Frescobaldi
19-02-16, 00:44
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di Giovanni Spadolini - “La Voce Repubblicana”, 13-14 dicembre 1983
Harvard, 31 dicembre 1943. Gaetano Salvemini scrive una lunga, amara lettera ad Amelia Rosselli, che ha trovato come lui rifugio in esilio negli Stati Uniti, ma dopo l’assassinio dei figli Carlo e Nello, di poco precedente l’aberrazione delle leggi razziali: là in una vecchia casetta di stile “americano”, al numero 9 di Clark Court a Larchmont.
L’anno che si chiude ha visto la caduta di Mussolini, la svolta che Salvemini ha atteso e invocato per un ventennio. Eppure il grande storico non ha accolto, nel luglio, la notizia del “colpo di stato” della monarchia, che ha abbattuto il “duce”, con particolare gioia o entusiasmo: due sentimenti che – dopo la tragedia del terremoto di Messina – gli erano rimasti sconosciuti. “Gioire per la caduta di Mussolini? – si è chiesto il 28 luglio, confidandosi con Amelia – Mi è impossibile, quando penso che migliaia di donne, bambini, vecchi, uomini innocenti, dovevano essere ridotti in poltiglia dai bombardamenti aerei perché questo uomo sparisse”.
Ma se il passato, specchio e immagine della sua stessa vita, lo rattrista, è il futuro del “povero paese” che è l’Italia a preoccuparlo, quasi ad angosciarlo. Intanto l’unità che esisteva una volta nel mondo antifascista (“quando non c’era speranza di salvezza per nessuno”) si è rapidamente dissolta. Si leva potente una “destra” nel paese, pronta ad accettare tutto quello che viene da inglesi e americani, è soprattutto in America che si decidono i destini dell’Italia, è soprattutto a Roosevelt che spetta “l’ultima parola”. E qui il pessimismo di Salvemini si accentua: “se qualcosa si potrà ottenere… bisognerà strapparlo a Roosevelt… ma è come assalire una parete dell’Himalaya con uno stuzzicadenti”.
La lettera indirizzata da Salvemini ad Amelia, tratta dall’intenso carteggio, appare oggi nelle pagine del libro che Aldo Rosselli, il figlio di Nello, ha dedicato a La famiglia Rosselli – una tragedia italiana (Bompiani). Non è un libro di storia, e non pretende di esserlo. È il libro di uno scrittore indipendente e con una vena di malinconia mai elegiaca; è un libro di trasfigurazione autobiografica di un storia vera, che coincide per tanta parte con la storia della moderna coscienza italiana.
Aldo Rosselli aveva tre anni quando il padre Nello, lo storico di Mazzini e Bakunin, lo storico di Carlo Pisacane e di Giuseppe Montanelli, fu assassinato a Bagnoles-de-l’Orne, dalla “Cagoule” fascista di Francia, armata e ispirata dal governo Mussolini (“la tenebrosa e perversa ‘Cagoule’”, ricorda il presidente Pertini nella commossa prefazione). Nello viveva a Firenze, in una villa dove si rifletteva il decoro di una della grandi famiglie di quella borghesia ebraica toscana, con ascendenze livornesi o pisane, che coincideva con una delle più civili aristocrazie del post-risorgimento. Era un antifascista domestico, militante nella severità del suo impegno di storico, quanto Carlo, il fratello maggiore di un anno, (l’uno nato nel 1900, l’altro nel 1899), era antifascista leader dell’emigrazione politica, combattente in Francia e in Spagna secondo il tracciato del fuoriuscitismo risorgimentale.
