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Visualizza Versione Completa : Macerie di una Repubblica – Le promesse e le minacce



Frescobaldi
05-07-16, 23:38
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Gianfranco Pasquino


di Gianfranco Pasquino, “MondOperaio”, giugno-luglio 2016




Non so se davvero “i politologi avevano persuaso l’opinione pubblica che fosse essenziale riformare i sistemi elettorali, creando meccanismi maggioritari, perché potesse permettersi l’evoluzione del sistema politico”. Non so neppure chi fossero questi politologi, e che cosa avessero realmente sostenuto. So che il Mattarellum non fu mai una coerente sistema elettorale maggioritario, ma fu tre quarti maggioritario in collegi uninominali, con il quarto proporzionale che “riproporzionalizzava” l’esito permettendo ai piccoli cespugli di ricattare partiti insicuri di sé, delle loro politiche, delle loro leadership, delle loro candidature (“cencellianamente” cooptate e paracadutate), delle loro capacità di insegnare e di persuadere. Tutto questo è avvenuto nel vuoto di qualsivoglia cultura politica.
La seconda Repubblica, che non fu mai tale (poiché, tranne le leggi elettorali, quasi nulla cambiò nelle regole, nelle procedure, nel circuito istituzionale, né in buona parte nei protagonisti), non fu neppure particolarmente promettente. Anzi, fin dai suoi esordi apparve preoccupante. Il meritato crollo dei partiti sembrò – a tutti coloro che poco sanno dei partiti e meno li gradivano, vale a dire la maggioranza degli italiani – aprire enormi spazi di libertà: meno che mai come riorganizzare la vita pubblica in assenza di quei partiti i quali, comunque, avevano costruito e fatto funzionare una democrazia decente, seppur di modesta qualità. La maggioranza di quei cittadini e degli opinion-makers pensò, dichiarò, accettò l’idea che, screditati i vecchi politici, chiunque potesse fare politica meglio di loro, a cominciare, per esempio, dagli idraulici (remenber la paura dell’invasione degli idraulici polacchi?). Una società di familisti amorali si accontentò, invece, della discesa in campo di un grande impresario televisivo.

Molti commentatori politici cercarono di persuadere l’opinione pubblica che, dopo la partitocrazia, era non soltanto necessaria, ma addirittura possibile, una rivoluzione liberale, anche se di liberali in giro non se ne vedeva nessuno e la cultura liberale era del tutto evanescente. Il grande impresario Silvio Berlusconi cavalcò l’onda italiana dell’antipolitica e si pose sulla scia dei neo-conservatori statunitensi, ma senza il loro pur discutibile retroterra culturale. Come ci si potesse attendere una rivoluzione liberale da un duopolista in esplicito e verticale conflitto di interessi è qualcosa che in special modo gli editorialisti del Corriere della Sera dovrebbero spiegare prima a se stessi, poi al loro pubblico di lettori. Come si potesse credibilmente resistere all’onda dell’antipolitica e riproporre alleanze fra vecchi spezzoni di partito è invece qualcosa da domandare ai dirigenti del Pds e dei Ds nella loro troppo lunga carriera parlamentare.

La soluzione, però, non poteva essere trovata in quello che venivano dicendo i professionisti dell’antipartitocrazia, vale a dire procedendo alla applaudita (de)costruzione di partiti leggeri qual piume al vento. Quasi in contemporanea, ma è stato un fenomeno piuttosto duraturo, fecero la loro comparsa, anch’essi sulla cresta dell’onda antipartitocratica, i tecnocrati, a cominciare dalla versione più nobile, quella di Carlo Azeglio Ciampi (e dei professori). L’onda lunga proseguì con la versione burocratica di Lamberto Dini, culminando nella versione bocconian-presuntuosa di Mario Monti. Stretta fra gli antipolitici e gli antipartitici, fra i sedicenti liberali e i mercatisti, è davvero difficile pensare che il destino della cosiddetta seconda Repubblica e del sistema politico italiano sia stato nella mani, più o meno sapienti, dei politologi: a meno che con il termine politologo ci si riferisca a improvvisati praticoni, ai viandanti dei talk-show e ai diversamente giuristi.

Tuttavia non era affatto sbagliato pensare che da un lato regole elettorali più costrittive della sbracata rappresentanza proporzionale italiana, e dall’altro l’incentivazione della competizione bipolare, non sarebbero state utili a dare vita ad un sistema politico di stampo europeo. I responsabili di quanto non è successo hanno nomi e cognomi di politici e non politici che quelle regole in parte non le hanno volute, in parte non furono in grado di farle funzionare, in parte le hanno renzianamente stravolte con le riforme malamente formulate negli ultimi due anni.

