PDA

Visualizza Versione Completa : La truffa del Sessantotto che fece abboccare tutti



MaIn
30-04-16, 13:13
La truffa del Sessantotto che fece abboccare tutti - IlGiornale.it (http://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/collana-firmata-giampaolo-pansa-1252801.html)

Un modo per rileggere e riscoprire la storia del nostro Paese nell'ultimo secolo, dall'avvento del Fascismo sino al giorno d'oggi, passando per la Resistenza, la fine della monarchia, De Gasperi, il Sessantotto Andreotti e la Democrazia cristiana. Dopo i primi 2 libri «Eia Eia Alalà. Controstoria del fascismo» e «Bella ciao. Controstoria della Resistenza» arriva in edicola «Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d'Italia dal 1946 a oggi». Seguiranno: «La destra siamo noi. Da Scelba a Salvini» (dal 7 maggio): «Tipi sinistri. I gironi infernali della casta rossa» (dal 14 maggio); «Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri» (dal 21 maggio).
Fu un tragico bluff il Sessantotto. Per di più coperto e difeso da un'ondata di retorica mai vista prima in Italia. Eppure molti politici, molti intellettuali e molti giornalisti lo ritennero un miracolo.
A sentir loro, iniziava una stagione fantastica ed esaltante per la democrazia. Il Sessantotto avrebbe cambiato tutto in meglio: la politica, l'economia, la società, la scuola, la cultura, la famiglia, i rapporti tra maschio e femmina, persino l'educazione dei bambini. A conti fatti non accadde nulla di tutto questo. L'unico, vero frutto fu il terrorismo di sinistra, il mostro delle Brigate rosse.
Nel 1968 andavo per i 33 anni. Lavoravo al Giorno di Italo Pietra come caposervizio delle pagine lombarde. All'inizio del 1969 ritornai alla Stampa di Ronchey che mi chiese di fare l'inviato speciale. Ma al Giorno dovevo occuparmi delle cronache lombarde. Dunque non mi proposero di scrivere neppure una riga sul terremoto che stava iniziando. Questo limite non mi impedì di capire subito quel che sarebbe successo. Ad aiutarmi fu un dettaglio non da poco che mi riportava ai miei anni da studente universitario. E a un luogo per me indimenticabile, dove avevo incontrato i miei maestri e gettato le basi del mio avvenire: Palazzo Campana.
Fu lì che cominciò tutto, se escludiamo le prime vampate di rabbia all'Istituto di scienze sociali a Trento e alla Cattolica di Milano. Il 27 novembre 1967 il Movimento studentesco torinese occupò Palazzo Campana. La spallata, che a molti sembrava soltanto un eccesso di folclore, durò un mese. Poi, fra il Natale e il Capodanno 1968, la polizia obbligò gli occupanti a sloggiare.
Quando appresi dello sgombero, mi dissi che la questura di Torino avrebbe dovuto provvedere subito, sin dal primo giorno. Ci saremmo risparmiati un mese di abusi, di vandalismi, di violenze verbali. E un bordello esaltato da una rabbia fanatica, senza motivo.
Leggevo sbalordito le cronache dell'occupazione e dei cortei che partivano da via Carlo Alberto. E mi domandavo di quale città e di quale ateneo parlassero. Doveva trattarsi di un mondo alieno, Marte o Saturno, non dell'Italia e di Torino. L'università che i capi del Movimento descrivevano con irrisione era l'opposto di quella che avevo frequentato appena dieci anni prima. Anche i docenti erano gli stessi che si erano presi cura di me e della mia istruzione, ma venivano dipinti con falsificazioni grottesche. Luigi Firpo, Norberto Bobbio, Alessandro Passerin d'Entrèves, Guido Quazza, Alessandro Galante Garrone, sino al rettore Mario Allara, erano accusati di essere dei kapò nazisti. E tutto si fondava su una convinzione grottesca: a Palazzo Campana esisteva un lager per torturare i rampolli della borghesia torinese di sinistra che avevano deciso di fare la rivoluzione. A Torino i capetti del Sessantotto sfoderarono per primi un'arma che sarebbe diventata di uso comune negli atenei d'Italia: la deformazione sistematica della verità a danno degli avversari. Pochi si opposero a questo metodo di lotta abituale in tutti i regimi autoritari. Il paradosso è che a rifiutarla erano le destre, compresa quella neofascista. Mentre ad accettarla erano le sinistre, di certo non tutte, ma a cominciare dalla più forte e organizzata: il Pci. Nelle Botteghe oscure, allora governate da Luigi Longo, il successore di Togliatti scomparso nel 1964, emersero due anime. Una era rappresentata da un leader come Giorgio Amendola, un politico abituato a parlare con schiettezza sorprendente. Nel giugno 1968 scrisse su Rinascita, il settimanale ideologico del partito, che il Movimento studentesco era soltanto «un rigurgito di infantilismo».
L'altra anima era quella che chiamai dei pifferai di una rivoluzione inesistente. Nell'autunno del 1968 un giovane pifferaio dal luminoso avvenire, Achille Occhetto, sempre su Rinascita capovolse il giudizio di Amendola. Il futuro Baffo di ferro sentenziò che il Movimento «era parte integrante del più grande processo rivoluzionario». Poi spiegò agli increduli: «I giovani si sono messi in cammino perché siamo entrati in una fase di movimento della lotta per abbattere il capitalismo».
Quando lessi il proclama occhettiano mi misi a ridere. E senza rendermene conto azzardai una previsione che poi si rivelò esatta: «Se questo Occhetto diventerà il leader del Pci, porterà al disastro il suo partito». Ma nel circo dei media c'erano molti giornalisti che non la pensavano come me. Vedevo firme grandi e piccole sposare con entusiasmo la casta nata dal Sessantotto. Si concedevano senza pudore a una rivolta giovanile che eccitava i loro articoli. E gli favoriva l'ingresso in un territorio di nuovi lettori da lisciare per il verso giusto, da curare con l'elogio continuo.

Erdosain
30-04-16, 15:10
Pansa no ti prego...

Gianky
01-05-16, 08:53
Niente di nuovo anche se non sono così critico con Pansa che mi piace sia come scrittore che come persona e rifiuto la demonizzazione attuata ai suoi danni dalla sinistra italiota.

Erdosain
01-05-16, 13:19
Ha scritto porcate tali sulla Resistenza che non riesco proprio a passarci sopra

Lèon Kochnitzky
01-05-16, 15:10
Il Giornale no vi prego...
Un media pseudo centroestra in un forum social-comunitario? (pure se io non sono socialcomunitario aborro)

LupoSciolto°
01-05-16, 15:51
Mai stato tenero con la generazione del '68. Ma le critiche del voltagabbana Pansa, sono tipiche della destra padronale.

jarod01
01-05-16, 16:04
Ahahaha il 68 quattro tossici che andavano alle manifestazioni sperando di poter cuccare.
L'Ereditá di quel periodo sono stati una sfilza di sfigati dal 6 politico che sono finiti nei baronati universitari...tutta bella gente.
Ina specie di primavera araba all'amatriciana.

Inviato dal mio GT-I9301I utilizzando Tapatalk

Erdosain
01-05-16, 17:16
Le mie critiche sono sulla faziosità, il sensazionalismo, l'incapacità (non-volontà?) di contestualizzare gli eventi e in generale la completa l'assenza di metodo storico; il cosiddetto triangolo rosso è sicuramente esistito e personalmente lo rivendico con tutto il cuore

Kavalerists
01-05-16, 17:39
Nessuna simpatia per Il Giornale, e in quanto a Pansa non lo demonizzerei ma comunque da prendere con le molle.
Preferisco come critica al '68 quella di Michel Clouscard (http://www.lintellettualedissidente.it/homines/michel-clouscard-un-pensiero-eretico/) , che vede avverarsi in quell'epoca una sorta di ribellione liberale, un sommovimento del tutto interno alla logica e alle necessità del capitalismo, e in questo un analisi e una critica molto simile a quella di un Preve o di un Michéa.

Lèon Kochnitzky
01-05-16, 18:16
io non sono d'accordo con questa visione, però. E' vero che il 68 ha avuto non pochi lati spiacevoli (vedi : distorsione dell'idea femminista), ma è anche vero che e' stata una rivolta (e non una rivoluzione) generazionale, che era cominciata senza ambizioni politiche. era il patrimonio di una gioventù che voleva chiudere i conti col passato reazionario e paternalistico dell'antico regime. Poi dopo sono venute le visioni "colorate" di rosso e di nero, che l'hanno realizzato

Logomaco
01-05-16, 18:38
io non sono d'accordo con questa visione, però. E' vero che il 68 ha avuto non pochi lati spiacevoli (vedi : distorsione dell'idea femminista), ma è anche vero che e' stata una rivolta (e non una rivoluzione) generazionale, che era cominciata senza ambizioni politiche. era il patrimonio di una gioventù che voleva chiudere i conti col passato reazionario e paternalistico dell'antico regime. Poi dopo sono venute le visioni "colorate" di rosso e di nero, che l'hanno realizzato

I ribelli sessantottini di ieri sono i baroni paraculi di oggi, se l'albero di riconosce dai frutti...:rolleyes:

Erdosain
05-05-16, 20:37
(Scrivo qua, anche se penso dovremmo un topic unico dove parlare del Sessantotto)

Oggi mi è arrivato I tartufi della rivoluzione (Néo-fascisme et idéologie du désir) di Michel Clouscard, marxista francese bello ortodosso, che in tempi non sospetti (il libro è del '73!) parla della nascita della società dei consumi e gli effetti nefasti del Sessantotto. In particolare punta il dito verso i giovani alternativi e gli intellettuali come Marcuse, Deleuze e Guattari, che definisce dispregiativamente "freudo-marxisti". Per dare un'idea:

"La strategia neocapitalistica, sul piano ideologico dei principi, della morale, dei comportamenti, del consumo, deve dunque - per conquistare i suoi mercati - infrangere, liquidare, frantumare questi valori etici: la «società opulenta» deve promuovere i valori opposti del consumo, dello spreco, della festa, della libidinalità. Il freudo-marxismo adempie questa funzione: esso deve liquidare l'etica (proposta come moralismo repressivo di papà!... che furbi!). Deve liquidare la privazione, l'economia (dell'accumulazione), l'inibizione, i valori tradizionalisti.
Perciò il modello del nuovo consumo sarà l'emancipazione attraverso la trasgressione. Il modello di consumo della merce del neocapitalismo sarà immanente alla merce. Il capitalismo ha così potuto immettere nel prodotto stesso l'espressione ideologica. Esso vende ideologia, modo di vita, stile di vita. La modernità del suo prodotto è la liquidazione delle virtù dei modi di produzione anteriori. Consumare equivale ad emanciparsi! trasgredire ad essere liberi! godere ad essere rivoluzionari!!!
In altre parole, la strategia neocapitalista di seduzione delle popolazioni votate alla nuova produzione (verso la nuova società) si oggettiva nella merce. Quest'ultima è innanzitutto una forma di rapporto che svia dalla lotta di classe e propone come liberazione la modalità dell'alienazione.
Vedremo che questo procedimento ha trovato il proprio servizio pubblicitario, al vertice, grazie al freudo-marxismo." (pg. 50-51)

Quando ho tempo ricopio anche altri passi, purtroppo il libro è difficile da trovare ma è veramente illuminante.

