori, nel suo articolo del 1940 sopra citato che "... potenti interessi su entrambi i lati dell'Atlantico possono potenzialmente considerare un'economia di guerra come soluzione immediata per la crisi cronica...". Certamente le sue paure erano ben fondate. Il militarismo si è dimostrato in grado di "risolvere" le contraddizioni della depressione globale al costo umano inedito e smisurato della seconda guerra mondiale.

Non è legittimo chiedersi oggi se una logica simile operi nelle menti degli Stati Uniti e dei leader della NATO che sembrano determinati a suscitare odio e belligeranza? I demoni ISIS ultimamente emersi raffigurano un nemico quasi troppo perfetto: quasi una caricatura del male che potrebbe portare un livello senza precedenti il ritorno dei militari statunitensi nel Medio Oriente. L'iniziativa militare americana limitatasi all'intervento aereo è già costata oltre un miliardo di dollari, una diabolica "pompa di innesco" militare per l'economia degli Stati Uniti.

E stuzzicare l'orso - infastidendo la Russia con minacce, sanzioni e il coinvolgimento militare - è la nuova ossessione della NATO, anche all'ingente costo economico di un'Europa prostrata. Le azioni messe in cantiere dai militaristi potrebbero condurci nuovamente al livello di rischio dei peggiori giorni della Guerra Fredda.

Non è sempre più evidente che solo lo "spettro" del socialismo sia in grado di offrire una risposta alla crisi globale cronica del capitalismo e dei suoi servi, della xenofobia e dei guerrafondai?
La crisi permanente. Il peggio deve ancora venire? (http://www.resistenze.org/sito/os/ec/osecei29-015071.htm)

originale qui:
ZZ's blog: The Chronic Crisis, with Worse to Come? (http://zzs-blg.blogspot.it/2014/09/the-chronic-crisis-with-worse-to-come.html)

MaIn
02-10-14, 21:02
una guerra in iraq e risolviamo la crisi allora? :D