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Visualizza Versione Completa : Pietro Nenni (Faenza, Ravenna, 1891 - Roma, 1980)



Frescobaldi
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Apro questo 3d con l’intento di raccogliere scritti e pensieri del grande leader socialista

Frescobaldi
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Un’opposizione di stoppa



di Pietro Nenni – “Avanti!”, 20 gennaio 1924, non f.to.






Se le informazioni sono esatte, la porta del gabinetto di Palazzo Chigi è stata sprangata agli uomini politici non iscritti al Partito fascista. E su quella porta anche si può scrivere la parola “Esaurito” come alle prime recite di grido.
Inutile la ressa dei postulanti, inutile il lavorio delle anime in pena che troppo tardi si sono decise al passo… estremo, incerte tra il bene e il meglio, e ora si accorgono di essere arrivate in ritardo. Signori, bisogna rassegnarsi, c’è tanto di “completo”. A un’altra rappresentazione, dunque… tra cinque anni!
Oggi, prima del decreto di scioglimento, prima della convocazione dei comizi[1] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn1), prima della giornata elettorale, le elezioni sono già fatte e il governo è già plebiscitariamente rieletto colla sua maggioranza fedelissima. Gran virtù della mirifica riforma elettorale, mercé la quale la dittatura si fa dare l’avallo dalla sovranità popolare ridotta a un fantoccio… senza corona e senza scettro! Bisogna proprio essere della levatura portentosa di Michelino Bianchi per insistere sulla necessità di una riforma costituzionale che garantisca al governo il potere per tutta la durata della legislatura. E bisogna essere costituzionali della stoffa della “miserabile classe dirigente”, per non capire che la riforma costituzionale c’è già tutta nella riforma elettorale a cui hanno dato il “placet” tutti i più ortodossi zelatori di tanti princìpi.
Ora le elezioni sono fatte a Palazzo Chigi, là il governo ha manipolato la sua maggioranza futura, ha dato i primi posti e i più numerosi, agli uomini del suo partito, e poi ha dosato il resto con una scelta di ascari fedeli dalla truccature variopinte[2] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn2). Varata ufficialmente quella lista, essa è già eletta, nella sua integrità, senza possibilità di contendenti nel campo nazionale perché la minaccia è sospesa contro chi ardisse da parte costituzionale contrastare razionalmente la lista del governo, che rappresenta il Partito fascista e quindi, senz’altro, la patria. Se non c’è già qui una riforma costituzionale – dato che si possa chiamare riforma… l’abrogazione della Costituzione – non sappiamo quali altre elucubrazioni possano a tal riguardo fermentare nei cervelli geniali dei nuovi statisti pullulati dalla marcia su Roma.
È ben vero che le elezioni sono sempre state manipolate nei Gabinetti della Presidenza. I regimi cambiano e le turlupinature della volontà popolare restano. A Palazzo Braschi di vetusta giolittiana memoria si faceva né più né meno di quanto si fa ora a Palazzo Chigi: accaparramento di gruppi, manipolazioni di liste, istruzioni ai… governatori delle province. Ma talvolta accadeva che il corpo elettorale potesse permettersi la facoltà di mettere in iscacco il governo, ed è accaduto più di una volta che la nuova Camera si disfacesse immediatamente… dell’autore dei suoi giorni. Il duce invece è catafratto contro questa eventualità. Non gli può capitare l’infortunio di Baldwin, né può trovarsi nella penosa incertezza in cui si troverà tra pochi mesi Poincaré.
Quando un regime ha al suo servizio le autorità ufficiali e le illegali, e ha una propria milizia a sua disposizione, ed è spregiudicato in materia di legalità, non può temere nessun imprevisto. Ha in pugno il suo destino.
Noi attendevamo l’opposizione costituzionale alla prova. Senza illusioni e senza speranze, per semplice curiosità. Questa opposizione che ha una propria stampa, che è sempre pronta a giurare nei santi princìpi del liberalismo aveva ancora questa occasione per riabilitarsi di tutti i trascorsi passati. Ha accettato la marcia su Roma come un rivulsivo energico ma necessario, ha accordato i pieni poteri come una eccezione reclamata dalla speciale situazione del paese, ha trangugiato la riforma elettorale per un sentimento di disciplina… nazionale; e ora per le elezioni, si prepara ad affrontare la lotta con lo stesso stato d’animo di adattamento e di rinuncia. Basta che il duce arroti i denti, e agiti lo staffile, ed eccoli tutti accovacciati come nella storica seduta del bivacco.
Non c’è spettacolo più comico di quello che danno in questo preludio elettorale gli esponenti del liberalismo di fronte alla nuova marcia… legale alla conquista del potere.[3] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn3) Giolitti, il gran patriarca del parlamentarismo tradizionale, ha escogitato i più bassi servigi ai dominatori. Egli non entra nella lista del governo perché vuol salvare di fronte alla storia la sua verginità di perfetto liberale. Ma egli giura che non sarà mai oppositore del governo, e la sua lista[4] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn4) sarà concorrente con quella delle opposizioni… solo per sottrarre dei posti alla minoranza. Il fascismo non troverà mai un più zelante servitore di questo neutralista, bruciato in effigie nelle radiose giornate.
Orlando, altro grande nume del costituzionalismo, in attesa di dire una parola definitiva, lancia incenso sull’altare del fascismo e dichiara che il destino dell’Italia riposa sulle ginocchia di Giove e di Mussolini.
Nitti, già capo-gruppo, che a Montecitorio da quando il fascismo è al potere ha sempre mandato a battersi la sparuta schiera dei gregari, si ritira sotto la tenda come lo sdegnoso Achille e rifiuta il combattimento.
De Nicola, grande speranza di tutte le sinistre allorché nel paese infuriava la tempesta e la fragile barca dello Stato era affidata alle mani imbelli di Facta, se le sue resistenze non saranno come sempre di breve durata, pare deciso a disertare la lotta.[5] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn5)
Il Partito popolare infine, questo partito equivoco, sempre ministeriale con molte reticenze di opposizione, lealista nell’aula e demagogico nelle piazze, sta correndo a galoppo nelle braccia del nuovo regime.[6] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn6) Il centrismo si sposta a destra, e per mantenere a galla la navicella tra i flutti agitati si butta a mare a gran forza la zavorra di sinistra. Don Sturzo, a propiziarsi la benevolenza del governo, offre l’agognata testa di Miglioli, il che vuol dire che la formula “né collaborazione, né opposizione” sta per essere mutilata della seconda parte e il popolarismo entrerà colla nuova legislatura nell’orbita della maggioranza devota e servile.
Con una opposizione di tale stoffa, con duci così pavidi di ogni mossa, e duellanti come il sòr Panera solo a patto che l’avversario non si muova, il fascismo ha ragione di fare lo spavaldo e di usare a volte l’ironia, a volte il disprezzo e a volte la minaccia. Segno è che la difesa degli interessi di classe è più forte dell’attaccamento ai più vetusti e gloriosi princìpi. Il capitalismo italiano mai come con questo regime ha avuta mano libera contro il proletariato né mai ha trovato nello Stato una più valida difesa. È questa ragione che disarma ogni volontà di lotta nel campo borghese e suggerisce la rinuncia, sotto la menzogna delle superiori necessità nazionali. Ond’è, che una sola opposizione ha la sua ragione d’essere e ha una chiara e inequivocabile fisionomia. Ed è quella che si ispira agli interessi calpestati e derisi della classe proletaria.
Diranno i prossimi eventi se questa potrà misurarsi in una lotta civile di idee e di programmi; o se la classe capitalistica vorrà stravincere soffocando coi mezzi che ha a sua disposizione la libera espressione della volontà delle masse.

[Pietro Nenni]



[1] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref1) I comizi per le nuove elezioni del 6 aprile erano indetti con decreto reale del 25 gennaio 1924.


[2] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref2) Da parte fascista infatti era stato deciso che non vi sarebbe stata alcuna alleanza con altri partiti. Nella lista nazionale governativa, il “listone”, sarebbero entrati uomini di tutti i partiti a titolo personale.

[3] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref3) Il Partito liberale, lasciata ogni decisione ai singoli appartenenti per l’entrata nel “listone”, non presentò una propria lista.

[4] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref4) Capeggiata da Giolitti, fu presentata una lista di liberali-democratici del Piemonte.

[5] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref5) De Nicola il 3 aprile deciderà di ritirarsi dalla competizione elettorale e anche dall’attività politica.

[6] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref6) Mentre i popolari dissidenti erano entrati nel “listone”, il PPI presentò una propria lista con il contrassegno dello scudo crociato.

Frescobaldi
07-02-16, 00:00
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I valori democratici del socialismo


“Avanti!”, 7 dicembre 1958


Siamo in debito di una risposta all’articolo di Togliatti su “Rinascita”: “Le decisioni del XX Congresso e il Partito Socialista Italiano”. Il tema è così strettamente connesso al dibattito in atto nel Partito che verrebbe quasi voglia di pubblicare la risposta nella rubrica pre-congressuale. Non si tratta del resto di una interferenza illecita, come se ne producono tante da parte comunista. I problemi di un partito operaio interessano tutto il movimento operaio, interessano tutto il paese. Naturale che provochino una serie di interventi esterni dei quali andremo esaminando, via via, la portata e il contenuto.L’articolo del quale ci occupiamo ha il vantaggio di attaccare in pieno la politica che ha preso nome dal Congresso di Venezia. Per questo il compagno Togliatti rinuncia all’argomento di comodo di quanti fissano a Pralognan la svolta della politica del P.S.I. Il punto di partenza, a suo giudizio, è nella valutazione che noi demmo, che tutto, o quasi, il Partito dette, del XX Congresso di Mosca e dei successivi avvenimenti di Polonia e di Ungheria. In quella valutazione si anniderebbe il germe della “deviazione socialdemocratica” che ci viene arbitrariamente attribuita. In verità, per intendere il senso della politica socialista di Venezia, occorre risalire ancora più indietro, occorre risalire al giudizio critico sui postumi del frontismo; occorre risalire all’impegno, che si diparte dal 1951, per una politica di distensione, di apertura a sinistra, di alternativa democratica tra aspetti diversi coerenti e conseguenti della politica di rottura dello schieramento conservatore. Il XX Congresso ed i fatti polacchi ed ungheresi furono una conferma dell’indirizzo che il Partito andava configurando, non ne furono le cause. Essi influirono anche sul tentativo di risolvere il problema dell’unificazione socialista, tentativo condotto senza la benché minima concessione alla socialdemocratizzazione del partito, e per eliminare un equivoco ed un elemento di disturbo che ha giovato e giova soltanto alla borghesia. Quello che oggi i comunisti chiedono è il ritorno puro e semplice alla precedente prassi dell’alleanza politica dei due partiti, è il ripudio del nostro giudizio sia sul XX Congresso sia sui fatti ungheresi e polacchi.

“Rinascita”, valendosi degli articoli del Segretario del Partito su “Mondo Operaio” (Luci ed ombre del XX Congresso di Mosca, ecc.) e della relazione al Congresso di Venezia, ha cercato di individualizzare il bersaglio, laddove il tiro viene diretto contro il Partito nel suo insieme. Sarebbe infatti stato preferibile riferirsi agli atti collegiali ed ufficiali del Partito. Sono molti e non possono essere tutti citati. Basterà riferirsi ad alcuni di essi. Ecco, per esempio, come il 6 luglio 1956 la Direzione del Partito si esprimeva all’unanimità sul XX Congresso e sul processo cosiddetto della destalinizzazione: “La revisione dell’esperienza sovietica aperta al XX Congresso e con il dibattito sul rapporto Krusciov dimostra che i valori della libertà sono indissolubili dal socialismo e che essi, pur se contenuti per necessità delle cose o errori degli uomini, alla fine prorompono come forze essenziali. La revisione non si può esaurire nella condanna delle degenerazioni del potere avvenute sotto la direzione staliniana, non può arrestarsi al ritorno alla direzione collegiale, non può appagarsi delle riabilitazioni o di metodi più tolleranti. Essa deve investire l’organizzazione politica del potere, trasfondere i principii di libertà nelle istituzioni, nei metodi di governo, nel costume, dare ampie garanzie democratiche ai cittadini nei loro rapporti con lo Stato”.

A distanza di due anni e mezzo, ed alla luce (ed alle ombre) delle esperienza successive, ci sembra che non ci sia nulla da mutare. Gli “errori di Stalin”, come dice “Rinascita”, o quelli di Rakosi, o di altri dirigenti comunisti, non bastano a spiegare le degenerazioni burocratiche e poliziesche del potere rivoluzionario. Furono conseguenze, non causa. Né il rimedio può essere soltanto nelle importanti riforme della struttura economica citate dal nostro critico. Il rimedio è nella vita democratica delle masse da stabilire in tutte le sue espressioni, in tutte le sue forme.

Non meno valido ci sembra il giudizio collettivo e pressoché unanime del nostro Partito sui fatti di Polonia e di Ungheria. Quei fatti venivano considerati dalla Direzione del Partito, in una risoluzione del 1° dicembre 1956, come la “conseguenza di una degenerazione del potere popolare in forme burocratiche e poliziesche e di una impostazione della politica economica in termini forzati rispetto alla realtà produttiva e sociale del Paese, e che hanno isolato il vecchio gruppo comunista, lo hanno staccato dalla classe operaia e dalle masse popolari, hanno impedito la libera circolazione delle idee e il ricambio dei quadri direttivi”.

“In tali condizioni – aggiungeva la risoluzione della Direzione del Partito – la pubblica denuncia di errori e delitti non venne seguita tempestivamente, né dalla giustizia richiesta dalla coscienza popolare, né dall’indispensabile revisione dei metodi e del sistema di direzione politica. Lo stesso irresponsabile appello all’intervento delle armi sovietiche fu la conseguenza estrema del metodo di chi ha perduto il legame e la fiducia nel popolo e nei lavoratori e si affida soltanto alla forza”.

La Direzione definiva l’intervento armato sovietico “incompatibile col diritto dei popoli alla indipendenza”. Quindi diceva: “Quanto è avvenuto in Polonia e in forma drammatica e sanguinosa in Ungheria, comporta un insegnamento per tutto il movimento operaio e socialista in tutti i paesi del mondo. I fatti hanno posto in tragica evidenza che vi è una linea di demarcazione oltre la quale le conquiste realizzate dal movimento operaio non possono essere mantenute e sviluppate senza l’instaurazione di metodi di direzione e di strutture politiche che garantiscano la piena affermazione dei valori democratici del socialismo. L’insegnamento che scaturisce dagli avvenimenti polacchi ed ungheresi è che occorre affermare senza riserve il carattere democratico autonomo e creativo del socialismo, rifiutando ogni principio autoritario sia nella organizzazione dello Stato, sia nella direzione delle lotte operaie e popolari”.

Anche su questo giudizio, a distanza di due anni, non crediamo ci sia nulla da mutare. Se mai gli avvenimenti successivi ne hanno sottolineato la validità. È del tutto ingiusto dire, come fa “Rinascita”, che nella nostra valutazione la democratizzazione viene ridotta “a una banalità puramente giuridica”. È vero il contrario. Ciò che interessa i socialisti è la sostanza della democrazia, è la sostanza della libertà. Perciò i sermoni borghesi sulla democrazia e sulla libertà ci fanno sbadigliare, costruiti come sono su una concezione formale e giuridica della democrazia. Del pari ci rifiutiamo di ridurre la concezione della democrazia e della libertà a formule esclusivamente economiche. Il socialismo è proprietà sociale, è socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio. Ma è anche liberazione dell’uomo da tutti i rapporti sociali politici culturali che lo umiliano e lo opprimono.

La garanzia per l’avvenire che, in tale senso, il Congresso di Venezia ha inteso dare, non fu una ingenuità, non fu neppure un inganno. È esatto quanto scrive “Rinascita” e che cioè noi ignoriamo cosa sarà l’avvenire. Sappiamo tuttavia cosa vorremmo che fosse, sappiamo quale Stato vogliamo costruire, quale società. Sappiamo qual è la via, quali i metodi e i mezzi che noi consideriamo i più idonei alla costruzione del socialismo.

Sappiamo, per adoperare le parole stesse del Congresso di Venezia, che “il socialismo non è soltanto un certo modo di produzione, la statizzazione o la socializzazione dei mezzi di produzione, ma è democrazia operaia e contadina delle aziende, in un sistema di garanzie costituzionali individuali e collettive che renda impossibile la violazione della legalità di fronte alla sempre possibile degenerazione burocratica e poliziesca dello Stato. La libertà di opinione, di stampa, di organizzazione, di sciopero non sono borghesi o proletarie, sono conquiste di valore universale da difendere sempre e in ogni caso”.

Formulazioni di tale natura non potevano non influire sui rapporti tra socialisti e comunisti nella lotta per il potere, mentre non incidono sulla condotta unitaria delle lotte quotidiane dei lavoratori per le loro rivendicazioni di classe e di categoria. Ma se avessimo dato un diverso giudizio, se avessimo usato un diverso linguaggio, è chiaro che avremmo rinunciato ad essere socialisti, avremmo rinunciato ad affermare e difendere nel movimento operaio e popolare, nella lotta per il potere, nella edificazione del socialismo, quei valori di libertà e di democrazia che sono l’essenza stessa del socialismo.


Pietro Nenni

Frescobaldi
10-02-16, 21:40
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La bomba Ercoli

“Avanti!”, 3 aprile 1944




Mentre andiamo in macchina (con le difficoltà inerenti ai tempi) le radio diffondono il messaggio che il segretario generale del Partito comunista Togliatti (Ercoli) ha lanciato agli italiani sbarcando a Napoli dopo il lungo esilio a Mosca.
È chiaro che lo storico Congresso di Bari del 28 gennaio, riconfermando la duplice pregiudiziale dell’abdicazione del re e della non-collaborazione con Badoglio, ma non prendendo nessuna concreta decisione per forzare il re ad abdicare e Badoglio ad andarsene, aveva arenato la barca antifascista a un punto morto. Per uscire dal quale, al congresso di Bari, i Partiti socialista, comunista e d’azione avevano chiesto l’incriminazione del re e proposto che il congresso sedesse in permanenza costituendosi così, sotto l’ausilio del consenso popolare, centro animatore della riscossa popolare. La proposta fu respinta, e noi lo deplorammo amaramente. Dopo il discorso di Churchill, iniziando una pubblica campagna di comizi, di petizioni, di scioperi, i Partiti socialista, comunista e d’azione dell’Italia meridionale tentarono nuovamente di prendere l’iniziativa, col prestigio accresciuto che davano loro gli scioperi di Milano e Torino, i martiri della battaglia di liberazione nell’Italia nazificata, le gesta dei partigiani.
Con l’odg del 9 febbraio è su questa via che il nostro partito voleva incanalare la lotta per il potere, premessa indispensabile alla resurrezione del paese. Era la via che storicamente si illuminava coi precedenti francesi del terrore settembrino e maratiano, quando per poter vincere il nemico di fuori fu giuoco-forza schiacciare prima quello di dentro, e della Comune.
Il compagno Ercoli, mosso probabilmente da una preoccupazione simile, rovescia il vapore, proponendo non l’accantonamento della monarchia, ma l’accantonamento della questione morale e politica contro la monarchia; non di cacciare Badoglio ma di allargare la basi del suo governo con la partecipazione dei partiti di massa. (A ottanta anni d’intervallo è un poco il ritorno al garibaldino “Italia e Vittorio Emanuele” che valeva all’eroe di Calatafimi dieci anni di amari gemiti a Caprera nel “non per questo dal fatal di Quarto scoglio sul mare ecc.”.)
Gli organi competenti stanno esaminando la proposta di Ercoli con la volontà di confluire a un risultato e non di impantanarsi in polemiche.
Non dobbiamo però tacere che la “svolta” partecipazionista suggerita dal compagno Ercoli non è giudicata da noi conforme all’interesse delle masse popolari e al fine che Ercoli stesso si propone: la intensificazione della guerra, l’unione degli italiani contro il nazifascismo.
C’è qualche cosa che è più importante della guerra, ed è il fine della guerra, nella quale noi non esaltiamo l’ “igiene del mondo”, ma un mezzo barbaro impostoci dal nemico barbaro per raggiungere il duplice obiettivo della liberazione del paese e del suo rinnovamento democratico.
Rispetto a questi obiettivi il problema, in certo senso pregiudiziale, è di strappare la direzione politica e militare del paese e della guerra alle forze reazionarie annidate dietro la monarchia e dietro Badoglio. Chi elude questo problema non serve la guerra.
Onde noi riassumeremo il nostro pensiero così. Bisogna uscire dal punto morto in cui s’era caduti a Napoli e a Bari, ma non ci sono due vie per uscirne, ce n’è una sola: eliminare dalla direzione politica della nazione e della guerra le forze, gli interessi, gli uomini del 25 luglio e dell’8 settembre, che sono poi ancora quelli (sotto mutate spoglie) del 28 ottobre 1922 e del 10 giugno ’40.
Su questa base siamo pronti a discutere e a fare, badando alla sostanza delle cose più che alla loro forma, e ubbidendo a una sola pregiudiziale: l’esigenza della vittoria nella lotta di vita o di morte nella quale siamo tutti impegnati e per la quale il fiore di nostra gente muore nei massacri ordinati dai nazisti e dai fascisti.