Kavalerists
05-05-16, 20:52
Profetico, direi...:cool:

Egomet
10-05-16, 00:51
"La strategia neocapitalistica, sul piano ideologico dei principi, della morale, dei comportamenti, del consumo, deve dunque - per conquistare i suoi mercati - infrangere, liquidare, frantumare questi valori etici: la «società opulenta» deve promuovere i valori opposti del consumo, dello spreco, della festa, della libidinalità. Il freudo-marxismo adempie questa funzione: esso deve liquidare l'etica (proposta come moralismo repressivo di papà!... che furbi!). Deve liquidare la privazione, l'economia (dell'accumulazione), l'inibizione, i valori tradizionalisti.
Perciò il modello del nuovo consumo sarà l'emancipazione attraverso la trasgressione. Il modello di consumo della merce del neocapitalismo sarà immanente alla merce. Il capitalismo ha così potuto immettere nel prodotto stesso l'espressione ideologica. Esso vende ideologia, modo di vita, stile di vita. La modernità del suo prodotto è la liquidazione delle virtù dei modi di produzione anteriori. Consumare equivale ad emanciparsi! trasgredire ad essere liberi! godere ad essere rivoluzionari!!!
In altre parole, la strategia neocapitalista di seduzione delle popolazioni votate alla nuova produzione (verso la nuova società) si oggettiva nella merce. Quest'ultima è innanzitutto una forma di rapporto che svia dalla lotta di classe e propone come liberazione la modalità dell'alienazione.
Vedremo che questo procedimento ha trovato il proprio servizio pubblicitario, al vertice, grazie al freudo-marxismo." (pg. 50-51)


Secondo me, l'autore non ha capito molto di quella temperie culturale, specie per quanto riguarda il suo sviluppo, ben più interessante (parlo soprattutto dell'Italia, ma non solo), del decennio successivo, ovvero gli anni settanta.
Concetti come desiderio, godimento etc non erano mai separati da una critica radicale alle merci, anzi, nelle pratiche quotidianamente portate avanti dagli autonomi -l'esproprio, le autoriduzioni etc- era intrinsecamente contenuto il disprezzo della forma merce, tanto nel suo aspetto di fantasmagoria spettacolare (per usare termini in auge all'epoca), quanto in quello di feticcio per il quale il lavoratore comune era disposto a sacrificare ogni cosa, dal tempo al piacere, dalle passioni ai rapporti interpersonali, insomma la vita.

LupoSciolto°
10-05-16, 10:26
Secondo me, l'autore non ha capito molto di quella temperie culturale, specie per quanto riguarda il suo sviluppo, ben più interessante (parlo soprattutto dell'Italia, ma non solo), del decennio successivo, ovvero gli anni settanta.
Concetti come desiderio, godimento etc non erano mai separati da una critica radicale alle merci, anzi, nelle pratiche quotidianamente portate avanti dagli autonomi -l'esproprio, le autoriduzioni etc- era intrinsecamente contenuto il disprezzo della forma merce, tanto nel suo aspetto di fantasmagoria spettacolare (per usare termini in auge all'epoca), quanto in quello di feticcio per il quale il lavoratore comune era disposto a sacrificare ogni cosa, dal tempo al piacere, dalle passioni ai rapporti interpersonali, insomma la vita.

Su questo punto ti rispondo con un breve estratto da un articolo di Preve. Se vorrai confrontarti su un terreno prettamente "filosofico", potrai farlo con Logomaco.

"La nozione di Comunismo in Marx è costruita su quella di Bisogno. Il comunismo è quella società in cui ognuno riceverà secondo i suoi bisogni. Ovviamente, tutti sanno che ci sono bisogni primari (mangiare, bere, vestirsi, abitare), bisogni secondari (mangiare, bere, vestirsi, abitare in modo confortevole) ed infine bisogni terziari (leggere un libro, andare in Madagascar a vedere le proscimmie, eccetera). Il comunismo non parte, come Rousseau, da un concetto naturalistico dei bisogni, ma da quello dei "bisogni ricchi", che possono essere cioè soddisfatti sulla base dello sviluppo delle forze produttive e del general intellect. Io ho conosciuto molti "miserabilisti" ascetici ed invidiosi che si ritenevano erroneamente "marxisti", so bene che Marx li avrebbe presi a calci nel sedere per le rampe delle sue scale, ma non sono mai riuscito a fargli capire che la semplice "invidia per i ricchi" non era un fattore della coscienza comunista. Il comunismo è la società dei bisogni ricchi. Ma per parlare di Bisogni è necessario rivolgersi agli antichi greci, terra sconosciuta per i marxisti. I greci, e non solo Epicuro, si erano già occupati moltissimo dei bisogni, in modo generalmente non repressivo (come fecero poi i cristiani, noti autocastratori, mangiatori di cavallette e residenti su colonne). Il bisogno arricchisce l'uomo, purché l'uomo sia sempre il padrone. Tutto qui. Ma è un tutto qui che implica una rivoluzione mentale gigantesca. Il Desiderio, invece, proprio quello che Deleuze e Negri ritengono essere la fonte del comunismo, è proprio l'elemento riproduttore strutturale del consumo capitalistico. Il capitalismo vive di desideri, non di bisogni. I bisogni possono essere soddisfatti, ma in questo modo si avrebbe subito una crisi di sovrapproduzione e di sottoconsumo. I desideri invece sono infiniti, illimitati ed indeterminati per loro stessa natura. È questo il segreto della produzione capitalistica, la sua nevrotica infinitezza. Psicologi heideggeriani come Umberto Galimberti lo capiscono vagamente, anche se hanno scelto l'interiorità all'ombra dell'Inserto Donna de La Repubblica. I cosiddetti negriani invece non lo capiscono assolutamente, e ci si potrebbe aspettare da loro solo un risolino nevrotico di compatimento. Ma tutta la banda variopinta dei loro seguaci continuerà ad andargli dietro, ed anzi si ingrosserà, perché in questo modo possono avere la quadratura del circolo da loro agognata, l'idea di rivoluzione astratta ed il consumo capitalistico concreto. È per questo che sono pessimista."

http://www.kelebekler.com/occ/disobbed12.htm

Lèon Kochnitzky
10-05-16, 21:39
Porrei un interrogativo. Il comunismo per funzionare abbisognerebbe che tutti gli individui partecipassero alla produzione (e senza coercizione è impossibile, ecco perché non si è mai andati oltre il socialismo), dal momento che poi c'è tutto un sottobosco di esseri sociali che per varie ragioni non possono partecipare a tale produttività. O se possono farlo, lo possono fare, appunto in "base alle possibilità" (ma dovranno ricevere come tutti, in "base ai bisogni"). Dunque, serve sempre un esercito di riserva che produca di più , per poter "sfamare" tutte le bocche: sia quelle produttive che quelle improduttive. Altrimenti, si avrebbe un meccanismo darwiniano (che abbiamo visto in certi regimi poco umanitari).
Non ho mai capito, il marxismo storico, come si ponga di fronte a questa prerogativa. Soprattutto in chiave nazionale.
Diverso il discorso, invece, per altre ideologie/filosofie che, forse, facendo un ragionamento organicistico e statosocialista, sanno che il capitalismo più che abbattuto va corretto e diretto, per trarne al meglio i benefici e di conseguenza meglio redistribuire la ricchezza, sia verso chi produce che chi non produce.

Logomaco
10-05-16, 21:56
Porrei un interrogativo. Il comunismo per funzionare abbisognerebbe che tutti gli individui partecipassero alla produzione (e senza coercizione è impossibile, ecco perché non si è mai andati oltre il socialismo), dal momento che poi c'è tutto un sottobosco di esseri sociali che per varie ragioni non possono partecipare a tale produttività. O se possono farlo, lo possono fare, appunto in "base alle possibilità" (ma dovranno ricevere come tutti, in "base ai bisogni"). Dunque, serve sempre un esercito di riserva che produca di più , per poter "sfamare" tutte le bocche: sia quelle produttive che quelle improduttive. Altrimenti, si avrebbe un meccanismo darwiniano (che abbiamo visto in certi regimi poco umanitari).
Non ho mai capito, il marxismo storico, come si ponga di fronte a questa prerogativa. Soprattutto in chiave nazionale.
Diverso il discorso, invece, per altre ideologie/filosofie che, forse, facendo un ragionamento organicistico e statosocialista, sanno che il capitalismo più che abbattuto va corretto e diretto, per trarne al meglio i benefici e di conseguenza meglio redistribuire la ricchezza, sia verso chi produce che chi non produce.

Questo è più un problema tecnico che altro...creando un surplus di produzione e' possibile mantenere i membri della comunità che per qualche ragione non partecipano al processo produttivo

Lèon Kochnitzky
10-05-16, 22:23
Questo è più un problema tecnico che altro...creando un surplus di produzione e' possibile mantenere i membri della comunità che per qualche ragione non partecipano al processo produttivo

E ma all'interno di un'organizzazione comunista come lo crei questo surplus? Nei regimi socialisti abbiamo visto che il burocratismo ha preso il sopravvento e le politiche economiche non hanno funzionato bene (creando enormi strati di povertà). Lo stato sociale (modello scandinavo) può funzionare solo se c'è un elevato tasso di occupazione che permette all'economia di generare risorse da redistribuire. Molti neo-marxisti, però, sono anche decrescisti (non è il caso di lupo) e vorrei capire come immaginano l'eguaglianza nella redistribuzione, se le risorse sono limitate per non danneggiare l'ambiente.

