PDA

Visualizza Versione Completa : I Rosselli, una famiglia contro la dittatura



Frescobaldi
19-02-16, 00:44
http://i.ebayimg.com/00/s/MTYwMFg5OTE=/z/OSkAAOSwewJTmZ6U/$_57.JPG





di Giovanni Spadolini - “La Voce Repubblicana”, 13-14 dicembre 1983





Harvard, 31 dicembre 1943. Gaetano Salvemini scrive una lunga, amara lettera ad Amelia Rosselli, che ha trovato come lui rifugio in esilio negli Stati Uniti, ma dopo l’assassinio dei figli Carlo e Nello, di poco precedente l’aberrazione delle leggi razziali: là in una vecchia casetta di stile “americano”, al numero 9 di Clark Court a Larchmont.
L’anno che si chiude ha visto la caduta di Mussolini, la svolta che Salvemini ha atteso e invocato per un ventennio. Eppure il grande storico non ha accolto, nel luglio, la notizia del “colpo di stato” della monarchia, che ha abbattuto il “duce”, con particolare gioia o entusiasmo: due sentimenti che – dopo la tragedia del terremoto di Messina – gli erano rimasti sconosciuti. “Gioire per la caduta di Mussolini? – si è chiesto il 28 luglio, confidandosi con Amelia – Mi è impossibile, quando penso che migliaia di donne, bambini, vecchi, uomini innocenti, dovevano essere ridotti in poltiglia dai bombardamenti aerei perché questo uomo sparisse”.
Ma se il passato, specchio e immagine della sua stessa vita, lo rattrista, è il futuro del “povero paese” che è l’Italia a preoccuparlo, quasi ad angosciarlo. Intanto l’unità che esisteva una volta nel mondo antifascista (“quando non c’era speranza di salvezza per nessuno”) si è rapidamente dissolta. Si leva potente una “destra” nel paese, pronta ad accettare tutto quello che viene da inglesi e americani, è soprattutto in America che si decidono i destini dell’Italia, è soprattutto a Roosevelt che spetta “l’ultima parola”. E qui il pessimismo di Salvemini si accentua: “se qualcosa si potrà ottenere… bisognerà strapparlo a Roosevelt… ma è come assalire una parete dell’Himalaya con uno stuzzicadenti”.
La lettera indirizzata da Salvemini ad Amelia, tratta dall’intenso carteggio, appare oggi nelle pagine del libro che Aldo Rosselli, il figlio di Nello, ha dedicato a La famiglia Rosselli – una tragedia italiana (Bompiani). Non è un libro di storia, e non pretende di esserlo. È il libro di uno scrittore indipendente e con una vena di malinconia mai elegiaca; è un libro di trasfigurazione autobiografica di un storia vera, che coincide per tanta parte con la storia della moderna coscienza italiana.
Aldo Rosselli aveva tre anni quando il padre Nello, lo storico di Mazzini e Bakunin, lo storico di Carlo Pisacane e di Giuseppe Montanelli, fu assassinato a Bagnoles-de-l’Orne, dalla “Cagoule” fascista di Francia, armata e ispirata dal governo Mussolini (“la tenebrosa e perversa ‘Cagoule’”, ricorda il presidente Pertini nella commossa prefazione). Nello viveva a Firenze, in una villa dove si rifletteva il decoro di una della grandi famiglie di quella borghesia ebraica toscana, con ascendenze livornesi o pisane, che coincideva con una delle più civili aristocrazie del post-risorgimento. Era un antifascista domestico, militante nella severità del suo impegno di storico, quanto Carlo, il fratello maggiore di un anno, (l’uno nato nel 1900, l’altro nel 1899), era antifascista leader dell’emigrazione politica, combattente in Francia e in Spagna secondo il tracciato del fuoriuscitismo risorgimentale.
A tre anni l’assassinio del padre; a quattro l’esilio. La donna, appunto Amelia, con le nuore, con i figli di Carlo e di Nello, riparata negli Stati Uniti d’America, ricongiunta agli amici del fondatore e realizzatore di “Giustizia e Libertà”: quell’america degli Sforza, dei Tarchiani, dei Max Ascoli, dei Lionello Venturi, dei Salvemini, della “Mazzini Society” (e non a caso Amelia Rosselli, figlia di un ministro della Repubblica di Daniele Manin nella Venezia del 1849, discendeva dal nucleo familiare intimamente intrecciato alla “storia sacra” del mazzinianesimo per l’ospitalità accordata al morente profeta dell’unità, sotto nome inglese, sullo sfondo dei lungarni di Pisa).
Un’adolescenza difficile, con quel richiamo costante al “padre” e allo “zio” assassinati. Un’educazione di tipo rigido tradizionale, pur nell’apertura politica ad una democrazia moderna con una nonna, Amelia, che era il centro di tutto, nella casa di Larchmont non meno che in quella fiorentina dove la liberazione consentirà ad Aldo, undicenne, di tornare, frequentatore poi del liceo, come il babbo, sulle rive dell’Arno. E tutta questa esperienza vissuta sul filo della memoria: una memoria più favolosa che storica, ma con l’uso – singolare innesto che si presterà a discussioni e anche a dissensi – di documenti autentici, di inediti effettivi, di frammenti di epistolari di casa. Utili solo allo scrittore per rievocare quel mondo, quell’umanità, quella civiltà tutta fondata su saldi valori nazionali e su un’etica familiare che potremmo definire, coi costumi di oggi, implacabile.