Pietro Nenni

Frescobaldi
27-02-16, 22:16
Intervista “postuma” a Nenni

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di Arturo Colombo – “Nuova Antologia”, gennaio-marzo 1980, Le Monnier, Firenze 1980



Il 4 giugno 1977, nella tarda mattinata (era un sabato pieno di sole) sono stato a trovare Pietro Nenni nella sua casa al mare, a Formia, non molto lontano dal grandioso rudere della tomba di Cicerone, e con lo straordinario scenario sul golfo di Gaeta. L’occasione di quella visita era molto precisa: volevo raccogliere dalla viva voce di Nenni (come avevo già fatto, il giorno prima, a Roma con Pertini e Terracini) alcuni ricordi, e magari alcuni episodi o alcune testimonianze aneddotiche, su Matteotti, su Gramsci, sui Rosselli, su Salvemini, per un ciclo di rievocazioni storiche dedicate alla “figure dell’antifascismo”, che stavo curando per la televisione svizzera.
Nenni quei protagonisti di una lunga e dura battaglia li aveva conosciuti tutti di persona, li aveva frequentati, aveva lavorato e discusso con loro, spesso condividendone i programmi, le aspirazioni, le speranze, in un sodalizio ideale, e non solo ideologico, che – come nel caso di Carlo Rosselli – aveva dato vita anche a una comune, intensa, appassionata esperienza giornalistica. E proprio col richiamo a Rosselli era cominciata la conversazione, mentre Nenni con un maglione di lana rosso-violacea era nel suo studio, seduto davanti a una scrivania, che non mi pareva così terribilmente ingombra di carta e ritagli di giornali e libri come quella nella sua abitazione di Roma, in piazza Adriana, ma che denotava pur sempre la sua abitudine, il suo metodo, direi lo “stile” del grande, espertissimo giornalista, abituato a un’intensa routine di lavoro, che neppure col passare degli anni si era andata attenuando.
Gli avevo garantito, telefonandogli, che non lo avrei fatto parlare di questioni politiche legate all’attualità. “Altrimenti, puoi fare a meno di venire fin qui col registratore” era stata la sua risposta, detta con la voce non più ferma di un tempo, ma con la stessa schiettezza, un tantino perentoria, di chi è abituato a parlare solo quand’è necessario, e soprattutto non vuole perdere tempo. E infatti, la riprova l’avevo avvertita subito, vedendo che Nenni teneva in mano un lungo foglio di agenzia (lo conservo ancora), su cui lui stesso aveva fatto alcune, marcate, sottolineature in matita rossa, e aveva scritto di proprio pugno, a mo’ di titolo: “Rosselli, 9 giugno 1937.
Era il testo di un comunicato-stampa, che risaliva a pochi giorni prima, quando Nenni era intervenuto ai lavori del Comitato centrale del PSI, e in apertura aveva “ricordato il quarantesimo della morte di Carlo e Nello Rosselli”. Nessun migliore “aggancio”, dunque, o pretesto, per cominciare e porgli qualche domanda, mentre il sole filtrava dalla grande porta-finestra, alla sua sinistra, e illuminava le pareti con gli scaffali stipati di libri, e qualche zona di “riposo” con quadri e disegni appesi al muro.
“I rapporti di Carlo Rosselli col socialismo furono di estremo interesse ma anche di persistente critica” aveva cominciato a leggere con tono lento, un po’ affaticato, seguendo dietro le grosse lenti il foglio di agenzia. Ma aveva preferito lasciare subito da parte quel comunicato, per riandare – sul filo dei ricordi, sempre lucidissimi – al primo incontro, avvenuto verso la fine del 1925, in un periodo doppiamente difficile, per la vita del partito socialista non meno che per l’intero paese, scosso dalla politica mussoliniana, sempre più intollerante.
“La stampa fascista – dice Nenni – era venuta in possesso di un documento, da me inviato alla direzione del mio partito, in cui proponevo l’unificazione socialista e misure urgenti da prendere, per dare maggior vigore e maggiore slancio all’azione socialista contro il fascismo. In quel documento facevo qualche accenno all’epoca degli attentati che si era aperta, prevedevo che potessero intensificarsi e che ci potessimo anche trovare di fronte a delle situazioni, diciamo così, di emergenza. Il documento sollevò molto scandalo nella stampa fascista, e questo è perfettamente spiegabile”.



***


Nenni fa una lunga pausa, quasi per raccogliere meglio quelle lontane immagini, che ha fisse nella memoria, e aggiunge: “una mattina sentii bussare alla porta di casa mia, in corso XXII Marzo a Milano, dove allora abitavo. Aprii, e mi venne incontro un giovane, che si qualificò per il professor Carlo Rosselli, e che suppergiù mi fece questo discorso: ‘quella tua lettera è il primo documento di un rinnovamento socialista e antifascista; tale è anche l’aspirazione più importante della mia vita. Se noi due ci mettiamo insieme, facciamo una rivista, quella che ho già in animo di fondare da parecchio tempo. Ci mettiamo il nostro lavoro comune, e naturalmente i miei capitali, perché io non ho bisogno di chiedere soldi a nessuno’. E così nacque l’idea di ‘Quarto Stato’, che poi si realizzò nel marzo del 1926, colo sottotitolo di ‘rivista socialista di cultura politica’”.

A questo punto chiedo a Nenni se vuole ricordare, e precisare, quale fu, fra lui e Rosselli, la comune strategia antifascista, elaborata sulle colonne di “Quarto Stato”. Ma Nenni mi interrompe: “Non tanto si trattava, come forse tu pensi, di definire un programma di lotta al fascismo, quanto di realizzare un rinnovamento dall’interno del movimento socialista italiano nel suo insieme, tale da collocare i socialisti su una posizione di avanguardia nella lotta contro il fascismo. Il proposito era, in fondo, di trovare un termine nuovo fra massimalismo e riformismo, che esprimesse ad un tempo la fedeltà alla tradizione e ai principi fondamentali del marxismo e una prospettiva di rinnovamento nei metodi, nel modo di parlare, nel modo di agire. Insomma, il programma di ‘Quarto Stato’ non riguardava in generale la lotta contro il fascismo, sulla quale naturalmente non c’erano dissensi, ma riguardava la posizione che il socialismo doveva assumere in questa lotta e la necessità che la assumesse, realizzando attraverso l’unificazione il massimo della sua unità, in una visione più moderna e più concreta dei legami fra socialismo, democrazia e libertà”.
Nenni si ferma di nuovo, riprende in mano il testo del comunicato stampa, e quasi sbirciando coi suoi tipici occhi da miope (ma un miope, che in politica sapeva vedere lontano!), allarga il discorso ai successivi sviluppi della posizione rosselliana. “Col libro Socialismo liberale – precisa – Rosselli fece i conti con quello che chiamava a torto il fatalismo marxista”. Ma evita di riprendere la polemica con l’antico compagno “di lotte, di prigione, di confino, di esilio”: una polemica che, del resto, lo stesso Nenni aveva alimentato, appena uscì il libro di Rosselli, con un articolo critico sull’ “Avanti!” del 17 gennaio 1931, dove accanto a severi giudizi politici, si potevano però leggere anche aperti riconoscimenti a proposito delle “pagine più belle del suo libro”, quelle dove – secondo la chiave di lettura di Nenni – Rosselli “descrive la borghesia che era rivoluzionaria un secolo fa e che è diventata conservatrice, e ci mostra la borghesia affannata a trasformare in privilegi ciò che a un certo momento fu un diritto derivante dalla sua incontestabile opera di progresso”.
Nenni, del resto, aveva rivisto Rosselli a Parigi, appena Carlo era giungo dopo la fuga da Lipari con Lussu; tre anni prima, esattamente il 13 novembre del ’26, mi ricorda, era stato Rosselli, insieme a Parri, a aiutare Nenni a fuggire in Svizzera con Mario Bergamo, a pochi giorni dallo scioglimento dei partiti di opposizione. E nella capitale francese, diventata il maggior punto di raccolta del fuoruscitismo, già agli inizi del 1930 riprendono i contatti, e anche i dibattiti, fra Nenni e Rosselli. “A quel tempo – mi precisa con molta franchezza -, la situazione non era più tranquilla fra noi due, fra lui e me. C’era stata una evoluzione in senso liberale nel suo pensiero, o una involuzione, come può dire chi si ponga solo sul piano critico. Comunque, non ritornammo ai problemi del ‘Quarto Stato’, ai problemi dell’unificazione, verso i quali Rosselli era diventato tiepido, per non dire indifferente; ma affrontammo i problemi dell’azione politica e della lotta in Italia”.



***


Quelli, si sa, erano i tempi caratterizzati dalla Concentrazione antifascista, che era sorta nel ’27 e alla quale, dal ’31, avrebbe aderito anche il nuovo movimento di “Giustizia e Libertà”, che aveva Carlo Rosselli come leader. “I suoi rapporti con la Concentrazione antifascista – aggiunge Nenni -, quella Concentrazione che volgeva al suo termine, avendo esaurito di lì a qualche anno il suo compito, furono di rappresentarla nell’azione in Italia col gruppo appunto di ‘Giustizia e Libertà’. E questo fu anche il suo rapporto col partito socialista, concentrato attraverso un accordo scritto, diciamo un patto di lavoro comune, che durò per alcuni anni, finché poi il Centro socialista interno di Milano non riprese la propria autonomia anche nei confronti di G. L.”.

Dall’esperienza parigina alla guerra di Spagna corre ancora un filo di continuità, destinato a legare questi due uomini, anche se “le loro mentalità erano profondamente differenti”, come avrebbe detto Nenni sul “Nuovo Avanti” del 27 novembre 1937, cinque mesi dopo il duplice assassinio di Bagnoles de l’Orne: “L’uno – Rosselli – era un mistico, un romantico. L’altro era piuttosto uno scettico. L’uno era un ottimista, che aveva dietro a sé il profumo di una giovinezza felice. L’ottimismo dell’altro era temperato da quel tanto di pessimismo che versa nella vita di un uomo una giovinezza senza gioia e senza pane. L’uno giungeva alla battaglia con la sete di assoluto che è propria dei giovani dotati di grandi qualità morali e intellettuali. L’altro usciva da una durissima battaglia amareggiato e un poco scoraggiato”.
Il richiamo alla Spagna deve ridestare ogni volta nel vecchio Nenni una quantità di emozioni, come sa bene chi ha letto i suoi articoli e i suoi ricordi di quegli anni (che rimangono, come tanti altri “pezzi” di Nenni, qualcosa di più di semplici testimonianze giornalistiche: come ha detto l’amico Arfè, “non sono solo documenti di storia, ma interventi attivi nella storia”). Infatti, Nenni mi dice: “Rosselli ed io andammo in Spagna assieme, pochi giorni dopo il colpo di stato del luglio 1936. Rosselli andò a Barcellona, secondo le sue naturali inclinazioni libertarie, e io andai a Madrid, a rappresentare presso il partito socialista spagnolo il partito socialista italiano in primo luogo, e poi l’Internazionale socialista. L’esperienza nostra si volse, quindi, in due campi diversi, e direi che quella di Rosselli fu più tormentata, più piena di difficoltà, tanto nella guerra civile quanto nei rapporti con le frazioni più inquiete e libertarie catalane”.
Anche stavolta Nenni non chiude qui il suo discorso. Alza la testa, e solleva i grossi occhiali sulla fronte in un gesto abituale, quasi istintivo. “Comunque – aggiunge subito -, io credo che Rosselli dette di sé la sua misura proprio attraverso l’esperienza spagnola. Fu suo un motto, che poi diventò di tutti gli antifascisti impegnati: ‘Oggi in Spagna, domani in Italia’. E questo tradusse quello che era veramente il nostro comune sentimento: eravamo alla prova generale, a una specie di prova generale di una guerra, che di fronte alle debolezze dell’Europa democratica diventava sempre più inevitabile, e di cui Hitler s’apprestava a prendere l’iniziativa, e quindi il conflitto, aperto in Spagna sul terreno della guerra civile, si sarebbe aperto in Italia sul medesimo terreno”.
Nenni, a questo punto, ha un improvviso mutamento nel tono della voce, ma le sue parole risultano chiarissime: “le cose poi storicamente non sono andate esattamente nello stesso modo, perché la storia ha più capacità inventiva di quella che non abbiano gli uomini…”. A risentire adesso quel richiamo alla capacità inventiva della storia, non soltanto mi confermo che quello di Nenni è sempre stato un marxismo sui generis, ma trovo l’eco dell’analoga componente “volontaristica”, così marcata in Rosselli, e rammento una lontana, pungente affermazione di Nenni, che proprio in polemica con Rosseli nel ’31 scriveva: “in ogni marxista sonnecchia un birichino che tirerebbe volentieri le code al professore che sale in cattedra e disquisisce dottamente sulla Morale e la Virtù o un iconoclasta che sopporta con mal celata ironia i classici sviluppi oratori sul Bene e sul Male, sulle Giuste leggi e gli Equi salari”…



***


Parlando di Rosselli, a un certo punto a Nenni scappa detto che “Carlo ha finito la sua vita come Matteotti e per la stessa causa di Matteotti”. Così il discorso, quasi senza accorgersene, cambia direzione; dallo straordinario mondo della memoria di Nenni, l’ombra di quello che lui stesso, già all’indomani del rapimento, aveva chiamato “magnifico combattente dell’Idea”, sembra di colpo riprendere corpo, riacquistare una “presenza”, simbolica ma viva, fra le pareti silenziose dello studio di Formia. L’assassinio di Matteotti e il processo al regime è il titolo di un pamphlet, vigoroso e tagliente, che Nenni scrisse “a caldo”, nel ’24, quando la battaglia aventiniana bruciava le sue ultime speranze, anzi le sue estreme illusioni, mentre lo shock per quel delitto tremendo cominciava a sconvolgere un po’ tutti i paesi europei.

Nenni se lo ricorda benissimo. “L’eco dell’assassinio di Matteotti nell’Europa socialdemocratica, democratica e liberale di allora fu immensa” dice, riandando ai messi terribili dell’estate-autunno del ’24. E aggiunge: “si può dire che l’Europa abbia scoperto il fascismo solo dopo il delitto Matteotti, e dopo essersi cullata nell’illusione che si trattasse di una ‘cosa’ priva di qualsiasi serietà e di qualsiasi influenza, al di là delle frontiere del nostro paese. Ci fu addirittura una identificazione nel nome di Matteotti, che doveva durare fino al 25 aprile, una identificazione della lotta antifascista nel nome di Matteotti. E questo era, del resto, quanto Matteotti meritava, perché il suo appartiene a quei sacrifici non anonimi, ma di cui si conoscono con precisione le cause, un vero e proprio delitto di stato; quindi l’insorgere nei confronti del fascismo di una questione morale, che trovò espressione più o meno felice a seconda del punto di vista dell’Aventino, ma che rimane uno dei dati permanenti della battaglia antifascista fino alla Liberazione”.
È, questo giudizio sul ruolo “storico” di Matteotti, un convincimento, che Nenni ha colto subito, e che in seguito è andato ripetendo con insistenza, ogni volta che si accorgeva dei nuovi pericoli, delle nuove minacce, che incombevano sull’Italia, sull’Europa, sul mondo intero. Per lui – l’aveva scritto fin dal maggio del 1934 – Matteotti era destinato a rappresentare, a personificare “l’antifascismo attivo e cosciente, ligio al proprio dovere senza romanticherie”. Per questo, anche a distanza di oltre mezzo secolo da quel delitto, l’eredità – ideale, prima che politica o partitica – di Matteotti era un “punto fermo”, che Nenni non rinuncerà mai a ribadire.
Ormai vecchio e saggio, senza più i fremiti né gli impeti “barricadieri” dei tempi lontani (durante la “settimana rossa”), Nenni, appoggiando la mano destra sul volto, quasi a fermare un attimo le parole, per meglio condensare e “chiudere” l’essenza del proprio pensiero, che conteneva anche il senso della propria, lunga, appassionata, vita di militante, era subito pronto a cogliere un bilancio di quei cinquant’anni, “che non sono passati inutilmente: e dico inutilmente in senso drammatico!”. Infatti, usando parole semplici, quasi elementari, ma didascaliche nella loro perfetta essenzialità, commenta: “è vero, al nome di Matteotti si sono aggiunti altri nomi, ugualmente illustri: quelli di Gramsci, o dei Rosselli, per esempio, che hanno pagato con la vita la loro devozione alla causa della libertà o a quella del proletariato. E tuttavia, il nome di Matteotti rimane ancora oggi fra i più conosciuti d’Europa e nel mondo, perché in quel nome si identifica l’urto della coscienza civile nei confronti di uno Stato autoritario, che non può tollerare nessuna parola di libertà e di verità, se non soffocandola nel sangue”.
Certo, la voce non era più quella potente, tribunizia, tipica del famoso oratore che ha imparato a combinare passione e retorica, dosando con tale accortezza gli accenti, le pause, persino i silenzi, così da fare scattare l’applauso, quasi “ a comando”, come gli era successo tante volte nei comizi, durante le campagne elettorali o nei congressi di partito. Ma, dietro la fatica fisica ormai esplicita, il filo dei ragionamenti non si ingarbugliava un attimo e il revival dei ricordi manteneva una trasparenza cristallina, che neppure gli anni, i dolori, le sconfitte hanno saputo offuscare o intorbidire.
Quello che sorprendeva nel parlare insieme a lui (e lo stesso accade con qualche altro dei grandi vecchi “padri della patria”: per esempio, con Terracini) era constatare la capacità, magari attraverso un episodio minimo, un aneddoto anche infinitesimale, di fondere insieme memoria storica e giudizio politico, con una prontezza, un distacco, che sembrano impossibili in chi per decenni, nella buona o nell’avversa sorte, ha svolto il ruolo di protagonista e di leader. Forse, a facilitargli questa dote, Nenni possedeva il vantaggio di un temperamento aperto, fondamentalmente generoso, pronto anche a sbagliare ma incapace di lasciarsi irretire dai personalismi vanesi e dalle piccole meschinerie (anche perché in lui dominava sempre l’abitudine a pensare e a agire in grande, sulle lunghe distanze).



***


Ecco perché, quando sposto il discorso su Gaetano Salvemini, mi interessa registrare la prontezza delle “reazioni” di Nenni, anche come indice, come spia per capire meglio, sul piano emotivo, psicologico, il grado di realismo, lo spirito di “apertura”, che ha caratterizzato la sua forma mentis. Tutto il contrario, almeno sotto certi aspetti, del carattere di quel cattivo carattere che fu Salvemini, “anima di fuoco” – come ripete spesso Valiani – ma anche inguaribile bastian contrario, iroso e focoso quanto Nenni non si è mai sognato di essere.