Logomaco
10-05-16, 23:36
E ma all'interno di un'organizzazione comunista come lo crei questo surplus? Nei regimi socialisti abbiamo visto che il burocratismo ha preso il sopravvento e le politiche economiche non hanno funzionato bene (creando enormi strati di povertà). Lo stato sociale (modello scandinavo) può funzionare solo se c'è un elevato tasso di occupazione che permette all'economia di generare risorse da redistribuire. Molti neo-marxisti, però, sono anche decrescisti (non è il caso di lupo) e vorrei capire come immaginano l'eguaglianza nella redistribuzione, se le risorse sono limitate per non danneggiare l'ambiente.

Lo sviluppo tecnologico può rendere la produzione più efficiente e meno inquinante

Lèon Kochnitzky
11-05-16, 00:55
Lo sviluppo tecnologico può rendere la produzione più efficiente e meno inquinante

a me non sembra che lo sviluppo tecnologico abbia gettato queste basi.

Logomaco
11-05-16, 13:49
a me non sembra che lo sviluppo tecnologico abbia gettato queste basi.

Perchè vi sono potentissimi interessi che hanno bloccato e bloccano lo sviluppo di tali possibilità

Lèon Kochnitzky
11-05-16, 14:32
un'economia comunista non eterodiretta dallo stato come farebbe a sviluppare una tecnologia di quel tipo?

Logomaco
11-05-16, 14:56
un'economia comunista non eterodiretta dallo stato come farebbe a sviluppare una tecnologia di quel tipo?

Questo non saprei dirlo, ma qualche soluzione eventualmente si troverà. Già oggi vi sono scoperte che vanno in tal senso ma che vengono occultate perchè urtano ben determinati interessi. Il fatto è che bisogna aver ben chiaro che la scienza e quindi i suoi praticanti, gli scienziati, non sono indipendenti dal potere bensì un loro strumento. Quelli più utili e funzionali vanno avanti quelli che non lo sono vengono messi da parte. E' questo il carattere della scienza e della tecnica, e più in generale della "cultura" sotto il capitalismo imperante. Il loro sviluppo è sempre funzionale alle logiche del sistema. In un nuovo sistema vi sarebbe necessariamente un nuovo rapporto con la scienza e quindi soluzioni ed esiti diversi da quelli che attualmente conosciamo

LupoSciolto°
12-05-16, 08:33
E' questo il carattere della scienza e della tecnica, e più in generale della "cultura" sotto il capitalismo imperante.

Parole sante. Esiste una scienza al soldo del capitale (che non vuole, ovviamente, l'emancipazione dei ceti popolari) e una scienza socialista. Ma vallo a spiegare a certi progressisti!

Egomet
15-05-16, 03:58
"La nozione di Comunismo in Marx è costruita su quella di Bisogno. Il comunismo è quella società in cui ognuno riceverà secondo i suoi bisogni. Ovviamente, tutti sanno che ci sono bisogni primari (mangiare, bere, vestirsi, abitare), bisogni secondari (mangiare, bere, vestirsi, abitare in modo confortevole) ed infine bisogni terziari (leggere un libro, andare in Madagascar a vedere le proscimmie, eccetera). Il comunismo non parte, come Rousseau, da un concetto naturalistico dei bisogni, ma da quello dei "bisogni ricchi", che possono essere cioè soddisfatti sulla base dello sviluppo delle forze produttive e del general intellect. Io ho conosciuto molti "miserabilisti" ascetici ed invidiosi che si ritenevano erroneamente "marxisti", so bene che Marx li avrebbe presi a calci nel sedere per le rampe delle sue scale, ma non sono mai riuscito a fargli capire che la semplice "invidia per i ricchi" non era un fattore della coscienza comunista. Il comunismo è la società dei bisogni ricchi. Ma per parlare di Bisogni è necessario rivolgersi agli antichi greci, terra sconosciuta per i marxisti. I greci, e non solo Epicuro, si erano già occupati moltissimo dei bisogni, in modo generalmente non repressivo (come fecero poi i cristiani, noti autocastratori, mangiatori di cavallette e residenti su colonne). Il bisogno arricchisce l'uomo, purché l'uomo sia sempre il padrone. Tutto qui. Ma è un tutto qui che implica una rivoluzione mentale gigantesca. Il Desiderio, invece, proprio quello che Deleuze e Negri ritengono essere la fonte del comunismo, è proprio l'elemento riproduttore strutturale del consumo capitalistico. Il capitalismo vive di desideri, non di bisogni. I bisogni possono essere soddisfatti, ma in questo modo si avrebbe subito una crisi di sovrapproduzione e di sottoconsumo. I desideri invece sono infiniti, illimitati ed indeterminati per loro stessa natura. È questo il segreto della produzione capitalistica, la sua nevrotica infinitezza. Psicologi heideggeriani come Umberto Galimberti lo capiscono vagamente, anche se hanno scelto l'interiorità all'ombra dell'Inserto Donna de La Repubblica. I cosiddetti negriani invece non lo capiscono assolutamente, e ci si potrebbe aspettare da loro solo un risolino nevrotico di compatimento. Ma tutta la banda variopinta dei loro seguaci continuerà ad andargli dietro, ed anzi si ingrosserà, perché in questo modo possono avere la quadratura del circolo da loro agognata, l'idea di rivoluzione astratta ed il consumo capitalistico concreto. È per questo che sono pessimista."

http://www.kelebekler.com/occ/disobbed12.htm

Ravviso lo stesso fraintendimento del contributo pubblicato nella pagina precedente.
il desiderio in questione, infatti, non è l'isterica accumulazione di merci propria del capitalismo, alla quale opporre un rigorismo morale di dubbia matrice, bensì la volontà di realizzarsi in quanto individuo e, in una declinazione più sociale, in quanto comunità.
Ben lontano dall'essere un istinto bulimico di possesso, si traduce nella ricerca di una dimensione realmente propria (o collettiva).
A ben guardare, non vi è nulla di più "rivoluzionario".
Ovviamente anch'io critico sia di Negri sia di Deleuze (di quest'ultimo talvolta mi irrita perfino il modo di scrivere), ma per ragioni diverse rispetto a quelle addotte da Preve, con il quale, ancora una volta, mi trovo in disaccordo.

LupoSciolto°
16-05-16, 16:24
Ravviso lo stesso fraintendimento del contributo pubblicato nella pagina precedente.
il desiderio in questione, infatti, non è l'isterica accumulazione di merci propria del capitalismo, alla quale opporre un rigorismo morale di dubbia matrice, bensì la volontà di realizzarsi in quanto individuo e, in una declinazione più sociale, in quanto comunità.
Ben lontano dall'essere un istinto bulimico di possesso, si traduce nella ricerca di una dimensione realmente propria (o collettiva).

Quindi pensi che sia possibile superare la "forma merce" rimanendo all'intero di un sistema produttivo-speculativo come il nostro? Io non credo. Pratiche alternative come l'autogestione e l'occupazione della casa (purché venga data a persone bisognose e non certo a tossici e punkabbestia) sono azioni meritevoli di rispetto. Alle volte, ti dirò di più, si pongono come necessità. Ma l'ho già scritto: le "isole felici" durano poco. E' necessario abbattere o superare il capitalismo.

Egomet
18-05-16, 05:03
Quindi pensi che sia possibile superare la "forma merce" rimanendo all'intero di un sistema produttivo-speculativo come il nostro?

Parlando in termini astratti, quindi sospendendo per un attimo critica alle narrazioni, scetticismo nei confronti di qualsiasi ordinamento sociale etc. e fingendo di credere possibile un cambiamento, risponderei di no o, per essere più precisi, non completamente.
Determinate prassi, tuttavia, potrebbero incarnare l'ideale prodromo di un più ampio rivolgimento, una cellula nettamente più vitale, in quanto teatro di mutamenti ancora vagheggiati nella loro forma dfinitiva ma già parzialmente esperibili nel quotidiano, di qualsiasi indottrinamento teorico.

LupoSciolto°
18-05-16, 18:17
Parlando in termini astratti, quindi sospendendo per un attimo critica alle narrazioni, scetticismo nei confronti di qualsiasi ordinamento sociale etc. e fingendo di credere possibile un cambiamento, risponderei di no o, per essere più precisi, non completamente.
Determinate prassi, tuttavia, potrebbero incarnare l'ideale prodromo di un più ampio rivolgimento, una cellula nettamente più vitale, in quanto teatro di mutamenti ancora vagheggiati nella loro forma dfinitiva ma già parzialmente esperibili nel quotidiano, di qualsiasi indottrinamento teorico.

Quindi autogestione, autoproduzione e occupazione di case sfitte? Non ho mai detto di essere contrario a queste pratiche. Se, però, ci illudiamo di poter creare una nuova società (scusa se non parlo di individui...ma per me una certa dicotomia è cosa superata) , significa che dovremo fare i conti con i manganelli degli sbirri. Una dittatura popolare o proletaria, in questo senso, garantisce le conquiste sociali.

Egomet
18-05-16, 19:20
Quindi autogestione, autoproduzione e occupazione di case sfitte? Non ho mai detto di essere contrario a queste pratiche. Se, però, ci illudiamo di poter creare una nuova società (scusa se non parlo di individui...ma per me una certa dicotomia è cosa superata) , significa che dovremo fare i conti con i manganelli degli sbirri. Una dittatura popolare o proletaria, in questo senso, garantisce le conquiste sociali.

Sempre restando in quella sorta di sospensione di cui parlavo prima, risponderei di non badare soltanto alle pratiche, di per sé fondamentali, ma anche al tipo di relazioni formatesi in seguito alla sperimentazione delle stesse.
Essere partecipi e in una certa misura artefici di un processo di emancipazione, nel quale il vituperato desiderio -nell'accezione prima considerata, non la fame di merci- gioca un ruolo di primo piano, porta ad una conseguente volontà di difenderne le conquiste.
Con la diminuzione, seppur minima, dello scarto tra il conquistato e il conquistabile aumenterà la voglia di addentrarsi sempre di più nelle dinamiche di liberazione del quotidiano.
Tutto ciò in chiave teorica e finanche romantica.

