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Gianky
13-12-14, 11:05
Una Sinistra per salvare il Paese


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I ragionamenti qui contenuti si riferiscono, integrandola, alla Lettera Aperta che “Iniziativa 21 Giugno” indirizza alla Sinistra Italiana.


Più volte, e da più parti, si è affermato che una peculiarità dell’Italia degli ultimi decenni sia quella dell’incrociarsi e del mutuo amplificarsi, in una molteplicità di rapporti causa/effetto, di aspetti di crisi politica, istituzionale, economica, sociale. Questa constatazione porta alla necessaria conseguenza che le difficoltà che il nostro Paese incontra nel superare una crisi che non ha solo caratteri economici, e che preesiste alla crisi finanziaria del 2008, richiedano approcci sistemici e non settoriali.
In Italia si osserva la compresenza e, per diversi aspetti, la maggior gravità di molti di quei fattori di criticità che caratterizzano variamente l’Occidente industrializzato: il degrado delle istituzioni democratiche e della partecipazione dei cittadini, la paralisi della mobilità sociale, l’eccessiva concentrazione della ricchezza e l’impoverimento degli strati inferiori e medi della piramide sociale, il degrado delle condizioni di vita dei più, la stagnazione dell’economia e della produzione, la generalizzata incapacità dello Stato a svolgere efficacemente le proprie funzioni ed a promuovere sviluppo, equità, protezione dei più deboli; in nessun’altra democrazia corruzione, evasione ed elusione fiscale, criminalità organizzata, occupano tanto spazio economico, politico, sociale quanto in Italia, tendendo a divenirvi fattori fisiologici e non più patologici.

Il ventennio definito come Seconda Repubblica, insieme all’abbandono delle ragioni della politica ed al venir meno del partito politico come strumento -per quanto imperfetto- della democrazia, ha visto generalizzarsi la reazione nei confronti di una fase riformista che si era sviluppata sin verso la fine degli anni ’70, per poi esaurirsi nel corso degli anni ’80, parallelamente all’avvento di Ronald Reagan negli USA, e di Margaret Thatcher nel Regno Unito. In quel ventennio, passo dopo passo, rinuncia dopo rinuncia, sono state create le premesse per la limitazione degli spazi di democrazia a disposizione dei cittadini e per la subordinazione rinunciataria della politica alle scelte dei centri di potere economico e finanziario; non si è fatto nulla per combattere l’allargarsi delle disparità economiche tra categorie sociali e tra aree territoriali; anzi, queste sono state aggravate dalle politiche fiscali e di investimento adottate. Oltre che impoverire ulteriormente i più arricchendo i pochi, svantaggiare sempre più un Mezzogiorno abbandonato al suo destino, non consentire a giovani e donne un adeguato accesso al lavoro, alimentando la percezione oggettiva di abbandono, insicurezza e sfiducia crescenti, ne sono risultati il generale infragilimento e perdita di competitività del Paese, che ha collocato l’Italia, che era agli ultimi posti tra i paesi industriali in quanto a rischi di esposizione nei confronti della crisi finanziaria del 2008, al primo posto nel subirne effetti economici che tuttora perdurano.
Lo svilimento della democrazia e del ruolo della politica, ridotta a gioco di gestione di se stessa, ha impedito un serio dibattito pubblico al riguardo, con la conseguenza fatale della sua riduzione ad un’alternanza inutile nella quale l’agenda politica era pur sempre quella dettata dalla destra, dalle esigenze personali del suo leader, dagli interessi dell’area sociale che ad essa si riferiva e che ad essa forniva consenso.

