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Visualizza Versione Completa : I riformisti e la fine dello Stato liberale



Frescobaldi
26-07-16, 19:14
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di Giovanni Spadolini




All’indomani della liberazione nessun partito politico italiano accettò di chiamarsi “riformista”. La testata del partito socialista riformista di Bissolati, che si era consumata e appannata nella presidenza del consiglio affidata a Bonomi nel ’20-21, fra i ricatti fascisti e le impotenze costituzionali, non fu rivendicata da nessuno né nell’ambito del comitato di liberazione nazionale né fuori (e ricordo che fuori dal CLN rimase in altero isolamento lo storico partito repubblicano, in omaggio alla rigida e coerente pregiudiziale istituzionale).

Nel campo della storiografia, un certo dileggio e una certa sufficienza accompagnarono per anni l’espressione “riformismo”. Tutti gli studi dei giovani storici di quegli anni furono dedicati o al filone comunista successivo al congresso di Livorno o al filone socialista ortodosso che con tanta fatica era riuscito a separare le sue responsabilità dalle intransigenze verbali e dalle arroganze dialettiche del massimalismo. Matteotti – l’unico socialista riformista di tipo nuovo che emergesse dal quadro di un antifascismo risentito come scelta di vita – era indagato, e analizzato, e rivisitato come leader di un partito socialista unitario che era nato, nonostante la beffa del nome, dalla scissione infausta del congresso di Roma dell’ottobre 1922 ma che non confessava, almeno nella formula ufficiale, la sua effettiva matrice riformista, e le connesse derivazioni intellettuali e culturali.

Gli studi sul filone di Turati e di Treves erano un po’ marginali e periferici, non mancavano di note dialettali nei superstiti di quel mondo, trovavano resistenze ferme, appena corrette dagli obblighi del rispetto formale, nella nouvelle vague della storiografia di ispirazione marxista (e allora marxista e leninista era spesso la stessa cosa). L’eredità turatiana riviveva più in talune ali del partito socialista, nonostante i personali e mai rinnegati legami di Pietro Nenni; e nella Firenze da pochi giorni liberata ricordo che il primo, patetico opuscolo su Turati e il movimento operaio era curato dal circolo rosselliano “Giustizia e libertà” e riproduceva il profilo commosso di Carlo Rosselli, che nel suo socialismo liberale risentiva Turati più di Marx e non senza una profonda e nativa vibrazione mazziniano-risorgimentale.

Quando si verificò agli inizi del ’47 la scissione di palazzo Barberini, i protagonisti di quella svolta si preoccuparono di respingere l’etichetta “riformista”. Il partito di Saragat si chiamò in varie forme, faticò a trovare la sua definitiva denominazione “socialdemocratica” (nacque come partito socialista dei lavoratori italiani, nell’evocazione patetica e illanguidita dell’ultimo decennio dell’Ottocento) ma si preoccupò, con puntigliosa e ostentata meticolosità, di non essere inquadrato nei confini di un “riformismo” respinto dalla storia e rifiutato dalle semplificazioni, allora spietate, della lotta politica.

Per chi ha avuto in quegli anni dimestichezza o confidenza con Giuseppe Saragat, è ben presente il ricordo della sofferenza che egli provava nel dover attuare una politica di tipo “riformista” senza poter richiamarsi al partito di Bissolati e di Bonomi che quella scelta coraggiosa aveva compiuto nel 1912 e neanche all’altro nucleo – i “riformisti sinistri” rispetto ai “riformisti destri” – che era rimasto con Turati e con Treves nel partito per un decennio ancora, fino all’assurda, kafkiana espulsione dell’ottobre 1922, estremo contributo alla resa dello Stato liberale.

Nonostante un certo “ritorno a Turati” che a metà degli anni cinquanta superò il muro delle discriminazioni (ricordo, a cura delle Opere nuove, e per impulso di Alessandro Schiavi, un turatiano da sempre, un bel libro a più voci su Turati, con l’apporto, rivelatore, di un Leo Valiani), Saragat, leader di un partito tutt’altro che secondario nella dialettica del centrismo e poi del centro-sinistra, non consentì mai la traduzione in italiano di un volume scritto negli anni dell’esilio L’humanisme marxiste, che già nel titolo rifletteva gli echi e le cadenze di un conseguente revisionismo socialdemocratico e quindi riformista.