Se dovessi realmente dare un consiglio a una forza comunista per ottenere il potere, le suggerirei -impresa impossibile- di restaurare la grande narrazione socialista e soggiogare le masse affinché spianino la strada della conquista a suon di morti.
Sfortunatamente per il comunismo, l'epoca non è propizia per miti di quel genere.
Non è detto, però, che in un clima di crescente fame di narrato, l'epopea comunista non ritrovi nuova linfa.
Al momento non vedo le condizioni perché ciò possa verificarsi.

LupoSciolto°
18-05-16, 19:25
Non è detto, però, che in un clima di crescente fame di narrato, l'epopea comunista non ritrovi nuova linfa.
Al momento non vedo le condizioni perché ciò possa verificarsi.

Scrivi bene: non è detto!

Hynkel
18-05-16, 23:52
Questo non saprei dirlo, ma qualche soluzione eventualmente si troverà. Già oggi vi sono scoperte che vanno in tal senso ma che vengono occultate perchè urtano ben determinati interessi. Il fatto è che bisogna aver ben chiaro che la scienza e quindi i suoi praticanti, gli scienziati, non sono indipendenti dal potere bensì un loro strumento. Quelli più utili e funzionali vanno avanti quelli che non lo sono vengono messi da parte. E' questo il carattere della scienza e della tecnica, e più in generale della "cultura" sotto il capitalismo imperante. Il loro sviluppo è sempre funzionale alle logiche del sistema. In un nuovo sistema vi sarebbe necessariamente un nuovo rapporto con la scienza e quindi soluzioni ed esiti diversi da quelli che attualmente conosciamo
È come se avessi completato il discorso che ho fatto nella discussione sui ricercatori universitari, grazie.

Sentenza
25-05-16, 20:25
Lo sviluppo tecnologico può rendere la produzione più efficiente e meno inquinante

Scusate l'intromissione, ma lo sviluppo tecnologico non nasce sugli alberi.

Logomaco
25-05-16, 20:54
Scusate l'intromissione, ma lo sviluppo tecnologico non nasce sugli alberi.

Chiaro. Bisogna investire nella ricerca, e deve farlo sopratutto lo Stato sostenendo e direzionando i talentuosi verso lo sviluppo di soluzioni tecniche utili per la comunità

Sentenza
26-05-16, 18:37
Chiaro. Bisogna investire nella ricerca, e deve farlo sopratutto lo Stato sostenendo e direzionando i talentuosi verso lo sviluppo di soluzioni tecniche utili per la comunità

Volevo dire che chi sviluppa la tecnologia non è molto contento di dover pagare 10 stipendi col suo lavoro.

Tiresia
26-05-16, 19:57
Il 68 è una truffa.

Molto meglio il 69

Kavalerists
26-05-16, 21:00
Il 68 è una truffa.

Molto meglio il 69
Ma sempre meno truffa del liberismo.

P.S.: Tiresia, le tue battute qui non sono gradite e non fanno ridere nessuno.
Puoi andare a sfogarti su Liberalismo, loro saranno molto più comprensivi con te.
Ciao.

Logomaco
26-05-16, 21:25
Volevo dire che chi sviluppa la tecnologia non è molto contento di dover pagare 10 stipendi col suo lavoro.

Non risulta che i ricercatori in genere paghino 10 stipendi col loro lavoro :confused:

Sentenza
28-05-16, 12:50
Ma sempre meno truffa del liberismo.

P.S.: Tiresia, le tue battute qui non sono gradite e non fanno ridere nessuno.
Puoi andare a sfogarti su Liberalismo, loro saranno molto più comprensivi con te.
Ciao.

Il '68 non è liberismo, ma liberalismo. La differenza c'è, ma insomma...

Sentenza
28-05-16, 12:51
Non risulta che i ricercatori in genere paghino 10 stipendi col loro lavoro :confused:

Pure di più. Chi porta risultati produce anche per 50 stipendi. A lui vanno 1000 € al mese, gli altri 49000 a chi non fa un cazzo.

LupoSciolto°
28-05-16, 16:07
Il '68 non è liberismo, ma liberalismo. La differenza c'è, ma insomma...

Il liberalismo filosofico-politico , nei fatti, legittima lo sfruttamento neoliberista.

Sentenza
28-05-16, 16:09
Il liberalismo filosofico-politico , nei fatti, legittima lo sfruttamento neoliberista.

Infatti per questo ho detto "ma insomma".

Logomaco
28-05-16, 17:25
Pure di più. Chi porta risultati produce anche per 50 stipendi. A lui vanno 1000 € al mese, gli altri 49000 a chi non fa un cazzo.

Vabbè questi sono i tuoi soliti discorsi qualunquisti, poche eccezioni che non valgono una generalizzazione :wz

Kavalerists
28-05-16, 17:31
Il '68 non è liberismo, ma liberalismo. La differenza c'è, ma insomma...
Certo. Ma infatti Tiresia è liberismo, non liberalismo.

Sentenza
28-05-16, 18:25
Vabbè questi sono i tuoi soliti discorsi qualunquisti, poche eccezioni che non valgono una generalizzazione :wz

Il qualunquismo è il tuo, che non hai la più pallida idea di quanto valga un lavoro. Io so di cosa parlo, tu no.

Sentenza
28-05-16, 18:26
Certo. Ma infatti Tiresia è liberismo, non liberalismo.

Sì, ma i liberisti sono liberisti fino a un certo punto, fino a quando gli conviene.

Logomaco
28-05-16, 20:31
Il qualunquismo è il tuo, che non hai la più pallida idea di quanto valga un lavoro. Io so di cosa parlo, tu no.

Io so che molti valgono meno dello stipendio che intascano, poi ci sono quelli che valgono di più ma sono pochi

Logomaco
28-05-16, 20:35
Poi non ho capito la tua opposizione, io ho detto che in una situazione positiva i ricercatori devono avere le capacità e ricercare ciò che è utile alla comunità, quindi tecnologie pulite per ridurre l'inquinamento, ecc...se non ti sta bene è un problema tuo non mio, tornatene su DR e tanti saluti :-0008p

Kavalerists
29-05-16, 00:55
Sì, ma i liberisti sono liberisti fino a un certo punto, fino a quando gli conviene.
infatti. e non è una nota di merito, anzi...

Sentenza
29-05-16, 08:34
Io so che molti valgono meno dello stipendio che intascano, poi ci sono quelli che valgono di più ma sono pochi

Parlo di chi sviluppa tecnologia. Io sono fra questi, e il mio lavoro è pagato 500 € al giorno. E io sono nella media, non sono fra gli ingegneri più bravi. Pensa quanto può valere il lavoro di un ricercatore che contribuisce a scoprire come miniaturizzare un transistor, tanto per dire. Vale una barca di soldi che neanche ti immagini, ma a lui non va una Lira. Capisco che ti piaccia sempre provocare, ma ho l'impressione che ti avventuri in campi di cui sai molto poco.

Sentenza
29-05-16, 08:36
Poi non ho capito la tua opposizione, io ho detto che in una situazione positiva i ricercatori devono avere le capacità e ricercare ciò che è utile alla comunità, quindi tecnologie pulite per ridurre l'inquinamento, ecc...se non ti sta bene è un problema tuo non mio, tornatene su DR e tanti saluti :-0008p

Io ti ho spiegato qual è la realtà. Me ne torno su DR, così puoi continuare a raccontare fregnacce senza contraddittorio.

Logomaco
29-05-16, 11:17
Parlo di chi sviluppa tecnologia. Io sono fra questi, e il mio lavoro è pagato 500 € al giorno. E io sono nella media, non sono fra gli ingegneri più bravi. Pensa quanto può valere il lavoro di un ricercatore che contribuisce a scoprire come miniaturizzare un transistor, tanto per dire. Vale una barca di soldi che neanche ti immagini, ma a lui non va una Lira. Capisco che ti piaccia sempre provocare, ma ho l'impressione che ti avventuri in campi di cui sai molto poco.

500 euri al giorno sono tanti, di che ti lamenti? :)

Logomaco
29-05-16, 11:18
Io ti ho spiegato qual è la realtà. Me ne torno su DR, così puoi continuare a raccontare fregnacce senza contraddittorio.

Io vengo regolarmente censurato su DR. Le fregnacce le racconti tu e i tuoi amici fascisti. Se ti senti frustrato perché il lavoro non ti va bene e c'è troppa ecologia vai a sfogarti da un'altra parte :snob:

Sentenza
29-05-16, 11:41
500 euri al giorno sono tanti, di che ti lamenti? :)

Sì e secondo te quei soldi finiscono a me?

Sentenza
29-05-16, 11:46
Io vengo regolarmente censurato su DR. Le fregnacce le racconti tu e i tuoi amici fascisti. Se ti senti frustrato perché il lavoro non ti va bene e c'è troppa ecologia vai a sfogarti da un'altra parte :snob:

A me sembra che ti lascino parlare su DR. Io non mi sento frustrato, ho semplicemente sottolineato il fatto che, in un futuro robotizzato, sorgerà il problema che chi sviluppa tecnologia non sarà molto contento di dividere il suo stipendio con chi non farà un cazzo. E' un problema da considerare, tutto qua. E voi non lo considerate.

Logomaco
29-05-16, 12:20
A me sembra che ti lascino parlare su DR. Io non mi sento frustrato, ho semplicemente sottolineato il fatto che, in un futuro robotizzato, sorgerà il problema che chi sviluppa tecnologia non sarà molto contento di dividere il suo stipendio con chi non farà un cazzo. E' un problema da considerare, tutto qua. E voi non lo considerate.

Dipende da come si configureranno i rapporti di forza. Il mio era un ragionamento futuribile, oggi mancano le condizioni per una ridistribuzione efficace della ricchezza e uno sviluppo tecnologico armonico: questo lo consideriamo in maniera assai attenta. Il discorso teleologico e' una distorsione del pensiero comunista. Semmai ha senso la sospensione teleologica tramite la quale si osserva lo svolgersi degli eventi. Intanto la crisi c'è e continua

Lèon Kochnitzky
29-05-16, 16:11
mancavano i classici sproloqui liberali e liberisti.