L’intransigente battaglia antifascista



Il maggiore dei figli di Amelia, Aldo, era morto nel 1916 in guerra. Una famiglia, come quasi tutte le famiglie israelite di accesi sentimenti patriottici, con qualche vibrazione nazionalista: ma riscattata dalla superiore religione della tolleranza e dell’umanità. Un confine, quella fra patriottismo e fascismo, fissato subito, e senza equivoci, da quella prodigiosa nonna, che è al centro di questo volume.
La vena di Aldo Rosselli non è mai agiografica. Non c’è mai, nella sua pagina, superbia (il cugino di Carlo e di Nello, Alberto Moravia, che ha scritto la prefazione, è arrivato a dissacrare addirittura, a forza di rifiutare la superbia, la tradizione liberal-democratica della borghesia risorgimentale, chiamandola tutta “nazionalista”: perdoniamo al grande scrittore ed amico, daremmo zero allo storico). Quel mondo è rivissuto con pudore, con discrezione come un mondo irrisolto.
Ma era, il mondo di Amelia Rosselli, un mondo di certezze: quelle evocate nelle pagine di Stefan Zweig o di Thomas Mann. Dalla mia biblioteca di Pian dei Giullari, leggendo questo libro, mi è venuta voglia di tirar fuori un libricino minuscolo, quasi un breviario, in tutto 120 pagine, edito da Bemporad a Firenze nel novembre 1920. Si intitola Fratelli minori. Autrice: Amelia Rosselli, appunto. E il titolo spiega tutto: “Fratelli Minori”, Carlo e Nello sopravvissuti ad Aldo caduto al fronte.
È un libretto di pensieri, di appunti, di capitoletti agili o veloci, pagine già intrise di ombre e di fantasmi, già percorse da oscuri presagi. Si pensi alla fiaba della nonna, che affonda le radici nel tempo, risale alle grandi battaglie risorgimentali, per l’unità nazionale. Una fiaba che la nonna racconta malvolentieri: “sbatte l’aria l’ala del primo sogno per l’unità d’Italia. Fremono prime aspirazioni che sembrano follie, persecuzioni, inquisizioni, aspirazioni, ombra, silenzio. Il sogno che quell’ombra si tramanda ad altra generazione, come una fiaccola accesa. Mani tese nell’ombra ad afferrarla, giovani che si fanno vestali di quel fuoco… ma le anime piccoline se ne nutriscono”.
Quelle “anime piccoline” erano allora Nello e Carlo; più tardi sarebbero stati figli dei figli, e poi… Nella continuità maestosa delle generazioni. “Anime piccoline”, ma di una grande famiglia.
“Credo che raramente coraggio e intelligenza – ha scritto Pertini nella premessa al libro -, amor di patria, culto delle tradizioni civiche e fede nell’avvenire democratico si accomunarono in egual misura come nelle personalità dei fratelli Rosselli”. Un’eccezionale vicenda familiare anche nello stile, anche nella discrezione.
Una borghesia agiata che conosce tutte le regole del risparmio, la necessità morale e materiale di fare economie, di non dissipare il più piccolo capitale accumulato con l’operoso e intelligente lavoro. Ho in mente le lettere di Salvemini, a Amelia e Nello (ripenso all’Epistolario familiare introdotto da Valiani e curato da Ciuffoletti), allorché indignato propone addirittura di “interdire” Carlo, che sta dissipando tutti i suoi risparmi e averi nella “causa”, cioè nelle iniziative di lotta al fascismo, senza pensare “né ai figli né alla famiglia”. E Aldo registra il dialogo fra Carlo e Nello, in quel tragico giugno 1937: “Tra pochi anni sarò infatti completamente spiantato. I miei figli faranno i garzoni di bottega e Marion…”: la battuta di Carlo sulla moglie tende solo a sdrammatizzare quella realtà che Salvemini andava denunciando. Borghesia umanistica, quella della famiglia Rosselli, che ama le lettere, la musica, l’arte, il teatro, ma non priva di attitudini e di vibrazioni imprenditoriali. Amelia stessa, nel dilagare degli scioperi all’indomani della prima guerra mondiale, scrive a Carlo: “Vorrei essere alla testa di una qualsiasi industria per iniziare subito gli operai a una cointeressenza nei guadagni. Più ci penso, e meno capisco perché non ci debba essere una mezzadria nelle industrie, come in agricoltura”. Paternalismo, certo, spinto ai limiti dell’utopia, in quel particolare momento storico: ma interiore coscienza di un dramma, quello sociale, che scuoteva l’intera classe dirigente, che avrebbero preparato le lacerazioni e i varchi in cui si sarebbe inserita la violenza fascista.
Un errore che la famiglia Rosselli non commette, animata com’è dallo spirito delle minoranze sinceramente “liberali”. Liberali o meglio liberal-democratiche: al di fuori di ogni residuo oligarchico, censitario, elitario. Coscienza autentica della democrazia liberale, che consente ai Rosselli di comprendere da sempre, senza ombre e tentennamenti, la natura totalitaria, dittatoriale, soffocatrice di libertà del fascismo.
Il volume di Aldo, che andrebbe integrato dalla rilettura dell’Epistolario familiare, con le lettere di Carlo, Nello e la madre, apparso nel 1979 a cura di Zeffiro Ciuffoletti e con introduzione di Leo Valiani, si sviluppa attraverso quattro scene diverse. La prima, “Una corrispondenza d’amore”, ci porta agli anni lontani fra 1890 e 1892, all’incontro e al fidanzamento fra Amelia Pincherle e Joe Rosselli; la seconda ci sbalza in modo repentino, con un salto di oltre quarant’anni, a “Gli ultimi anni di Nello”, 1936-37: esule in patria, condannato – come scrive il figlio – “ad apparire sereno”.
Con la terza parte lo scenario si sposta ancora in avanti, la tragedia è già consumata fino in fondo, o quasi: sono gli anni dell’ “esilio”, dal ’37 al rientro in Italia, nel ’46, dopo una peregrinazione quasi decennale dalla Svizzera all’Inghilterra, agli Stati Uniti.
“Un binocolo rovesciato (1945)” è il titolo della parte conclusiva: un balzo indietro nel tempo, un ritorno alla prima infanzia, un “sogno ad occhi aperti”, animato e popolato da figure scomparse. Ma quante volte la storia non è “un sogno ad occhi aperti”?


Giovanni Spadolini

Frescobaldi
26-02-16, 23:58
La democrazia risorgimentale di Carlo e Nello Rosselli