I due, Nenni e Salvemini, possedevano una storia personale, umana, molto diversa: eppure, contatti, rapporti, frequentazioni ne hanno avuti in buon numero, specie durante gli anni dell’esilio, fra le due guerre, quando a Parigi hanno vissuto entrambi una tormentosa stagione di lotte e di speranze (lo racconta lo stesso Salvemini nelle Memorie di un fuoriuscito). Fin dal settembre del 1927, su “La Libertà”, l’organo della Concentrazione antifascista, diretto da Claudio Treves, era stato Nenni, con lo pseudonimo di Ennio, a replicare a Salvemini, che aveva pubblicato tre articoli sui compiti degli uomini dell’emigrazione politica nella lotta contro il fascismo. E a rileggerlo oggi, in quel “pezzo” giornalistico di Nenni ci sono accenti, di sostanza e di metodo, che evidenziano le differenze, e le divergente, fra le loro mentalità, i loro disegni, le loro ipotesi tattiche e strategiche.
“Perché, mio caro Salvemini – scriveva Nenni -, i casi sono due: o noi siamo guariti (noi, cioè gli italiani della nostra generazione d’avanti guerra e della guerra che sopportano il peso di questa battaglia politica) dalla mentalità accademica, astratta, antistorica alla quale dobbiamo la disfatta e allora domani o dopodomani, quando scocchi l’ora buona, faremo quel che si deve fare, cioè quello che si potrà fare, senza aver paura che sia troppo a sinistra, o troppo a destra, ma avendo di mira l’abbattimento dell’attuale società italiana (il fascismo è la società italiana d’oggi, non soltanto la banda che è al governo), oppure da questa mentalità non siamo guariti e allora saremo da capo, coi congressi, con le discussioni, col tira e molla, coi pretesti storici, filosofici, morali per non far niente, con gli imperativi categorici che vietano questo o quell’altro. Becchi e bastonati!”.
Chi dirà, all’indomani della sua morte, che Nenni “non ci lascia né una dottrina né un dogma”, coglierà un tratto, costante e caratterizzante, del personaggio, naturalmente incapace di gettare la spugna e darsi per vinto, malgrado le batoste (non solo politiche) e le tante esperienze sofferte. Mi sembra di trovarne un’ulteriore conferma, quando riascolto la voce di Nenni che parla di Salvemini sullo sfondo della Parigi di un tempo ormai lontanissimo, quando insieme a Nenni polemizzavano e litigavano anche Saragat e Buozzi, il vecchio Turati e tutto il composito entourage socialista.
“Avevo una vecchia amicizia con Salvemini – precisa Nenni -, un amicizia che risaliva a prima della guerra e che aveva dato luogo alla comune posizione in favore dell’intervento italiano, e aveva provocato anche la rottura sua e di Bissolati con Mussolini nel 1919, e anche la mia”. Poi, quasi a voler accentuare la nota autobiografica, aggiunge: “fra l’altro, io non ho avuto solo rapporti di amicizia verso di lui, ma anche di ammirazione per il suo metodo storico, che mi ha molto aiutato a capire l’Italia e il mondo, e in particolare il nostro Mezzogiorno. A Parigi lo frequentai molto: lo accompagnavo sovente durante le sue passeggiate nel Quartiere Latino, e soprattutto lo ascoltavo, perché da lui avevo da apprendere, non da comunicare. Studiava in quel momento l’inglese, perché si preparava a partire per l’America, e questo per lui era un grosso affanno e un grosso problema. Io lo ascoltavo, ascoltavo il suo giudizio, maturato storicamente e psicologicamente, sulle cause che avevano portato l’Italia all’avventura mussoliniana e fascista”.
Il ricordo nenniano non finisce qui. Anche da politico accorto qual era, non dimenticava che nelle vene gli scorreva il sangue del giornalista di razza, che non poteva tacere almeno qualche parola sul “caratterino” o sul “caratteraccio” di quel suo antico compagno e maestro, che in gioventù si era nutrito di Marx e poi aveva lanciato accuse graffianti contro il marxismo, definendolo con asprezza addirittura incredibile “una droga meravigliosa: prima sveglia gli animi dormienti, e poi li rimbecillisce nella ripetizione di formule che spiegano tutto e non dicono nulla”.
Ma Nenni, l’uomo che aveva fatto del principio politique d’abord una sorta di imperativo categorico, non era personaggio da serbare rancore né astio, specie nei confronti di chi non era “animale politico”, di istinto e di fiuto come lui. Da qui il suo giudizio pacato e sagace su Salvemini uomo. “I rapporti con Salvemini – precisa Nenni – sono sempre stati bruschi, caratterizzati da una grande schiettezza e, da parte sua, da una specie di brutalità, con cui alcune volte aggrediva chi, su un punto qualsiasi, non era d’accordo con lui. Comunque, al di là della durezza del suo temperamento nel giudicare uomini e cose, i nostri rapporti sono rimasti improntati alla volontà mia di trarre profitto dalle sue conversazioni, e dalla volontà sua di mantenere i migliori rapporti con i socialisti”.



***


E Gramsci? Non volevo concludere quell’incontro con Nenni, nel clima ormai estivo di Formia, senza raccogliere dalla sua viva voce almeno una “battuta”, dedicata a un’altra delle grandi figure dell’antifascismo. Ma a sentire quel nome ha avuto una “risposta” diversa, completamente diversa rispetto all’atteggiamento così aperto, spontaneo, disponibile, tenuto durante l’intervista. Si è limitato soltanto, con un cenno cortese ma eloquente e deciso, a farmi chiudere il registratore, aggiungendo, quasi parlando fra sé: “ho avuto troppe divergenze con Gramsci per potermene dimenticare, ma in questa occasione preferisco non ricordare”.
Non sono più riuscito a cavargli altra parola. Anche nei silenzi, Nenni sapeva essere lapidario.


Arturo Colombo

Frescobaldi
29-02-16, 19:48
Che cosa intendo per unità socialista (1926)



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(da “Echi e Commenti”, 5 gennaio 1926)



Taciutasi la “cagnara” seguita alla pubblicazione della lettera cui devo tanti improperi fascisti e la scomunica della direzione del mio partito (1), non è inutile tornare sull’argomento dell’unità socialista e precisare, dopo le interessate deformazioni delle recenti polemiche, che cosa sarà. Dico “che cosa sarà” perché se sulla ineluttabilità dell’unità socialista io non avevo dubbi allorché ne presi l’iniziativa, oggi, dalla mole dei consensi che ho ricevuto – fra i quali i più preziosi sono quelli venuti da giovani fuori da ogni organizzazione di partito – dalla indeterminatezza e il vieto tradizionalismo delle critiche incontrate, questa della unità mi pare la questione che più profondamente appassiona e interessa le residue e le nuove forze socialiste. Ma occorre intenderci.
Qualcuno ha supposto che per me l’unità fosse una somma di discordi, concordi nel minimo comune determinatore di un astratto antifascismo. Si prende il Partito socialista italiano (così detto massimalista), si prende il Partito socialista unitario (ribattezzato Partito socialista dei lavoratori italiani) si incolla l’uno all’altro e l’unità è fatta. Ma dopo è esattamente come prima, si ha cioè un movimento socialista tutto dedito al culto di evanescenti formule, inetto a riformare quando è l’ora della riforma, inetto a rivoluzionare quando è l’ora della rivoluzione, predestinato a perdere regolarmente tutti i treni. No. Di una simile unità non c’è bisogno. Essa potrebbe, se mai, essere propugnata per motivi esclusivamente sentimentali, come mezzo di difesa di un comune patrimonio ideale.
Sul terreno politico l’unità va intesa in altra maniera. Essa va intesa come la premessa di una rinascita e di un rinnovamento i quali esigono una rielaborazione non tanto della dottrina del socialismo, quanto della sua applicazione, e soprattutto esigono una profonda rieducazione politica del partito e del proletariato. A quest’opera tutti i socialisti, quali siano le loro tendenze, hanno il diritto e il dovere di partecipare, così come debbono parteciparvi quei repubblicani al cui senso politico non sfugge il carattere preminentemente sociale della lotta da condurre contro il fascismo.
Di ogni fatto si possono dare infinite spiegazioni, della crisi del socialismo, che fu assieme causa ed effetto dell’insorgente e trionfante fascismo, la spiegazione più vera e maggiore è questa: mancanza di senso politico, astrazione, assenza di azione.
Capita spesso nelle vita che uomini o partiti vadano a dar di cozzo col capo sui muri, credo che raramente si sia verificato il caso di uomini e partiti che hanno innalzato essi i muri sui quali sono andati a spaccarsi la testa. Ebbene questo è il caso del movimento socialista, dei suoi uomini maggiori, di quelli che lo hanno diretto fra il 1918 e il 1922.
I resoconti dei congressi socialisti, la vita interna del partito, la dilagante accademia delle sue assisi comunali, provinciali, regionali, nazionali offrono la documentazione di una mentalità dogmatica e generalizzatrice, incapace di interessare le forze operaie e di dominare quelle nemiche, incapace di tradurre un pensiero in azione, incapace di darsi una mentalità di maggioranza, cioè – secondo il fondamentale monito di Marx – di “elevare la propria rivoluzione a rivoluzione nazionale”. Mentre premeva l’azione, incalzavano gli eventi, tumultuavano le folle, il Partito socialista discuteva, e discuteva non il problema del giorno, non la tattica da applicare all’attimo fuggente, non il contegno da tenere verso i contadini o verso i ceti medi, non i piani concreti della rivoluzione ma discuteva apoditticamente secondo gli schemi eterni della eterna verità rivelata, di destra, di sinistra, di centro, scartando a priori tutto ciò che non rientrava nella più assoluta ortodossia dottrinaria e stando fermo per non correre il rischio di sbagliare. E ciò mentre lo sfaldamento delle vecchie classi dirigenti e il fallimento dello Stato liberale italiano ponevano il dilemma: o governo socialista o restaurazione reazionaria.
1919! 1920! Anni fervidi d’azione, dominati dalla forza crescente del movimento socialista. Ma la sinistra – ipnotizzata dagli eventi stessi – proclamava che non valeva la pena di fare il minimo dei sacrifici per una rivoluzione che non fosse totalitaria e massimalista e non si concretizzasse nella formazione dei soviets – invano tentata – e nella dittatura del proletariato. Né diceva, questa sinistra, ai ceti medi e piccolo borghesi, ai contadini, agli intellettuali allarmati che la dittatura del proletariato non è la liquidazione della democrazia ma una fase, un momento dell’avviamento alla democrazia politica ed economica; né avvertiva la diversità della situazione italiana – (che di riflesso aveva compiuto il suo 1789 e il suo 1848) – da quella russa – (dove la giovinezza storica del proletariato e l’abbrutimento dei contadini rendevano vitale soltanto un socialismo autoritario); né parlando di violenza precisava che essa in un caso solo è levatrice della storia, quando cioè conduce alla luce una nuova civiltà già maturatasi nella vecchia.
D’altro canto la destra, paga di affermare l’incontrovertibile principio che la forma giuridica durevole del dominio della maggioranza è la democrazia, resisteva cocciutamente sul terreno delle pretese “eterne verità” democratiche, dalle quali pretendeva assurdamente che non ci si potesse discostare.
1921! 1922! L’assalto fascista e da parte socialista la salvezza di una formula e di un dogma, preferita alla salvezza del proletariato e del socialismo. Una miopia così acuta da non vedere che l’intransigenza politica del partito, il suo no alla rivoluzione o al compromesso, i suoi non possumus, erano la condizione necessaria per il trionfo del fascismo. Una vana ortodossia dottrinale che si risolveva in un inconscio abbandono delle masse alle vendette della incalzante reazione agraria. Allora la parola d’ordine del capo del movimento socialista fu: “ci ritiriamo in Sicilia” come se si fosse trattato di salvare non tutto il proletariato ma un manipolo di ufficiali e graduati di un esercito disfatto.
Questa fu la crisi socialista, crisi quindi d’inazione. Nel tentativo di sostituire l’accademia all’azione divenivano fatali le scissioni e le riscissioni. Ma oggi che significato hanno più queste scissioni?
Lasciamo stare la scissione di Livorno, perché ormai il movimento comunista ha razionalmente e internazionalmente caratteristiche sue proprie e un suo centro insostituibile. Ma la scissione di Roma, la separazione cioè della destra e del centro socialista cosa può rappresentare?
Musica del passato.
Nel regime fascista manca lo spazio sociale e politico del riformismo o del collaborazionismo. La sola ragione quindi di contrasto fra socialisti potrebbe esser l’intransigenza o la transigenza politica. L’intransigenza è arcibattuta. A essa risale in gran parte la responsabilità della disfatta del movimento socialista. La rifiutano ormai concordemente i comunisti e i social-democratici. È il rifugio dei parolai e dei rivoluzionari verbali. È il falso passaporto degli oppositori per burla, i quali si rifugiano nelle sideree regioni dei principii generali dove stanno tranquillamente, come se fossero al disopra della mischia.
Il socialismo non può più essere politicamente intransigente perché esso ha troppi e troppo grandi interessi da tutelare e da difendere e perché da tempo non è più nella fase della propaganda ma nella fase delle realizzazioni. La stessa difesa delle conquiste del passato e della rivoluzione borghese dagli assalti della reazione plutocratica e fascista, rientra oggi – in tutta Europa – nei doveri dei partiti socialisti. In Italia la sconfitta socialista è divenuta inevitabile il giorno in cui il partito ha creduto che questa difesa non lo riguardasse. Se lo stesso errore fosse stato compiuto in Germania, fosse compiuto in Francia si avrebbero le medesime conseguenze. Difendere la costituzione? Difendere le conquiste della stessa rivoluzione borghese? Roba da far venire il vomito ai campioni dell’intransigenza cosiddetta classista, a scusante dei quali occorre supporre non sospettino neppure che ogni costituzione essendo il risultato dai rapporti di forza fra le varie classi, la sua difesa da assalti reazionari equivale a difendere il grado di forza già conseguito dalla classe operaia.
Ove venga a mancare la pregiudiziale assoluta dell’intransigenza, ove cioè il socialismo assuma seriamente e sul terreno politico – (ogni lotta di classe è una lotta politica) – la causa del proletariato, la scissione fra socialisti diviene un non senso. Ci potranno essere diverse valutazioni tattiche, ma non è su dissensi tattici che si può edificare una concorrenza politica.
Ma, torno a dire, superare le scissioni ha da essere un punto di partenza, non un punto di arrivo.
Il Partito socialista italiano è a un momento molto importante della sua storia. Può essere – dilatando il suo fronte nei limiti naturalmente dei principii fondamentali del socialismo – il centro della opposizione anti-fascista. Possono stringersi attorno alla sua bandiera non solo tutti i socialisti, ma molte nuove forze ed energie, molti giovani ai quali la recente esperienza ha dimostrato che la lotta contro l’attuale dittatura va concepita e condotta sotto il suo duplice aspetto di lotta di classe e di lotta repubblicana. Può diventare rapidamente non solo l’antagonista ideale del fascismo ma l’antagonista concreto, d’ogni giorno e d’ogni ora.
L’antagonista e il successore, non il comodo fantoccio lasciato in piedi per le necessità polemiche del fascismo. Per questo esso ha bisogno di liberarsi della mentalità dogmatica, generalizzatrice, intransigente e riformista (fieri campioni di un riformismo sociale politicamente intransigente sono stati assai più dello stesso Turati i rivoluzionari come Serrati). Oppure può restare una chiesuola avulsa dalla realtà politica, tagliata fuori dalla storia, posta in terzo e quarto ordine sia di fronte ai comunisti sia di fronte a una nuova democrazia che inevitabilmente sorgerebbe assumendo gli oneri e gli onori della prima fila nella battaglia antifascista. Ecco perché penso che quello dell’unità socialista sia un problema di vita o di morte. Ed ecco perché, la situazione politica imperniandosi sul dilemma: “fascismo o socialismo”, non si possono avere dubbi sull’istinto che guiderà il partito a preferire alla morte la vita.


Pietro Nenni




(1) In un odg approvato il 17 dicembre, la Direzione socialista, considerando che le manifestazioni unitarie di Nenni erano in contraddizione con la politica del partito (“né con Londra né con Mosca” e “né coi socialdemocratici né coi comunisti”), accettò le dimissioni che Nenni aveva già presentato il 12 dicembre. Riccardo Momigliano era incaricato a dirigere l’ “Avanti!”. (“Avanti!”, 18 dicembre 1925).

Frescobaldi
29-02-16, 19:51
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Meditazioni su una battaglia perduta (1948)*



* Il Fronte democratico popolare, tra comunisti e socialisti, viene sconfitto alle elezioni del 1948 e, all’interno del Fronte stesso, i socialisti subiscono un pesante ridimensionamento. L’unità politica della classe sembra a Nenni costituire l’unica linea di resistenza contro le tendenze conservatrici. In questo articolo, pubblicato sull’ “Avanti!” subito dopo le elezioni, il leader socialista esamina le cause di una battaglia perduta.



Dopo le elezioni del 2 giugno io intitolai “Una battaglia vinta” un libercolo nel quale avevo raccolto discorsi e scritti sulla Costituente e la Repubblica. Se m’avvenisse di fare altrettanto con i discorsi e gli scritti che costituiscono il mio apporto alla formazione ed alla lotta del Fronte dovrei stavolta intitolare il libro “Una battaglia perduta”.
Conosco il prezzo delle battaglie perdute e non sono tale da eludere le responsabilità. Il Consiglio Nazionale del Partito e il Congresso avranno l’occasione di giudicare se fu giusta la politica proposta e adeguata la esecuzione. Le decisioni che saranno prese faranno legge. La vita democratica di una organizzazione come la nostra va intesa come un rapporto fiduciario fra base e dirigenti che non si stabilisce una volta per sempre, ma si saggia, si rinnova, si sospende e si revoca alla prova dei fatti.
Logica, quindi, la deliberazione con la quale la Direzione del Partito, senza bisogno di sollecitazioni esterne, ha aperto, con la convocazione del Consiglio Nazionale, la consultazione dei militanti. Logico il fervore di critica e di auto-critica a cui si inspirano i commenti alla battaglia del Fronte non dettati soltanto da spirito polemico.
Il Fronte si è battuto nelle condizioni più difficili che potessero darsi. La sua – avrebbe detto Claudio Treves – è stata una lotta del razionale contro l’irrazionale e dei programmi contro gli spettri. In ciò bisogna riconoscere che De Gasperi è stato miglior psicologo, allorché al tentativo nostro di discutere le cose, i programmi, le esperienze per ciò che sono, ha opposto una astratta contrapposizione del Bene e del Male, di Cristo e di Mefisto, della Civiltà e della Barbarie. Se può mettersi in dubbio che noi abbiamo sottovalutato l’influenza della Chiesa presso larghi strati della popolazione, come abbiamo sottovalutato lo sfacciato intervento americano, tradottosi nella minaccia di privare l’operaio del lavoro e del pane per punirlo di votare col Fronte.
Che ciò abbia servito la pace religiosa e la stima degli italiani per gli americani è questione da valutarsi a parte. Che ciò abbia tolto alla vocazione ogni carattere di spontaneità e di lealtà è pure una questione sulla quale avremo più di una occasione di tornare. È comunque con le armi della dannazione perpetua e dell’affamamento che al Fronte sono stati sottratti due dei dieci milioni di voti sui quali ragionevolmente nostre organizzazioni contavano, e che, a beneficio della Democrazia cristiana, sono stati strappati dalle case, dai conventi, dagli ospizi due altri milioni di elettori normalmente indifferenti alle competizioni politiche.
Infirma, tuttavia, la constatazione di questo fatto, il presupposto che, in ogni caso, la battaglia andava data?
L’esigenza del Fronte, cioè di una coalizione politica di tutte le sinistre attorno alla classe lavoratrice, si è imposta all’indomani del 2 giugno e si può ben dire fosse implicita nei risultati contraddittori del referendum istituzionale e delle elezioni per la Costituente.
I due milioni di voti dati allora dalla democrazia cristiana alla vittoria repubblicana e gli otto milioni di voti da essa raccolti nelle elezioni per la Costituente, fecero sì che la Repubblica nascesse con una ipoteca moderata che lasciava presagire una rapida involuzione di tipo austriaco o tedesco o spagnolo. Con ciò risultava rafforzata sul terreno del consolidamento dello Stato democratico, l’esigenza di classe di una lotta per il potere che eliminando l’ipoteca moderata ricacciasse indietro l’assalto allo Stato repubblicano degli interessi agrari e capitalistici i quali già avevano tenuto sotto tutela lo Stato fascista.
Purtroppo la paura piccolo-borghese del comunismo impedì alle sinistre di prendere coscienza del pericolo moderato. La prima irragionevole manifestazione di paura si ebbe – non a caso – nel seno stesso del nostro Partito, con la scissione del gennaio 1947, che offrì alla Democrazia cristiana l’occasione da tempo spiata e sollecitata di liberare lo Stato da ogni contrappeso popolare, restituendolo alla sua funzione di comitato di affari della borghesia.
Nella seconda metà del ’47, caratterizzata dal rapido aggravarsi dei rapporti fra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica, si andò delineando non soltanto in Italia ma in tutta Europa, l’isolamento della classe operaia e dell’Estrema Sinistra. Il Fronte fu il tentativo coraggioso ed audace di rompere l’assedio, un tentativo tutt’altro che fallito, malgrado l’insuccesso elettorale, se ad esso dobbiamo l’alleanza che si è stabilita fra operai, contadini e intellettuali sulla base del mutuo impegno di una lotta a fondo per una rinnovata struttura dello Stato e della Società, dei rapporti politici e di quelli di classe e di produzione.
Non vi è dubbio che noi socialisti, esposti più dei comunisti, subiamo un forte contraccolpo per la mancata vittoria. È anche evidente che abbiamo pagato e paghiamo un prezzo assai alto ai rapporti di forza all’interno del Fronte fra compagni di cordata.
Ma infinitamente maggiore sarebbe la nostra amarezza – e più pesante la nostra responsabilità in questo Primo Maggio – se ci fossimo per viltà sottratti o se pensassimo a sottrarci, costi quel che costi per dirla con De Gasperi, al dovere di realizzare e mantenere la coesione della classe lavoratrice e delle forze democratiche di avanguardia, unica difesa e garanzia contro l’incombente minaccia reazionaria.
Tanto più ciò è vero che nessuna delle istanze da noi poste si trova superata o elusa della vittoria elettorale dei clerico-moderati. Non quella della lotta per lo Stato popolare e contro lo Stato di polizia. Non quella di una politica estera di neutralità che sventi il tentativo di fare indossare al nostro popolo l’uniforme della legione straniera del capitalismo. Non quella dello Stato e della Scuola laica. Meno che mai quella delle fondamentali riforme di struttura.
La vittoria clerico-moderata del 18 aprile, ad appena tre anni dalla liberazione, si inserisce nella tradizione della nostra destra monarchica e borghese sempre volta a risolvere e soffocare in termini di compromesso le iniziative rivoluzionarie fin da quelle mazziniane e garibaldine dell’Ottocento.
Se al nuovo tentativo di dare un soggetto moderato alla lotta dell’avanguardia popolare contro la triade fascismo monarchia capitalismo, risponderanno la nostra intransigenza e la nostra fedeltà di classe, allora nulla è da considerarsi compromesso e l’onda stessa che oggi minaccia di sommergerci ci riporterà in cima.
Come sempre si tratta di non perdersi d’animo, di non smarrire la via perché un ostacolo imprevisto ne sbarra il tracciato, di non perdere di vista il fine solo perché i mezzi impiegati sono risultati inadeguati o per difetto di impostazione o, più probabilmente, per difetto di esecuzione.
Il Primo Maggio è propizio a meditazioni di questo genere in quanto ci ricorda con quanta pazienza e perseveranza e coraggio il proletariato abbia dovuto condurre la sua dura lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento, senza stancarsi mai di ricominciare daccapo dopo i terremoti devastatori delle reazioni e delle guerre. Eppure molto cammino è stato fatto. Eppure la mèta sarà raggiunta.