(libertari no, perchè poi sconfinano in un terreno che non è più veteroconservatore alla Trump, che gli fa rizzar l'uccellino ai liberali che son liberali sono quando si tratta di lavoro, tasse e guadagni, ma per le questioni etiche no)

Sentenza
29-05-16, 16:15
Noia noia noia i soliti sproloqui liberali e liberisti.

(libertari no, perchè poi sconfinano in un terreno che non è più veteroconservatore alla Trump, che gli fa rizzar l'uccellino ai liberali che son liberali sono quando si tratta di lavoro, tasse e guadagni, ma per le questioni etiche no)

Il liberale sei tu. Poi puoi fare tutte le sfumature che vuoi sulla differenza fra liberali e libertari, ma sono appunto sfumature da topo di biblioteca. Il concetto di fondo è lo stesso: la libertà individuale come tema della massima importanza.

Kavalerists
29-05-16, 20:03
A me sembra che ti lascino parlare su DR. Io non mi sento frustrato, ho semplicemente sottolineato il fatto che, in un futuro robotizzato, sorgerà il problema che chi sviluppa tecnologia non sarà molto contento di dividere il suo stipendio con chi non farà un cazzo. E' un problema da considerare, tutto qua. E voi non lo considerate.
In un futuro robotizzato, forse neanche troppo lontano ( ma spero comunque di non esserci... ) quello che si prospetta è che ci saranno pochissimi individui che lavoreranno nel settore, e numeri sterminati di individui che non avranno da lavorare. Ma avranno comuque la necessità di soddisfare almeno i bisogni primari. Ed è un problema che purtroppo nessuno sta prendendo in seria considerazione, almeno così mi sembra.

Sentenza
29-05-16, 20:32
In un futuro robotizzato, forse neanche troppo lontano ( ma spero comunque di non esserci... ) quello che si prospetta è che ci saranno pochissimi individui che lavoreranno nel settore, e numeri sterminati di individui che non avranno da lavorare. Ma avranno comuque la necessità di soddisfare almeno i bisogni primari. Ed è un problema che purtroppo nessuno sta prendendo in seria considerazione, almeno così mi sembra.

Esatto. Hai detto la stessa identica cosa che dico io. Ma qua c'è qualcuno che passa il tempo in biblioteca a farsi le seghe se sia libertario o liberale invece di pensare ai problemi seri che appaiono all'orizzonte.

Kavalerists
29-05-16, 21:14
Esatto. Hai detto la stessa identica cosa che dico io. Ma qua c'è qualcuno che passa il tempo in biblioteca a farsi le seghe se sia libertario o liberale invece di pensare ai problemi seri che appaiono all'orizzonte.
Sì, ma io, allo stato attuale, non vedo soluzione diversa da un RMG. Certo, c'è anche chi potrebbe pensare che il problema sia facilmente risolvibile sopprimendo la popolazione considerata "inutile" perchè inoccupata...
Magari il futuro, che non è prevedibile al 100%, ci sorprenderà con soluzioni e modi di adattamento inaspettati, e al momento non immaginabili, chissà...
Credo che Logomaco e Dean M. volessero dire che, nella situazione attuale della quale si deve prendere atto per cercare una soluzione, partire dicendo che "chi sviluppa tecnologia non sarà molto contento di dividere il suo stipendio con chi non farà un cazzo" ( certo non per scelta sua... ) non è un buon inizio verso la ricerca di una risoluzione del problema.
Voglio dire: non ci sono molte altre soluzioni al momento tra le quali scegliere, sarebbe il caso di pensarci, prima che il problema diventi esplosivo e drammatico.

Sentenza
30-05-16, 19:11
Sì, ma io, allo stato attuale, non vedo soluzione diversa da un RMG. Certo, c'è anche chi potrebbe pensare che il problema sia facilmente risolvibile sopprimendo la popolazione considerata "inutile" perchè inoccupata...
Magari il futuro, che non è prevedibile al 100%, ci sorprenderà con soluzioni e modi di adattamento inaspettati, e al momento non immaginabili, chissà...
Credo che Logomaco e Dean M. volessero dire che, nella situazione attuale della quale si deve prendere atto per cercare una soluzione, partire dicendo che "chi sviluppa tecnologia non sarà molto contento di dividere il suo stipendio con chi non farà un cazzo" ( certo non per scelta sua... ) non è un buon inizio verso la ricerca di una risoluzione del problema.
Voglio dire: non ci sono molte altre soluzioni al momento tra le quali scegliere, sarebbe il caso di pensarci, prima che il problema diventi esplosivo e drammatico.

Ma pure io penso che la soluzione del problema sia un reddito minimo per tutti. Poi, come dici tu, magari si troveranno altre alternative, ma per adesso non ne vedo. E non è detto che ce ne siano, può pure essere che sia l'unica. Ma partire dicendo la verità è un buon inizio, perché altrimenti ci prendiamo per il culo sapendo di farlo. Chi è in grado di lavorare nella robotica dovrà rassegnarsi a cedere una parte dello stipendio a chi non è in grado.

Lèon Kochnitzky
30-05-16, 22:05
Sì, ma io, allo stato attuale, non vedo soluzione diversa da un RMG. Certo, c'è anche chi potrebbe pensare che il problema sia facilmente risolvibile sopprimendo la popolazione considerata "inutile" perchè inoccupata...
Magari il futuro, che non è prevedibile al 100%, ci sorprenderà con soluzioni e modi di adattamento inaspettati, e al momento non immaginabili, chissà...
Credo che Logomaco e Dean M. volessero dire che, nella situazione attuale della quale si deve prendere atto per cercare una soluzione, partire dicendo che "chi sviluppa tecnologia non sarà molto contento di dividere il suo stipendio con chi non farà un cazzo" ( certo non per scelta sua... ) non è un buon inizio verso la ricerca di una risoluzione del problema.
Voglio dire: non ci sono molte altre soluzioni al momento tra le quali scegliere, sarebbe il caso di pensarci, prima che il problema diventi esplosivo e drammatico.

E' inutile che cercassi (io) di spiegare a sentenza un discorso di suggestioni ecc. (quando parlo di libertario e non di liberale) perche' ci imbarcheremmo in un terreno troppo complesso di ragionamenti.

Io sono anti-liberale, ma mi definisco anche libertario (anche, non solo, perché altrimenti sarei un pannelliano), il che non significa essere un fan della società popperiana, ma vuol dire avere un anelito alla libertà, in virtù del principio zarathustriano.
D'altronde non sono di sinistra né progressista, quindi non sono neanche troppo lontano dalla visione del mondo che ha sentenza, ma di certo rifiuto dei legami con una prospettiva bigotta e conservatrice.

Avanguardia
31-05-16, 00:30
E' inutile che cercassi (io) di spiegare a sentenza un discorso di suggestioni ecc. (quando parlo di libertario e non di liberale) perche' ci imbarcheremmo in un terreno troppo complesso di ragionamenti.

Io sono anti-liberale, ma mi definisco anche libertario (anche, non solo, perché altrimenti sarei un pannelliano), il che non significa essere un fan della società popperiana, ma vuol dire avere un anelito alla libertà, in virtù del principio zarathustriano.
D'altronde non sono di sinistra né progressista, quindi non sono neanche troppo lontano dalla visione del mondo che ha sentenza, ma di certo rifiuto dei legami con una prospettiva bigotta e conservatrice.
Chiaro! siamo sempre persone, non robot.

Erdosain
16-06-16, 11:13
Queste riflessioni sono particolarmente interessanti dato che provengono da un collettivo che, nonostante sia una spanna avanti ai suoi colleghi in fatto di analisi, è nel bene e nel male figlio del '68, del '77 e della loro retorica; la loro lucidità e capacità di auto-critica è encomiabile e purtroppo molto rara


L'anti-marxismo congenito del pensiero strutturalista (L?anti-marxismo congenito del pensiero post-strutturalista « (http://www.militant-blog.org/?p=11840))

Ci accorgiamo con colpevole ritardo di una pubblicazione illuminante, sebbene dai tratti filosofici marcati e quasi per addetti ai lavori, sul ruolo che il pensiero post-strutturalista francese ha avuto riguardo alla costruzione di un paradigma politico anti-marxista, raccolto da una parte dei movimenti sociali dal ’68 in avanti. Un problema affatto attuale, visto che un certo modus pensandi, per così dire, è ancora alla base dell’azione politica di parte dei movimenti sociali.

Pur non avendo noi particolari competenze filosofiche, il testo di Rehmann, con l’importante prefazione di Stefano Azzarà, chiarisce in che termini il pensiero di Nietzsche, o per meglio dire della triade Spinoza-Nietzsche-Heiddeger, sia stato utilizzato in funzione antagonista e superatrice del pensiero marxista o, anche qui per meglio specificare, della linea di sviluppo che da Hegel porta a Lenin tramite la necessaria evoluzione operata da Marx ed Engels della dialettica hegeliana. Tale ribaltamento ideologico avviene tramite il lavoro in particolare di due autori ancora oggi presi a modello di un certo “pensiero rivoluzionario”, Deleuze e Foucault, massimi esponenti di quel gauchismo parigino travolto dalle sommosse del maggio francese e per via di queste costretto a convertire parti importanti della propria impostazione filosofica in funzione di un discorso “di sinistra” legittimante quei moti di ribellione. E’ infatti opportuno ricordare, con Rehmann, che Foucault, “impressionato dal movimento del Sessantotto, compie uno spostamento a sinistra che spiazza completamente molti suoi contemporanei. Bisogna tener presente che la sua pubblicazione sino a quel momento di maggior successo, Le parole e le cose, del 1966, a causa del suo aspro regolamento di conti con Marx era stata interpretata da molti come un libro “di destra”. Sartre lo aveva definito come “l’ultimo baluardo” che “la borghesia può ancora erigere contro Marx”[...]A questa ulteriore generalizzazione della critica all’umanismo si riferisce lo stesso Althusser quando nel 1966 si scaglia contro le “interviste piene di cretinate su Marx” di Foucault. Dal 1965 al ’66, inoltre, Foucault aveva lavorato al progetto gollista di riforma universitaria (riforma Fouchet) ed era andato vicino ad essere nominato vicedirettore del settore Università al Ministero dell’Istruzione, se non fosse stato respinto per via della sua omosessualità” (pag.109).

