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Visualizza Versione Completa : Craxi e la cultura: un idillio breve



Frescobaldi
06-08-16, 21:44
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Da Nello Ajello, “Il lungo addio. Intellettuali e PCI dal 1958 al 1991”, Laterza, Roma-Bari 1997



È un fascino notevole, altalenante e controversiale quello che Bettino Craxi e il suo partito esercitano sull’intellighenzia italiana. Notevole, perché le stanchezze e le lentezze del Pci rendono disponibili, a sinistra, energie culturali che si sarebbero ‘sprecate’ restando al seguito di una strategia, quella di Botteghe Oscure, di cui non s’intravede lo sbocco. Altalenante, intermittente, perché, agli occhi degli intellettuali eticamente meno transigenti, l’operato dei socialisti in materia di scandali e di sottogoverno interviene con scadenza ormai sempre più fitte ad assopire entusiasmi teorici anche genuini: sono i momenti nei quali riacquista vigore, per contrasto, la ‘questione morale’ agitata da Berlinguer. È controversiale, quel fascino craxiano, in quanto l’avvicinarsi di certe zone intellettuali al Verbo socialista è il più delle volte vissuto in funzione anticomunista, e convoglia convinti liberaldemocratici, ex comunisti, moderati di sinistra ed extra-parlamentari ormai privi di progetto ma delusi dal Pci e dal suo rigore contro ogni residua velleità ‘ultra’. Per quanto si riferisce a quest’ultima area, la polemica del vertice socialista contro la magistratura – accusata di connivenze con le Botteghe Oscure – e in genere tutte le sue posizioni garantiste coincidono con le vedute di quanti si sono battuti contro la legge Reale e avversano consimili provvedimenti di emergenza, lesivi di una giustizia ‘normale’.
Questo favore accordato al Psi nasce, in parte, da una delusione rispetto all’altro principale ramo della sinistra. E in parte, più specificamente, si esercita ‘a dispetto’ contro un’egemonia comunista ormai datata e non più meritata: l’infatuazione del 1975-76 appare lontana. Anche in quegli anni, comunque, erano state di fonte socialista le obiezioni più risolute contro questa diffusa invadenza comunista – fondata più su motivi di propaganda che su prospettive realmente palingenetiche – nelle più varie sedi culturali e nella cosiddetta ‘società civile’. Molto incisivo appare ancora oggi ciò che scriveva Ernesto Galli della Loggia a conclusione di un saggio intitolato Ideologie, classi e costume:


Si deve notare – osservava il giovane storico – come il massiccio orientamento ideale verso sinistra, di cui il Pci costituisce l’asse, pur richiamandosi al ‘marxismo’, pur essendo alimentato da un forte sentimento anticapitalistico, finora non sembri tuttavia disposto, in complesso, a rifiutare alcuno dei capisaldi del sistema capitalistico di produzione […]. Questo marxismo si presenta piuttosto come un populismo capitalistico-statalistico (l’enfasi può essere posta su uno o l’altro dei due termini, a piacere), come una forma nuova di ideologia dello sviluppo – di uno sviluppo a sua volta ‘nuovo’ e ‘sano’ – il cui involucro politico dovrebbe essere quell’ideologia antifascista-costituzionale che ha nel partito comunista il suo importante agente diffusore.[1] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn1)