Pietro Nenni


https://www.facebook.com/notes/pietro-nenni/meditazioni-su-una-battaglia-perduta-1948/917733551676489

Frescobaldi
06-03-16, 19:15
"...la via parlamentare [...] non implica soltanto il riconoscimento della legge dei numeri – maggioranza, minoranza – o del diritto di conquistare la maggioranza, ma il rispetto della legalità democratica, quale è sancita dalla Costituzione, quando si è opposizione, e quando si è maggioranza”.


Pietro Nenni, 1956

Frescobaldi
01-04-16, 00:59
Golda Meir definì Nenni “l’ultimo grande socialista”; Nenni disse: “non credo di essere un ‘grande’ socialista, certo non sono l’ultimo: il socialismo non è morto, è più vivo che mai”. E quando lesse in un articolo: “Nenni è un combattente per la causa dell’umanità” l’ho sentito, quasi parlando con se stesso, sussurrare: “forse perciò ho perso”.

G. Tamburrano, “Pietro Nenni”, Laterza, Roma-Bari, p. IX.

Frescobaldi
01-04-16, 01:00
La sua vita politica è una instancabile agitazione, tanto che sembra monotona. Dove c’è un’occasione per manifestare la sua fede repubblicana, egli è presente con un incredibile coraggio fisico che sfiora l’incoscienza. Per capire il suo carattere e la carica del suo impegno, ecco un episodio tra tanti: il nazionalista Federzoni tiene una conferenza al Teatro Rossini di Pesaro, l’8 gennaio 1914. Nenni si mette in viaggio e si presenta nel teatro affollato soprattutto di nazionalisti arrabbiati, quelli che, ad esempio a Bologna, hanno picchiato repubblicani, anarchici e socialisti che manifestavano contro la guerra di Libia. Quando Federzoni finisce di parlare, Nenni chiede il contraddittorio. E non per dissentire con la prudenza e la cautela del caso. No! “Tranquillo, sorridente”, come riferiscono i giornali, dice frasi del genere: “Voi siete dei reazionari, fate gli interessi dei clericali ed è questa la vostra vergogna”. Nella sala scoppiano tumulti, e i pochi repubblicani presenti sono aggrediti; interviene la forza pubblica che, manco a dirlo, “arrestò tra gli applausi del pubblico nazionalista (bel coraggio!) cinque dei nostri amici”, come annotò “Il Lucifero”. Pochi mesi dopo è di nuovo davanti ai giudici, in Corte d’assise ad Ancona, imputato di vilipendio delle istituzioni. In un comizio a Cupramontana, il 5 ottobre dell’anno prima, aveva detto: “Putrida monarchia asservita alla nemica Austria”. Molto pubblico a Palazzo di giustizia. Ecco la dichiarazione di Nenni: “Avrei potuto portare molti testimoni per dimostrare che non ho detto quelle parole; ma a che pro? Ne ho dette altre, forse più pesanti. Ed è naturale: io sono repubblicano. È concepibile un repubblicano che non parla male della monarchia? Se mi si facesse un processo tutte le volte che parlo o scrivo male della monarchia io sarei qui in Tribunale dal primo all’ultimo giorno dell’anno. Potete quindi assolvermi o condannarmi, io resterò indifferente”. Fu assolto.


G. Tamburrano, “Pietro Nenni”, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 44-45.

Frescobaldi
02-04-16, 19:27
Pietro Nenni, anima socialista

Pietro Nenni, Anima socialista - Rai Storia (http://www.raistoria.rai.it/articoli-programma/pietro-nenni-anima-socialista/32269/default.aspx)

Frescobaldi
04-04-16, 14:48
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/0/08/Vernocchi_Nenni.jpg
Olindo Vernocchi e Pietro Nenni



“Caro Vernocchi […] Quanto alle condizioni di inferiorità politica… lascio correre. Io faccio il mio dovere senza preoccuparmi di carriera, di posti, di stipendi e di successo ministeriale. Questo mi basta […]. Sostenere un diverso indirizzo non è mettere in dubbio la funzione del partito. È combattere l’indirizzo attuale, ragion per cui se la critica si mantiene nei limiti della disciplina non c’è Cristo che abbia il diritto di intervenire. Quindi tieni le parole grosse sui nemici acerrimi ecc.”.

Lettera di Pietro Nenni del 26 marzo 1926 in risposta a Olindo Vernocchi il quale, tra l’altro, gli scriveva:

“Caro Nenni […] ho sottoposto ai compagni dell’Esecutivo la tua del 20, ed essi mi incaricano di esprimerti il loro parere. Essi affermano […] che l’osservanza della disciplina è un dovere di tutti gli iscritti. […] Tu […] hai talmente aggravato la tua posizione di fronte al partito da metterti in una condizione di inferiorità. […] Hai contestato […] il diritto di esistenza al nostro partito al quale – non puoi dimenticarlo – sei ancora iscritto […] e ti si potrebbe giustamente chiedere per quale ragione sei rimasto tre anni in un partito che, a tuo avviso, rappresenta l’equivoco, il vuoto, etc. “Per questi motivi l’Esecutivo mi incarica di richiamarti e di significarti la sua deplorazione per il tuo atteggiamento che potrebbe essere appena giustificato in uno dei nemici più acerrimi del partito nostro”.

Frescobaldi
10-04-16, 18:52
“Anche noi, compagni… potevamo essere ben visti dalla borghesia italiana, essere celebrati come uomini di governo e come uomini di Stato. Io non sono né un uomo di Parlamento, né uomo di governo, né tanto meno un uomo di Stato. Sono un militante della classe operaia ed ho una sola speranza, quella che il giorno in cui morirò, gli operai possano dire: è morto uno dei nostri, uno che si sentiva come noi, uno che lottava con noi, uno che non ci ha abbandonato mai”.



Pietro Nenni - XXVI Congresso del PSI - Roma, gennaio 1948

Frescobaldi
23-04-16, 01:55
"Noi abbiamo bisogno di tornare alla semplicità dell’essere e del dire, alla coscienza dei limiti del nostro destino, al gusto delle cose modeste, ben fatte, all’armonia del pensiero con l’azione. Noi abbiamo bisogno di radicalmente guarirci dai due estremi della superstizione dello Stato e della adorazione dell’ “io” demiurgico. Noi dobbiamo uccidere in noi quel sensualismo di potenza che con Crispi prima, con Mussolini poi ci ha tratti sulle orme dell’impero e ci ha lasciati con le ossa rotte e la bocca amara, avendo dissipato in pochi anni il lavoro di decenni. Noi dobbiamo ritrovare la fiducia in noi stessi, nella nostra virtù di operai di contadini di intellettuali che fanno ciò che dicono e dicono ciò che fanno – e questa fiducia non la ritroveremo per la taumaturgia di un verbo che scende dall’alto, ma stimolando le energie dal basso e favorendo tutte le esperienze di autogoverno, dalla fabbrica al comune alla scuola ai pubblici uffici.
La via è certamente lunga e accidentata, ma occorrerà percorrerla fino in fondo, senza bersaglieresche penne al vento, ma col passo paziente del montanaro".




Pietro Nenni - "Avanti!", 5-6 giugno 1944

Frescobaldi
02-06-16, 00:17
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2 giugno 1946

Una giornata storica può essere, anche per uno dei suoi protagonisti, una giornata noiosa. Tale è stato per me il 2 giugno. Giornata storica, perché è quella del referendum istituzionale e della elezione della Costituente. Giornata noiosa perché, uscito per votare alle otto alla sezione 350 di via Antonio Serra (un quartiere popolare di Tor di Quinto), sono poi restato tappato in casa tutta la giornata.
È comunque e in ogni caso la “mia” giornata. A essa è legata l’opera mia di capo di partito e di ministro.
L’articolo che ho scritto stamani per l’ “Avanti!”, si intitola: “Una pagina si chiude”. È vero per il paese. E vorrei che fosse vero anche per me.
Romita mi ha telefonato che in tutto il paese c’è calma assoluta e larga partecipazione di elettrici ed elettori.
Trascorro la serata in solitaria attesa leggendo “Le zéro et l’infini” di Koestler. È il romanzo dei processi di Mosca. Koestler, che fu condannato a morte in Spagna, è un eretico della chiesa comunista. Il dramma sta tutto in queste due battute di dialogo fra due detenuti (il 402): “L’honneur c’est vivre e mourir pour ses convictions”. Rubasciov: “L’honneur c’est se rendre utile sans vanité”. Sento alla maniera del primo, penso come il secondo.

Pietro Nenni - Diari

Frescobaldi
25-06-16, 01:00
Grazie, Nenni – L’ “Avanti!” e il referendum

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di Ugo Intini – “Mondoperaio”, aprile 2016



Nenni si identifica con l’Avanti! e viceversa. Entrambi sono i protagonisti, nella primavera del 1946, della lotta per la Repubblica. Il rapporto tra Nenni e l’Avanti! è in quel 1946 già antico. Tutti infatti sanno che dal quotidiano socialista nasce il fascismo. Perché, come è noto, il direttore Mussolini, cacciato nel 1914, fonda Il Popolo d’Italia, culla del fascismo stesso. Ma pochi conoscono un’altra storia, che ha tra i protagonisti Nenni. Dal quotidiano socialista nasce anche il comunismo. Perché il 31 dicembre 1920 il direttore centrale Serrati chiude l’edizione di Torino, portata da Gramsci, che ne è il leader, su posizioni considerate troppo estremiste. E Gramsci, con altri due redattori, Togliatti e Terracini, il giorno dopo trasforma l’Avanti! di Torino nell’Ordine nuovo quotidiano, culla del comunismo.

Al congresso di Livorno, con la scissione del 1921, i comunisti se ne vanno a fondare il loro partito. Ma il mito della rivoluzione bolscevica è troppo forte. Nel dicembre 1922 il direttore Serrati è a Mosca e si piega a Lenin. Al Cremlino si decidere di fondere il partito socialista con quello comunista e di consegnare l’Avanti! alla direzione del suo ex redattore Gramsci. La maggioranza del partito socialista di piega. Ma l’Avanti! di Milano no. Guidato dal suo caporedattore Nenni, resiste e si ribella al direttore. “Non si liquida un partito come un fondaco di mercante”, grida Nenni dalle colonne del quotidiano: “Una bandiera non si getta in canto come cosa inutile”. L’Avanti! è salvo. Salva l’autonomia e l’esistenza stessa del partito socialista: che ha ormai un nuovo leader.

In esilio, l’Avanti! tiene viva dalla Francia la fiammella della fede socialista. Sempre. Persino durante l’occupazione nazista, quando Nenni lo scrive e stampa a casa sua in ciclostile, da solo. Con Turati, Saragat, Carlo Rosselli, l’Avanti! in esilio pone le basi del riformismo socialista. Nel 1943 viene diretto nella clandestinità, a Roma, da Eugenio Colorni, uno dei padri dell’idea europeista, ucciso dai fascisti pochi giorni prima dell’arrivo degli americani. Nella capitale appena liberata, intorno alla prima copia dell’Avanti! che ritorna dopo la lunga note, ci sono il direttore Nenni, il condirettore Giuseppe Saragat, Giuliano Vassalli (che ha appena liberato da Regina Coeli lui e l’altro futuro presidente della Repubblica Pertini, e che è stato catturato e torturato dalle SS): forse il più famoso penalista italiano, che i socialisti avrebbero voluto presidente della Repubblica al posto di Scalfaro.

Nella parte di Italia già liberata dagli Alleati l’Avanti! è il quotidiano più diffuso e importante. Riprende il posto avuto prima del fascismo, che aveva mandato gli squadristi a assaltarlo e devastarlo cinque volte. Nel 1919 infatti era l’unico grande quotidiano nazionale, presente da Cuneo a Bari, con tre edizioni e tre tipografie (Milano, Torino e Roma). Aveva alfabetizzato politicamente (e spesso anche materialmente, insegnando a leggere e scrivere) una intera Italia, quella della povera gente.

L’Avanti! diretto da Nenni prepara la Repubblica come poi l’abbiamo conosciuta. E insegna molto, soprattutto per l’oggi. Fa riflettere. Il primo strumento della ripresa, anche economica, è la verità. Ignazio Silone, lo scrittore italiano a quel tempo forse più famoso nel mondo, che ne diventerà direttore, scrive: “Il popolo italiano oggi ha più bisogno di verità che di dollari e sterline. Solo la verità può condurlo sulla via della resurrezione. Il popolo italiano è degno della verità. Le sole conquiste politiche e sociali durature sono quelle che saranno costruite non sulla furberia ma sulla verità”. La democrazia si fonda sui partiti. Il condirettore dell’Avanti!, Giuseppe Saragat, scrive: “lo strumento della ricostruzione è il partito. Il partito politico nelle democrazie moderne è l’organo che compie alcune funzioni essenziali all’esistenza della democrazia stessa”.

Il prestigio dell’Italia nasce dal prestigio dei suoi partiti e dalla loro storia. Pietro Nenni viene accolto con un’ovazione al congresso del partito laburista britannico. Saragat commenta: “Tra le gelide accoglienze fatte al nostro ambasciatore ufficiale dalla classe dirigente britannica e l’immensa ovazione con cui i rappresentanti dei lavoratori inglesi hanno salutato il rappresentante dei lavoratori italiani non c’è soltanto una differenza di stile ma un abisso che separa due mentalità e due mondi. Il nome di Matteotti era caro agli operai di Vienna come a quelli di Berlino, a quelli di Parigi, di Bruxelles, di Londra come a quelli di New York, di Rio e di Buenos Aires”.

La missione dell’Italia è l’unità europea: “Sottratta alla megalomania di una politica di grande potenza”, scrive Saragat, “l’Italia dovrà assumere il compito di elemento unificatore di un continente che dopo molti secoli di guerre e di sconvolgimenti è destinato ad un equilibrio duraturo nell’unione federativa dei popoli che lo abitano”. Il futuro presidente della Repubblica non ha inventato niente. Il suo maestro, Filippo Turati nel primo discorso alla Camera, nel 1896, aveva scandito: “Abbiamo bisogno degli Stati Uniti d’Europa”. L’unità europea è la stella polare, ma insieme all’alleanza con gli Stati Uniti. Ancora Saragat scrive: “L’Italia rientra nella grande famiglia dei popoli liberi non come reproba ma come eguale. Oggi in questa dura ascesa stringiamo le mani robuste che i lavoratori d’America ci tendono per sorreggersi: sono mani fraterne”.

L’Avanti! di Nenni e Saragat in quell’anno 1944 ha già visto e capito tutto, indicando la strada alla Repubblica. Ma la Repubblica la preparano, concretamente, gli uomini come Pertini, che ancora combattono per la libertà e hanno chiaro l’obiettivo della lotta: non una Italia qualunque, ma una Italia giusta, una Italia repubblicana. Come specialissimo inviato del fronte del Nord, Sandro Pertini scrive: “Le rappresaglie sono incessanti e feroci. I partigiani che vengono fatti prigionieri, dopo orribili sevizie, sono fucilati. E i villaggi che hanno ospitato i partigiani vengono incendiati. Ci si intenda bene. Le masse lavoratrici del Nord non si battono con tanto eroismo e con tanta abnegazione per aprire la strada a una nuova reazione, ma esse si battono e si sacrificano perché sono fermamente persuase che questa è la lotta non solo per l’indipendenza, bensì anche per la Repubblica”.

La liberazione si prepara. L’Avanti! è il primo quotidiano nel Centro Sud. Esce clandestinamente al Nord. Ma già vede una Italia che rinasce repubblicana, nella continuità storica con il Risorgimento di Mazzini e Garibaldi. Questa continuità non è una invenzione a posteriori fatta artificiosamente a tavolino dagli storici e dai propagandisti. È il sentimento dei combattenti per la libertà mentre il combattimento è ancora in corso. Alla vigilia della liberazione l’Avanti! clandestino pubblica l’appello all’insurrezione dei professori milanesi ai loro studenti. “È l’annuale delle Cinque Giornate: ancora il tedesco strazia e opprime la patria. Eppure mai l’Italia fu più certa di resurrezione. Essa oggi combatte contro il nazismo per la propria indipendenza, contro il fascismo per la propria libertà e per una ricostruzione etica e ideale, politica ed economica, che la ricongiunga con l’Europa e col mondo. Il primo Risorgimento è stato tradito dalle forze della reazione e dalla stessa nostra immaturità politica; il nuovo Risorgimento è annunziato dall’immensa schiera dei martiri, dei torturati, dei deportati, degli eroi che combattono delle forre e nelle montagne in nome della libertà, dell’umanità, della democrazia. Giovani, è la vigilia sacra. L’intelletto e la giovinezza di Italia devono in questi giorni compiere un’offerta di fede, essere luce e vessillo alle nuove generazioni. Oggi l’Italia crea il proprio destino. Giovani, è l’ora vostra. L’ora della lotta, della vittoria, della riconquista dell’avvenire”.