A tre anni l’assassinio del padre; a quattro l’esilio. La donna, appunto Amelia, con le nuore, con i figli di Carlo e di Nello, riparata negli Stati Uniti d’America, ricongiunta agli amici del fondatore e realizzatore di “Giustizia e Libertà”: quell’america degli Sforza, dei Tarchiani, dei Max Ascoli, dei Lionello Venturi, dei Salvemini, della “Mazzini Society” (e non a caso Amelia Rosselli, figlia di un ministro della Repubblica di Daniele Manin nella Venezia del 1849, discendeva dal nucleo familiare intimamente intrecciato alla “storia sacra” del mazzinianesimo per l’ospitalità accordata al morente profeta dell’unità, sotto nome inglese, sullo sfondo dei lungarni di Pisa).
Un’adolescenza difficile, con quel richiamo costante al “padre” e allo “zio” assassinati. Un’educazione di tipo rigido tradizionale, pur nell’apertura politica ad una democrazia moderna con una nonna, Amelia, che era il centro di tutto, nella casa di Larchmont non meno che in quella fiorentina dove la liberazione consentirà ad Aldo, undicenne, di tornare, frequentatore poi del liceo, come il babbo, sulle rive dell’Arno. E tutta questa esperienza vissuta sul filo della memoria: una memoria più favolosa che storica, ma con l’uso – singolare innesto che si presterà a discussioni e anche a dissensi – di documenti autentici, di inediti effettivi, di frammenti di epistolari di casa. Utili solo allo scrittore per rievocare quel mondo, quell’umanità, quella civiltà tutta fondata su saldi valori nazionali e su un’etica familiare che potremmo definire, coi costumi di oggi, implacabile.
L’intransigente battaglia antifascista
Il maggiore dei figli di Amelia, Aldo, era morto nel 1916 in guerra. Una famiglia, come quasi tutte le famiglie israelite di accesi sentimenti patriottici, con qualche vibrazione nazionalista: ma riscattata dalla superiore religione della tolleranza e dell’umanità. Un confine, quella fra patriottismo e fascismo, fissato subito, e senza equivoci, da quella prodigiosa nonna, che è al centro di questo volume.
La vena di Aldo Rosselli non è mai agiografica. Non c’è mai, nella sua pagina, superbia (il cugino di Carlo e di Nello, Alberto Moravia, che ha scritto la prefazione, è arrivato a dissacrare addirittura, a forza di rifiutare la superbia, la tradizione liberal-democratica della borghesia risorgimentale, chiamandola tutta “nazionalista”: perdoniamo al grande scrittore ed amico, daremmo zero allo storico). Quel mondo è rivissuto con pudore, con discrezione come un mondo irrisolto.
Ma era, il mondo di Amelia Rosselli, un mondo di certezze: quelle evocate nelle pagine di Stefan Zweig o di Thomas Mann. Dalla mia biblioteca di Pian dei Giullari, leggendo questo libro, mi è venuta voglia di tirar fuori un libricino minuscolo, quasi un breviario, in tutto 120 pagine, edito da Bemporad a Firenze nel novembre 1920. Si intitola Fratelli minori. Autrice: Amelia Rosselli, appunto. E il titolo spiega tutto: “Fratelli Minori”, Carlo e Nello sopravvissuti ad Aldo caduto al fronte.
È un libretto di pensieri, di appunti, di capitoletti agili o veloci, pagine già intrise di ombre e di fantasmi, già percorse da oscuri presagi. Si pensi alla fiaba della nonna, che affonda le radici nel tempo, risale alle grandi battaglie risorgimentali, per l’unità nazionale. Una fiaba che la nonna racconta malvolentieri: “sbatte l’aria l’ala del primo sogno per l’unità d’Italia. Fremono prime aspirazioni che sembrano follie, persecuzioni, inquisizioni, aspirazioni, ombra, silenzio. Il sogno che quell’ombra si tramanda ad altra generazione, come una fiaccola accesa. Mani tese nell’ombra ad afferrarla, giovani che si fanno vestali di quel fuoco… ma le anime piccoline se ne nutriscono”.
Quelle “anime piccoline” erano allora Nello e Carlo; più tardi sarebbero stati figli dei figli, e poi… Nella continuità maestosa delle generazioni. “Anime piccoline”, ma di una grande famiglia.
