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Frescobaldi
20-09-16, 19:12
Che cos’è il pluralismo (1976)


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Ferve la discussione intorno al pluralismo. Trent’anni fa eravamo tutti democratici. Oggi siamo tutti pluralisti. Ma siamo proprio sicuri di sapere che cosa s’intende per “pluralismo”?

Nuovo è il termine, non il concetto. Che una società sia tanto meglio governata quanto più il potere è distribuito, quanto più numerosi sono i centri di potere che controllano gli organi del potere centrale, è un’idea ricorrente in tutta la storia del pensiero politico. Uno dei modi tradizionali per distinguere un governo dispotico da uno non dispotico è sempre stata la presenza o meno dei cosiddetti “corpi intermedi”, appunto la maggiore o minore distribuzione del potere, sia essa territoriale o funzionale, fra sovrano e sudditi. Carattere essenziale di ogni governo dispotico è sempre stata considerata una concentrazione di potere tanto alta da non tollerare la formazione di potere secondari e interposti fra il potere centrale e i singoli individui, e quindi da impedire qualsiasi argine all’arbitrio del principe.

A questo criterio era ispirata la distinzione che Machiavelli faceva fra il regno del Turco e quello di Francia: mentre la monarchia del Turco “è governata da uno signore, gli altri sono sua servi”, il re di Francia “è posto in mezzo d’una moltitudine antiquata di signori, in quello stato riconosciuti da’ loro sudditi e amati da quelli” che il re non può “torre loro sanza sua periculo”.

A Montesquieu si deve, com’è noto, l’analisi più ampia e profonda del dispotismo, il quale si distingue dai governi non dispotici per l’assenza di corpi intermedi: “Il governo monarchico ha un grande vantaggio su quello dispotico. Siccome la natura sua vuole che il principe abbia sotto di sé vari ordini connessi alla costituzione, lo stato è più saldo, la costituzione più incrollabile, la persona dei governanti più sicura”.

Non senza influsso diretto di Montesquieu, Hegel, celebrato o vituperato come il teorico dello Stato totale, riprende spesso il concetto della pluralità delle “sfere particolari”, che si sviluppano nelle società più avanzate, come unica garanzia contro il potere assoluto del monarca, ancora una volta come criterio di distinzione fra governo libero e governo dispotico. La più antica forma di dominio, che è, secondo una tradizione secolare, il dispotismo orientale, è caratterizzata dall’essere la “totalità della vita statale… ancora involuta, in quanto le sue sfere particolari non hanno ancora raggiunto la propria autonomia”.

Non diversamente, quando oggi si parla di “pluralismo” o di concezione pluralistica della società, o simili, s’intendono più o meno chiaramente queste tre cose. Anzitutto una constatazione di fatto: le nostre società sono società complesse, in cui si sono formate “sfere particolari” relativamente autonome, che vanno dai sindacati ai partiti, dai gruppi organizzati ai gruppi inorganici ecc. In secondo luogo una preferenza: il miglior modo per organizzare una società siffatta è di far sì che il sistema politico consenta ai vari gruppi o strati di esprimersi politicamente, cioè di partecipare, direttamente o indirettamente, alla formazione della volontà collettiva. In terzo luogo, una confutazione: una società politica così costituita è l’antitesi di ogni forma di dispotismo, in specie di quella versione moderna del dispotismo che si suol chiamare “totalitarismo”.

Però, rispetto alla teoria tradizionale dei corpi intermedi, il pluralismo contemporaneo esprime una tendenza non soltanto antidispotica, ma anche antistatalistica, inteso lo Stato, ogni Stato, come un momento necessario ma non esclusivo dello sviluppo storico. Comune a tutte le correnti pluralistiche è una forte polemica contro lo Stato moderno, cioè contro lo Stato che, in seguito alla dissoluzione della società feudale e alla decomposizione dell’autorità imperiale, si è venuto formando in base alla necessità di un potere forte per contrastare le spinte eversive che provengono contemporaneamente dalla società religiosa e dalla società civile, e minacciano di far precipitare la pace sociale, che solo lo Stato può garantire, nella guerra di tutti contro tutti.