Milano insorge, l’Italia è libera. È vero, ci sono stati eccessi, vendette e crudeltà contro i fascisti, oggi usate per infangare la Resistenza. Ma nella città appena liberata, tre socialisti, - il sindaco Greppi, il prefetto Riccardo Lombardi, il vice prefetto Vittorio Craxi – mettono subito un freno alle violenze. L’Avanti! diretto da Nenni e da Guido Mazzali il giorno dopo la liberazione scrive: “Attraverso la folla si apre la strada un’auto, su un parafango della quale è stata esposta a ludibrio un ex ausiliaria. Un giovanottone che è sul marciapiede ne scende, si avvicina alla macchina e sferra alla ragazza un pugno che la fa sanguinare. Nessuno reagisce, nessuno interviene. A noi sarebbe piaciuto che un volontario della libertà, uno di coloro che con le armi in pugno hanno combattuto degli altri uomini armati, avesse applicato a quell’individuo, a suon di calci di moschetto, una lezione intesa a fargli comprendere che dei picchiatori di donne, dei vili sciacalli delle ore 25, non ne vogliamo nelle nostre fila, non ne vogliamo nella nostra festa”.

Questo è l’Avanti! che conquista il ruolo di protagonista nella battaglia per la Repubblica. Nenni era quasi uno sconosciuto al grande pubblico: diventa un leader famoso perché è il direttore dell’Avanti!, ovvero del quotidiano più diffuso: l’organo del partito che alle elezioni amministrative è il primo in assoluto a Milano. In un’epoca in cui manca la televisione, in cui la radio è soprattutto cronaca, l’opinione pubblica è formata dalla carta stampata. L’Avanti! è il giornale dei socialisti, e il partito socialista non soltanto sarà il primo della sinistra alle elezioni per la Costituente, è il più coerente e credibile nella battaglia repubblicana.
Deve combattere su due fronti. Deve combattere a sinistra contro Togliatti, perché il leader comunista, quando rientra in Italia da Mosca, ha accettato ma monarchia con la cosiddetta svolta di Salerno del 1943, scontrandosi con Nenni e ancor di più con Pertini. Il conflitto (il primo dei tanti tra socialisti e comunisti nell’Italia postfascista) ha ragioni molto semplici. I socialisti sono per l’ideale repubblicano. Togliatti è per la Realpolitik. Sa quello che gli altri non sanno, perché ha appena avuto da Stalin spiegazioni e ordini precisi. A Yalta si è deciso che l’Italia è nella sfera di influenza dell’Occidente. Quindi il partito comunista non può conquistare il potere e deve semplicemente farsi accettare: deve lavorare per i tempi lunghi, non incutere paura ai moderati, tessere alleanze o tregue con chiunque, con la monarchia e innanzitutto con i cattolici. Così si spiega anche la futura accettazione all’Assemblea Costituente da parte di Togliatti (e non di Nenni) del Concordato fascista fra Stato e Chiesa. Così si spiega l’accettazione (in un primo tempo) persino del principio di indissolubilità del matrimonio che (se inserito nella Costituzione, come Togliatti stava per consentire con il suo voto di astensione in Commissione) avrebbe reso impossibile la futura legge sul divorzio.
La monarchia è agli occhi di Nenni quella di sempre. Ancora nel marzo del 1945, dopo un comizio socialista al Colosseo, una folla si dirige verso il Quirinale gridando slogan. Viene sciolta da una carica dei carabinieri a cavallo e dal lancio di bombe a mano, con un morto e numerosi feriti. L’Avanti! titola: “Sangue del popolo davanti alla reggia”. La propaganda dei socialisti è contro il re, ma restano a lungo incerti sulla solidarietà dei comunisti. La moderazione e freddezza di Togliatti continua a tormentare Nenni, che solo il 12 novembre 1945, dopo un grande comizio insieme a lui al Palatino, può finalmente annotare nel suo diario: “Anche Togliatti stamattina ha dovuto alfine pronunciare la parola Repubblica”.

Oltre al fronte sulla sinistra c’è naturalmente, e ben più difficile, quello sulla destra: perché i democristiani sono condizionati dal loro elettorato moderato e De Gasperi rimane a lungo incerto prima di sposare la causa repubblicana. Tanto che l’Avanti! lo definisce un signor “ni” (che non dice chiaramente sì o no alla Monarchia e alla Repubblica). E il quotidiano socialista viene ricambiato dal leader democristiano con l’accusa di favorire il fascismo attraverso le sue posizioni anti monarchiche estremiste. La verità è che i socialisti nascono sin dall’Ottocento come i sostenitori degli ideali repubblicani del Risorgimento: il loro scontro con la monarchia ha radici storiche. Sono Turati e il direttore dell’Avanti! Bissolati, nel 1898, ad essere arrestati dal generale Bava Beccaris a Milano dopo la strage compiuta dai suoi cannoni. Caduto il regime fascista, ai principi politici, si aggiunge una condanna morale contro il re. Contro un re che si è dimostrato asservito a Mussolini. Pertini viene rimproverato da Nenni perché non si trattiene nei giorni della liberazione dallo sparare una sventagliata di mitra contro la villa del principe Umberto a Milano. Ma Pertini si è fatto dodici anni di carcere e confino per una sentenza emessa “in nome di sua Maestà”.

Pertini ha spiegato a me, in una lunga intervista, perché ha sempre considerato il re vile e complice di Mussolini. Si tratta in parte di rivelazioni storiche, che sottolineo in pubblico per la prima volta e che spero facciano discutere. Giovanni Amendola, il grande leader liberale antifascista, padre di Giorgio, rimase sempre monarchico. Ma sul letto di morte, dove spirò per le ferite provocate dagli squadristi, le sue ultime parole – ha saputo dai testimoni e mi ha raccontato Pertini – furono “il re è vile”.

Il re era vile e anche la sua famiglia. Nacque – racconta Pertini – un’idea che avrebbe salvato la monarchia. Il principe Umberto poteva essere paracadutato al Nord occupato dai tedeschi. Ben protetto e nascosto dai sevizi segreti alleati, poteva formalmente diventare il capo della Resistenza. Il 25 aprile, sarebbe sfilato lui alla testa di partigiani e a quel punto – mi ha detto Pertini – al Quirinale – ci sarebbe stato lui al mio posto. Non se ne fece nulla perché la famiglia reale non ebbe il coraggio.

Il re era vile e anche complice del fascismo, persino nel momento in cui appare esattamente il contrario. Quando Mussolini, sfiduciato dal Gran Consiglio, si recò nella villa del re a riferire e venne improvvisamente arrestato, si trattò, secondo Pertini, di una farsa. Mussolini sapeva perfettamente di essere arrestato, ma era d’accordo perché pensava che questa fosse l’unica via per salvarsi la vita e uscire di scena in modo dignitoso. Ne erano convinti Pertini ed anche (come ha confidato a Pertini stesso) il generale dei carabinieri Cereca, che in quel luglio del 1943 lo arrestò per ordine del re. C’è materia per gli storici: ma qui l’opinione di Pertini (comunque non dell’ultimo venuto) serve a ricordare cosa i socialisti pensassero della monarchia.

L’Avanti! di Nenni (e di Pertini, che ne diverrà presto direttore dopo di lui) guida la battaglia referendaria per la Repubblica. Innanzitutto con i suoi titoli, destinati spesso a diventare slogan leggendari, che racchiudono in poche lettere un significato profondo. Sono di un grande giornalista come era Nenni, certamente: ma con l’aiuto di una altro grande giornalista: Guido Mazzali. Pochi lo ricordano, anche perché è morto presto. Fu in pratica l’inventore dell’industria pubblicitaria negli anni ’30. Ancora oggi si ripete il suo slogan “chi beve birra campa cent’anni”. Leader del partito a Milano, amico fraterno di Nenni, a lungo direttore dell’Avanti!, fu il padre degli autonomisti milanesi, compreso Craxi. Simbolo della modernità e anche della vocazione della sua città: perché, ad esempio, nel 1946 volle fare l’assessore, ma allo spettacolo e allo sport. E creò il Piccolo Teatro con Grassi e Strehler.

Nenni e Mazzali già all’indomani della liberazione lanciano con il titolo di un fondo lo slogan che ricorrerà spesso nella storia e che sarà decisivo nella battaglia per la Repubblica, “Il vento del Nord”. Lo si ripeterà a lungo, lo si accompagnerà allo slogan “Adeguarsi al Nord”, provocando reazioni furibonde dei giornali romani. I superficiali potrebbero vedervi persino i prodromi del leghismo. Ma Nenni e Mazzali non sono egoisti o separatisti, bensì generosi e patrioti. Nenni, sollecitato dal ministro socialista Pietro Mancini (padre di Giacomo), si fa quattordici ore di macchina per andare in Calabria, capisce e titola un fondo successivo “Vento del Sud”.
Cosa sia il vento che soffia da Milano lo spiega con parole che già sono un programma per la Repubblica. “Il vento del Nord annuncia altre mete ancora. Gli uomini che per due lunghi inverni hanno dormito sulle montagne stringendo tra le mani un fucile, reclamano non una rivoluzione di parole, ma di cose. Non si accontenteranno di promesse e di mezze misure. In codesta primavera della patria, c’è per noi un solo punto oscuro. Si tratta di sapere se qui a Roma intenderanno o no la voce del Nord e sapranno adeguarsi ai tempi. Noi diciamo quello che ieri dicevamo agli Alleati. Abbiate fiducia nel popolo, secondatene le aspirazioni, scuotete dalle ossa il torpore che vi stagna, rompete col passato”.

Rompete col passato. E per rompere davvero il vento del Nord deve “spazzare via la polvere del Sud”, come dice un altro titolo. Deve spazzare via la monarchia, che nelle sue roccaforti del Mezzogiorno è protetta da questa polvere secolare e dal clientelismo dei notabili. In quelli che Turati chiamava “i borghi putridi” per sottolineare la corruzione delle classi dirigenti. Più il vento del Nord si affievolisce, mentre si allontanano nel tempo le giornate gloriose della liberazione, più si infittisce la nebbia dell’ambiguità, del compromesso e in sostanza della restaurazione. Si teme ormai di perdere il referendum, ed ecco che l’Avanti! moltiplica gli sforzi, attaccando a testa bassa. Con l’arma di sempre: gli slogan che mobilitano, infiammano, chiariscono. Che vengono ripetuti in migliaia di piazze e di comizi da un capo all’altro della penisola. Cominciano ad apparire titoli che suggeriscono ottimismo simulando un conto alla rovescia: “Ancora 59 giorni di regno”, “Ancora 58 giorni di regno”, e così via. Sotto il titolo “Il re fascista”, si ricordano giorno dopo giorno, una per una, tutte la compromissioni con il regime di Mussolini. Al principe Umberto, diventato re in primavera con l’abdicazione in suo favore del padre Vittorio Emanuele viene incollata indelebilmente la definizione di “re di maggio”. La cancellazione della monarchia viene indicata come un adempimento ormai scontato: “Un cadavere che deve essere seppellito”.

Si teme che la Repubblica possa aprire una stagione di disordine? L’Avanti! ribalta l’argomento con lo slogan “O la Repubblica o il caos”. Mentre il nesso tra la fine della monarchia conservatrice e il progresso sociale è scolpito dallo slogan “La Repubblica dei poveri”. Si spargono voci su possibili colpi di Stato militari progettati da chi potrebbe non accettare il verdetto del popolo? Nenni calma in modo convincente gli animi sotto il titolo “Non succederà nulla, non deve succedere nulla”. Ma man mano che si avvicina il giorno fatidico del voto, la febbre sale. Primo giugno. Il titolo a nove colonne è “Domani l’Italia democratica deciderà il suo destino. Repubblica e socialismo difenderanno la tua libertà e il tuo lavoro”. Saragat – che capisce perfettamente qual è e sempre sarà, per decenni, il problema elettorale della sinistra – titola il suo fondo “Appello ai ceti medi”. 2 giugno. Una bomba è stata gettata la notte prima del voto nella sede milanese dell’Avanti!, danneggiando le rotative e ferendo tre tipografi. Ma il giornale non si ferma e titola “L’Italia è arbitra del suo destino. Tutti alle urne per la Repubblica e il socialismo”. Ormai, c’è solo da attendere.

“Si faccia quello che si deve, accada quello che può”, dice spesso Nenni con antica saggezza contadina. Passano interminabili le ore. L’incertezza cresce, perché si spogliano prima le schede per la Costituente: il partito dell’Uomo Qualunque, di estrema destra, ha ottenuto un successo imprevisto; la Democrazia cristiana si dimostra di gran lunga il primo partito e si teme che i suoi voti siano prevalentemente monarchici. I computer ancora neppure si immaginano e lo scrutinio va a rilento. I compagni telefonano i risultati delle sezioni elettorali, ma i primi che arrivano, quelli delle metropoli del Nord, non sembrano così rassicuranti. Per tutta la giornata di martedì 4 giugno, si susseguono le edizioni straordinarie (dell’Avanti! come dei giornali monarchici) che danno risultati parziali contrastanti e accendono zuffe tra le opposte tifoserie nelle gallerie di Milano e di Roma.

Alle tre di notte tra il 4 e il 5 giugno, Nenni apprende che la vittoria è ormai certa. Telefona all’Avanti!, ma il ministro dell’Interno Romita vieta al caporedattore di dare la notizia. All’alba, finalmente, arriva la conferma ufficiale. Il caporedattore apre un cassetto e tira fuori il titolo già preconfezionato sin dalle tre di notte. Corre in tipografia dove è già tutto predisposto. Alle prime luci, il quotidiano socialista grida a nove colonne per le strade di Milano e di Roma che si cominciano ad affollare “REPUBBLICA”. Sotto l’apertura a caratteri di scatola, compare un titoletto voluto dal direttore Ignazio Silone. “Grazie a Nenni”. Sì, grazie a Nenni: perché è riconosciuto che la vittoria, incerta sino all’ultimo, è stata innanzitutto il frutto della testarda, disperata volontà del leader socialista. Il “grazie” è firmato da tutti i redattori. Nenni risponde in poche righe, con la consueta sobrietà e ritrosia. Ma nel suo diario annota: “Una grande giornata, che mi ripaga di molte amarezze e che può bastare per la vita di un militante”.


https://www.facebook.com/notes/pietro-nenni/grazie-nenni-l-avanti-e-il-referendum/993501250766385

Frescobaldi
17-09-16, 21:53
“[Una] Repubblica conciliare [composta da cattolici e comunisti] non è basata su solide realtà. E troppi elementi la frenano: un Partito socialista che abbia la consapevolezza del suo ruolo e della sua autonomia, le forze laiche rappresentate da partiti quale il Partito repubblicano, la presenza in Italia di un mondo culturale impegnato nella difesa della libertà… Ovvio che alla Democrazia cristiana e al Partito comunista una simile prospettiva appare seducente: il bipartitismo, in fondo, è il loro sogno politico. Ovvio che vi siano correnti impegnate in un’operazione di questo genere: perfino al di fuori della DC e del PCI v’è chi si illude che l’unione dei “preti neri” coi “preti rossi” assicurerebbe per qualche anno una relativa pace sociale, il mantenimento dello status quo […]. Ma […] io ci credo poco alla possibilità di un evento così deprecabile. No, no. È un discorso troppo pessimista […]. Sarebbe il matrimonio di due integralismi concordi su un punto: toglier di mezzo tutte le forze che si richiamano ai princìpi di democrazia e di libertà. Due integralismi che sentono sì, alcuni problemi ma che non ne sentono altri per me fondamentali: la libertà individuale, la vita democratica. Con la Repubblica conciliare assisteremmo alla spartizione dei poteri tra due chiese: a una chiesa, l’egemonia dello Stato; all’altra chiesa, l’egemonia dell’opposizione. Allo stesso tempo vedremmo sparire ed eventualmente sopprimere ogni forza intermedia e capace di porre un freno. In sostanza, sparirebbe il Partito socialista e sparirebbe il blocco delle forze laiche. Sparirebbero anche vasti settori di ispirazione cristiana che hanno dato un largo contributo alla rinascita laica e democratica dell’Italia”.


Pietro Nenni a Oriana Fallaci – Roma, aprile 1971.

Frescobaldi
04-11-16, 20:36
http://immagini.quotidiano.net/?url=http://p1014p.quotidiano.net:80/polopoly_fs/1.1975594.1457961710!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/wide_680/image.jpg&h=350&w=606



4 novembre 1966


Giornata di vento, pioggia e burrasca. Dalla mia finestra, a Formia, vedo il mare scatenato. Poca cosa nei confronti delle notizie che pervengono da altre regioni e soprattutto dalla Toscana e dal Veneto. L’Arno è straripato e Firenze è sott’acqua per tre quarti. Venezia, il Polesine, Napoli e la Calabria sono flagellate dalle alluvioni e dagli allagamenti. Interrotte strade e ferrovie. La radio, di ora in ora, prega gli automobilisti di non muoversi o di fermarsi dove sono. Si temono danni enormi, forse i più gravi dalla guerra in poi. Ciò non ha impedito alla televisione una scorpacciata di retorica sul 4 novembre.



5 novembre 1966


[…] Notizie sempre peggiori da Firenze, dalla Toscana e dal Veneto. È una grande catastrofe alla quale sarà difficile far fronte con mezzi ordinari. Accanto al fattore calamità nazionale, riemerge il dato della incuranza tradizionale dei poteri pubblici e locali. Rimane pressoché inspiegabile che il centro storico di Firenze e buona parte della città abbia potuto in pochi minuti essere sommersa sotto due, tre metri di acqua e di fango. La TV annuncia che l’acqua si ritira a Firenze, si fa più minacciosa nel Veneto.



6 novembre 1966


Pessime anche questa mattina le notizie della radio. Crescono le proporzioni del disastro. Sul Veneto grava la minaccia di nuove alluvioni. Saragat si è recato a Firenze e ha fatto bene. Mi domando se non dovrei andare anch’io. Ma a fare cosa che non appaia come un mettersi in vetrina sullo sfondo di una tragedia?
Il problema adesso è quello di far fronte alla situazione. Ho convocato per domani mattina i ministri socialisti per studiare le proposte da formulare al consiglio dei Ministri
Dovremmo tutti trarre da quanto è successo l’invito a fare, fare, fare e a chiacchierare meno; a trascinare meno i problemi per le lunghe. Ma non si può chiedere molto a una classe dirigente rissosa come la nostra.


Pietro Nenni - Diari

Frescobaldi
25-11-16, 18:17
La Costituente, che è stata la bandiera del Gabinetto Parri e del Gabinetto De Gasperi, non è una bandiera di partito, non è nemmeno la bandiera di una forma determinata dello Stato, neppure della forma di Stato che taluni di noi preannunciano coi loro voti, la bandiera della Costituente è la bandiera della libertà, è il diritto del nostro popolo di trarre dal disastro nazionale, dal quale sta penosamente risollevandosi, tutti gli insegnamenti di ordine politico, di ordine costituzionale, di ordine sociale che esso comporta.

Il mio “politique d’abord”, che ha costituito uno dei temi della lotta politica degli ultimi mesi, ha nella storia italiana un precedente illustre e decisivo. Nel 1872, prossimo alla morte, Giuseppe Mazzini diceva: “Il problema politico predomina su tutti gli altri, manca nel caos che ci si stende d’intorno il ‘fiat’ della nazione. Quel ‘fiat’ non può essere profferito che da una Costituente, non può incarnarsi che in un patto nazionale. Tutto il resto è menzogna”.

Il voto di Mazzini non fu esaudito. Il patto nazionale non ci fu. Il plebiscito sostituì la Costituente, lo Stato democratico italiano si è organizzato per 50 anni nel quadro dello Statuto albertino. Sforzi generosi e conseguenti sono stati fatti per dare un contenuto democratico alla vita nazionale del nostro Paese. Il problema che è stato eluso nel 1870, che è stato eluso in tutte le prove successive della nostra vita nazionale, che è stato eluso nel 1918 all’indomani di una guerra vittoriosa, si ripresenta alla Nazione oggi, esige di essere risolto, sarà risolto con l’atto che noi deliberiamo in questo momento.