L’origine di questo cambio di paradigma trova le sue ragioni in un disorientamento politico generazionale. Sospinta dalla trasformazione generale del modello produttivo-cognitivo a forme di partecipazione politica sempre più totalizzanti, un’intera generazione individua come “nemico” non solo lo stato di cose presenti, il potere costituito tanto nella forma Stato quanto nelle sue articolazioni più immediate (ad esempio l’università), ma anche quei modelli politici rivelatisi inservibili per un discorso antagonista, come il socialismo realizzato in Unione Sovietica. Come ben esplicitato da Deleuze nel 1973, “Marx e Freud hanno rappresentato il sorgere della civiltà burocratica moderna; il loro progetto era quello di una ricodificazione dello Stato in Marx, della famiglia in Freud. Nietzsche costituisce invece l’irruzione della controcultura. Egli fa del pensiero una forza nomade, una “macchina da guerra” contro la macchina razionale e amministrativa i cui filosofi parlano a nome della ragion pura”. Il Nietzsche di Deleuze si rivolge in questo modo direttamente ai rivoluzionari dei nostri giorni: abbiamo bisogno di una “macchina da guerra” che non produca un nuovo apparato statale (pag. 19).

Il recupero di Nietzsche si inserisce allora in quell’opera di ricerca di un pensiero “davvero” rivoluzionario, “altro” rispetto al sistema di dominio tanto capitalista quanto socialista, perfettamente speculari, parrebbe, nel costruire sistemi di assoggettamento dell’individuo al controllo sociale. Il pensiero deleuze-foucaultiano è allora una forma di nietzscheanesimo, un “nietzscheanesimo di sinistra”, che come obiettivo ha quello di demolire la dialettica hegeliana e di superare il concetto di lotta di classe in favore della volontà di potenza, una volontà liberata, tramite questi autori, degli spunti più marcatamente cripto-fascisti per divenire emblema di un pensiero differenzialista e presuntamente democratico-assoluto, nel senso di elevare la ribellione dell’individuo contro ogni ingerenza collettiva organizzata (lo Stato). Come afferma Azzarà nell’introduzione citando Vattimo, “quella società che si voleva radicalmente nuova [il socialismo, ndr], insomma, veniva contestata come non abbastanza rivoluzionaria e Nietzsche veniva assimilato come la possibile fonte di una spinta rivoluzionaria ulteriore, come l’ispiratore – “antifascista” e “antitotalitario” ad un tempo – di una rivoluzione più “autentica” o addirittura “permanente”, di un socialismo “più vero” perché più attento alle ragioni dell’individuo e alle “aspirazioni di libertà di autenticità, di rinnovamento profondo dell’uomo” (pag. 13). Il comunismo sovietico costituiva l’obiettivo della polemica, in quanto traditore del “sogno di una cosa”, e Marx associato direttamente, sin nelle più contingenti particolarità, alla costruzione del socialismo in Urss. Partendo da un presupposto politico-culturale tipico della polemica liberale (il pensiero di Marx porta direttamente al Gulag: nel 1976 Foucault “ricondurrà immediatamente a Marx il “totalitarismo” quando, in un’entusiastica recensione de I padroni del pensiero di Andrè Glucksmann, indicherà le montagne di cadaveri dello stalinismo come “la verità…denudata” della teoria marxiana [pag. 110]), Deleuze e Foucault fanno propria questa lettura respingendo Marx e il marxismo trovando in Nietzsche il pensiero forte di un ribellismo che non deve più porsi come obiettivo la liberazione generale dallo sfruttamento economico, ma solo presentarsi come alterità inconciliabile alle logiche di potere.

Un potere, per l’occasione trasmutato opportunamente in “biopotere” in quanto perde le sue caratteristiche sociali, di classe, per permeare ogni aspetto della natura umana a prescindere da chi controlla i mezzi di produzione; di cui si indaga, a questo punto necessariamente, una “microfisica”, cioè un insieme di caratteristiche costanti e trasversali ad ogni rapporto di dominio, fondato di per sé sulla violenza. Contro le concezioni del potere incentrate sullo Stato e contro quelle economicistiche, il potere moderno viene definito capillare, e cioè già attivo sul piano più basso del corpo sociale, nelle pratiche sociali quotidiane e, soprattutto, riguardante il rapporto tra individui, non più tra soggetti produttori. In Sorvegliare e punire, il testo foucaultiano più direttamente impegnato nel confronto con Marx, egli “ritiene di aver superato la fissazione marxista all’economia e allo Stato mediante la scoperta di una “microfisica” del potere. Questa microfisica “si esercita a partire da innumerevoli punti, e nel gioco di relazioni diseguali e mobili”, in modo che alla fine – come si dice in un’intervista del 1977 – non si fronteggiano più proletariato e borghesia ma combattiamo “tutti contro tutti” – e c’è sempre qualcosa in noi che combatte qualcos’altro di noi” (pag. 111).

Di qui alla critica totale verso ogni forma di potere il passo è brevissimo, e infatti viene immediatamente compiuto. Col doveroso corollario che obiettivo della politica non dev’essere lottare per il potere, ma combatterlo, cioè porsi in forma conflittuale all’esistente. Anche qui, il passo verso una strutturazione di un pensiero conflittuale-assoluto, in cui non trova spazio la natura umana fondata sulla cooperazione sociale, viene da sé. Il nietzschianesimo foucaultiano si pone come vertice del pensiero “anti-totalitarista”, intendendo come “totalitarismo” non questo o quello specifico ordinamento statale, ma l’ordinamento statale in quanto tale, con le sue istituzioni totalizzanti, con i suoi rapporti di potere fondati sul dominio e la violenza, qualsiasi essi siano. Un legittimazione teorica forte in un contesto, quello dei movimenti francesi post-sessantottini, votato alla lotta contro ogni forma di subordinazione storica.

Non c’è possibile liberazione, politica e/o sociale, perché la natura umana si esplicita in antagonismo alle forme organizzate di controllo. E’ l’intera metafisica a venire meno in funzione di un discorso immanente ed anti-escatologico. L’uomo in sé è il centro: dell’assoggettamento da una parte, della ribellione dell’altra. In questo senso dunque la politica prende la forma di mobilitazione continua, incessante, volta all’esplicitazione di un antagonismo naturale, quello tra individuo e società. L’assunto clausewitziano della guerra come continuazione della politica con altri mezzi viene ribaltato nella politica, adesso, che sarebbe la continuazione della guerra con altri mezzi, intendendo appunto la politica come scontro permanente, movimento basato sulle strategie di conflitto. Ribellismo, tumulto e sommossa divengono concetti cardine attraverso cui smantellare il portato sociale dell’idea di rivoluzione intesa come superamento della condizione di sfruttamento. Questioni, come possiamo ben vedere, di fatto ancora all’ordine del giorno del dibattito politico dei movimenti.

Il recupero di Nietzsche non è allora un fatto neutrale, perché questo viene sviluppato in opposizione a Marx ma soprattutto al marxismo quale teoria generale di interpretazione della società capace di indicare una strada per la sua liberazione. Gli effetti di questo straniamento ideologico sono ancora ben presenti nelle articolazioni del pensiero antagonista, frutto di un paradigma teorico che oggi dovremmo avere la forza di mettere in discussione per capire in cosa i movimenti degli anni settanta non possono più rappresentare il nostro appiglio teorico di riferimento.



Studenti, filosofi e rivolte: alle origini del pensiero minoritario (Studenti, filosofi e rivolte: alle origini del pensiero minoritario « (http://www.militant-blog.org/?p=11996))

Nonostante il superamento del marxismo come ideologia “ufficiale” del campo delle sinistre non abbia portato alla produzione di un altro “pensiero forte”, cioè strutturalmente definito e abbastanza univoco nella sua interpretazione e applicazione, non per questo le sinistre, tanto “di movimento” quanto partitico-istituzionali, sono rimaste prive di una loro guida ideologica. Almeno in Italia, il pensiero tendenzialmente dominante all’interno delle sinistre radicali è scaturito dall’incontro tra il post-strutturalismo francese (Foucault, Deleuze, Guattari), un pezzo di scuola di Francoforte (Marcuse), e la speculazione politico-filosofica post-operaista di Tronti e Negri (descrivendo una sorta di “decrescendo rossiniano”: da Marcuse, uno dei più importanti filosofi del ‘900, a Foucault, uno dei massimi critici del potere costituito e delle sue articolazioni, a Negri, l’esegeta di Spinoza). Non c’è solo questo, ovviamente, ma il cuore del pensiero radicale contemporaneo può situarsi all’incrocio di queste tre “scuole” politico-filosofiche. La sintesi di queste tendenze politico-culturali determina da quarant’anni abbondanti la sostanza del pensiero radicale e conflittuale italiano. Tale pensiero, al di là del giudizio che se ne voglia dare, è caratterizzato però da una contraddizione decennale: sempre più egemone all’interno della mobilitazione politica, fra i militanti, gli studenti, i dirigenti della sinistra, ma sempre più minoritario per la società nel suo complesso e all’interno delle classi subalterne. Siccome ci troviamo all’apogeo di tale contraddizione (non staremo qui a dimostrare quanto risulti ininfluente tale pensiero per i centri di potere costituito, tanto economico quanto politico), comprendere le ragioni di questo minoritarismo diventa parte della riscoperta di strumenti politici all’altezza dei tempi. Lungi dall’essere un discorso esclusivamente intellettualistico, filosofico o astratto, la definizione di questo problema concerne direttamente la quotidianità politica, le lotte di ogni giorno e le loro prospettive. Perché oggi risolvere la questione di come tornare ad esprimere un pensiero maggioritario, almeno interno alla classe, è il problema principale onde evitare la marginalizzazione sub-culturale verso cui stiamo tendendo.