Gli assetti e gli indirizzi politici che si sono via via affermati dopo il tracollo dell’ultimo governo Berlusconi con la benedizione di un Presidente della Repubblica che, fatta propria e promossa apertamente la politica delle larghe intese, ha rispolverato lo Statuto Albertino, non hanno rappresentato né un’inversione di rotta, né una discontinuità con il precedente ventennio. Al contrario, vi si è manifestato il consapevole tentativo di dare forme istituzionali e giuridiche compiute a concezioni della politica e della società che già si erano sviluppate in precedenza, e sulle quali hanno concordato la destra e buona parte di quello che fu il centrosinistra.
In questo processo, l’avvento di Matteo Renzi alla segreteria del PD ed il successivo Patto del Nazzareno, che ben pochi dei partecipanti alle primarie del PD avrebbero a priori accettato, ha rappresentato un passaggio necessario. Ne è seguita la defenestrazione di Letta, imposta al suo partito come la manifestazione di una necessaria discontinuità: ma non quella di ribaltare i precedenti indirizzi, quanto quella derivante dal considerare insufficiente e bisognoso di completamento quel cammino che la destra non aveva saputo realizzare compiutamente.
Ciò non consente che si possa continuare a parlare di un sistema politico articolato su una destra ed un centrosinistra tra loro alternativi: quello che si sta instaurando è un sistema politico ingessato attorno ad un blocco centrista, in larghissima misura costituito dal PD renziano.
Qui sta il senso dell’affermazione che da più parti si fa circa l’instaurarsi di un regime; giudizio che non si fonda tanto sull’osservazione dell’affermarsi del concetto del partito unico, quanto sul constatare come l’attuale assetto politico sia stato reso possibile solo per via della tregua richiesta da Berlusconi ed imposta da Napolitano e, tecnicamente, da una pessima legge elettorale; e nel fatto che questo assetto rischia di divenire permanente in via forzosa grazie all’ulteriore peggioramento della legge elettorale, alla sostanziale abolizione del Senato, alla farsa delle Città Metropolitane, al permanere di norme antidemocratiche sull’accesso all’elettorato passivo, alla privatizzazione del finanziamento dei partiti.
E, ultima ma forse an



cor più importante considerazione, il suo mantenimento si autoalimenta in virtù del fatto che, impedendo dialettica politica e possibilità di mutamento, gli italiani si convincono dell’inutilità di utilizzare i residui strumenti democratici a loro disposizione, ed abdicano al diritto-dovere del voto, producendo l’effetto di maggioranze fondate più sul non-voto dei cittadini che sulle volontà espresse nell’urna.