“Credo che raramente coraggio e intelligenza – ha scritto Pertini nella premessa al libro -, amor di patria, culto delle tradizioni civiche e fede nell’avvenire democratico si accomunarono in egual misura come nelle personalità dei fratelli Rosselli”. Un’eccezionale vicenda familiare anche nello stile, anche nella discrezione.
Una borghesia agiata che conosce tutte le regole del risparmio, la necessità morale e materiale di fare economie, di non dissipare il più piccolo capitale accumulato con l’operoso e intelligente lavoro. Ho in mente le lettere di Salvemini, a Amelia e Nello (ripenso all’Epistolario familiare introdotto da Valiani e curato da Ciuffoletti), allorché indignato propone addirittura di “interdire” Carlo, che sta dissipando tutti i suoi risparmi e averi nella “causa”, cioè nelle iniziative di lotta al fascismo, senza pensare “né ai figli né alla famiglia”. E Aldo registra il dialogo fra Carlo e Nello, in quel tragico giugno 1937: “Tra pochi anni sarò infatti completamente spiantato. I miei figli faranno i garzoni di bottega e Marion…”: la battuta di Carlo sulla moglie tende solo a sdrammatizzare quella realtà che Salvemini andava denunciando. Borghesia umanistica, quella della famiglia Rosselli, che ama le lettere, la musica, l’arte, il teatro, ma non priva di attitudini e di vibrazioni imprenditoriali. Amelia stessa, nel dilagare degli scioperi all’indomani della prima guerra mondiale, scrive a Carlo: “Vorrei essere alla testa di una qualsiasi industria per iniziare subito gli operai a una cointeressenza nei guadagni. Più ci penso, e meno capisco perché non ci debba essere una mezzadria nelle industrie, come in agricoltura”. Paternalismo, certo, spinto ai limiti dell’utopia, in quel particolare momento storico: ma interiore coscienza di un dramma, quello sociale, che scuoteva l’intera classe dirigente, che avrebbero preparato le lacerazioni e i varchi in cui si sarebbe inserita la violenza fascista.
Un errore che la famiglia Rosselli non commette, animata com’è dallo spirito delle minoranze sinceramente “liberali”. Liberali o meglio liberal-democratiche: al di fuori di ogni residuo oligarchico, censitario, elitario. Coscienza autentica della democrazia liberale, che consente ai Rosselli di comprendere da sempre, senza ombre e tentennamenti, la natura totalitaria, dittatoriale, soffocatrice di libertà del fascismo.
Il volume di Aldo, che andrebbe integrato dalla rilettura dell’Epistolario familiare, con le lettere di Carlo, Nello e la madre, apparso nel 1979 a cura di Zeffiro Ciuffoletti e con introduzione di Leo Valiani, si sviluppa attraverso quattro scene diverse. La prima, “Una corrispondenza d’amore”, ci porta agli anni lontani fra 1890 e 1892, all’incontro e al fidanzamento fra Amelia Pincherle e Joe Rosselli; la seconda ci sbalza in modo repentino, con un salto di oltre quarant’anni, a “Gli ultimi anni di Nello”, 1936-37: esule in patria, condannato – come scrive il figlio – “ad apparire sereno”.
Con la terza parte lo scenario si sposta ancora in avanti, la tragedia è già consumata fino in fondo, o quasi: sono gli anni dell’ “esilio”, dal ’37 al rientro in Italia, nel ’46, dopo una peregrinazione quasi decennale dalla Svizzera all’Inghilterra, agli Stati Uniti.
“Un binocolo rovesciato (1945)” è il titolo della parte conclusiva: un balzo indietro nel tempo, un ritorno alla prima infanzia, un “sogno ad occhi aperti”, animato e popolato da figure scomparse. Ma quante volte la storia non è “un sogno ad occhi aperti”?