Con le teorie pluralistiche della società e dello Stato avviene una vera e propria inversione nella interpretazione dello sviluppo storico: mentre della società medioevale al grande Levatiano è avvenuto un processo di concentrazione del potere, di statalizzazione della società, con l’avvento della società industriale sta avvenendo un processo inverso, di frantumazione del potere centrale, di esplosione della società civile, in breve di socializzazione dello Stato.
Tre sono le correnti che si sono autodefinite pluralistiche, e dalle quali quindi occorre prendere le mosse per evitare la confusione delle lingue, così frequente nelle discussioni politiche. Tutte e tre nascono nel seno dei tre più importanti sistemi ideologici del nostro tempo: il socialismo, il cristianesimo sociale, il liberalismo democratico (che corrispondono poi, grosso modo, alle “tre culture” di cui tanto si parla in questi giorni).

Il socialismo che si autodefinisce pluralistico è quello inglese di Hobson, di Cole, del giovane Laski, noto soprattutto come guild-socialism, o socialismo sindacalistico, che ha una delle sue matrici nel socialismo autonomistico e libertario di Proudhon. In un saggio del 1941 Cole scrive: “La democrazia reale che esiste in Gran Bretagna deve essere cercata non nel Parlamento né nelle istituzioni del governo locale, ma nei gruppi minori, formali e informali… È in queste comunità, nella capacità di formarle rapidamente sotto la pressione delle necessità immediate, che risiede lo spirito reale della democrazia”. Ne segue che il decentramento territoriale, da cui deriva la distinzione fra governo centrale e governo locale, deve essere integrato dal decentramento funzionale, attraverso il quale l’individuo viene protetto non più soltanto come cittadino ma anche come produttore e come consumatore.

Il pluralismo della dottrina cristiano-sociale è ben definito nel Codice di Malines ove si legge che “la vita umana si dispiega in un certo numero di società” le quali sono, oltre lo Stato, che costituisce la società politica, la famiglia, le associazioni professionali e di qualsiasi altra natura, la Chiesa e la società internazionale. La molteplicità delle società naturali e non naturali viene addotta come una prova contro le due false dottrine fra loro opposte dell’individualismo che deifica l’individuo e del collettivismo che deifica lo Stato.

Come questa concezione sia stata recepita dall’art. 2 della nostra Costituzione secondo cui la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle “formazioni sociali” in cui si svolge la sua personalità, è ben noto. Fu in occasione della discussione di questo articolo alla Assemblea costituente che i giovani dottori della democrazia cristiana, La Pira e Dossetti, parlarono per la prima volta ufficialmente di pluralismo e Dossetti nominando il “pluralismo sociale” aggiunse che “dovrebbe essere gradito alle correnti progressive qui rappresentate”.

Il pluralismo liberal-democratico, infine, è né più né meno l’ideologia più rappresentativa (anche se spesso contestata all’interno degli stessi Stati Uniti) della società americana. Uno dei più autorevoli politologhi americani, Robert Dahl, ritiene la Costituzione americana ispirata a tre princìpi, l’autorità limitata, l’autorità equilibrata e il “pluralismo politico”, quindi definisce quest’ultimo così: “Poiché anche i meccanismi giuridici e costituzionali possono essere sovvertiti se alcuni cittadini o gruppi di cittadini acquistano porzioni sproporzionate di potere a paragone di altri cittadini, il potere potenziale di un gruppo deve essere controllato dal potere potenziale di un altro gruppo”; e ne enuncia il principio fondamentale con queste parole: “Invece di un singolo centro di potere sovrano, ci debbono essere molti centri, nessuno dei quali sia o possa essere interamente sovrano. Per quanto nella prospettiva del pluralismo americano il solo sovrano legittimo sia il popolo, anche il popolo non deve essere mai un sovrano assoluto… La teoria e la pratica del pluralismo americano tendono ad affermare che l’esistenza di una molteplicità di centri di potere, nessuno dei quali è interamente sovrano, aiuterà a domare il potere, ad assicurare il consenso di tutti, e a risolvere pacificamente i conflitti”.

Come si vede, c’è pluralismo e pluralismo. Di fronte a questa pluralità di pluralismi, la domanda iniziale: “Siamo proprio sicuri di sapere che cosa s’intende per pluralismo?”, può essere riformulata in questo modo: “Siamo proprio sicuri d’intendere con pluralismo la stessa cosa?”.


Norberto Bobbio – 21 settembre 1976


Da N. Bobbio, Le ideologie e il potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e terza forza, Le Monnier, Firenze 1981


https://www.facebook.com/notes/norberto-bobbio/che-cos%C3%A8-il-pluralismo-1976/1211245405585539

Frescobaldi
02-11-16, 21:23
Ma intendiamo la stessa cosa? (1976)



C’è pluralismo e pluralismo. Come tutte le parole del linguaggio politico, anche “pluralismo” è un’idra dalle molte teste. Le varie forme di pluralismo, fermo restando il loro carattere comune, che è la rivalutazione dei gruppi sociali che integrano l’individuo e disintegrano lo Stato, si possono distinguere in base a due criteri.