Il combinarsi del progressivo aggravarsi delle condizioni economiche complessive del Paese con il peggioramento delle disparità sociali e delle condizioni di vita e lavorative di molti, con il crescente degrado urbano, con il contrarsi della spesa sociale e con il venir meno degli ambiti di democrazia, sta creando una miscela che alimenta, in alternativa, ed a seconda dei punti di vista e degli interessi dei singoli, o una sfiducia che rischia di trasformarsi in rassegnazione, o il ribellismo. Dell’una e dell’altro si vedono segni evidenti nel crollo della partecipazione al voto e nel manifestarsi di iniziative violente e proteste nelle nostre periferie urbane, poco importa se alimentate da coloro che non hanno nulla da perdere o da coloro che invece temono di perdere quel poco che hanno. Ed a nulla vale il tentativo di liquidare la questione col qualificare i primi come antagonisti ed i secondi come tendenzialmente reazionari.
Su tutto incombe poi, tacitamente tollerata, ed agevolata dall’indebolirsi degli strumenti centrali e periferici della democrazia, la cappa di una corruzione endemica, dell’evasione e dell’elusione fiscale, delle collusioni col malaffare che, oltre che inaccettabili in via di principio, rappresentano anche un ulteriore balzello che una minoranza di furbi impone ad una maggioranza di onesti, un fattore di disgregazione sociale, un serio ostacolo ad ogni politica di sviluppo, un elemento di gravissimo discredito del Paese sulla scena internazionale.
Nell’Italia di oggi, si sta dichiaratamente sottraendo ai cittadini gran parte degli strumenti che, in una democrazia, sarebbero a loro disposizione per esercitare quella sovranità che la Costituzione loro assegna. E non solo per quanto riguarda le regole e le Istituzioni della democrazia, ma anche per quanto riguarda quelle forme di partecipazione intermedia che dovrebbero trovare il loro ambito nei partiti politici, nei sindacati, nell’associazionismo.
I primi, trasformatisi da libere associazioni di cittadini in corpi feudali nei quali ogni scelta emana da vertici ed apparati di professione aventi nella propria sopravvivenza la principale preoccupazione, e che l’abolizione del finanziamento pubblico rende sempre più dipendenti dalle oligarchie economiche.
I secondi, messi in discussione nel loro ruolo di rappresentanza generale del lavoro, e che si vorrebbe veder ridimensionati a pura controparte aziendale o di categoria. Si vorrebbe così per questa via smantellare un altro tra gli strumenti di partecipazione e rappresentanza di gran parte dei cittadini e togliere dalla scena un ulteriore fattore di articolazione e operatività di quei contropoteri, anche non istituzionali, la cui presenza e vitalità sono richieste in una democrazia. Anche questi sono fenomeni che entrano a pieno titolo nel valutare le condizioni di funzionamento della democrazia nel nostro Paese.
Il venir meno degli strumenti e dei processi democratici impedisce poi una seria discussione sul significato e sull’efficacia delle politiche e delle cosiddette riforme che vengono sottoposte al Parlamento come articoli di fede da accettare o respingere in blocco, il più delle volte ricorrendo ad interpretazioni estensive dell’istituto della delega, che sottrae al Parlamento ulteriore capacità di intervento e di controllo. Non c’è quindi da stupirsi se poi, in mancanza di una appropriata funzionalità del Parlamento e di un’adeguata opposizione politica, dilaghi la protesta sociale.

Essendo la quasi totalità dell’attuale schieramento politico -ad iniziare dai contraenti del Patto del Nazzareno- pesantemente coinvolta nell’aver condotto il Paese a questo stato di cose, e non essendo immaginabile che l’altalenante ed equivoca demagogia grillina possa condurre ad uno sbocco, non c’è via d’uscita se non quella che passa per la presenza e l’azione di una forza che abbia il fine e la capacità di indicare al Paese un’alternativa, con particolar riferimento alle condizioni del sistema democratico, alle politiche economiche e sociali, al ruolo dello Stato e della Pubblica Amministrazione.
Cioè, che passa per il formarsi di una sinistra adeguata, credibile nella capacità culturale e politica di svolgere un ruolo non limitato all’essere forza di opposizione ed antagonista, nella potenzialità ed autonomia elettorale, nella capacità di rappresentanza di una parte importante della società italiana, nel saper indirizzare in termini politici quei conflitti sociali che si vorrebbe elidere in parte ricorrendo all’effetto placebo ed in parte per via normativa, nell’imporre un dibattito pubblico non formale e fondato sulle condizioni reali del Paese e senza il quale la democrazia risulterebbe ulteriormente svuotata, nel saper condurre le battaglie politiche e le lotte utili a salvare l’Italia dal degrado economico e dall’involuzione verso un’oligarchia che, avendo più interesse al tornaconto dei pochi che ad una prospettiva di sviluppo complessivo, lo condanna ad una lunga stagnazione.
Questa sinistra, ancora manca.