http://www.sienalibri.it/img_news/rosselli_1.jpg
Nello e Carlo Rosselli


“La Voce Repubblicana”, 7-8 giugno 1985



1) Carlo e le speranze dell’antifascismo democratico



9 giugno 1933. Carlo Rosselli scrive da Parigi a Egidio Reale, che risiede a Château-d’Oex sulle Alpi vodesi e capeggia idealmente l’emigrazione antifascista in Svizzera: “puoi credere quale sia in questi giorni il nostro umore! Un bel giorno sentiremo Mussolini fare l’elogio della libertà e posare campione dei diritti della persona umana. Nonostante il nostro giustificato scetticismo sulle possibilità di accordo Roma-Parigi, non si può escludere che Mussolini, convinto che l’unica grande parte da giocare in Europa, con gli attuali rapporti di forza, sia quella del pacificatore, non accetti il consiglio di Ludwig e non aspiri a succedere a Briand. Bada che una simile politica gli assicurerebbe una autentica popolarità in Italia dove la guerra faceva paura, specie alla borghesia”.
Sono i giorni del massimo sconforto nelle file dell’antifascismo esiliato e indigeno. Mussolini ha lanciato da poco la proposta del “patto a quattro”, in funzione di stabilizzazione europea e di coinvolgimento moderato della Germania da poche settimane hitleriana, riscuotendo consensi e appoggi a Londra e a Parigi. Nella primavera Mac Donald è venuto in visita a Roma, insieme col ministro degli Esteri Simon, rinnovando quasi l’impressione della tradizionale amicizia italo-inglese. La diffidenza verso l’incognita Hitler sembra accompagnare la diplomazia italiana, preoccupata dalle sorti dell’Austria, non meno di quella anglo-francese, timorosa di un impetuoso e sconvolgente revisionismo germanico.
Nei giornali italiani non esce una riga di appoggio al dilagante antisemitismo nazista: riviste cattoliche inclini all’intesa col fascismo aprono anzi, senza mezzi termini le ostilità contro il “neo-paganesimo” della Croce Uncinata, la collaborazione, già in atto, fra cattolici e fascisti sembra trarre nuovo alimento dal comune fronte antirazzista. Mussolini dichiara a Ludwig che il lealismo degli ebrei italiani è fuori discussione, ricorda i generali israeliti, le confluenze fra nazionalismo ed ebraismo.
“Credo che raramente nella storia – è sempre Rosselli che scrive a Egidio Reale – ci sia stato un periodo più statico, più liscio di quello che si svolge ora in Italia. Finché la dura così siamo ridotti a fare i moralisti, nonostante tutti gli sforzi che facciamo per rimanere nella politica”. Sono sfoghi inediti ma rivelatori, compresi in un epistolario tutto inedito: qual è quello di Egidio Reale, una delle più nobili e più appartate figure dell’antifascismo di stampo democratico e risorgimentale, dopo la Liberazione ambasciatore a Berna. Pagine tutte ispirate a un pudore e a una discrezione di tipo ottocentesco; pagine dove senti circolare le stesse amarezze e insofferenze e delusioni che caratterizzarono gli esuli del riscatto nazionale, dove cogli le stesse divisioni e animosità che anche un secolo prima avevano distinto il fronte degli emigrati.
Frammenti di una storia d’Italia ancora tutta da scrivere (dobbiamo alla cortesia della signora Antonietta Guazzaroni, la figlia di Egidio Reale, la possibilità di aver preso conoscenza delle purtroppo non numerose lettere scambiate fra il ’31 e il ’35 con Carlo Rosselli: ma sullo sfondo di un epistolario ben più vasto, amorosamente ordinato, puntualmente ricostruito, con larghi apporti di Gaetano Salvemini e un fitto scambio d’idee col generoso Guglielmo Ferrero e contatti più stretti coi repubblicani militanti come Pacciardi e le tracce delle battaglie della “lega dei diritti dell’uomo” e di tutti i movimenti umanitari e democratici ispirati perfino nelle testate a memorie risorgimentali e post-risorgimentali).