Pietro Nenni – Consulta Nazionale. “Sulle competenze dell’Assemblea Costituente”, seduta del 7 marzo 1946.

Frescobaldi
26-11-16, 20:19
Il cammino che sta di fronte a noi non è facile. Un paese non esce disfatto da 25 anni di dittatura e da 5 anni di guerra senza che permangano, per molti anni, purtroppo, elementi potenti di disintegrazione, di polemica, di lotta intestina.

Il fascismo ha legato alla rinascente democrazia italiana una eredità terribile di rovine materiali e di rovine morali.

Tutto è incerto nella vita nazionale del nostro paese; è incerto il nostro pane, è incerto il nostro lavoro, sono incerte le nostre frontiere, è incerta la nostra pace. Qualcosa, io penso, non è incerto: ed è la volontà di costruire uno Stato democratico capace di vincere tutte le difficoltà e di fronte al quale, se tutto sarà difficile, niente sarà veramente impossibile.

Il Governo chiede ai partiti, a quelli che sono al Governo, a quelli che sono all’opposizione, chiede, al di là dei partiti, a tutti gli italiani ed a tutte le italiane, di prepararsi a questa lotta col sentimento della responsabilità, che ognuno porta di fronte all’avvenire della Nazione.

Il 26 maggio non saranno più né Governo né determinati partiti ad avere la responsabilità dei destini d’Italia: sarà il popolo tutto. Tocca ora a noi suscitare nel popolo il sentimento che il nemico peggiore della democrazia è l’indifferenza, allorché si tratta di decidere la forma e la struttura dello Stato.

E tocca egualmente a tutti noi dare forza e vigore al comune convincimento del Governo e della Consulta che noi possiamo dissentire su molte cose anche fondamentali, ma che se ci accordiamo nel riconoscimento della sovranità popolare, niente di irreparabile dividerà la Nazione. Signori, la sera del 26 maggio ognuno saprà quello che deve fare, chi deve sparire sparirà, chi deve avanzare avanzerà forte della investitura del popolo sovrano.


Pietro Nenni – Consulta Nazionale. “Sulle competenze dell’Assemblea Costituente”, seduta del 7 marzo 1946.

Frescobaldi
02-12-16, 17:41
“Lo so, le corti costituzionali non possono impedire i colpi di Stato, e d’altro canto noi non ignoriamo che la Costituzione non può affidare la sua esclusiva difesa a un organismo giuridico costituzionale, ma soltanto alla volontà dei cittadini di difenderla ad ogni costo e di esporre, se necessario, in sua difesa anche la loro vita.

Tuttavia, così com’è prevista dalla Costituzione, la Corte costituzionale offre una garanzia per la nazione contro gli abusi di potere, sempre possibili sia per opera dei governi sia per opera delle assemblee parlamentari.

Io credo, onorevoli colleghi, che la maggioranza sarà saggia se non si lascerà travolgere dal gusto di sopraffare le minoranze, ostentando il costume littorio di non tener conto delle osservazioni dell’avversario, anzi di tenerne tanto meno conto quanto più l’argomentazione dell’avversario è fondata.

La Camera sa che queste sopraffazioni non hanno mai portato fortuna a nessuno. La nostra storia è piena di dimostrazioni in questo senso, che vanno dai secoli passati agli ultimi tempi. In quest’aula sono ancora presenti gli echi mussoliniani, ma si sa anche che cosa la dittatura è costata alla nazione, allo Stato e allo stesso Mussolini”.


Pietro Nenni – CAMERA DEI DEPUTATI, 7 dicembre 1952

Frescobaldi
25-03-17, 18:24
La politica socialista (1926)


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“Il Quarto Stato”, 27 marzo 1926, firmato Pietro Nenni; ora in “Il Quarto Stato di Nenni e Rosselli”, a cura di D. Zucàro, SugarCo, Milano 1977. Quasi settimanalmente Nenni teneva nella rivista una rubrica d’informazione sul movimento operaio e socialista italiano e europeo […].



I - Una tesi pessimistica

Una delle caratteristiche dell’attuale momento politico, è il ritorno all’intransigenza di partito. Sciolta la compagine aventiniana, i partiti di opposizione tendono a chiudersi in se stessi, per celebrare in fiera solitudine gli esercizi spirituali. Dicono che ciò rafforzi e cementi la fede: può darsi. Bisogna comunque augurarsi che ciò non duri molto, perché una delle conseguenze di questa intransigenza è che nessuno fa nulla. Da parecchi mesi noi offriamo di nuovo lo spettacolo deprimente dei nostri litigi, delle nostre incomprensioni, dei nostri mediocri settarismi. La sola politica nella quale eccelliamo, è quella delle frasi e più queste sono vuote e inconcludenti, più incontriamo fortuna.

I partiti si trovano senza alcun dubbio nelle necessità, di tempo in tempo, di racchiudersi in sé medesimi, quando però ciò non nuoccia ai doveri che essi hanno verso le masse di cui sono i rappresentanti politici.

L’intransigenza di partito costituisce, nella attuale situazione, un ostacolo insormontabile alla lotta. Essa non può giustificarsi. Coloro che vi fanno ricorso, ubbidiscono alla tesi pessimistica, che non ci sia niente da fare.

In pubblico si possono dare, di questa intransigenza, le spiegazioni più magniloquenti ed eroiche. In privato, i suoi fautori, finiscono per dirvi che non essendoci nulla da fare, non vale la pena di promuovere intese o unioni.

Si tratta quindi di un imboscamento, mascherato da motivi ideali e perciò estremamente pericoloso.

Noi possiamo concepire lo svolgimento pratico della lotta nella quale siamo impegnati, in due soli modi: o come pura azione di classe, nel senso che il segno di distinzione fra fascisti e antifascisti sia la classe, e in questo caso la sola politica concreta è il fronte unico social-comunista contro l’insieme della borghesia, in tutte le sue divisioni o sfumature; oppure come azione di classe e politica, nella quale i fini immediati del movimento operaio e socialista coincidono coi fini della democrazia, e allora si impone una dilatazione del fronte verso i partiti, i gruppi, i ceti sociali che sono in lotta contro l’autocrazia e che riconoscono la portata rivoluzionaria di questa lotta volta non contro un ministero, ma contro un regime.

Non c’è una terza politica.

Il punto quindi da discutere è questo solo: se si o no i fini immediati nostri coincidono con quelli delle frazioni democratiche. A questo proposito non può sussistere nessun dubbio. La conquista delle pubbliche libertà – come mezzo di espressione della potenza del proletariato – è stato sempre uno dei postulati fondamentali dei socialisti. In pratica i socialisti – in Francia, in Germania, in Russia, in Italia, nel Belgio, in Inghilterra, ovunque – hanno combattuto l’autocrazia e la reazione, senza temere, anzi sollecitando, alleanze per fini concreti e immediati. È solo così che essi sono riusciti a conquistare – o a ristabilire – le condizioni preliminari (libertà politica e libertà sindacale) per l’azione delle messe lavoratrici.

II – Il pericolo delle improvvisazioni

Si dice – da coloro che non oppongono pregiudiziali assolute – che il momento per tali intese destinate a raggiungere fini concreti e immediati, è quello dell’azione, quando cioè sopravvenga una di quelle crisi che scuotono anche i regimi più forti e spontaneamente spingono l’uno verso l’altro i partiti che hanno punti comuni da raggiungere.

La più recente esperienza ci deve insegnare a diffidare di questa tattica. L’esperienza stessa dell’Aventino dimostra come sia impossibile improvvisare i quadri direttivi in mezzo all’infuriare di una battaglia. Ora, in concreto il solo problema da risolvere, nelle crisi rivoluzionarie, è proprio quello dei quadri direttivi. Vince chi è attrezzato in maniera da inquadrare le masse in agitazione e da dare fini concreti e politici alla agitazione e al malcontento.
Due cose sono evidenti:

1. – che è impossibile prolungare a piacimento una situazione rivoluzionaria fino al momento in cui il partito sia pronto per utilizzarla (basta a questo proposito il ricordo tragico e doloroso del 1919-20-21);

2. – che è impossibile improvvisare i quadri direttivi.

Perché essi siano efficaci, gli accordi non devono improvvisarsi febbrilmente nel campo stesso e nel momento dell’azione risolutiva. Dei partiti coscienti del fine che perseguono, sono sempre in grado di stabilire in anticipo i limiti degli accordi coi movimenti affini.


III – Il senso politico

Ciò che è mancato al movimento socialista italiano, è il senso politico, cioè il senso pratico dell’azione. Rileggete le discussioni congressuali. Tutti i problemi sono stati discussi da un punto di vista scolastico. Nessun movimento più del nostro ha fatto dell’idealismo, nel senso peggiore della parola. Quando noi discutiamo, novantanove volte su cento, lo facciamo in base a schemi ideali, non in base alla realtà delle cose. Ci siamo sempre dimenticati che il socialismo è tutto fuorché dogma, che noi siamo un movimento politico e non una setta religiosa o filosofica, che i nostri sforzi devono tendere alla conquista del potere. Il riformismo operaio da noi è rapidamente degenerato in un edonismo pratico e il rivoluzionarismo in una nebulosa retorica. Il primo ha creduto di aver risolto il problema dei problemi con le cooperative o le mutue, il secondo con la girandola delle frasi fatte. Il riformismo è stato una scuola di burocrati, il rivoluzionarismo è scuola di demagoghi. Sono mancati gli uomini di azione. Gli uni e gli altri – i burocrati e i demagoghi – si sono attaccati a questa o a quella frase di Marx. È stupefacente il numero e l’eccellenza delle ragioni e dei principii, che essi hanno trovato per non far nulla di concreto.

Del marxismo si potranno dare infinite interpretazioni ed esegesi, ma ne tradirà lo spirito chiunque lo prospetti come una teoria rigida, come un catechismo politico, nel quale tutto sia preveduto, come una delle tante applicazioni positivistiche della legge della evoluzione, dimenticando che il marxismo è innanzi tutto una filosofia di azione.

Non è dubbio che l’azione è la negazione del dogma. Il più grande elogio del capo della rivoluzione bolscevica, dal punto di vista marxista, è stato scritto da Radek: “La grandezza di Lenin sta nel fatto che nessuna teoria formulata la viglia, gli impedisce di vedere all’indomani che la realtà è diversa e che egli può coraggiosamente scartare il piano di azione predisposto il giorno precedente, se questo minaccia di nuocere ai compiti dell’ora”.

Il giorno in cui avremo imparato a giudicare i fatti come sono e non come li vorremmo, il giorno in cui avremo capito che le vie dell’azione sono infinite e che tutto ciò che aumenta il prestigio delle classi lavoratrici, tutto ciò che ne estende l’influenza, tutto ciò che allarga i quadri della democrazia politica, è socialismo in atto, quel giorno ci saremo posti in condizione di fare dei passi concreti verso la conquista del potere, che è l’obiettivo essenziale del nostro movimento.
Importa sapere dove si vuol giungere. Quanto alle vie per giungervi esse sono tutte buone purché portino alla unità.


Pietro Nenni




https://www.facebook.com/notes/pietro-nenni/la-politica-socialista-1926/1243636355752872

Frescobaldi
02-06-17, 19:48
2 giugno 1976

Trent’anni or sono fu una grande giornata per il paese e lo fu particolarmente per me. Vincemmo la battaglia per la Repubblica e fummo secondi nelle elezioni dell’assemblea costituente col 20 per cento dei voti. Ma l’anno dopo, con la scissione saragattiana, perdemmo la battaglia socialista e il 18 aprile del ’48 perdemmo il potere o il controllo del potere, e ci ritrovammo alla opposizione fino al 1960 e alla svolta del centro-sinistra. Molte delusioni quindi dopo la vittoria del 2 giugno di trent’anni or sono. È la storia della vita nelle sue alterne vicende. Comunque fu una grande giornata.


Pietro Nenni – “Diari 1973-1979”, Marsilio 2016

Frescobaldi
10-09-17, 22:19
Profilo politico di Alcide De Gasperi (1954)



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“Mondo operaio”, 4 settembre 1954


Nelle vicissitudini politiche degli ultimi dieci anni, Alcide De Gasperi, morto a Selva di Valsugana nella notte del 19 agosto, ha avuto una influenza di primissimo piano. La parte che nella ricostruzione dello stato democratico le circostanze hanno assegnato all’ala moderata antifascista si è imperniata prima in Ivanoe Bonomi e quindi in De Gasperi, col più vasto carattere implicito nel fatto che egli aveva dietro di sé la grande massa dell’elettorato cattolico, la forza della chiesa e quella della democrazia cristiana. Nei confronti delle correnti più retrive della borghesia e della chiesa, De Gasperi è stato un mediatore più che l’esponente diretto dei loro interessi e delle loro pressioni. Si spiega così la difficoltà dei suoi rapporti con l’azione cattolica ed anche col vaticano e l’esistenza nel paese, e nella stessa democrazia cristiana, di una opposizione di estrema destra che più volte ha dato a De Gasperi del filo da torcere. A questa sua parte e funzione De Gasperi si era preparato fino da giovane, nelle lotte politiche del Trentino (dov’era nato il 2 aprile 1881), nelle quali egli s’era trovato a mezza strada tra il clericalismo austriacante ed il socialismo e l’irredentismo di Cesare Battisti. Si è affermato in diverse necrologie che De Gasperi era stato irredentista ed interventista nella guerra del 1915-18. Non è così. Nella sua attività di giornalista (fu direttore della Voce cattolica di Trento) e di deputato trentino al reichsrat (dove fu eletto nel 1911) non c’è traccia di irredentismo o di interventismo. De Gasperi assunse invece la difesa del Trentino italiano nell’impero asburgico, senza mettere in discussione la legittimità dell’impero. Neppure la guerra mutò il suo atteggiamento. Mentre Cesare Battisti, glorioso disertore dell’esercito austriaco, combatteva con gli alpini italiani e, fatto prigioniero, veniva impiccato a Trento, Alcide De Gasperi assolveva a Vienna il suo mandato di deputato e di segretario della camera. Tuttavia se non era con Battisti non era neppure coi clericali trentini che partecipavano alla sottoscrizione indetta per rimborsare all’imperatore le spese della corda che aveva strozzato in gola a Battisti il grido di: “viva l’Italia!”. Non solo nella questione nazionale, ma anche nella questione sociale, De Gasperi era parecchio in avanzo sul grosso del clericalismo trentino malgrado la violenza della sua polemica coi socialisti. Si è detto di lui che è stato un cattolico liberale, ed è definizione esatta se riferita all’Austria-Ungheria, dove egli svolse la prima parte della sua attività, non se riferita alla particolare tradizione del liberalismo italiano anti-papale ed anticlericale con ampie venature giacobine, alla quale tradizione egli rimase del tutto estraneo.
La liberazione del Trentino fece di De Gasperi un cittadino dello stato italiano e subito egli ebbe nel partito popolare (sorto nel 1919) una posizione di rilievo. Nel 1921 fu eletto deputato al parlamento e da allora si trovò immerso nella lotta tra socialisti e fascisti. Anche in questa lotta De Gasperi si collocò in mezzo. La sua concezione dello stato e della libertà lo opponevano spontaneamente ed apertamente al fascismo. La sua difficoltà a comprendere il movimento operaio e popolare lo inchiodava alla polemica antisocialista. Questa sua difficoltà od impossibilità ad intendere la linea di sviluppo del movimento operaio ha trovato eloquente espressione in una nota di diario a proposito della comune di Vienna, schiacciata nel sangue da Dollfuss nel febbraio 1934. In essa De Gasperi avverte come i cristiano-sociali austriaci, usciti dalla legalità costituzionale, scivolino ormai nel fascismo e dei socialisti dice che la loro fine è giusta fine dei violenti. Eppure i socialisti austriaci avevano preso le armi in difesa della repubblica, della costituzione, della libertà. Se De Gasperi fosse stato in grado di capire i socialisti il suo contributo alla lotta democratica avrebbe potuto essere assai più consistente. Invece, dopo l’avvento del fascismo, egli fu fautore della politica della “collaborazione condizionata” che portò il partito popolare alla partecipazione con Mussolini nella vana illusione di addomesticare e costituzionalizzare il fascismo. Quando le elezioni dell’aprile 1924 e poi con l’assassinio di Matteotti, il solco divenne incolmabile, De Gasperi prese netta posizione nell’aventino e per quanto fosse allora un passo indietro sulle posizioni antifasciste di don Sturzo, fu solidale col sacerdote siciliano contro la campagna scatenata contro di lui dalle alte gerarchie ecclesiastiche. Sempre in De Gasperi rimase vivo il ricordo della brutalità con cui l’azione cattolica aveva allora attaccato e abbattuto il partito popolare impegnato nella battaglia antifascista. Successore di Sturzo alla segreteria del p.p. aveva cercato invano di puntare i piedi e di resistere, e data da allora la distinzione che egli ha cercato di mantenere viva ed operante fino negli ultimi anni della sua vita, tra il partito politico dei cattolici e l’azione cattolica, tra lo stato e la chiesa, benché per lui, come per ogni cattolico militante che fa politica, la chiesa fosse in definitiva il supremo potere.

All’antifascismo De Gasperi pagò quindici anni di esilio in patria e sedici mesi di carcere a regina coeli. Fu un esilio intessuto di rinunce e di amarezza – anche di povertà – entro le mura domestiche e le mura della biblioteca del vaticano, dove aveva trovato aiuto e protezione. Il 25 luglio consentì a De Gasperi di uscire dalla clandestinità e di riprendere la lotta politica alla testa dei cattolici che l’anno di poi (luglio 1944) costituirono il partito della democrazia cristiana con De Gasperi segretario. Fu chiaro fin da allora che il peso politico dei cattolici nella società italiana e nello stato sarebbe risultato più importante di prima del fascismo per tre ragioni principali: - perché la chiesa, nel ventennio, pur venendo a patti col fascismo, aveva preservato una sua organizzazione (l’azione cattolica) in seno alla quale fermenti antifascisti avevano trovato rifugio e protezione; perché il grosso della borghesia e della piccola e minuta borghesia che aveva promosso o accettato il fascismo come un paralume contro i rischi della rivoluzione socialista o comunista (Roma o Mosca), rifluiva in massa nella democrazia cristiana; perché infine a codesta massa dominata da istinti di conservazione e di paura i gruppi cattolici che avevano partecipato alla resistenza e partecipavano alla guerra partigiana di liberazione erano in grado di offrire una direzione politica che aveva le carte in regola e che poteva sedere nei Cln con parità di diritti assieme ai socialisti ed ai comunisti. Malgrado ciò il rapporto di forza tra l’ala moderata antifascista e l’ala operaia e rivoluzionaria sarebbe traboccato in favore nostro, se lo sviluppo stesso della lotta di liberazione non avesse determinato una situazione in cui le cose portavano in primo piano i moderati con una funzione di freno, nei confronti della spinta dal basso e della nostra spinta, che trovava la propria spiegazione, ed in parte la propria giustificazione, nei compiti che stavano di fronte al popolo ed alle sue forze di avanguardia, i socialisti e i comunisti. Il problema in questo senso fu deciso allorquando, nei primi incontri dopo il 25 luglio tra socialisti e comunisti, e soprattutto nella riunione delle due direzioni dell’8 agosto 1944, dopo la liberazione di Roma, si convenne che non si era di fronte ad una lotta rivoluzionaria del proletariato per la conquista del potere, non si era nella fase della lotta di classe in cui l’egemonia del proletariato al potere condiziona la vittoria, ma che il compito storico dei lavoratori era di impegnare ogni energia ed ogni forza per portare a compimento la rivoluzione democratico-parlamentare (o borghese che dir si voglia). In ciò sta la fondamentale differenza tra il primo e il secondo dopoguerra, tra il 1919 e il 1944. Il sovietismo di imitazione e la teorizzazione della violenza che caratterizzarono il massimalismo serratiano e il comunismo bordighiano del 1919 furono una manifestazione di ingenuità politica e di infantilismo rivoluzionario, tanto quanto la posizione presa dai socialisti e dai comunisti nella lotta di liberazione e nella lotta democratica, con l’accordo dell’agosto 1944 per una soluzione democratica e repubblicana della crisi dello stato, fu la prova della maturità politica raggiunta dal movimento operaio.