A differenza del pensiero marxista, la sistematizzazione di questo pensiero radicale nasce nelle università, e ci nasce non determinando ma seguendo la crescita della mobilitazione studentesca. Una serie di intellettualità accademiche vengono “tirate per la giacchetta”, costrette a misurarsi con una predisposizione alla rivolta generazionale, alla mobilitazione costante, alla partecipazione politica, che impone agli intellettuali meno imbolsiti la “questione movimento”. Tra il 1942 e il 1951 Herbert Marcuse lavorerà prima all’Oss poi alla Cia; Foucault nel 1966 pubblica il suo libro fino ad allora più importante, Le parole e le cose, che è una resa dei conti con Marx e il marxismo, un libro giudicato “di destra” per la violenza della critica a Marx; Antonio Negri un cattolico militante poi iscritto al Psi. Sono solo esempi, non esaustivi ma significativi non per svelare un “pedigree politico” non conforme alle loro successive evoluzioni (peraltro Marcuse negli anni Venti era comunista spartachista), quanto per chiarire come gli autori principali di questo pensiero non “formano” il movimento studentesco ma vengono da questo formati tramite l’incontro sconvolgente con la soggettività studentesca. Una soggettività che esplode nel 1968 ma che ha i suoi prodromi almeno dall’inizio degli anni Sessanta, quando il definitivo decollo dell’economia europea post-bellica garantisce la creazione di un’università di massa nella quale accedono non più solo i figli del direttore di banca ma anche quelli di una piccola borghesia in ascesa e financo i primi figli di operai. La composizione sociale studentesca cambia forma, producendo contraddizioni che poi sfoceranno nell’eccezionale fenomeno del ’68 e degli anni Settanta in Italia.

La crescente mobilitazione politica di questa soggettività necessitava però di un pensiero radicale capace non soltanto di porre una critica assoluta al sistema capitalista, ma anche di prendere le distanze dal socialismo reale sovietico, di cui i partiti comunisti nazionali erano espressione e principale problema per questo spirito di rivolta. A parte rari esempi (e il Pci, nonostante tutto, rimase uno dei partiti più propenso alla dialettica con il ’68), quella tra partiti comunisti e movimento studentesco è la storia di una rottura immediata e non più risanata, una conflittualità a volte latente a volte plateale. Impossibile servirsi del pensiero marxista “ufficiale”, leninista-staliniano di stampo sovietico, quando nei vari contesti europei la rottura portava la soggettività studentesca a confliggere in primo luogo con quella storia. Servivano strutture di pensiero, ideologie, forme culturali o contro-culturali capaci di prendere le distanze tanto dal capitalismo quanto dal socialismo realizzato, tanto da Washington che da Mosca, tanto dalle democrazie cristiane quanto dai partiti comunisti. E questo fatto è ancora più evidente in Francia per la presenza di un partito, il Pcf, ancor più chiuso del Pci nella sua dialettica interna e nella comprensione dei fenomeni sociali eccedenti la soggettività operaia. Non sarà per caso dunque che proprio dalla Francia verrà lo stimolo decisivo alla rottura con una tradizione politica e la sistematizzazione di nuove forme ideologiche. Una rottura non determinata solo dalla presenza del Pcf, ma dall’egemonia del pensiero cartesiano-razionalista, dal “dominio hegeliano” nei dipartimenti universitari, e via dicendo, che per reazione produrrà il rifiuto del pensiero positivista e storicistico ottocentesco.

All’inizio degli anni Sessanta viene scoperto il pensiero di Mao. Un pensiero utilizzato soprattutto per portare la lotta dentro al partito comunista e contro i dirigenti politici comunisti. Nonostante determini la storia della Cina da un trentennio e ne sia presidente da più di un decennio, è solo dal ’60 in avanti che Mao viene preso a modello di un pensiero rivoluzionario alternativo al socialismo sovietico e al suo marxismo ortodosso. Questo fatto avviene perché di Mao interessa la sua capacità di portare la lotta di classe nel partito, perché anche nel partito, cioè nella supposta avanguardia politica del proletariato, può annidarsi il germe del riformismo, della controrivoluzione, della borghesia. E’ il pensiero che legittima la lotta degli studenti tanto alle destre quanto alle sinistre ufficiali. Il maoismo costituirà parte del retroterra culturale di una serie di autori che poi prenderanno il largo recidendo completamente l’originaria appartenenza al movimento comunista ufficiale, di cui Mao (purtroppo per loro) fa ancora parte. E, ancora una volta, sarà dalla Francia che verrà introdotto questo “maoismo occidentale” quale arma intellettuale anti-sovietica.

Accomunati capitalismo e socialismo reale in un’unica categoria avversa, quella del potere autoritario da combattere prescindendo dalle forme che questo assume, tanto di destra come di sinistra, il cuore del ragionamento politico teorico si sposta dall’anticapitalismo – utile a spiegare solo una parte del problema – all’antiautoritarismo, meglio in grado di cogliere il rifiuto verso ogni imposizione gerarchica e, non secondariamente, utile anche alla lotta quotidiana verso le istituzioni sociali emblema del potere autoritario: in primis l’università, secondo poi tutte le “istituzioni totali” quali il carcere, gli ospedali psichiatrici, eccetera, ma anche i partiti e i sindacati. Il rapporto dialettico tra studenti in cerca di un sistema di pensiero “anti-potere” e autori volti all’indagine del meccanismi del potere stesso, produrrà quel milieu culturale favorevole all’affermazione di una “critica del potere” che non assumerà più i contorni della critica al potere capitalista, quanto di una critica filosofica ai meccanismi del potere, qualsiasi essi siano. E’ in questo tornante filosofico-politico che si situa la riscoperta di Nietzsche “da sinistra”, come autore in grado più del marxismo stesso non solo di spiegare l’intima organizzazione del potere, ma di legittimare la rivolta individuale alle organizzazioni gerarchiche, qualsiasi esse siano: rimandiamo a questa nostra analisi l’analisi del ruolo di Nietzsche e dei nietzscheani nelle correnti di pensiero radicali contemporanee.

Se il marxismo individuava nei rapporti di produzione il cuore del problema, indicando nel capitalismo un insieme di rapporti sociali da ribaltare di segno attraverso la presa del potere, il nuovo pensiero radicale metteva in discussione questa presa del potere. Anche se non esplicitamente, la decostruzione intima delle microfisiche del potere, delle sue caratteristiche sempiterne, delle sue articolazioni necessarie, rendeva il potere qualcosa di autoritario di per sé, qualcosa da cui discostarsi, da combattere qualsiasi forma questo prendesse. La questione non era più chi controllava i rapporti di produzione, ma l’avversione totale, conflittuale, senza mediazioni, al potere costituito. Se il marxismo voleva sostituirsi al capitalismo, il pensiero post-strutturalista/marcusiano non voleva più avere niente a che fare col potere stesso, elaborando una forma di individualismo anti-autoritario che non poteva non incrociarsi col pensiero libertario e anarcoide soprattutto nel porre l’individuo contro la società organizzata.

Tradotta nella quotidianità, tale tendenza si concretizzava abolendo ogni divisione organizzativa riproducibile rapporti di gerarchizzazione formale. L’assemblea, simbolo di organizzazione orizzontale, senza rappresentanti, senza cariche precostituite, senza dunque quelle formalità in grado di riprodurre rapporti di potere anche all’interno dei movimenti, veniva posta ad emblema di una nuova prassi. L’aspetto organizzativo della mobilitazione, inaggirabile anche per gli studenti del ’68, doveva fondarsi sull’informalità tanto delle cariche e dei rappresentanti, quanto dei meccanismi decisionali. L’obiettivo di impedire al proprio interno quelle tendenze che si combattevano all’esterno, quel potere costituito divenuto la questione principale dei movimenti studenteschi, imponeva per coerenza di smantellare al proprio interno ogni forma di gerarchizzazione, di divisione del lavoro non liberamente accettata, ogni rappresentanza indiretta. Una condizione facilitata dall’estrema potenzialità di mobilitazione del soggetto studentesco, disponibile alla partecipazione totalizzante, all’assemblearismo permanente, all’estrema orizzontalità, ad ogni ora del giorno e della notte.

Se per la condizione studentesca, nonchè per gli intellettuali “organici” al movimento, il potere era qualcosa da rifiutare “a prescindere”, così non sembra essere per la società nel suo complesso. Giungiamo allora al centro della contraddizione ancora oggi attuale. La società nel suo complesso – non questo o quel gruppo ristretto – ha bisogno di organizzazione, di divisione dei ruoli, di articolazione politica ed economica: in sintesi, ha bisogno di un potere. Il pensiero marxista, cioè la critica rivoluzionaria al potere capitalista, non chiedeva l’abolizione di ogni potere ma la conquista di un potere popolare, dei lavoratori, capace di ribaltare il rapporto di produzione determinato in forma alienata e fondato sul profitto privato. Era un discorso immediatamente capace di divenire maggioritario, perché esprimeva il bisogno dei lavoratori non di liberarsi dal potere, ma di conquistarlo. E in effetti, in una società divisa in classi, l’ipotesi di una lotta per il potere di una di queste classi non poteva che egemonizzare ogni orizzonte politico. Direttamente o indirettamente, tutte le forze politiche che avessero voluto interagire e rappresentare le classi subalterne dovevano in qualche modo accettare il piano marxista del discorso, anche per distaccarsene. Il marxismo esercitava cioè un’egemonia culturale nel vero senso della parola, cioè influenzava e determinava anche senza volerlo ogni piano del discorso politico, perché capace di tradurre politicamente un istinto sociale storicamente determinato, quello della riappropriazione cooperativa della produzione.

Il pensiero post-strutturalista francese, una parte della cosiddetta scuola di Francoforte, nonché l’operaismo italiano (sebbene in forme diverse e sebbene stiamo parlando principalmente delle teorie al servizio del movimento studentesco), rifiutando il piano del potere, produssero nei fatti una cesura storica con le classi subalterne, a cui non gli si proponeva più una presa del potere ma un conflitto continuo e indeterminato con esso, qualsiasi potere fosse, perché, come recita il verso di uno dei più grandi poeti italiani del ‘900, non ci sono poteri buoni. Ci sembra allora situarsi qui la contraddizione filosofica centrale che determina il minoritarismo congenito di tale pensiero, che purtroppo egemonizza ancora oggi il discorso politico dei movimenti. Nonostante tutte le decostruzioni possibili dei meccanismi di potere – alcune peraltro notevoli e capaci di arricchire il bagaglio teorico del pensiero rivoluzionario – rimane inevasa la domanda di potere che deriva dall’organizzazione sociale nel suo complesso. Se la società ha necessità di un qualche tipo di potere, rispondere a questo bisogno collettivo rifiutando il piano del discorso costringe il pensiero conflittuale ad una incomunicabilità di fondo con le masse subalterne. Capace di convincere i militanti costantemente mobilitati, quindi predisposti in certo qual modo alla partecipazione politica totalizzante, tale pensiero non riesce congenitamente ad interloquire con la popolazione e con le sue fasce popolari, impossibilitate alla continua partecipazione politica e dunque esigenti forme di organizzazione sociale basate sulla divisione dei compiti formalizzata. Parlare di organizzazione allora non comporta solo ragionare della propria di organizzazione, ma anche di quella generale una volta conquistato il potere. Comporta, in altri termini, chiarire quale tipo di alternativa politica rappresentare, come movimenti di classe. La difficile comprensione di questa alternativa ci sembra essere uno dei motivi profondi dell’incapacità delle sinistre attuali di andare al di là del proprio bacino militante, peraltro sempre più ristretto.