Le lettere di Carlo Rosselli a Egidio Reale (non esistono purtroppo le risposte) gettano nuova luce sulle immense difficoltà che quel movimento d’intellettuali, e di assoluta minoranza, che fu “Giustizia e Libertà”, dovette superare negli anni fra il ’31 e il ’34. Non partito, e anzi sgradito ai partiti organizzati nella fragile, e composita, “concentrazione anti-fascista” di Parigi. Movimento di ispirazione socialista, ma rifiutante il marxismo, sia nella versione leninista, sia in quella, diciamo così, pre-rivoluzionaria d’ottobre. Gruppo fondato su un volontarismo tutto sorretto da un afflato intellettuale, da un’alta tensione morale: ma con echi sempre più scarsi in Italia, dopo l’arresto di Riccardo Bauer, dopo i colpi dell’ottobre ’30. Nucleo di ripensamento culturale visto con diffidenza dai settori dominanti della resistenza in casa, dall’antifascismo di stampo crociano (è uscito di recente, sulla “Rivista abruzzese”, anno XXX, n. 2, un inedito di Croce sugli “esuli”, una descrizione, severissima, degli incontri a Parigi con Rosselli, “che non aveva la mente” pari al coraggio).
Fra ’32 e ’34, le angustie di quel movimento toccano le punte massime. In Italia è in atto uno spostamento di intellettuali verso il partito comunista (lo ha evocato bene La Malfa nell’Intervista a Ronchey). A Parigi la convivenza fra la “Concentrazione” e “Giustizia e Libertà” è precaria, e tormentata, e oscillante. Il partito repubblicano, che è poi il partito di Reale, esce dalla “Concentrazione” come reazione al primo “quaderno” del gennaio ’32 del nucleo rosselliano, quaderno che si contrapponeva a tutti gli altri partiti, con lo stesso slancio con cui il Rosselli del ’26 si era contrapposto all’Aventino, nella battaglia domestica.
Egidio Reale, che è un repubblicano con larghe vene di indipendenza (ha preferito la Svizzera, dopo la fuga con Pacciardi alla fine del ’26), fa da mediatore, cerca di superare i contrasti fra i “giellisti” e i fedeli della tradizione mazziniana. Trova un alleato in Pacciardi, un avversario in Facchinetti. Nel ’33 il reingresso del partito repubblicano nella concentrazione è assicurato (“è bene non indugiare ulteriormente – gli scrive Rosselli il 27 giugno 1933 – anche perché potrebbero nel frattempo rafforzarsi ulteriormente nel partito socialista certe pigre forze sabotatrici o centrifughe”).
Ma non sarà tregua di lunga durata. Nel febbraio ’34 un nuovo articolo sui Quaderni di “Giustizia e Libertà”, incline a svalutare il vecchio partito socialista, romperà gli equilibri faticosamente raggiunti e per i quali Egidio Reale aveva lavorato dall’esilio svizzero con pazienza, perseveranza e riservatezza (tutte doti connaturate all’uomo). La Concentrazione conoscerà la parola fine; il blocco repubblicano socialista, rilanciato da Carlo Rosselli con gli stessi accenti risuonanti nel ’26, non potrà tradursi in atti, sarà bloccato dagli esclusivismi di partito, tenaci in terra d’esilio non meno che in patria.
Il carteggio fra i due amici si prolungherà, ma con un tono più mesto e distaccato. Reale continuerà a mandare un po’ di franchi svizzeri per i Quaderni: nell’agosto ’34 Rosselli chiederà all’amico un appoggio per un “inviato speciale” clandestino nel Mezzogiorno (“vorresti preparare uno o due biglietti di presentazione per i tuoi amici delle Puglie?… Ripeto che è un giovane di cui assumo la responsabilità al cento per cento. Bisognerebbe però presentarlo a persone non troppo compromesse. Non vogliamo a nessun costo bruciarlo”).
Avanza la grande tragedia europea: l’Etiopia prima, la Spagna poi. Mentre “Giustizia e Libertà” si trasferisce col suo capo nelle trincee spagnole, Egidio Reale lancia da Ginevra le “nuove edizioni di Capolago”, dove era esplicita – ricorda Silone, coautore dell’iniziativa – “la reminiscenza risorgimentale mazziniana”. Sono le edizioni che consacreranno l’uscita del Seme sotto la neve di Silone, del Mussolini diplomatico di Salvemini, di Liberazione di Guglielmo Ferrero (e Gina Lombroso animatrice dell’impresa).
È una iniziativa, quella delle “nuove edizioni”, che Carlo Rosselli accoglie con immediato favore. “Se tu ritieni che il mio nome ti possa servire per il lavoro di propaganda – scrive nell’aprile del ’36 a Reale – usalo liberamente. Quando lancerete la sottoscrizione verserò anche io qualche piccola cosa. Piccola, però, dati i troppi impegni che sai”. Se è pronto ad aderire in prima persona all’impresa, è al contrario guardingo nel trascinare con sé l’intero movimento. Chiede di conoscere più dettagliatamente il programma di lavoro, premette che anche “Giustizia e Libertà” ha in cantiere qualche pubblicazione, primis “un libro di Lussu sull’insurrezione” (che in Svizzera sarebbe certo sequestrato), da pubblicarsi ad ogni costo perché troppi “continuano a ritenere come uscito da G. L., mentre in G. L. è e, ne sono certo, resterà”.