L’insegnamento in questo senso scaturiva dalle condizione stesse nelle quali il fascismo crollava pezzo a pezzo, sotto l’influenza determinante della disfatta militare e delle armi straniere; con iniziative, quale quella del 25 luglio, attraverso cui la borghesia e la monarchia tentarono di salvarsi; con un moto di liberazione dal sud al nord che, fino all’aprile 1945, impegnò nella lotta contro i tedeschi ed i loro ausiliari fascisti il grosso delle forze operaie e i nuclei più agguerriti dell’antifascismo militante. E ciò portava necessariamente alla ribalta gli uomini del centro, Bonomi prima, De Gasperi poi, sotto il controllo e la spinta permanente delle forze popolari, e con una funzione mediatrice che l’uno e l’altro assolsero fino all’avvento della repubblica, in condizioni di relativo equilibrio tra la sinistra e la destra. De Gasperi entrò nel primo ministero Bonomi come ministro senza portafoglio e rimase nel secondo, durato fino alla liberazione del nord, nell’aprile 1945, come ministro degli esteri. Conservò tale funzione nel ministero Parri per poi assumere il 10 dicembre 1945 la presidenza del consiglio che tenne ininterrottamente fino al 28 giugno 1953, quando il suo ottavo ministero venne rovesciato dal voto della camera eletta il 7 giugno. La storia degli incontri e dei contrasti di De Gasperi col Psi, questi di gran lunga prevalenti su quelli, costituisce un capitolo importante della storia contemporanea del nostro paese. L’incontro fino al due giugno 1946 segnò il momento di ascesa della società e della civiltà italiana fino alla formazione dello stato repubblicano e democratico. De Gasperi ha sempre detto, e fors’anche ha sinceramente creduto, che il motivo del contrasto con noi fosse da ricercare nei nostri rapporti col partito comunista. In verità era contrasto di classe e contrasto ideologico che riguardava il socialismo e il partito socialista come tali; il medesimo contrasto che lo aveva opposto a Cesare Battisti quando di bolscevismo non si parlava; il medesimo contrasto che lo aveva indotto a scrivere dei socialisti austriaci assassinati a Vienna nel febbraio 1934 che essi avevano fatto la giusta fine dei violenti, benché i caduti socialisti di Vienna avessero portato seco, nella tomba, la democrazia, la libertà e l’indipendenza dell’Austria. Tre date caratterizzano e individuano la funzione e la posizione di De Gasperi nelle lotte politiche del trascorso decennio: il 2 giugno 1946, il 18 aprile 1948 e il 7 giugno 1953.

Il 2 giugno De Gasperi si trovò al punto più avanzato della sua carriera politica. Non che fosse repubblicano, ma slegato com’era da ogni vincolo sentimentale o politico con lo stato sabaudo, il suo agnosticismo istituzionale s’era mutato in una garanzia di imparzialità verso l’espressione della volontà popolare, non appena risultarono senza fondamento i timori che aveva nutrito che la repubblica fosse la porta aperta verso quella che chiamava la bolscevizzazione del paese. E non fu impresa da poco conto, nell’anno che va dalla liberazione dell’Italia del nord al referendum del 2 giugno, impedire che di pretesto in pretesto e di rinvio in rinvio la convocazione della costituente fosse ritardata fino a coincidere con la svolta e il capovolgimento che si andavano intanto delineando nelle relazioni internazionali e segnatamente tra l’America e l’Unione Sovietica. Allora si esercitarono su De Gasperi pressioni estere e interne, religiose e di classe, alle quali seppe fermamente resistere. Epperò i limiti moderati della sua politica si erano già manifestati all’indomani del 25 aprile, quando la democrazia cristiana fece fronte con tutta la destra del paese contro la candidatura socialista alla presidenza del consiglio. Tale candidatura, più che da una iniziativa di partito era scaturita per germinazione spontanea dal fervore delle masse, a Milano prima e a Roma poi, ed esprimeva la fiducia, in buona parte ingenua, in un riconoscimento che le era dovuto ma che la classe lavoratrice non deve mai attendere dalla borghesia. Commentando allora i manifesti e le scritte che fiorivano sui muri: “Nenni e Togliatti al potere” io avvertii come non bisognasse farsi delle illusioni, giacché non sono aperte davanti alla classe lavoratrice se non le porte che essa è in grado di sfondare. La contro candidatura di De Gasperi, posta ufficialmente dalla direzione della Dc il 3 giugno, con la proposta di una “mezzadria di governo” dei democristiani coi socialisti (il “regime dei due consoli” disse scherzosamente De Gasperi) sortì il risultato di far sorgere (dalla decisione del Cln del 12 giugno) la candidatura Parri, assai forte e logica sul piano dei valori morali della resistenza, quanto debole su quello politico, il partito d’azione avendo fin da allora manifestato i segni di debolezza che lo portarono rapidamente a sparire.

L’ora di De Gasperi si trovò ritardata, non impedita. Sei mesi più tardi egli accedeva alla presidenza del consiglio e per il fatto che impegnava, con la sua presenza e con la sua responsabilità, le masse cattoliche nella dura lotta per la costituente, si può dire che l’esito della nostra battaglia si trovasse in una qualche misura facilitato. Infatti era segnatamente sul programma che il nostro partito aveva impegnato la lotta subito dopo la liberazione, attorno a quattro capisaldi fondamentali: la costituente subito; un piano organico di ricostruzione nel quale la precedenza fosse accordata alla questione meridionale; la immissione del Cln nell’apparato statale; la fine rapida del controllo alleato. La nostra presenza al governo e la nostra azione nel paese, furono determinati nella vittoria repubblicana del 2 giugno. Ma non passò molto tempo, appena dieci mesi dal referendum e dalle elezioni del 2 giugno, perché la coalizione tripartita si spezzasse per iniziativa di De Gasperi sui due problemi di maggior rilievo dell’epoca: la questione sociale e l’indirizzo della nostra politica estera. Due fatti concorsero potentemente a favorire l’involuzione politica della democrazia cristiana: la scissione socialista e il viaggio di De Gasperi in America, entrambi nel gennaio 1947. La scissione socialista – e quella sindacale – offrirono alla democrazia cristiana, la possibilità (della quale De Gasperi in particolare sentiva bisogno) di disporre di una copertura a sinistra per una politica conservatrice di ispirazione e di contenuto anticomunista fatalmente destinata a sfociare in manifestazioni di aperta reazione anti-operaia e anti-democratica. A Washington De Gasperi scoprì la forza e i mezzi, appoggiandosi ai quali egli sperava di poter debellare rapidamente il comunismo, e all’occorrenza il socialismo, senza darsi prigioniero nelle mani dei fascisti e delle vecchie forze reazionarie agrarie e industriali interne. In altri termini la scissione e il tradimento socialdemocratico, e gli aiuti americani, misero De Gasperi in condizione di operare, nelle migliori condizioni per lui, il rovesciamento di fronte all’interno che gli Stati Uniti stavano attuando sul piano internazionale. Senza la scissione socialdemocratica e senza gli aiuti americani, e il progressivo asservimento dell’Italia alla politica di potenza e di egemonia degli Stati Uniti, non ci sarebbe stato il 18 aprile 1948, e la stessa democrazia cristiana sarebbe stata assai meno arrendevole alle suggestioni effimere dell’anticomunismo.

Senonché coloro che hanno celebrato il 18 aprile come il capolavoro di De Gasperi (e lo stesso on. Fanfani che riferendosi al mio articolo dell’Avanti! “Il limite di De Gasperi” – Avanti!, 22 agosto – accetta l’identificazione di De Gasperi col 18 aprile sia pure per dire che di quel risultato il suo predecessore alla segreteria della Dc seppe non abusare), coloro, dicevo, che hanno celebrato il 18 aprile, come il capolavoro di De Gasperi, sembrano non essersi avveduti che in quella vittoria, e negli atti che la prepararono, c’era in potenza il 7 giugno, c’erano in potenza i motivi di sconfitta, sul piano storico, che hanno tanto amareggiato gli ultimi anni di vita di De Gasperi. L’involuzione cominciò col quarto ministero De Gasperi (maggio 1947), quando in una crisi la quale aveva avuto come terreno di incubazione i quattrodici punti di Morandi (cioè un programma economico-sociale imperniato sugli interessi delle masse popolari), la democrazia cristiana, rompendo coi partiti dei lavoratori, associò al governo, nelle persone dei ministri Einaudi, Grassi e De Vecchi, i rappresentanti del cosiddetto “quarto partito”, il partito dei risparmiatori, si disse, con eufemismo garbato per indicare il partito dei beati possidenti. Già in quella scelta, a cui Saragat concorse in funzione di garofano di un rosso sbiadito sull’abito nero di De Gasperi, era implicito l’immobilismo economico e sociale degli anni successivi, contro il quale non i socialdemocratici ma la sinistra democristiana scese in lotta, fino a rompere il sesto ministero (gennaio 1950) la solidarietà ministeriale, con la pausa aventiniana di Dossetti e di Fanfani e di La Pira. Già in quella scelta erano impliciti i motivi della crociata dell’aprile 1948, con l’appello a tutte le paure, a tutti gli odii, a tutti i risentimenti. Se la scissione socialdemocratica avesse tolto di mezzo il partito socialista, se la scissione sindacale avesse profondamente intaccato la forza e l’iniziativa della Cgil, se gli aiuti americani, nella forma che assunsero e malgrado il prezzo politico che comportarono, fossero stati un toccasana per la nostra economia, la democrazia cristiana poteva illudersi di consolidare i risultati del 18 aprile. Ognuna di queste condizioni venne meno. Il partito socialista non si lasciò abbattere, la scissione sindacale non impedì che l’iniziativa rimanesse alla Cgil, gli aiuti americani evitarono alla borghesia taluni necessari ed utili sacrifici, rinsanguarono i gruppi capitalisti meno legati al progresso democratico del paese, ma non evitarono alle masse la lunga e penosa penitenza del quinquennio trascorso, non per ancora finita. Soprattutto la politica americana di egemonia mondiale non sortì gli effetti di intimidazione che scontava nei confronti specialmente della Cina. Anzi, a cominciare dal 1952, e più apertamente nel 1953, fu nel senso della coalizione capitalista dell’occidente che si manifestarono i maggiori contrasti, mentre l’America era costretta a venire a patti in Asia. La morte della Ced in seguito al voto contrario al trattato dell’assemblea francese (30 agosto), è per ora la conclusione di un processo di riassestamento del mondo, che la volontà dei popoli ha imposto alla risultanza del governo. Il fatto che la crisi della Ced abbia vibrato al vecchio cuore di De Gasperi un colpo mortale, ha in sé qualcosa di patetico, ma anche un profondo significato di ammonimento.

Ammonisce che difficilmente si sfugge alla conseguenza dei propri atti. In questo senso il 7 giugno sta al 18 aprile, come la rivincita sta alla sconfitta. Quando De Gasperi il 16 luglio 1953 presentò il suo ottavo ed ultimo ministero, egli era già sconfitto. Lo aveva sconfitto il voto popolare del 7 giugno, lo sconfiggevano gli avvenimenti in corso nel mondo; lo sconfiggevano l’immobilismo sociale a cui s’era condannato entrando in lotta aperta con le grandi organizzazioni dei lavoratori. Si è detto giustamente che il problema della sua successione non solo alla testa della democrazia cristiana ma soprattutto alla testa del governo, è un problema difficile. Lo era lui vivente. Lo è dopo la sua morte. È un problema che si riassume nella triplice esigenza dell’adeguamento della nostra politica estera alla posizione d’equilibrio propria all’Italia in Europa e nel mondo, della democratizzazione dell’apparato statale e di un nuovo 2 giugno sociale. Certo si è che il raggruppamento delle forze politiche e sociali che concordano su questi obbiettivi appare più urgente che mai dopo la fine di De Gasperi che ha chiuso, col suggello della morte, la politica del 18 aprile.


Pietro Nenni




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Frescobaldi
11-09-17, 13:53
11 settembre 1973


Stasera verso le sei Bettino Craxi mi ha telefonato la notizia del colpo di Stato militare nel Cile. Cinque anni or sono era stato lui ad informarmi all’alba del 21 agosto qui a Crans, dove ero anche allora, dell’invasione sovietica di Praga. Nei due casi si è trattato di una dura sconfitta del socialismo dal volto umano. Allende era da tre anni impegnato nella battaglia del socialismo nella libertà e nella democrazia, fino all’ultimo è rimasto fedele a questo suo impegno. Aveva perduto la battaglia sul piano economico e da alcuni mesi non controllava più neppure la situazione politica. Non era riuscito il compromesso con i militari da lui chiamati al governo. Non era riuscito quello che la Democrazia cristiana, ostacolato dalla destra e contrastato dalla sinistra socialista e dal Mir. Le informazioni tv di questa sera lo danno prigioniero nel palazzo presidenziale della Moneda in fiamme. Netto il suo rifiuto di cedere alla forza. Nello stesso palazzo, tre o quattro giorni or sono, Allende aveva ricevuto l’omaggio entusiasta degli operai di Santiago in occasione del terzo anniversario della sua vittoria elettorale nel 1970. E adesso?


12 settembre 1973


Sulla morte di Allende si susseguono notizie diverse. Suicida nel palazzo presidenziale? Assassinato come un cane, risponde la voce pubblica. Credo per parte mia al suicidio, che mi pare corrispondente al carattere dell’uomo […].


13 settembre 1973


[…] Non ci sono purtroppo dubbi sul successo del golpe anche se si combatte ancora. Il quadrumvirato militare ha promosso la formazione di un governo alla cui testa si trova il generale Pinochet. Ha legami con la Democrazia cristiana, e sulla Democrazia cristiana si punta oggi l’attenzione politica. Le sue responsabilità nel colpo di Stato sono enormi. Negli ultimi mesi ha fatto causa comune con la destra fascista di Patria e Libertà […]. Del resto il leader Dc Edoardo Frei era ormai acquisito all’idea del colpo di Stato. La Dc cilena non esita ad approvare oggi e a giustificare il “putsch” considerandolo “una conseguenza del disastro economico, del caos istituzionale, della violenza armata e della crisi morale ai quali il governo ha condotto il Cile”: una decisione ben grave se si tiene conto che il dialogo e l’intesa con la Dc rimangono una delle condizioni del riscatto della democrazia. Fanfani ha preso una posizione nettamente polemica sul documento della Dc cilena e domani “Il Popolo” farà lo stesso. È una fortuna anche se non è una soluzione.


15 settembre 1973


Si conferma che [in Cile, n.d.c.] la resistenza armata è lungi dall’essere domata, se mai lo sarà. Duri esempi da destra. La repressione militare è spietata […]. Mentre si muore nelle strade, nelle fabbriche, nelle “bidonvilles” dei sobborghi, i borghesi e soprattutto le borghesi dei quartieri eleganti festeggiano il colpo di Stato con tanta e scomposta frenesia che i militari stessi ne sono impressionati. I “momios” non hanno peraltro mai avuto motivi di temere per la loro pelle ma soltanto per il loro denaro. Oggi brindano col sangue. Rischiano di pagarla cara.
Grandi sono ancora nel mondo e da noi le commozioni e la collera. Ma è tempo di trarre la lezione dagli avvenimenti cileni. Abbiamo molto da apprendere.


Pietro Nenni, “Socialista, libertario, giacobino. Diari 1973-1979”, Marsilio, Venezia 2016, pp. 70-71

Frescobaldi
20-09-17, 18:37
20 settembre 1970


Le celebrazioni del centenario di Porta Pia hanno scaldato poco la fantasia e il cuore dei romani. La cerimonia ufficiale è stata fredda e protocollare.
Saragat, che trova spesso l’accento giusto, ha parlato a Montecitorio presenti deputati, senatori, consultori, costituenti, presidenti delle regioni e sindaci delle città decorate da medaglie d’oro, in forma distaccata, come di un evento in sé esaurito. Ha lasciato in ombra il fatto che il 20 settembre per il modo, il come e le conseguenze della fine del potere temporale del papa, confermò l’insuccesso della spinta rivoluzionaria del Risorgimento e la vittoria dei moderati.
Saragat ha esaltato la Costituzione repubblicana, sorvolando sul fatto che è toccato a noi risolvere nel 1946 con l’avvento della Repubblica il problema rimasto aperto un secolo fa della Costituente e del Patto nazionale, vaticinato da Mazzini. Inoltre, egli ha dato per risolta la contesa tra Stato e Chiesa che risolta non è ancora anche se è significativa la presenza a Montecitorio e alla breccia di Porta Pia del vicario di Roma cardinale Dell’Acqua. Si può anzi dire che lo zucchetto rosso del cardinale al centro delle maggiori autorità fosse la sola novità della cerimonia, il segno che cattolici e laici possono ormai celebrare insieme il ritorno di Roma all’Italia. Ma ognuno col suo linguaggio: lo Stato il suo, la Chiesa il suo.
La sola nota di vivacità è stata data dalle piume dei bersaglieri, convenuti a Roma da tutta Italia. Come sempre le celebrazioni ufficiali rispettano la forma e umiliano lo spirito dei grandi avvenimenti.
Giornata calma a Reggio Calabria dove si sono svolti i funerali del tranviere ucciso tre giorni or sono. Tregua o fine della protesta?
Giornata confusa di combattimenti e di tentativi di tregua un Merio Oriente.
A Genova uno studente greco, Costantino Georgakis, che credo di aver conosciuto un paio di anni or sono, si è bruciato vivo come il cecoslovacco Jan Palach, per protesta contro la dittatura dei colonnelli. Ha lasciato una lettera al padre dove spiega il suo gesto suicida: “Viva la democrazia, abbasso i tiranni”, scrive ed esprime l’augurio che tutti si interessino al problema greco.
Nessun sacrificio è inutile, ma il mondo non ha fretta. Non gli rifiuterà un pensiero accorato per poi volgersi ad altre cose, di preferenza più frivole.


Pietro Nenni – “I conti con la storia. Diari 1967-1971”, SugarCo, Milano 1983, pp. 511-512.

Frescobaldi
12-10-17, 10:40
“… il raffronto tra la legge Acerbo e le condizioni in cui fu votata nel 1923 e la vostra legge e le condizioni in cui sta per essere votata è sulle labbra di tutti. Potremmo dirvi: ‘Buon appetito, signori, e arrivederci’. Non lo diciamo. Con il nostro atteggiamento nell’imminente voto di fiducia, intendiamo richiamarvi alla nozione esatta della situazione ed a una valutazione non esagerata dell’idea che vi fate dei vostri mezzi. Nelle condizioni create dagli arbitrii governativi e della maggioranza, di fronte all’incostituzionalità della procedura ed alle clamorose violazioni del regolamento e della prassi parlamentare, il modo più eloquente che ha la sinistra per separare le proprie responsabilità da quelle del Governo e della maggioranza, è di non partecipare alla votazione al fine di meglio sottolinearne la illegalità. Perciò l’opposizione ha deciso di non partecipare alle votazioni. Essa confida nel Senato della Repubblica perché le prerogative parlamentari umiliate in questo ramo del Parlamento siano ristabilite nella loro integrità; essa si riserva di informare il Presidente della Repubblica della situazione che si è creata alla Camera; essa fa appello al popolo perché dia di nuovo alla Repubblica e alla democrazia il suo vero volto, il volto della Resistenza”.


Pietro Nenni – Camera dei Deputati, 18 gennaio 1953.

Frescobaldi
09-11-17, 22:23
La corrente pura e la sporca schiuma (1956)


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“Avanti!”, 28 ottobre 1956




[L’insurrezione ungherese nel 1956 viene soffocata nel sangue dei carri armati russi. È la prova che tutti i mali del comunismo non possono essere fatti risalire a Stalin e che, malgrado il rapporto Krusciov al XX Congresso del PCUS, l’errore del monolitismo Partito-Stato, della dittatura del Partito sulla Società continua. Nenni commenta l’invasione russa in Ungheria in un articolo sull’ “Avanti!” dal titolo “La corrente pura e la sporca schiuma” pubblicato il 28 ottobre.]