Sta di fatto che, come di rado era accaduto in passato, il Psi cominciò a poter contare su una diffusa simpatia fra gli intellettuali e la “classe media privilegiata”, per usare un’espressione di Alessandro Pizzorno. E una simile attrattiva non fu immediatamente scalfita dai dissapori che ben presto esplosero fra il Psi e coloro che, principalmente su “Mondoperaio”, proprio delle ragioni del socialismo avevano dato una versione culturalmente vitale.
Era durato infatti solo tre anni l’idillio – o almeno la positiva coesistenza – di Bettino Craxi con questo ambiente, erede, nel suo nucleo principale, delle esperienza riformistiche impersonate da Antonio Giolitti, e impegnato di recente nell’elaborazione del cosiddetto progetto socialista: in breve, quanto di meglio offrisse la cultura del Psi, o vicina a quel partito. Nell’ottobre del 1979 un gruppo di intellettuali – comprendente Giuliano Amato, Norberto Bobbio, Luciano Cafagna, Giuseppe Carbone, Federico Coen, Paolo Flores d’Arcais, Ernesto Galli della Loggia, Giuno Giugni, Roberto Guiducci, Lucio Izzo, Federico Mancini, Guido Martinotti, Giorgio Ruffolo, Massimo L. Salvadori, Luciano Vasconi – sottoscrisse un documento assai critico sui metodi adottati da Craxi nella gestione del partito, addebitandogli settarismo e “tendenze alla gestione personale”: inclinazioni che poco più tardi Riccardo Lombardi avrebbe sintetizzato nell’espressione Fuhrerprinzip, aggiungendo che Craxi faceva “tutto di testa sua senza consultare i dirigenti del partito” e che “da Turati a Nenni non era accaduto nulla di simile”[2] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn2).
La polemica nasceva sullo sfondo dell’operazione Eni-Petromin, nella quale vennero implicati esponenti del Psi. La reazione del segretario fu assai recisa: egli accusò i contraddittori di porsi come una “casta degli intellettuali”. Coen e Cafagna ricordano che Craxi soleva ammonire: io questi intellettuali posso sostituirli a piacere, ne ho centinaia a disposizione. Ulteriori atteggiamenti sprezzanti di Craxi, tipici di una tendenza a sospettare complotti a suo danno, avrebbero inaugurato un lungo periodo di tensioni reciproche fino – come vedremo – a un’autentica scissione ideale e pratica. Va comunque ricordato che alcuni intellettuali che avevano fatto parte del gruppo giolittiano (di cui “Mondoperaio” era l’espressione) si sarebbero poi inseriti con varia fortuna nelle future compagini governative a direzione socialista, o addirittura nello stretto entourage craxiano.
Si parla di ‘un’onda lunga socialista’ – ‘onda’, perché il socialismo ha acquistato un’insolita visibilità, ‘lunga’ perché i riflessi elettorali di ciò tardano a prodursi in misura consistente – e si allude a un ‘momento magico’ del Psi. Valga in proposito la testimonianza di Giuseppe Tamburrano, un nenniano che per muovere critiche a Bettino Craxi non ha aspettato la sua ‘disgrazia’ politica:


Il Psi dei primi anni Ottanta – ricorda lo storico socialista – appariva una realtà stimolante. Rinasceva l’orgoglio di essere socialisti. Il congresso di Torino del 1978 aveva posto al centro la ‘democrazia conflittuale’ contro quella ‘ consociativa’ di Berlinguer, facendo appello a chiunque vedesse con preoccupazione l’incontro fra Dc e Pci, due Chiese opposte e confluenti. La scelta del Psi nel caso Moro aveva attinto a un alto patrimonio umanitario del socialismo: la vita umana contro la Ragion di Stato, Antigone contro Creonte. Guardava a noi quella parte della sinistra, anche estrema, che rimproverava a Berlinguer di aver tradito la vittoria del ’76 accordandosi, appunto, con la Dc. Più tardi, alcune manifestazioni socialiste testimoniavano di una vitalità cui non eravamo abituati. Parlo ad esempio della conferenza programmatica di Rimini (marzo 1982), nella quale Claudio Martelli enunciò la teoria dei ‘meriti’ e dei ‘bisogni’. A quel punto Craxi avrebbe potuto aprire al Pci. Lo aveva battuto sul piano dei principi. Avrebbe potuto tendergli la mano da posizioni di forza. Preferì intimargli la resa. Ma egli, in verità, non badava tanto alla crescita sociale del partito come forza traente della sinistra, quanto al consolidarsi delle proprie capacità di negoziazione con la Dc per fini di potere personale. Il tutto nobilitato da un imperativo che faceva impressione: la governabilità. La conquista di palazzo Chigi fu un successo clamoroso, ma solo apparente. In nuce, Bettino Craxi aveva già sciupato tutto. Il Psi si avviava a perdere se stesso. Poi si sa, motus in fine velocior…