La difficile battaglia del fuoriuscitismo



La vera ragione della cauta riserva è un’altra: Rosselli non condivide i punti di vista dei Ferrero – partecipi dell’impresa – in materia letteraria e teme che la loro personalità soffochi l’iniziativa editoriale, restringendola nei limiti di amicizie troppo ristrette. “A parlarti francamente – confessa all’amico – ti dirò che temo che i Ferrero tendano troppo a vedere nelle “nuove edizioni di Capolago” la casa editrice loro e di un numero ristretto di personalità già note. Dovreste sforzarvi di fare fin dall’inizio largo posto a scrittori giovani, non conformisti”. Certo – aggiunge quasi a compensare le parole critiche – i Ferrero hanno tante qualità di generosità, di fervore, “che sarebbe veramente stolto urtarli”, ma è assolutamente necessario (ammonisce in tale senso Reale) che le “nuove edizioni di Capolago” “non diventino un loro feudo”.
La parabola dell’esilio democratico e repubblicano riportava al Risorgimento. Le radici di Carlo Rosselli e di Egidio Reale erano identiche: una vena più gobettiana nel primo, una tenace e rigida fedeltà mazziniana nel secondo. Tornano in mente le parole che Carlo Rosselli, a metà del ’26, aveva scritto sulle pagine semiclandestine di “Quarto Stato”, la rivista che dirigeva insieme a Nenni a Milano sotto l’occhiuta vigilanza della polizia fascista: “L’Italia è un paese nel quale non si ebbero mai le grandi lotte di religione che costituirono dovunque il massimo lievito dei regimi liberali e la più sicura garanzia del principio di tolleranza e del rispetto di un minimo comune denominatore di civiltà…”.
Gobetti era morto da poche settimane; ma l’ombra della “rivoluzione mancata” si prolungava su una generazione, che avrebbe testimoniato col sangue la sua fede in una risorgimento ideale, sempre perseguito e mai raggiunto. Quasi lievito di una storia perennemente incompiuta.