Da nessuna parte al mondo il bipolarismo ha mai visto un confronto, addirittura ripetuto a dieci anni di distanza, fra un impresario antipolitico e un professore che non ha mai capito l’importanza della politica neanche per i governi da lui guidati (in una memorabile intervista ad un quotidiano tedesco dichiarò di sentirsi come un “assistente sociale”, ma la sua composita maggioranza aveva piuttosto bisogno di una équipe di psicologi). Sembra che, nonostante il passare del tempo, le altrettanto composite alleanze fra “moderati”, leghisti e “post-fascisti” (che però erano dotate di un ambizioso capo a tempo pieno) siano ancora all’ordine del giorno del centrodestra sotto forma di minestre riscaldate (ma ormai pochissimo appetitose). Dal canto loro i nostalgici dell’Ulivo si dividono fra quelli che non hanno ancora riflettuto sui loro errori e quello che si sono comodamente sistemati nell’alveo del Partito della Nazione e da lì stanno generosamente portando la salvezza allo sventurato paese chiamato Italia per farlo uscire da uno stallo durato almeno trent’anni (di una storia che, ripetutamente, dimostrano di non conoscere).

Ad entrambi va rimproverato di non avere mai realmente tentato di costruire una nuova cultura politica. Tutti si sono rifugiati senza nessuna originalità a parlare di contaminazione fra il meglio delle cultura costituenti: comunista (?), ecologista (?), cattolico-democratica, escludendo quella parte – sicuramente notevole – di cultura riformista socialista e non interessandosi né alla cultura costituzionalista né a quella federalista. L’alibi della mancanza di tempo non tiene. La spiegazione sta piuttosto nelle limitatezze culturali dei protagonisti, nel loro scarso impegno, nella loro ricerca di opportunità di carriera per le quali una cultura politica solida avrebbe probabilmente costituito un ostacolo.

Qual è, infatti, la cultura politica del renzismo di governo? L’Ulivo non seppe combinare il non troppo potere politico che ottenne con apposite e mirate politiche istituzionali. Nel pur meritorio tentativo di aprire spazi alla società civile, nessuno nell’Ulivo (certo non il suo leader, ma neppure i suoi collaboratori e i suoi sostenitori che nascondevano le loro carenze dietro l’ombra di Prodi) riuscì, per mancanza di cultura politica (alcuni proprio non ne avevano; altri non credevano più nella loro), a svolgere l’indispensabile compito di predicare i valori di una democrazia moderna di stampo europeo. Furono sbagliate le riforme fatte (perché, sì, di riforme se ne fecero: legge elettorale anche per i sindaci, abolizione di quattro ministeri e del finanziamento pubblico dei partiti, Titolo V e affini, non tutte brutte non tutte sbagliate)? Tutt’altro. Non il bipolarismo ha fatto degenerare il bipolarismo ha fatto degenerare il sistema politico italiano, ma l’interpretazione che ne diedero la maggior parte dei partecipanti e i loro mass media di riferimento. Non il bipolarismo è stato feroce, ma quegli spezzoni di società più o meno civile i cui interessi dipendevano da chi vinceva le elezioni. Oserei dire che la competizione bipolare ha mostrato di che pasta è fatta la società civile italiana.

È possibile che esista ancora qualcuno che pensa che i partitini siano stati soltanto il prodotto delle ambizioni di sopravvivenza di un ceto politico minore e screditato? Quei partitini erano, più spesso che no, rappresentativi di settori di società civile che volevano la prosecuzione di pur piccoli privilegi. Desideravano protezione e influenza, quelle che spesso erano riusciti ad assicurarsi attraverso e grazie alle correnti dei partiti nella prima fase della Repubblica.

Nel raffazzonato bipolarismo italiano, i settori più spregiudicati della società “civile” hanno fatto le loro fruttuose trasmigrazioni (che continuano imperterrite), ovviamente tenendo fermo il loro riferimento al centro molle del sistema. Nel complesso, però, la società italiana ha mostrato tutte le sue peggiori caratteristiche: egoismo (egocentrismo, non individualismo); corporativismo (che vale anche e soprattutto per i magistrati, ma in genere per i dipendenti pubblici, docenti delle scuole di tutti gli ordini e gradi compresi); corruzione; provincialismo; permissivismo: con il culmine rappresentato dall’antipolitica, vale a dire dalla convinzione che la politica non solo è il male, ma è anche inutile e dannoso spreco. Si potrebbe persino giungere a sostenere che l’imbarbarimento della società italiana che sta a fondamento della “ferocia” (termine, peraltro, che mi pare francamente esagerato), della muscolarità di quel poco di bipolarismo che fu e che ne spiega gli inconvenienti e gli eccessi. Alla fine mi sono convinto che dal 1994 al 2013 gli italiani hanno avuto governi spesso persino migliori di quelli che si sarebbero meritati.