Per “Mondoperaio” diventava più difficile quel dialogo con il partito di Berlinguer che aveva contrassegnato le sue annate migliori: la collaborazione governativa del Psi con la Dc del ‘preambolo’ implicava una condivisione di fatto della rinnovata pregiudiziale democristiana ai danni delle Botteghe Oscure. Già nel 1980, alcuni fra i protagonisti del dibattito teorico condotto dalla rivista parlano di quell’esperienza con il verbo al passato:


Che cosa volevano fare – si chiede Massimo L. Salvadori intervistato dall’ “Espresso” – i Ruffolo, gli Amato, i Bobbio? Il loro scopo era pensare una strategia nuova per l’intera sinistra. E invece è emersa una contraddizione fra questi intellettuali e i politici di professione, i craxiani, che tendono a utilizzare al massimo lo strumento di cui dispongono, cioè il partito, che è d’altronde una macchina assai particolare. Il Psi ha una debolezza intrinseca per il suo scarso peso elettorale, ma sfrutta la sua posizione che lo mette in grado di determinare le maggioranze.[3] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn3)

E Galli della Loggia:


Mi avvicinai al Psi quando capii che l’incontro Pci-Dc soffocava tutte le richieste di mutamento degli anni Sessanta e Settanta. Ma fu presto chiaro che la sinistra non aveva una cultura di governo e quella dell’opposizione l’aveva dimenticata. Quando Craxi cominciò a rivelarsi un Napoleone in sedicesimo e Martelli il suo piccolo ras, quando scoppiò l’affare Eni, fu chiaro che il centralismo democratico non è il solo perverso meccanismo di organizzazione di un partito. Viene in mente la sociologia dei gruppi politici tracciata da Michels. Governano sempre e comunque le oligarchie.[4] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn4)

Anche per Bobbio, “il favore con il quale il partito sembrava guardare ai propri intellettuali si è attenuato fin quasi a sfumare”. Il progetto socialista, abbozzato fin dal 1978, “nasceva dalla convinzione che un partito socialista non può essere soltanto pragmatico, ma deve conservare e difendere in sé delle spinte ideali. Nell’attuale classe dirigente il Psi si è invece dell’idea – almeno questa è la mia sensazione – che l’aspetto pragmatico debba avere la meglio su tutto”[5] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn5).
La coesistenza fra il Psi e i ‘propri’ intellettuali si rivela sempre più problematica. I rapporti non si recidono d’un colpo. Al congresso socialista di Palermo (1981) i giolittiani rientrano in direzione, e Coen resta alla guida della sua rivista. Dopo lo scoppio del caso P2, “Mondoperaio” dedica ampio spazio alla questione morale, e ancora all’inizio della presidenza Craxi pubblica ampi dibattiti sul tema ‘potere e consenso’. Ma si tratta di un’attività in declino, anche per un impoverirsi, verosimilmente non casuale, delle disponibilità economiche di un periodico in visibile dissonanza con le vedute della segreteria. Al congresso socialista di Verona, nella primavera del 1984, la direzione di “Mondoperaio” cambia di mano[6] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn6).
Come i Settanta sono stati il decennio della sinistra egemonizzata dal Pci, così gli Ottanta appaiono il decennio socialista: anche una convinzione apodittica e generalizzante, come questa, può racchiudere qualcosa di vero. Lo dimostra, se non altro, un fatto: nella demonizzazione del decennio precedente, gli intellettuali conquistati alla causa craxiana sono in prima fila, e su questo impegno mobilitano la loro ansia ‘revisionistica’. Dopo l’amaro ritratto letterario che di quel decennio ha tracciato Alberto Arbasino – racconta Paolo Mieli in un articolo-inchiesta dell’ “Espresso” – i trasformismi, gli opportunismi, i massimalismi, i particolarismi, l’enfasi ideologica, le assemblee continue e le occasioni mancate appena ieri s’inscrivono in un processo nel quale il Psi della ‘governabilità’ incarna l’accusa. Si direbbe che il partito di Craxi si sia affezionato all’uso della grande lessive: è una sostanza che, sostiene il settimanale francese “Le Point”, serve al lavaggio delle idee, depurando l’ambiente dall’egemonia culturale della sinistra.
Nella definizione che ne dà Giuliano Amato, e che Mieli riferisce in quel servizio, i Settanta sono stati “gli anni della maturità che non sapemmo avere”. E qui una serie di imputazioni specifiche:


In un paese – sono sempre parole di Amato – che da trent’anni praticava bensì l’accentramento ma tutto aveva fuorché un solido sistema di poteri centrali, si moltiplicarono i canali per partecipare a un potere che non c’era; con l’effetto di appagare, ma molto congiunturalmente, il vocio e di generare nel medio periodo difficoltà decisionali, cumuli di problemi irrisolti, delusioni e rivendicazioni sempre più inasprite dall’assenza di soluzioni. Regioni, consigli di quartiere, statuto dei lavoratori, sindacalizzazione della politica furono i risultati istituzionali di questa stagione.

Così “venne di moda il verbo coniugare per mettere insieme cose che insieme non riuscivano a stare”. Si cercò, incalza Francesco Forte, “di attuare una conciliazione impossibile: fra i miti del ’68 e il processo, fra i miti del ’68 e la democrazia efficace, fra la sinistra anticapitalista e la capacità superiore di risposta ai problemi che si andava richiedendo”. Per Valerio Riva, che collabora all’inchiesta dell’ “Espresso” sugli anni Settanta, quel decennio incriminato racchiude “gli anni perduti della cultura italiana”. Verso il terrorismo gli intellettuali si comportarono in maniera complice: “Sapevano; ma ad alta voce raccontavano una storia tutta diversa”; per loro “il reale non era razionale e la menzogna era la verità”.
Il fatto singolare, rilevato da Mieli in veste di cronista, è che su questo terreno di critica “i socialisti sono riusciti a trascinare buona parte degli eredi di quella sinistra rivoluzionaria che nel processo agli anni Settata è destinata a comparire quasi sempre sul banco degli imputati”. Nel primo numero della rivista “1999 Italia”, da cui il giornalista ha tratto le citazioni testuali, interamente dedicato al ‘decennio mancato’, figurano scritti di ex dirigenti di Lotta continua, da Adriano Sofri a Enrico Deaglio. Quando si tratta di riflettere sul passato recente in pubblicazioni vicine ai socialisti, gli esponenti di quella che fu la ‘nuova sinistra’ non si tirano indietro[7] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn7).


[1] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref1) Il saggio di Galli della Loggia è nel volume miscellaneo L’Italia contemporanea, 1945-75, Einaudi, Torino 1976. Cfr. in particolare pp. 431-32.


[2] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref2) Cfr. per questi episodi, Antonio Padellaro, Giuseppe Tamburrano, Processo a Craxi, Sperling & Kupfer, Milano 1993, p. 22. Cfr. anche Maurizio dell’Innocenti, Storia del PSI – Dal dopoguerra ad oggi, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 432.


[3] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref3) Marco D’Eramo, Tutto sbagliato, tutto da rifare, colloquio con Massimo L. Salvadori, in “L’Espresso”, 4 maggio 1980.


[4] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref4) Cfr. Gianni Riotta, Il Psi e gli intellettuali: per fare la frittata ha rotto le teste d’uovo, ivi.


[5] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref5) Nello Ajello, Se non pensassero solo al governo, colloquio con Norberto Bobbio, ivi.



[6] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref6) Coen lascerà la direzione di “Mondoperaio” nel 1984. Luciano Pellicani, subentratogli, dirigerà la rivista fino al luglio 1993.


[7] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref7) Cfr. Paolo Mieli, Maledetti i Settanta!, in “L’Espresso”, 6 marzo 1983.