Giovanni Spadolini
di Giovanni Spadolini - “La Voce Repubblicana”, 13-14 dicembre 1983
Harvard, 31 dicembre 1943. Gaetano Salvemini scrive una lunga, amara lettera ad Amelia Rosselli, che ha trovato come lui rifugio in esilio negli Stati Uniti, ma dopo l’assassinio dei figli Carlo e Nello, di poco precedente l’aberrazione delle leggi razziali: là in una vecchia casetta di stile “americano”, al numero 9 di Clark Court a Larchmont.
L’anno che si chiude ha visto la caduta di Mussolini, la svolta che Salvemini ha atteso e invocato per un ventennio. Eppure il grande storico non ha accolto, nel luglio, la notizia del “colpo di stato” della monarchia, che ha abbattuto il “duce”, con particolare gioia o entusiasmo: due sentimenti che – dopo la tragedia del terremoto di Messina – gli erano rimasti sconosciuti. “Gioire per la caduta di Mussolini? – si è chiesto il 28 luglio, confidandosi con Amelia – Mi è impossibile, quando penso che migliaia di donne, bambini, vecchi, uomini innocenti, dovevano essere ridotti in poltiglia dai bombardamenti aerei perché questo uomo sparisse”.
Ma se il passato, specchio e immagine della sua stessa vita, lo rattrista, è il futuro del “povero paese” che è l’Italia a preoccuparlo, quasi ad angosciarlo. Intanto l’unità che esisteva una volta nel mondo antifascista (“quando non c’era speranza di salvezza per nessuno”) si è rapidamente dissolta. Si leva potente una “destra” nel paese, pronta ad accettare tutto quello che viene da inglesi e americani, è soprattutto in America che si decidono i destini dell’Italia, è soprattutto a Roosevelt che spetta “l’ultima parola”. E qui il pessimismo di Salvemini si accentua: “se qualcosa si potrà ottenere… bisognerà strapparlo a Roosevelt… ma è come assalire una parete dell’Himalaya con uno stuzzicadenti”.
La lettera indirizzata da Salvemini ad Amelia, tratta dall’intenso carteggio, appare oggi nelle pagine del libro che Aldo Rosselli, il figlio di Nello, ha dedicato a La famiglia Rosselli – una tragedia italiana (Bompiani). Non è un libro di storia, e non pretende di esserlo. È il libro di uno scrittore indipendente e con una vena di malinconia mai elegiaca; è un libro di trasfigurazione autobiografica di un storia vera, che coincide per tanta parte con la storia della moderna coscienza italiana.
Aldo Rosselli aveva tre anni quando il padre Nello, lo storico di Mazzini e Bakunin, lo storico di Carlo Pisacane e di Giuseppe Montanelli, fu assassinato a Bagnoles-de-l’Orne, dalla “Cagoule” fascista di Francia, armata e ispirata dal governo Mussolini (“la tenebrosa e perversa ‘Cagoule’”, ricorda il presidente Pertini nella commossa prefazione). Nello viveva a Firenze, in una villa dove si rifletteva il decoro di una della grandi famiglie di quella borghesia ebraica toscana, con ascendenze livornesi o pisane, che coincideva con una delle più civili aristocrazie del post-risorgimento. Era un antifascista domestico, militante nella severità del suo impegno di storico, quanto Carlo, il fratello maggiore di un anno, (l’uno nato nel 1900, l’altro nel 1899), era antifascista leader dell’emigrazione politica, combattente in Francia e in Spagna secondo il tracciato del fuoriuscitismo risorgimentale.