2) Nello e i valori europei della storia d’Italia



Giorgio Amendola non ebbe mai rapporti di dimestichezza o di confidenza né coi fratelli Rosselli né col movimento di Giustizia di Libertà. La sua scelta comunista, alla fine degli anni Venti, si era contrapposta risolutamente a quella dei giovani intellettuali dell’antifascismo laico, orientati verso il nascente “terzaforzismo” rosselliano (né marxisti né liberali nel senso tradizionale). Nelle pagine del secondo e purtroppo ultimo volume di memorie, Un’isola, i nomi dei Rosselli ricorrono poche volte e con una vibrazione quasi malinconica, perfino accorata.
Nello finisce per emergere su Carlo. Quando Carlo Rosselli risponde, sul primo “Quaderno di Giustizia e Libertà”, all’articolo di Giorgio Amendola su “Stato operaio”, dal titolo significativo e di rottura, Con il proletariato o contro il proletariato, il combattente memorialista di se stesso annota che il giudizio rosselliano si distingue per finezza e meditazione da quello, impulsivo e superficiale, di Nenni: “forse – aggiunge con una punta di ritrosia – per l’influenza del Nello”, che doveva aver contribuito “al giudizio positivo personale su di me, malgrado il contrasto politico e ideologico”. E pochi mesi più tardi, agli inizi del 1932, quando giunge a Parigi Carlo Levi, legato ad Amendola da vecchia amicizia, cade il progetto di un incontro con Carlo Rosselli: perché – appunta il diarista – “fui consigliato dai compagni in quanto consideravano Rosselli troppo sorvegliato da spie dell’Ovra, che si infiltravano anche nella sua casa ospitale e accogliente”.
L’esattezza di quel primo riferimento di Giorgio Amendola è confermata da un volume di lettere e scritti vari di Nello Rosselli comparso sotto il titolo Uno storico sotto il fascismo per i tipi della Nuova Italia, la casa di Calamandrei, e del “Ponte”, a cura di Zeffiro Ciuffoletti che continua, all’ombra delle università toscane, una tradizione di studi ispirata alla religione di Giustizia e Libertà.
C’è un’annotazione del diario di Nello Rosselli che è illuminante e rivelatrice. È del 22 novembre 1929 (Giorgio Amendola aveva aspettato il dodicesimo anniversario della rivoluzione d’ottobre per iscriversi al PCI): “il comunismo, per quanto diviso e povero ormai in Italia di dirigenti, esercita sempre un’enorme suggestione specie sui giovani che hanno bisogno di fare. Di ieri la notizia che un carissimo amico, G. A., già alcuni mesi addietro veleggiante a sinistra, si è deciso a dichiarare le sue simpatie comuniste. Così, se non ci muoviamo perderemo tutti i migliori”.
“Perderemo tutti i migliori”. Quell’angoscia fu comune a molti degli intellettuali antifascisti di matrice democratica. E a respingere le potenti seduzioni del comunismo contribuirà in modo determinante – ecco un paradosso significativo – la fedeltà al padre della nuova recluta del comunismo, proprio Giovanni Amendola.
L’ortodossia amendoliana segna la stessa differenza politica fra i due fratelli. Carlo aveva scelto fin dal 1924 la via di un socialismo problematico, revisionista, largamente solcato da vene neo-risorgimentali e mazziniane: è l’esperienza che lo porterà all’uscita in campo aperto con “Quarto stato”, la rivista diretta insieme all’uomo su cui si rivolgeranno i più aspri e spesso ingiusti bersagli di Amendola, Pietro Nenni. Nello resterà fermo sulla sponda del revisionismo democratico, anziché socialista.