Sta però maturando, in molti, un comune giudizio di pericolosità sull’attuale conduzione del Paese, pur se in un quadro articolato e non omogeneo di atteggiamenti che vanno dall’esprimere gravi preoccupazioni sino al manifestare una determinata e consapevole opposizione. Sta maturando un’opposizione sociale che si è manifestata nell’imponenza della manifestazione indetta il 25 Ottobre scorso dalla CGIL, e che prosegue nello sciopero generale indetto da CGIL ed UIL per il 12 Dicembre. Sta maturando nell’elettorato la consapevolezza che interi settori di opinione pubblica ed intere fasce sociali siano oggi privi di adeguata rappresentanza politica, e non solo per effetto delle distorsioni del sistema elettorale.
A questa maturazione ed a questi italiani, occorre dare, e da subito, una risposta. E, se tutto ciò non è ancora pervenuto a manifestarsi in una forma politica, ne è però ben più che il terreno di coltura, e non può trovare che uno sbocco: quello del formarsi, in tempi non biblici, di una Sinistra ampia e degna di tal nome, a partire da quei soggetti politici, gruppi, associazioni, che vi siano oggi disponibili, e senza escludere a priori nessuno di coloro che potrebbero, o meglio dovrebbero, starci.
E’ compito di coloro che più sono convinti di tale necessità quello di avviare e favorire in ogni modo un percorso in questa direzione, nella convinzione che questa sia una condizione necessaria, oltre che a far riemergere una sinistra politica, a salvare il Paese
Il compito non è facile. Esso richiede che siano chiarite, pur prescindendo in questa sede da indicazioni specifiche di programma, le principali linee di indirizzo e modalità formative, riguardo alle quali qui si propongono in via non esaustiva ed in termini non conclusivi, alcuni punti sui quali appare necessaria una comune discussione da parte di tutti i soggetti interessati.