Il movimento operaio non aveva vissuto mai una tragedia paragonabile a quella ungherese, a quella che in forme diverse cova in tutti i paesi dell’Europa orientale, anche con silenzi i quali non sono meno angosciosi delle esplosioni della collera popolare.
La Comune parigina era caduta sotto l’assalto delle truppe versagliesi. La Comune ungherese del 1919 sotto i colpi di soldataglie straniere. La repubblica spagnola sotto l’intervento congiunto di eserciti fascisti e nazisti. Centinaia di morti, migliaia di feriti versano in Ungheria il loro sangue in un combattimento fratricida, in cui la linea divisoria non passa tra partigiani e nemici del socialismo, ma ha trovato da una parte operai e studenti, i quali volevano sul serio la liberalizzazione e la democratizzazione degli istituti politici e della vita pubblica (e la purezza delle cui intenzioni non può essere offuscata dalla schiuma fascista che certamente s’è mescolata alla limpida corrente delle rivendicazioni popolari) e dall’altra un vecchio gruppo dirigente comunista che ai suoi errori di direzione politica, ai suoi crimini, ha aggiunto l’appello insensato alle truppe sovietiche.
Il coraggio dei nuovi dirigenti polacchi e ungheresi, il coraggio dei nuovi dirigenti che i vicini paesi dell’Europa orientale non possono tardare un minuto a darsi, ha da essere prima di tutto quello della verità.
Quando Gomulka ha voluto dare una spiegazione delle sollevazione di Poznan non si è riferito alla sobillazione degli agenti imperialisti, che pure ci sono, ma alle menzogne con le quali si era parlato ai lavoratori.
Quando ha affermato che dopo il XX Congresso di Mosca “la gente in Polonia ha cominciato a raddrizzare la schiena, i cervelli, silenziosamente ridotti in schiavitù, hanno incominciato ad espellere il veleno delle menzogna” ha detto del ventesimo congresso quanto di meglio si possa dire. Ma ha anche sottinteso, io credo, ciò che di insensato c’è stato nel tentativo di considerare la denuncia dello stalinismo un fatto a se stante, mentre essa poteva riuscire pienamente efficace solo se accompagnata ad una profonda revisione del sistema.
Non era difficile prevedere (e fu da noi previsto) che più ancora che a Mosca, era a Varsavia, a Budapest, a Praga, a Bucarest, a Sofia, a Berlino Est che la caduta del mito di Stalin imponeva la revisione delle degenerazioni del peggiore stalinismo; uno stalinismo di importazione, senza radici nazionali o sociali, senza la spiegazione (non oso più dire la giustificazione) dell’assedio imperialista e della guerra. Orbene è proprio in questi paesi scossi, oggi, dalla indignazione o dalla rivolta popolare, che i vecchi gruppi dirigenti hanno dato l’impressione di non avvertire né la gravità della situazione, né la natura della spinta dal basso, né la necessità di prevenire per non reprimere.
La Polonia, aveva per così dire, anticipato il XX Congresso, fino dal 1947, allorché Gomulka e Cyrankiewicz parlavano di “via polacca del socialismo”, intendendo una via diversa da quella sovietica, improntata alle caratteristiche nazionali e sociali del loro paese. L’Ungheria aveva nel 1953, subito dopo la morte di Stalin, preceduto anch’essa il XX Congresso, col programma del ministero Nagy, improntato alla esigenza del ristabilimento di una vera democrazia socialista. Ma Gomulka era caduto in disgrazia e Nagy pure; il gruppo dirigente staliniano in Polonia aveva alla svelta liquidato la via polacca del socialismo; Rakosi a Budapest aveva con eguale facilità e con mezzi identici liquidato Nagy e il suo governo. Anche quando nel luglio scorso, Rakosi veniva costretto a prendere la via di Mosca per un viaggio che era un esilio, anche allora non si avvertì come le condizioni di una nuova vita imponessero non soltanto il ricambio degli uomini, ma quello del sistema, dei metodi, del costume.
Il prezzo pagato a codesti errori è tale da fare inorridire. Non è tale da distruggere la fiducia che la nuova corrente operaia e popolare riesca a superare il solco degli errori e del sangue.
Quanto di meglio noi possiamo fare per i lavoratori ungheresi è aiutarli a risolvere i problemi da essi posti a base del rinnovamento della vita pubblica nel loro e negli altri paesi dell’Europa orientale. Aiutarli a spezzare gli schemi della dittatura in forme autentiche di democrazia e di libertà. Aiutarli a dare all’economia socializzata e pianificata lo scopo di liberare l’uomo dalla schiavitù del bisogno. Aiutarli a risolvere i loro rapporti con l’Unione Sovietica in termini di autonomia e di indipendenza nazionale. Aiutarli a soddisfare la richiesta del ritiro delle truppe sovietiche che ha per sé in Ungheria il tragico suggello del sangue ed in Polonia quella della volontà popolare.
Associandoci a questa richiesta i socialisti italiani non pongono in discussione il diritto delle rivoluzioni a difendersi, ma il principio che la difesa di una rivoluziona proletaria o è affidata ai petti e alle armi dei lavoratori o diviene impossibile.
Si tratta per noi di confermare quarant’anni di battaglie contro la minaccia dell’intervento straniero in Unione Sovietica prima, in Cina poi; di confermare il principio che abbiamo con tanto accanimento difeso contro l’intervento inglese in Grecia, contro la dottrina di Truman, contro il tentativo di interpretare il patto atlantico come una garanzia nei confronti dei rischi di rivoluzione interna.
Giù quindi le armi!
Giù le armi della ribellione. Giù le armi della repressione. Giù le armi dell’intervento straniero.
A questo prezzo c’è tempo ancora, malgrado tutto, per ricomporre in unità le forze che non vogliono né la perpetuazione dei recenti errori ed abusi, né il ritorno a un passato irrevocabilmente condannato.

Pietro Nenni



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Frescobaldi
10-11-17, 20:27
​Lettera ai compagni (1965)


[Nel 1963 Aldo Moro forma il primo Governo organico di centro sinistra. Nei mesi precedenti, il PSI ha subito la scissione del PSIUP: la formazione del nuovo Partito socialista crea nuove polemiche. In preparazione del XXXVI Congresso del PSI, convocato a Roma nel novembre 1965, Nenni scrive una “lettera ai compagni” nella quale si sofferma sul problema della unificazione socialista e sulla piaga delle scissioni.]

C’è nel fondo della coscienza di ognuno di noi un quesito, anzi un affanno, che attende risposta. Cosa sarebbe stato nel primo dopoguerra il partito senza le scissioni, quella di Livorno e quella più innaturale ancora del 1922, alla vigilia della marcia fascista su Roma, tra socialisti e socialdemocratici? Cosa sarebbe il partito, oggi, senza la scissione di palazzo Barberini che ci privò del vantaggio politico e morale conseguito con la vittoria elettorale del 2 giugno 1946, quando il consenso popolare fece di noi il più forte partito politico?
Quanto diversa sarebbe stata la nostra incidenza sulla società italiana senza l’orgia delle scissioni; quanto più consistente la nostra forza, quanto più incisiva la nostra azione, di quanto maggiore il nostro peso politico?
Quanti socialisti disgustati dalle scissioni hanno abbandonato ogni organizzazione? Quanti giovani si sentono respinti dalla pluralità dei partiti che si richiamano al socialismo? Quanti elettori scuotono il capo dubbiosi di fronte alla molteplicità dei simboli socialisti, tra i quali si rifiutano di scegliere?
Il problema della unificazione socialista nasce dalla esigenza di dare una risposta a questi quesiti. È assurdo sostenere che il problema non esiste. È un errore dare per realizzate tutte le condizioni per risolverlo. Che al centro della unificazione ci sia il problema della ricostituzione della unità tra le forze che si divisero nel 1947 è ovvio. Ma sbaglierebbe chi facesse dell’unificazione una faccenda privata tra socialisti e socialdemocratici, da risolvere con un protocollo tra le due segreterie e le due direzioni. Le forze interessate all’unificazione travalicano di gran lunga i confini dei due partiti.
Sono interessati all’unificazione i molti, i troppi compagni che si sono estraniati dalle organizzazioni. Sono interessati alla unificazione quei vasti gruppi di lavoratori della industria di stato, di quella privata, della agricoltura che cercano un punto di appoggio dentro l’officina, l’azienda, l’ufficio, nelle campagne per portare avanti le rivendicazioni inerenti alla loro partecipazione diretta al processo produttivo. Sono interessati alla unificazione quei gruppi di intellettuali, di specialisti, di tecnici che ci hanno offerto il loro concorso nell’elaborazione della politica della programmazione. Sono interessati alla unificazione, se non il PSIUP in quanto tale (setta senza spazio e senza prospettive), quei compagni che seguirono la secessione per solidarietà di frazione e di gruppo e per irritazione più che per convinzione.
Vi sono interessati quei democratici laici che vogliono uno stato repubblicano moderno libero da ogni egemonia politica, economica, confessionale. Sono interessati quanti tra i cattolici militanti ubbidiscono al richiamo egualitario dell’evangelismo cristiano e la cui adesione al movimento socialista si urta ormai soltanto alla garanzia che hanno diritto di reclamare circa la libertà ed il rispetto della religione e l’indipendenza della Chiesa.
Sono interessati alla unificazione molti lavoratori che si sono trovati comunisti o elettori comunisti per il canale della grande e gloriosa Resistenza, senza essere né leninisti né stalinisti, molti giovani che hanno ubbidito al richiamo della efficienza comunista ma avvertono da qualche tempo in qua come, malgrado il vigore della organizzazione e delle lotte, il comunismo, dottrina, metodologia e prassi, sia di una sempre più difficile assimilazione nei paesi i quali hanno alle spalle una lunga tradizione di vita civile, ed avvertono come soluzioni politiche tipo democrazie popolari non siano né accettabili né possibili per il nostro paese.
Consapevoli di questo stato psicologico e politico di molti comunisti di base, i dirigenti comunisti parlano di unificazione e di partito unico, e molti lo fanno con innegabile passione unitaria e con la sincerità di un travaglio drammaticamente vissuto. Ma il PCI in quanto tale non va e non può andare oltre l’unità d’azione. Ci sono, per esso, due colonne d’Ercole insuperabili: il monopolio ideologico e politico del partito e la sua egemonia sull’uomo, sullo stato, sulla società; la identificazione con il blocco mondiale comunista oggi scosso da una scissione rispetto alla quale il memoriale togliattiano di Yalta, che pure rappresenta uno dei documenti più avanzati della autocritica comunista, non è andato al di là dell’appello alla unità nella diversità. Si tratta di ben altro, si tratta di un contrasto di fondo che ha le sue cause nello sciovinismo di stato e di potenza più che nelle divergenze sulla ideologia, interpretata dai russi in senso moderato e dai cinesi in sensi esplosivo nella più fedele ortodossia leninista e stalinista.
Qualcosa evidentemente si muove tra i comunisti, i nostri e quelli dell’Europa centro-orientale. Il revisionismo batte alle loro porte. Ed è vero che le porte si sono sprangate in fretta e che il revisionismo venne considerato, dalla conferenza degli 81 partiti comunisti, il nemico principale. Ma come sostiene François Fejto si tratta di un morto che si vendica dei vivi, imponendo loro l’attualità della sua logica. In tali condizioni l’unificazione socialista può essere per i comunisti un richiamo ed uno stimolo ad andare più avanti nella critica e nella revisione dei dogmi propri di un’epoca ormai superata.
L’unificazione è quindi un vasto problema che non sta nei limiti di un contratto del PSI e del PSDI anche se lo presuppone. Lo attesta la costituzione di comitati per l’unificazione a Milano, a Genova, a Piacenza, a Bologna, in altre città, per opera prevalente di compagni che sono fuori dei due partiti. Lo attestano il moltiplicarsi di iniziative e di dibattiti sul tema dell’unità.
[…]
Non si può dire che l’unificazione sia cosa fatta perché socialisti e socialdemocratici siano al governo insieme, come non sarebbe cosa fatta se insieme fossimo o passassimo all’opposizione. C’è stato un nostro apporto di pensiero, di metodo, di prassi alla unificazione. Ci deve essere un apporto di pensiero, di metodo, di prassi della socialdemocrazia, nel senso attuale del monito sempre e più che mai attuale che Antonio Labriola rivolgeva ai socialisti, fino dall’inizio del secolo, e che, cioè, mentre essi rifuggivano dal “perdersi nei vani tentativi di una romantica riproduzione del rivoluzionarismo tradizionale”, dovevano guardarsi, nello stesso tempo, “da quei modi di adattamento e di acquiescenza, che, per le vie delle transazioni, li farebbero come sparire nell’elastico meccanismo del mondo borghese”.
L’indicazione valida per l’unificazione rimane quindi quello dell’inizio di un periodo di azione comune, e di comuni assunzioni di responsabilità, a livello delle sezioni, delle federazioni, delle direzioni di partito, dei gruppi parlamentari; rimane quella di un’azione di base assieme a tutte le forze disponibili per l’unificazione e che sono numerose e di diversa origine; rimane quella di convegni di studio aperti a tutti i socialisti sui problemi della democrazia e del socialismo, dello stato e della società.
Allora una Costituente socialista, la quale tiri le somme di un vasto lavoro di approfondimento dei valori e degli obbiettivi del socialismo, diverrebbe un fatto di popolo e di massa da cui l’azione socialista interna ed internazionale trarrebbe nuovo ed incisivo vigore.


Pietro Nenni

Frescobaldi
08-01-18, 20:19
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Una nuova politica. Ecco ciò che occorre


“Avanti!”, 30 marzo 1952


L’on. Gonella non ha continuato la discussione con noi che aveva aperto con molta baldanza. Egli è ora molto occupato con gli “intrallazzi” elettorali. Non nega tuttavia, che fosse discussione assai interessante. “La riprenderemo fra poco” mi ha detto l’altro giorno. Si tratta di vedere in quali condizioni.
Nulla infatti può sorprendere con un partito il quale apre la campagna elettorale con le seguenti insensate parole: “Il socialcomunismo mira alla loro conquista (dei Comuni) con il proposito di servirsene per soffocare le libertà democratiche e tradire gli interessi nazionali”. Non c’è da arrabbiarsi, ma solo da scansare col piede simili sozzure. E c’è da notare come nel manifesto d.c. non ci sia una parola contro il M.S.I. né contro il P.N.M.
È entrato invece nella discussione Ugo La Malfa, e l’articolo da lui pubblicato [ “Candore di Nenni?” https://www.facebook.com/notes/ugo-la-malfa/candore-di-nenni-/220743741414625/] è lo specchio del disorientamento dei cosiddetti gruppi di terza forza.
Prima di tutto La Malfa confessa il fallimento della politica alla quale ha partecipato. Secondo lui non vi sarebbe alcun pericolo che la sinistra conquisti la maggioranza assoluta, mentre vi è “grande probabilità” che tale maggioranza sia conquistata dalla destra. La Malfa non è il solo, nella “équipe” ministeriale a veder nero. E credo che, dopo tutto, si sbagli, o abbia ragione soltanto nella misura in cui conviene con noi, che, il pericolo di destra non è esterno ma interno alla Democrazia cristiana, non si chiama soltanto, e soprattutto, neo-fascismo o monarchismo, ma, in riferimento al Sud, si chiama sanfedismo agrario.
Senonché da quanto tempo andiamo dicendo che né si fanno avanzare né si difendono le istituzioni democratiche e repubblicane del 2 giugno, se si amputano la maggior parte delle forze che ad esso dettero vita?
Invece di giostrare con le idee e le parole, prenda l’amico La Malfa un lapis e faccia una piccola operazione aritmetica. La Repubblica è sorta col libero voto di dodici milioni di cittadini, che secondo la provenienza politica si possono scomporre così: quattro milioni e mezzo di socialisti (che malgrado le scissioni noi ritroveremo nelle elezioni del ’53), quattro milioni e mezzo di comunisti, due milioni di democristiani, un milione di repubblicani.
Quale meraviglia che tutto sbandi a destra, allorché a salvaguardia delle istituzioni repubblicane si vogliono respingere nove dei dodici milioni di cittadini che vollero la Repubblica?
Senonché, secondo La Malfa, la responsabilità sarebbe nostra, specialmente di noi socialisti, che avremmo giocato al tanto peggio tanto meglio.
Chi, e dove, e quando?
Abbiamo forse giocato al peggio nel 1945-46 dando alle forze popolari l’obbiettivo della Costituente e della Repubblica da conseguirsi attraverso libere elezioni?
Abbiamo forse giocato al peggio nel 1947, quando abbiamo fatto causa comune coi compagni comunisti di cui De Gasperi decise l’allontanamento dal governo perché tale era la volontà dell’America e dei circoli reazionari interni, senza neppure preoccuparsi (come per esempio avrebbe fatto Giolitti) di creare una situazione politica che spiegasse e giustificasse la sua iniziativa?
E a cosa abbiamo ubbidito, promuovendo nel ’48 il Fronte popolare, se non alla tradizione bloccarda della democrazia italiana, da Cavallotti a Chiesa e Turati, e alla esperienza spagnola (del 1931 e del 1936) e francese (del 1934 e del 1936)?
E neppure abbiamo giocato al peggio nelle due fondamentali battaglie condotte nei confronti della paludosa maggioranza del 18 aprile. Nella prima di queste battaglie condotta contro le alleanze militari, condotta in perfetta coerenza con la tradizione e il pensiero socialisti di tutti i tempi, siamo stati indotti a negare l’esistenza di un pericolo di aggressione sovietica incorrendo nell’accusa di essere agenti della Russia, come Turati era stato definito agente del Kaiser e Andrea Costa agente del Negus; ma passa il tempo, e un bel giorno il borghese ambrosiano apre il “Corriere della Sera” e legge un articolo su “La guerra che non si farà e quella che si sta facendo” dal quale apprende che egli, il povero borghese ambrosiano, è un imbecille se crede alla “Blitz Krieg” sovietica in Europa: che tale guerra non ci sarà, ma c’è la guerra dei coreani, dei malesi, dei birmani, degli indocinesi, degli egiziani, dei persiani, dei tunisini, tutte diavolerie sovietiche, di fronte alle quali, però, il borghese ambrosiano o romano avrebbe voglia di dire: “e a me chi me lo fa fare di svenarmi con le tasse, e domani di espormi alle bombe, solo perché in Asia e in Africa le faccende dell’imperialismo vanno male?”.
E neppure abbiamo condotto la lotta contro l’alleanza atlantica con fanatica intransigenza, ma consigliandone una interpretazione italiana, conforme alle lezioni della nostra storia, ai nostri problemi, in primo luogo di quello di Trieste, alle nostre possibilità.
L’altra battaglia, quella in difesa della Costituzione, l’abbiamo impostata su una rigida interpretazione dei doveri e dei diritti dei cittadini, negando l’esistenza di un sovversivismo comunista volto alla distruzione dell’ordinamento costituzionale, e sottolineando la presenza, invece, di un sovversivismo controrivoluzionario di destra. E tutti ci hanno dato torto, De Gasperi e Saragat e anche La Malfa. E oggi La Malfa se ne viene, bel bello, a dire, che l’estrema destra potrebbe anche vincere le elezioni del 1953!
E contro questo pericolo che cosa propone? Non una politica, ma un volgare espediente elettorale che snaturi la proporzionale, con gli apparentamenti e i premi di maggioranza, quasi che si potesse fermare il moto della storia e degli uomini con delle truffe elettorali.
La verità è che con quella richiesta, noi abbiamo posto il problema di fondo della distensione, nella quale crediamo e alla quale siamo pronti a concorrere. Crediamo cioè che ci sono delle intransigenze che possono attenuarsi, delle agitazioni che possono assumere forme più calme, degli scioperi che possono essere evitati, ma a condizione di seguire una nuova politica, la quale non persista nell’errore di respingere le masse popolari e la loro avanguardia operaia, in nome di viete e assurde pregiudiziali e pregiudizi.
Se no la prospettiva che sta di fronte al Paese, se non quello di un rinnovato ottobre 1922, è però quella di un rinnovato e aggravato 1898.
Le terze… debolezze dovrebbero temerne anche più di noi.


Pietro Nenni



La risposta di Ugo La Malfa: "Una nuova politica non semplici frasi" - "La Voce Repubblicana", 2 aprile 1952 https://www.facebook.com/notes/ugo-la-malfa/una-nuova-politica-non-semplici-frasi-1952/940105842811741/