LupoSciolto°
17-06-16, 10:12
Interessante

Kavalerists
28-11-16, 23:41
L’abbraccio fatale tra Morale e Capitale

Michel Houllebecq mostra nelle pagine di Particelle Elementari le conseguenze rovinose dei falsi miti del Sessantotto e dell'estremizzazione della libertà sessuale.
di Luca Gritti - 28 novembre 2016 http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/themes/ID/images/facebook.svg (http://www.facebook.com/share.php?u=http%3A%2F%2Fwww.lintellettualedisside nte.it%2Fletteratura-2%2Flabbraccio-fatale-tra-morale-e-capitale%2F&title=L%E2%80%99abbraccio%20fatale%20tra%20Morale% 20e%20Capitale) http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/themes/ID/images/twitter.svg (http://twitter.com/intent/tweet?status=L%E2%80%99abbraccio%20fatale%20tra%20 Morale%20e%20Capitale+http%3A%2F%2Fwww.lintellettu aledissidente.it%2FfrjA7+@IntDissidente) http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/themes/ID/images/google+.svg (https://plus.google.com/share?url=http%3A%2F%2Fwww.lintellettualedissident e.it%2Fletteratura-2%2Flabbraccio-fatale-tra-morale-e-capitale%2F)
Siamo sicuri che la liberazione sessuale ci abbia consegnato un’umanità più libera, meno bigotta e più aperta a nuove mentalità ed esperienze? Siamo certi che la rivoluzione del desiderio abbia inaugurato un periodo di accettazione serena della propria sessualità, segnando una rottura con un passato ottuso e sessuofobo? È proprio vero che il ’68 fu solo un’ubriacatura gaia e libertaria fatta di belle canzoni, oceaniche adunate e amori sinceri ed innocenti? A rispondere a queste domande, o meglio, a scardinare questi luoghi comuni sul nostro passato più recente c’è un libro straordinario, scritto da uno dei più grandi scrittori viventi e che, pur pubblicato nell’ultimo anno del secolo scorso conserva ancora un’attualità strabiliante, che stupisce ed allarma. Il libro in questione è Le Particelle Elementari, la rivelazione per cui Michel Houellebecq si rivelò al mondo. L’autore francese in questo primo romanzo rivela già lo stile straordinario che l’ha reso celebre proiettandolo nell’olimpo dei più grandi romanzieri in circolazione: un modo di scrivere corrosivo, cinico, cattivissimo, che indaga le brutture e le miserie dello squallore metropolitano della Francia postmoderna con la precisione chirurgica dello scienziato e l’esattezza plastica dell’incisore di parole, del cultore della lingua.
http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/uploads/2016/11/9788858766033_0_0_2483_80.jpg «Questo libro è innanzitutto la storia di un uomo, di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo Secolo. Perlopiù solo, egli intrattenne tuttavia rapporti saltuari con altri uomini. Visse in un’epoca infelice e travagliata»

Anche i momenti di più avanzato scadimento, di più conclamata depravazione vengono descritti con una maestria invidiabile. Houellebecq è un grande maestro dello stile crudo e senza imbellettamenti, la cui lettura risulta godibile proprio perché non cede mai alla volgarità gratuita, alla parolaccia priva di senso, alla descrizione erotica fuori contesto. In lui sopravvive la tensione ad un ideale superiore, ad un orizzonte più alto che può e deve emergere, pur in mezzo al più tetro squallore. Il racconto si dipana attraverso delle storie esemplari, lo scadimento quieto e disperato dell’Occidente, il diffuso suicidio della nostra civiltà dal primo Dopoguerra all’alba del nuovo millennio. I due protagonisti, Michel e Bruno, sono due fratellastri figli di una comune madre. La storia opprimente delle loro famiglie segnerà le loro rispettive esistenze, distanti eppure speculari, diverse ma prossime, sorte da una comune origine. La loro madre è una precoce libertina, hippy e convinta sostenitrice del movimento, sessantottina e fiera praticante del più sfrontato permissivismo sessuale. Con il suo unico marito, un chirurgo plastico cinico e modaiolo, concepisce Bruno; con il più significativo dei suoi numerosi amanti, un regista cinematografico che morirà mentre girava un documentario in Corea, Michel. La donna si disinteressa di entrambi i figli, liquidandoli come degli ingombri che le impediscono di proseguire la sua vita all’interno della comunità hippy: la vita che Houellebecq descrive con tanta precisione, degli amanti copiosi, delle ammucchiate e della promiscuità, della fornicazione mai sazia, dei campi di nudisti e delle droghe psichedeliche, della libertà assoluta e del misticismo vago e sconclusionato. E, mentre la madre latita, Bruno e Michel crescono, orfani de facto, con due padri a loro volta poco presenti e poco adeguati, che, sia pur in modo diversi, hanno sempre coltivato la vita come divertimento, arricchimento personale e realizzazione delle proprie aspirazioni. Il mondo che ci ha lasciato la rivoluzione sessuale, lascia intendere Houellebecq tra le righe, è troppo individualista ed egoista per tener conto dei figli. La progenie nasce, in modo accidentale, per sbadataggine, in mezzo al vorticoso ciclo dell’amore libero: questi figli, senza figure che diano loro riferimenti e, soprattutto, affetto, fatalmente, si perdono.

Il trailer del film ispirato al romanzo del discusso autore francese Attraverso questo duplice percorso esistenziale l’opera consegna una delle più lucide e complete disamine del mondo moderno, tratteggiando uno dei più fedeli ed efficaci ritratti della modernità liquida. Lo scrittore francese mostra il patto segreto che in Italia ancora molti non hanno colto tra il liberalismo economico, che distrugge gli stati e le comunità per organizzare una competizione serrata fra gli individui per un lavoro ed un salario, ed il libertinaggio sessuale, nel nome del quale si distrugge la famiglia nucleare e che ci trasforma tutti in atomi desideranti, ovvero i più perfetti ingranaggi di un sistema economico che si fonda precisamente sulla continua sollecitazione di un godimento drogato. Da una parte il capitalismo ci rende individualisti e solitari, facendo il gioco del libertinaggio sessuale; dall’altra la promiscuità assoluta elimina i rapporti stabili e duraturi e induce alla continua e inesauribile ricerca di desiderio, il che è perfettamente funzionale al sistema del consumismo economico.

Vita da hippie negli anni Sessanta È questo il vero codice binario che regge l’ordine mondiale attuale: il sistema oggi è liberista in economia e libertario nei costumi. Houellebecq in questo senso è stato il primo a delineare ex post in modo preciso ed implacabile il modo in cui il Sessantotto e la liberazione sessuale abbiano fatto (e, per la verità, ancora facciano) il gioco del capitalismo mondiale e della mercificazione oggi in atto. Da noi lo intuì in modo altrettanto geniale, denunciandolo anche in modo coraggioso, Pier Paolo Pasolini; in Francia se ne accorse Clouscard (autore meritoriamente introdotto in Italia da Lorenzo Vitelli (http://www.lintellettualedissidente.it/homines/michel-clouscard-un-pensiero-eretico/)). Scrive Houellebecq a proposito di Bruno, che la sua generazione non era spinta alla competitività sfrenata tanto dal punto di vista economico (era il trentennio glorioso, il periodo in cui ancora si credeva che un certo grado di ricchezza fosse accessibile a tutti), bensì proprio da quello sessuale:

La Danimarca e la Svezia, che servivano da esempio alle democrazie europee nella missione di livellamento economico, fornirono altresì l’esempio della libertà sessuale. In modo del tutto inatteso, in seno a quelle classi medie cui andavano progressivamente aggregandosi gli operai e gli impiegati-ovvero, più precisamente, tra i figli di tale classe media-si aprì un nuovo campo di battaglia a sfondo narcisistico.
La nuova competizione è, appunto, a livello sessuale. Nell’opera si racconta il lato sinistro ed oscuro della liberazione dei costumi, attraverso la tristissima parabola del protagonista Bruno. Il racconto ci porta con lui in campi di nudisti, comunità hippie, sessantottardi ormai stremati da una vita di eccessi ed avviliti dall’età, loro che avevano così cocciutamente costruito la mitologia del giovanilismo esasperato. Sono veramente penose queste escursioni tra corsi di yoga, decrepite libertine avvizzite dall’età disposte a concedersi a chiunque per un po’ di godimento, uomini logorati dalla vecchiaia che si masturbano mestamente in un clima di indifferenza generale…Houellebecq mostra implacabile il vero finale di quella tremenda sbronza di desiderio, di quella stolida normalizzazione dell’eccesso: alla sessualità gioiosa e gaudente del Maggio segue la morbosa e patetica ricerca di godimento senile, gli eccessi degli uomini, lo sconforto delle donne. Leggendolo viene davvero voglia di ringraziare Dio di essere nati in Italia, nell’Europa mediterranea e piaciona, indolente forse ma che ha conservato umanità e affetti ed un vivo senso di comunità, specialmente in provincia. Accompagniamo lo scrittore francese e capiamo ancora di più l’enorme importanza della nostra battaglia di Civiltà, della stoica difesa del nostro patrimonio umano contro il feroce e micidiale mix di capitalismo & godimento proveniente dagli Usa, dalla Scandinavia e dall’Europa continentale e stanca. Meglio ad ogni costo una vecchia zia beghina che una madre tardo-sessantottina e femminista.

L?abbraccio fatale tra Morale e Capitale (http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/labbraccio-fatale-tra-morale-e-capitale/)