A- Per quanto riguarda i connotati di fondo:
Saper sviluppare non solo le capacità di analisi e di critica tipiche di una forza di opposizione, ma soprattutto quelle relative all’indicare un’alternativa che si misuri attraverso iniziative, indicazioni e proposte, lotte, concrete, realistiche, comprensibili.
Avere la capacità di raccordarsi con quelle forze e movimenti che, pur non schierati su un fronte di sinistra, siano disponibili ad impegnarsi in iniziative, lotte politiche, campagne di opinione volte alla difesa della democrazia e dello Stato di Diritto, allo sviluppo di politiche riguardanti i diritti individuali e civili e la laicità dello Stato e delle Pubbliche Amministrazioni, alla difesa di consumatori ed utenti dei pubblici servizi e, più in generale, alla tutela delle parti deboli nei rapporti tra soggetti privati e tra privati e settore pubblico.
Essere pienamente consci di dover parlare all’intero paese, e non solo a sue parti: politiche alternative a quelle presenti trovano credibilità solo se tendono ad affrontare un’emergenza che è nazionale e sistemica, che riguarda cioè l’intero sistema-paese. Dato per scontato che una qualsivoglia forza di sinistra non può prescindere, nel conflitto sociale, dalla tutela dei diritti e delle condizioni di vita dei più svantaggiati e dalla difesa del lavoro in termini quantitativi, economici e normativi, la sinistra di cui oggi c’è bisogno non può lasciare che un ceto medio impoverito identifichi i propri interessi con quelli di coloro che ne hanno determinato l’impoverimento; e non può non sostenere lo sforzo, che oggi non sembra prevalere nel mondo dell'impresa, di imprenditori, artigiani, operatori commerciali, professionisti, onesti e capaci, impegnati quotidianamente nel competere, più che attraverso dumping retributivo e normativo, in termini di innovazione di prodotto e di processo, di idee, conoscenze, metodi; così dando il loro contributo, non di rado frustrato da ritardi ed inefficienze, ad ammodernare e rendere competitivo il Paese.
Aver chiaro come, in un quadro che deve valorizzare il ruolo pubblico, la correttezza e l’efficienza della Pubblica Amministrazione, il rigore nella gestione della spesa, l’intransigenza nei confronti di disonestà, incapacità, sprechi e cattivi utilizzi del denaro pubblico, siano non solo doverosi, ma anche nell’interesse generale del Paese, ed in particolare dei più deboli. Una Pubblica Amministrazione moderna, efficiente, motivata, capace di controllare e controllarsi, di dare risposte rapide e chiare, di esser vista come un sostegno e non come un freno allo sviluppo, è una precondizione necessaria a quel ruolo attivo in termini di capacità di indirizzo e programmazione di cui oggi è particolarmente avvertita l’esigenza.
La visione di una “società diversamente ricca”, per usare l’espressione di Riccardo Lombardi, presuppone un ruolo attivo della scuola, della conoscenza e della cultura, della ricerca e dell’innovazione, dell’arte, mobilitando capacità e risorse pubbliche e private, finalizzate a nuove occasioni di sviluppo ed a mettere in luce nuove risorse umane e materiali, a riequilibrare le prospettive e le condizioni di vita economica e civile delle diverse aree del Paese, a combatterne il degrado territoriale, ambientale, urbano, a preservarne i beni culturali. A questo sforzo devono corrispondere anche politiche industriali atte ad orientare il nuovo sviluppo, recuperare i ritardi di innovazione e competitività, spingere il rilancio dell'occupazione, anche con politiche pubbliche di creazione di lavoro.
Avere la consapevolezza di dover operare criticamente, ma senza indulgere a preconcette avversioni, all’interno di un quadro di riferimento europeo ineludibile e determinante, in uno scenario politico tutt’altro che facile: cosa che richiede non un tiepido, ma un elevato senso di appartenenza europea.
L’unificazione europea deve ritornare agli originari suoi obiettivi e principi fondativi, espressi nel preambolo e nella Parte Prima del Trattato e nella Carta dei diritti fondamentali della UE, traditi dalle politiche economiche e finanziarie oggi prevalenti, che sono la vera minaccia alla sua esistenza.
Occorre attrezzarsi, anche su un piano tecnico/scientifico, per respingere il semplicismo populista che tende a contrapporre i paesi virtuosi ai PIGS, chiarendo come non sia tutto oro quel che riluce nei conti dei primi, come alcuni parametri indichino una solidità di fondo del nostro sistema economico ben superiore a quella espressa dal solo rapporto debito/PIL, e come gli squilibri interni all’area-euro non siano determinati solo dai deficit di bilancio di alcuni, ma ancor più dalle politiche deflazionistiche ostinatamente seguite da altri.
Ed occorre soprattutto aver chiaro e chiarire come l’ideologia del rigore a costo della decrescita sia il vero rischio per il futuro dell’Euro: una moneta che, se deve essere unica, non può prescindere dalla valutazione realistica delle condizioni di tutti i membri dell’Eurozona. Ragionamenti simili verrebbero a cadere sul nascere, se non preparati negli aspetti tecnico/scientifici ed in quelli politici dei rapporti tra Paesi e tra forze politiche, e se non sviluppati nell’ambito di una più forte richiesta di una democrazia europea e di strumenti di indirizzo e governo politico nell’ambito dell’Eurozona. Cose, queste, delle quali non s’è vista traccia nell’ormai inutilmente trascorso, per quanto sbandierato mediaticamente, semestre italiano di Presidenza della UE.
E, non ultima questione, anzi premessa metodologica e condizione necessaria al formarsi di una sinistra aperta ed adeguata alle necessità che sono state definite, è quella della capacità critica di tutti nei confronti delle proprie storie, sovente conflittuali tra loro, e costellate da errori, incomprensioni, pregiudizi; e dalle conseguenti sconfitte. La constatazione del deserto attuale impone più di una riflessione, ed impone a tutti la disponibilità a ripartire dall’oggi col rimettersi in gioco senza presunzioni egemoniche che non trovano fondamento nella realtà dei fatti e che farebbero immediatamente fallire ogni tentativo di avvio.