Il “secondo” ventennio della storia d’Italia ha anche prodotto un esito, non rilevato e non sottolineato, ma che invece è certo e accertabile, ed è di grande significato. Pure sfidato da tensioni e conflitti di varia natura, a cominciare dal populismo di governo, il sistema istituzionale italiano (proprio quello definito nella Costituzione “quasi” più bella del mondo) ha sostanzialmente tenuto. Ha mostrato che esistono freni e contrappesi. Lo sono stati, nell’ordine, la Presidenza della Repubblica, la Corte di Costituzionale, gli enti locali (in special modo i comuni, la vera spina dorsale dell’Italia, com’era stato acutamente evidenziato molto tempo fa da Piero Calamandrei). Naturalmente Presidenza, Corte ed Enti locali possono essere migliorati in chiave sistemica, ma qualsiasi riforma che li stravolga può mantenere soltanto la promessa di una deriva confusionaria: “Fare in fretta, a prescindere; andare avanti, senza la minima idea della meta”.

La cosiddetta seconda Repubblica, nella misura in cui aveva promesso qualcosa, puntava ad una semplificazione dell’assetto istituzionale (l’effettuata trasformazione del Senato non è “semplificazione” ma impasticciamento). Puntava altresì in parte alla riduzione in parte all’accorpamento dei partiti (il Partito democratico ne è un esempio), ma non alla forzatura della proibizione di coalizioni come contenuta nell’Italicum. Mirava infine ad un rafforzamento del potere politico dei cittadini: e quando i critici delle primarie inizieranno a documentarsi si vedrà che proprio le primarie hanno rappresentato e continuano ad essere uno strumento politicamente rilevante nella mani dei cittadini. Purtroppo, sia fuori della sfera politica sia nel suo ambito, il vento dell’antipolitica ha continuato a soffiare, alimentato anche dai comportamenti e dalle dichiarazioni di troppi politici full e part-time. Il miglioramento della cultura politica dei cittadini non era una promessa della seconda Repubblica, ma doveva essere una conseguenza, sicuramente possibile, della trasformazione delle regole del gioco.

La ricerca di una sola macrocausa per spiegare le inadeguatezze della seconda Repubblica è, oltre che parziale e faziosa, anche destinata a fallire. Tuttavia la legge elettorale approvata dal centrodestra nel 2005 (e non sufficientemente contrastata dal centrosinistra) porta enormi responsabilità nella successiva degenerazione della politica italiana, della rappresentanza e dei rappresentanti, della governabilità e dei governanti. La trasformazione del Porcellum in Porcellinum è una garanzia della continuazione della cattiva politica ance nella fase repubblicana iniziata dopo le elezioni del febbraio 2013.

Di tutto questo che già intravediamo con sufficiente chiarezza non è per nulla possibile accusare coloro che pensavano che un sistema bipolare decente potesse/possa essere costruito con riforme elettorali e costituzionali. Non sono i riformatori che non hanno mantenuto promesse ambiziose. Sono gli oppositori di quelle promesse, incapaci, peraltro, di fare promesse migliori che non fossero il ritorno a leggi elettorali proporzionali (sia il Porcellum sia il Porcellinum italicum sono leggi elettorali dalla proporzionalità alquanto distorta dal premio di maggioranza), e la reconquista di un non meglio precisato ruolo dei partiti, partiti che sono oramai strutture personaliste al servizio delle mire e delle carriere di pochi uomini (e qualche donna, cooptata e premiata). Sullo sfondo rimane una società italiana, per lo più non meritevole dell’aggettivo “civile”, che si barcamena nei reticoli del corporativismo e del clientelismo, negli spazi della corruzione e della protezione dei privilegi.

La nuova fase si è aperta non all’insegna di una possente e nobile opera di pedagogia politica (talvolta, peraltro, tentata dal Presidente Giorgio Napolitano), ma della parola d’ordine “disintermediazione”. È la presa d’atto che la politica ha deciso che non è possibile insegnare nulla alla società italiana? E che l’unico modo di agire è renderla inefficace, non intrusiva, sterilizzarla attraverso procedure che non contemplino nessuna partecipazione ai processi decisionali di associazioni di qualsiasi tipo, a prescindere persino dalla loro rappresentatività? Dalle promesse non mantenute della seconda Repubblica siamo arrivati agli interrogativi inquietanti sulla fase attuale: il capo di un partito gonfiato da un premio di maggioranza che lo porta al pieno controllo della Camera dei Deputati rappresenta la Nazione e non ha bisogno di nessuna mediazione e di nessun confronto. Gli serve soltanto un plebiscito costituzionale che interpreterà come mandato a se stesso. Dalle promesse non mantenute alle minacce da non accettare.