A tre anni l’assassinio del padre; a quattro l’esilio. La donna, appunto Amelia, con le nuore, con i figli di Carlo e di Nello, riparata negli Stati Uniti d’America, ricongiunta agli amici del fondatore e realizzatore di “Giustizia e Libertà”: quell’america degli Sforza, dei Tarchiani, dei Max Ascoli, dei Lionello Venturi, dei Salvemini, della “Mazzini Society” (e non a caso Amelia Rosselli, figlia di un ministro della Repubblica di Daniele Manin nella Venezia del 1849, discendeva dal nucleo familiare intimamente intrecciato alla “storia sacra” del mazzinianesimo per l’ospitalità accordata al morente profeta dell’unità, sotto nome inglese, sullo sfondo dei lungarni di Pisa).
Un’adolescenza difficile, con quel richiamo costante al “padre” e allo “zio” assassinati. Un’educazione di tipo rigido tradizionale, pur nell’apertura politica ad una democrazia moderna con una nonna, Amelia, che era il centro di tutto, nella casa di Larchmont non meno che in quella fiorentina dove la liberazione consentirà ad Aldo, undicenne, di tornare, frequentatore poi del liceo, come il babbo, sulle rive dell’Arno. E tutta questa esperienza vissuta sul filo della memoria: una memoria più favolosa che storica, ma con l’uso – singolare innesto che si presterà a discussioni e anche a dissensi – di documenti autentici, di inediti effettivi, di frammenti di epistolari di casa. Utili solo allo scrittore per rievocare quel mondo, quell’umanità, quella civiltà tutta fondata su saldi valori nazionali e su un’etica familiare che potremmo definire, coi costumi di oggi, implacabile.
L’intransigente battaglia antifascista
Il maggiore dei figli di Amelia, Aldo, era morto nel 1916 in guerra. Una famiglia, come quasi tutte le famiglie israelite di accesi sentimenti patriottici, con qualche vibrazione nazionalista: ma riscattata dalla superiore religione della tolleranza e dell’umanità. Un confine, quella fra patriottismo e fascismo, fissato subito, e senza equivoci, da quella prodigiosa nonna, che è al centro di questo volume.
La vena di Aldo Rosselli non è mai agiografica. Non c’è mai, nella sua pagina, superbia (il cugino di Carlo e di Nello, Alberto Moravia, che ha scritto la prefazione, è arrivato a dissacrare addirittura, a forza di rifiutare la superbia, la tradizione liberal-democratica della borghesia risorgimentale, chiamandola tutta “nazionalista”: perdoniamo al grande scrittore ed amico, daremmo zero allo storico). Quel mondo è rivissuto con pudore, con discrezione come un mondo irrisolto.
Ma era, il mondo di Amelia Rosselli, un mondo di certezze: quelle evocate nelle pagine di Stefan Zweig o di Thomas Mann. Dalla mia biblioteca di Pian dei Giullari, leggendo questo libro, mi è venuta voglia di tirar fuori un libricino minuscolo, quasi un breviario, in tutto 120 pagine, edito da Bemporad a Firenze nel novembre 1920. Si intitola Fratelli minori. Autrice: Amelia Rosselli, appunto. E il titolo spiega tutto: “Fratelli Minori”, Carlo e Nello sopravvissuti ad Aldo caduto al fronte.
È un libretto di pensieri, di appunti, di capitoletti agili o veloci, pagine già intrise di ombre e di fantasmi, già percorse da oscuri presagi. Si pensi alla fiaba della nonna, che affonda le radici nel tempo, risale alle grandi battaglie risorgimentali, per l’unità nazionale. Una fiaba che la nonna racconta malvolentieri: “sbatte l’aria l’ala del primo sogno per l’unità d’Italia. Fremono prime aspirazioni che sembrano follie, persecuzioni, inquisizioni, aspirazioni, ombra, silenzio. Il sogno che quell’ombra si tramanda ad altra generazione, come una fiaccola accesa. Mani tese nell’ombra ad afferrarla, giovani che si fanno vestali di quel fuoco… ma le anime piccoline se ne nutriscono”.
Quelle “anime piccoline” erano allora Nello e Carlo; più tardi sarebbero stati figli dei figli, e poi… Nella continuità maestosa delle generazioni. “Anime piccoline”, ma di una grande famiglia.