Ci sono voluti molti anni, anzi decenni, perché la parola “riformista” tornasse a circolare nel mondo della sinistra e del socialismo senza pagare troppi dazi o balzelli. Nel 1978, a Reggio Emilia, l’istituto socialista di studi organizzò un convegno di largo respiro e di sicuro impianto su Prampolini e il socialismo riformista. E proprio in una collana come quella di Feltrinelli sugli “scrittori politici italiani”, che registra le variazioni del gusto o della sensibilità dominanti, è uscita nel 1980 una meditata e seria antologia di Carlo Cartiglia sui Socialisti riformisti. Tout court, e senza ulteriori specificazioni o delimitazioni.

È un fatto nuovo, e da registrare con favore, nella pur ricca, e talvolta troppo ricca, letteratura sul movimento socialista italiano. Per la prima volta, a nostra memoria, gli scritti dei riformisti eretici, i “destri”, cioè i Bissolati e i Bonomi e i Cabrini, sono riuniti e commentati insieme con gli scritti dei riformisti ortodossi, o marxisti, o “sinistri”, cioè i Turati e i Treves e i Modiglioni, coloro che non compirono mai scelte di rottura rispetto al PSI, che furono allontanati, con quella formula ipocrita, che Serrati rese ancora più ipocrita, e con un minimo scarto di voti. La mozione massimalista, al congresso della casa del popolo a Roma, il 3 ottobre 1922, ebbe 32.100 voti, quella riformista o “unitaria” 29.119; nessuna riscuoterà il sì della maggioranza degli iscritti, che erano 73.065.

Non solo; ma il curatore della raccolta, che preferisce la critica ragionata alle scomuniche o alle invettive, individua il collegamento che sempre sopravvisse fra i riformisti rimasti all’interno del partito e quelli che il “rivoluzionario” Mussolini aveva cacciato al congresso di Reggio Emilia nel luglio 1912. Collegamento intellettuale e ideale non meno che politico; al di là del diverso atteggiamento che i due gruppi avranno rispetto a eventi decisivi per il nostro destino, come l’intervento nella prima guerra mondiale e la crisi post-bellica.

Di fatto le analogie che emergono dalla lettura di queste pagine fra il luglio 1912 e l’ottobre 1922, fra le due diverse scissioni riformiste, sono impressionanti. L’atto di omaggio alla Monarchia per lo scampato attentato D’Alba al re Vittorio Emanuele III costituirà il pretesto nel 1912 per la requisitoria mussoliniana, che allontanerà dal PSI l’uomo che aveva legato il suo nome alla più gloriosa stagione dell’ Avanti!, Leonida Bissolati, e aprirà la via della direzione al suo esatto contrario, Benito Mussolini (“l’anarchico perfetto”, come lo chiamava Anna Kuliscioff). L’incontro di Filippo Turati con lo stesso Sovrano, il 29 luglio 1922, per individuare una soluzione costituzionale di centro-sinistra tale da bloccare il dilagare del fascismo, prima del disastroso sciopero legalitario dell’agosto, rappresentò il vero sottofondo dell’accusa che il gruppo massimalista indirizzò a Turati, a Treves, a Matteotti prima di procedere alla lucida follia della scissione formale.

E il fatto che quella separazione avvenisse in un clima di commozione generale, conferma lo stato di impotenza assoluta pari a quello di un disarmante candore. “Noi ci separiamo da voi, o forse più esattamente (non vi sembri una sottigliezza) voi vi separate da noi”, Le nobili sottigliezze di Filippo Turati non riusciranno più ad arginare lo sfascio, né del socialismo né dello Stato liberale: ormai intimamente congiunti, al di là delle assurde divaricazioni o delle contrapposizioni settarie.

E l’unico riformista che riscatterà tutti gli errori e le viltà del passato sarà appunto il socialista, di nuovo taglio umano, di nuovo abito intellettuale, più odiato da Mussolini, Giacomo Matteotti. Solo il delitto di Matteotti consentirà al socialismo di riacquistare intero quel diritto di larga rappresentanza nella vita italiana che la diaspora degli anni precedenti aveva compromesso, fino e oltre i limiti di guardia.

Da Giovanni Spadolini, L’Italia di minoranza. Lotta politica e cultura dal 1915 a oggi, Le Monnier, Firenze, 1983, pagg. 337-341.



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