B- Per quanto riguarda gli aspetti ed il percorso più strettamente politico:
Non si può pensare di avviare questa costruzione sulla presunzione del mantenimento in vita di un centrosinistra che, da tempo, non esiste più. Occorre esser chiari al riguardo: l’idea di un centrosinistra capace di essere alternativo alla destra è tramontata con il sostanziale affossamento della neonata coalizione Italia Bene Comune, avviato dal PD già prima dell’insulsa campagna elettorale politica del 2013, e definitivamente certificato con il Patto del Nazzareno.
Se questa consapevolezza non è ancora generale, il suo maturare è nei fatti; il procedere delle politiche di questo governo, in ordine alle scelte istituzionali ed a quelle economiche e sociali, porterà necessariamente alla conseguenza di dover scegliere se subire indefinitamente lo spostamento dell’asse politico del paese o essere protagonisti della costruzione di un solido punto di riferimento politico a sinistra.
La costruzione di una sinistra ampia e capace di rapportarsi alla realtà complessiva del Paese presuppone il concorso plurale di espressioni politiche e soggetti diversi e caratterizzati, oltre che da storie politiche e radici culturali diverse, anche da ruoli, dimensioni, modi di operare, diversi. Non può quindi realizzarsi per cooptazioni centrate sull’uno o sull’altro dei soggetti politici esistenti, e nemmeno per via della semplice aggregazione orizzontale di pezzi di politica, che verrebbe percepita unicamente come l’unione di più debolezze, tutte modeste in quanto a capacità di proposta, e nessuna delle quali capace di vita ed autonomia politica ed elettorale propria.
Deve anche tener conto del fatto che la necessità di questo processo, ad oggi, non è ancora percepita da tutti con la stessa chiarezza. Il percorso possibile passa quindi per un processo largo, non precostituito, aperto a tutti coloro che, anche in un prossimo futuro, vi siano disponibili, rispetto al quale il veicolo più adatto appare quello di una forma aperta che consenta, insieme all’articolazione territoriale, la partecipazione di forze politiche, associazioni, movimenti, individualità, diverse; e, al tempo stesso, capace di definire comportamenti politici omogenei e di non parlare con una babele di linguaggi diversi.
La questione del rapporto col sindacato è centrale. E’ necessaria una forza di sinistra che sappia essere interlocutore politico delle forze sindacali. Più che la recita di dichiarazioni di principio in tal senso, ciò comporta, nel rispetto della diversità di ruoli tra forze sindacali e politica, la capacità costante di confronto e verifica nel già citato riferimento alle condizioni reali del paese, nello sviluppo di proposte realizzabili ed empiricamente misurabili nei loro effetti, e comporta la capacità di dare sostanza e contenuti politici, senza opportunismi, al concetto dell’inscindibilità dei diritti individuali, civili, sociali.

Un processo di questo tipo è reso ineludibile sia dal precipitare di una crisi economica e sociale che, ove non trovi espressione politica, rischia di degenerare in ribellismo, che dall’approfondirsi di una crisi politica di cui il crollo della partecipazione al voto è una manifestazione, ed i cui termini sfuggono, con voluto opportunismo, alla quasi totalità delle forze politiche oggi presenti in Parlamento che, in definitiva, traggono dalla sfiducia degli italiani la loro legittimazione elettorale. Ed ancora, è reso ineludibile dal fatto che non basta stare in attesa che gli eventi confermino la convinzione, largamente diffusa, dell’inadeguatezza degli indirizzi di politica economica e delle cosiddette riforme a rimettere in movimento il Paese.
Ad evitare che la sfiducia si trasformi in definitiva rassegnazione, o in ribellismo, entrambi esiziali per una democrazia, occorre una sinistra capace di concezioni aperte e non anguste, e capace di guardare in grande ed oltre le contingenze dell’oggi, per salvare l’Italia.
Occorre muoversi subito.

INIZIATIVA 21 GIUGNO, 06-12-2014
Una Sinistra per salvare il Paese (http://www.sinistradazione.it/documento.php?id=21)

Gianky
15-12-14, 12:41
Mi sono accorto che questa mattina ho postato un'altra discussione sullo stesso argomento. Moderatori, cancellare pls. e grazie