È una parabola esemplare. Nel novembre 1924 Nello si dimette dal gruppo di “Rivoluzione Liberale” cui aveva inizialmente aderito per portare il suo “sì” all’Unione Democratica Nazionale di Giovanni Amendola. “Ritengo utilissima, oggi essenziale – lo scriverà allo stesso Gobetti, in sottintesa polemica col suo movimento anti-partito – la formazione di un largo partito intermedio che dia la sensazione al paese che fra fascismo e bolscevismo v’è pur qualcosa”.
Alla fine del 1924 non reggevano più le espressioni politiche né del liberalismo esausto e screditato (il partito che sedeva ancora al governo Mussolini, dopo il delitto Matteotti e detenendo addirittura il ministero della Pubblica Istruzione, né al socialismo roso, corroso, frantumato al suo interno dalla ricerca di una difficile identità. Si cercava qualcosa di nuovo; una forza tendenziale, di attrazione, di aggregazione per il post-fascismo, che qualcuno giudicava vicino, altri lontano (e fra i secondi c’era Gobetti, c’era il giovanissimo La Malfa, aderente all’Unione amendoliana).
“Se ci sminuzzoliamo, addio forza!”. Nello Rosselli combatterà la sua battaglia con dignità ed equanimità di intellettuale, non senza un costante sforzo di comprensione e penetrazione delle ragioni avverse o diverse. Lo storico in lui prevaleva sul politico. Il martirio riunirà, tredici anni più tardi, i due uomini che avevano incarnato due diversi tipi di opposizione alla dittatura, il primo nell’emigrazione neo-risorgimentale, il secondo nella lotta domestica, nella lotta interna per la cultura.
Fra 1924 e 1926 la scelta “amendoliana” di Nello è chiara e senza riserve. E nel fronte amendoliano Nello appartiene al filone repubblicano, al gruppo di coloro – e non erano la maggioranza, almeno fino al giugno 1925 – che scontano la caduta della monarchia come presupposto per la creazione di un nuovo equilibrio politico, in cui si colloca anche il ruolo del “partito della democrazia”, come lo chiamerà, vent’anni più tardi, Luigi Salvatorelli.
La delusione dell’Aventino lo accomuna al fratello Carlo, anche se con tonalità diverse. Scrivendo a Oliviero Zuccarini, il vecchio repubblicano che piaceva a Gobetti, ai primi di maggio del 1926, Nello si presentava con questa carta d’identità: “perché ella sappia qualcosa di me, le dirò che sono dottore in lettere, allievo ed amico di Salvemini, ex socio dell’Unione Nazionale del povero Amendola”. Titolo che ribadirà pure, nel giugno 1927, nella lettera di appello per il confino.
Ma l’antologia argomentata e documentata di Ciuffoletti tende a mettere in luce, senza ipocrisie e senza reticenze, anche il successivo periodo di Nello Rosselli storico, uno “storico sotto il fascismo”: quello che si identifica nel lavoro svolto presso la “scuola di storia moderna e contemporanea” a Roma. Dopo l’incontro con Croce e Salvemini, quello con Gioacchino Volpe.
Volpe apparteneva, come Salvemini, al filone della storiografia economico-giuridica: correttrice della infatuazioni o delle generalizzazioni dell’idealismo. Ma da quelle premesse era arrivato ad approdi rigorosamente nazionalisti, di contro all’afflato mazziniano e universalistico inseparabile da Salvemini.
A Nello Rosselli, nell’integrità inviolata del suo antifascismo, toccherà collaborare coi capifila di due indirizzi storici vicini ma inesorabilmente divisi dalla dittatura. Nello ne trarrà lo spunto per l’impostazione in termini europei del “problema” del Risorgimento, svincolato da ogni autoctonia nazionalista. Si dedicherà all’indagine, già emblematica, dei rapporti fra Piemonte e Inghilterra nel Risorgimento; apporterà un contributo decisivo al “necessario processo di sprovincializzazione e spoetizzazione” della nostra storia recente.