“Credo che raramente coraggio e intelligenza – ha scritto Pertini nella premessa al libro -, amor di patria, culto delle tradizioni civiche e fede nell’avvenire democratico si accomunarono in egual misura come nelle personalità dei fratelli Rosselli”. Un’eccezionale vicenda familiare anche nello stile, anche nella discrezione.
Una borghesia agiata che conosce tutte le regole del risparmio, la necessità morale e materiale di fare economie, di non dissipare il più piccolo capitale accumulato con l’operoso e intelligente lavoro. Ho in mente le lettere di Salvemini, a Amelia e Nello (ripenso all’Epistolario familiare introdotto da Valiani e curato da Ciuffoletti), allorché indignato propone addirittura di “interdire” Carlo, che sta dissipando tutti i suoi risparmi e averi nella “causa”, cioè nelle iniziative di lotta al fascismo, senza pensare “né ai figli né alla famiglia”. E Aldo registra il dialogo fra Carlo e Nello, in quel tragico giugno 1937: “Tra pochi anni sarò infatti completamente spiantato. I miei figli faranno i garzoni di bottega e Marion…”: la battuta di Carlo sulla moglie tende solo a sdrammatizzare quella realtà che Salvemini andava denunciando. Borghesia umanistica, quella della famiglia Rosselli, che ama le lettere, la musica, l’arte, il teatro, ma non priva di attitudini e di vibrazioni imprenditoriali. Amelia stessa, nel dilagare degli scioperi all’indomani della prima guerra mondiale, scrive a Carlo: “Vorrei essere alla testa di una qualsiasi industria per iniziare subito gli operai a una cointeressenza nei guadagni. Più ci penso, e meno capisco perché non ci debba essere una mezzadria nelle industrie, come in agricoltura”. Paternalismo, certo, spinto ai limiti dell’utopia, in quel particolare momento storico: ma interiore coscienza di un dramma, quello sociale, che scuoteva l’intera classe dirigente, che avrebbero preparato le lacerazioni e i varchi in cui si sarebbe inserita la violenza fascista.
Un errore che la famiglia Rosselli non commette, animata com’è dallo spirito delle minoranze sinceramente “liberali”. Liberali o meglio liberal-democratiche: al di fuori di ogni residuo oligarchico, censitario, elitario. Coscienza autentica della democrazia liberale, che consente ai Rosselli di comprendere da sempre, senza ombre e tentennamenti, la natura totalitaria, dittatoriale, soffocatrice di libertà del fascismo.
Il volume di Aldo, che andrebbe integrato dalla rilettura dell’Epistolario familiare, con le lettere di Carlo, Nello e la madre, apparso nel 1979 a cura di Zeffiro Ciuffoletti e con introduzione di Leo Valiani, si sviluppa attraverso quattro scene diverse. La prima, “Una corrispondenza d’amore”, ci porta agli anni lontani fra 1890 e 1892, all’incontro e al fidanzamento fra Amelia Pincherle e Joe Rosselli; la seconda ci sbalza in modo repentino, con un salto di oltre quarant’anni, a “Gli ultimi anni di Nello”, 1936-37: esule in patria, condannato – come scrive il figlio – “ad apparire sereno”.
Con la terza parte lo scenario si sposta ancora in avanti, la tragedia è già consumata fino in fondo, o quasi: sono gli anni dell’ “esilio”, dal ’37 al rientro in Italia, nel ’46, dopo una peregrinazione quasi decennale dalla Svizzera all’Inghilterra, agli Stati Uniti.
“Un binocolo rovesciato (1945)” è il titolo della parte conclusiva: un balzo indietro nel tempo, un ritorno alla prima infanzia, un “sogno ad occhi aperti”, animato e popolato da figure scomparse. Ma quante volte la storia non è “un sogno ad occhi aperti”?
Giovanni Spadolini