Nello era partito da un libro esemplare su Mazzini e Bakounine, un libro che aprirà il varco, pur nel suo tono dimesso e discreto, a un’intera generazione di storici. In contatto col giovane editore Einaudi a Torino, aveva sognato e il sogno era rimasto tale, di scrivere un libro sul solo Mazzini, una biografia educatrice dell’apostolo. Avrebbe voluto parlarne con Leone Ginzburg, ma il dirigente della casa editrice fu arrestato prima che si concretasse l’incontro a Torino. La vecchia rivista, “La cultura”, intorno alla quale era sorta la casa Einaudi, venne soppressa; la stessa neonata casa editrice dovette sospendere per un po’ di tempo la sua attività.
Le “biografie moderne” non nacquero mai, e neanche prese il volo un’altra collana parallela, di divulgazione storica ma scientificamente qualificata, e di segno inequivoco a giudicare dal titolo, “I precedenti”.
Il mazzinianesimo di Nello non si colorirà mai di accenti nazionalisti, o di chiusure isolazioniste. Manterrà un respiro europeo, una vibrazione cosmopolita. Fin dal 1930 il collaboratore di Volpe progetterà una “rivista di studi europei”, aperta alla collaborazione dei migliori storici d’oltralpe – proprio mentre avanza l’autarchia, proprio mentre incombe il provincialismo culturale – e in grado di contribuire a europeizzare gli studi italiani. Lo incoraggeranno nell’impresa Salvatorelli ed Einaudi, Ruffini e Ginzburg e Carlo Levi, pure scettici sulla possibilità di realizzazione, o meglio di realizzazione duratura, con la cappa di piombo del fascismo.
Nello si assicura la collaborazione di tutti gli amici della scuola storica romana, da Chabod a Maturi, da Morandi a Sestan. Il consenso di Volpe non sarà facile; gli ostacoli, di fatto, si riveleranno insormontabili. Ma i compagni di cordata del giovane storico si realizzeranno, dieci anni dopo, all’ombra dell’Ispi, una rivista molto simile a quella, nell’ispirazione, nel titolo quasi mazziniano, “Popoli”.
E Nello lascerà ancora mille pagine di appunti di una sua Storia degli italiani, concepita come approfondimento della crescita di un popolo nel quadro di un’Europa concepita come sistema di civiltà, come tavola di valori. Sentirà tutte le insufficienze della nostra composizione unitaria; il fremito del revisionismo gobettiano opererà in lui, ma dietro i confini di una scuola storica rigida e severa, senza dilettantismi o approssimazioni.
Storia e politica si identificano intimamente in lui. Storico nato, Nello non separerà mai l’indagine storica da una consapevole e coerente opzione interiore (in pochi uomini, la storia sarà così “contemporanea” come in lui). Democratico, senza indulgenze al socialismo, avvertirà l’esigenza di un nuovo accordo fra i due partiti eredi della tradizione della sinistra popolare e risorgimentale, i repubblicani e i socialisti.
Lo scriverà, nell’ottobre 1926, su “Critica politica”, la vecchia rivista di Zuccarini. “Credo che di un bagno di mazzinianesimo […] possa molto avvantaggiarsi il movimento socialista”. Nello parlerà addirittura, con termine mutuato dalla tradizione cavouriana, di “connubio” fra i due filoni, il filone democratico e quello socialista. C’era già il presentimento del Partito d’Azione.


Giovanni Spadolini