Anzitutto vi è un pluralismo arcaicizzante e uno modernizzante. La polemica contro lo Stato-Leviatano può essere condotta con lo sguardo verso il passato altrettanto bene che con lo sguardo verso l’avvenire. Guardando al passato si scopre la piccola comunità, la corporazione artigiana, il nucleo familiare ancora strettamente aggregato, in una parola il “particolarismo”. Guardando al futuro si scopre la forza dirompente delle nuove formazioni sociali prodotte dalla società industriale, la perenne vitalità della società civile che tende a sopraffare la società politica.

Non è sempre facile distinguere nelle singole correnti pluralistiche la nostalgia per il passato dalla proiezione verso il futuro, la ripetizione dell’antico dalla progettazione del nuovo, anche perché la storia, indipendentemente da quel che ne pensano i suoi attori-spettatori, avanza non per vie diritte ma, come nelle strade in salita, a serpentina, dove per andare avanti occorre procedere per un certo tratto in senso opposto. Tu scopri il quartiere, e invece hai trovato il vicinato. Vuoi distruggere l’universo “concentrazionario” delle grandi città, e trovi il borgo. Vuoi rompere il dominio onnipervadente del potere pubblico e ricadi nella selva (selvaggia) dei poteri privati, in quella privatizzazione del pubblico, di cui ha parlato recentemente Pizzorno.

Nondimeno, se questi due aspetti del pluralismo sono spesso inscindibili, sono perfettamente distinguibili. Il criterio di distinzione deve essere cercato ancora una volta nella contrapposizione fra una concezione catastrofica della storia, che ad ogni avanzata vive drammaticamente il contrasto fra la necessità e l’impossibilità del ritorno, e una concezione prammatica che considera la storia come un processo continuamente svolgentesi attraverso l’innesto del nuovo sul vecchio. Questa distinzione, del resto, fra il ritorno puro e semplice e il laborioso e fecondo ricupero, divide ognuna delle grandi correnti ideologiche del nostro tempo. Constant aveva distinto una libertà degli antichi da una dei moderni. Lo stesso Marx distingueva un socialismo reazionario da uno critico e rivoluzionario. Nulla di strano dunque nella contrapposizione, in seno alle correnti pluralistiche, fra un pluralismo reazionario o degli antichi e un pluralismo critico o dei moderni.

Il secondo criterio di distinzione fra i vari pluralismi è di natura strutturale. Si fonda cioè sul modo di concepire la struttura della società, interpretata o progettata come un multiverso anziché come un universo. Mettendo a confronto le diverse dottrine pluralistiche si ritrova la distinzione fra i due modelli tradizionali del sistema sociale, il modello organico e quello meccanico. C’è un pluralismo organicistico e funzionalistico, da un lato, e un pluralismo meccanicistico e conflittualistico, dall’altro. In quanto pluralismi, entrambi partono dalla constatazione o dall’esigenza della società disarticolata, ma la riarticolano in modo diverso.

Il primo concepisce i vari enti disposti in un sistema gerarchico e finalistico, dove ogni parte riceve la propria collocazione nel tutto dalla funzione che vi svolge secondo il proprio ordine e grado. Il secondo li concepisce come un rapporto di conflitto fra loro, e considera il tutto come il risultato non mai definitivo di un equilibrio di forze che si scindono e si ricompongono di continuo. Nel primo caso l’ordine sociale è per così dire prestabilito, come nell’organismo umano in cui ogni organo esegue l’ufficio che gli è proprio e non può assumerne un altro a pena di distruggere il tutto di cui è parte. Nel secondo l’ordine sociale è l’effetto del movimento interno dei corpi che lo compongono e lo rinnovano di continuo. Il primo modello è più statico, il secondo più dinamico.

Il pluralismo delle dottrina cristiano-sociale è, per lo meno originariamente, del primo tipo; quello liberal-democratico, del secondo. La Pira, che difende alla Costituente i diritti dei gruppi primari, particolarmente della famiglia, commenta: “L’ideale da proporsi in una società pluralistica è appunto questo ideale organico, per cui ogni uomo abbia una funzione ed un posto nel corpo sociale, funzione e posto che dovrebbero essere definiti dal cosiddetto stato professionale, che fissa la posizione di tutti nel corpo sociale”. Al contrario, se si risale a una delle matrici dell’ideologia pluralistica moderna, la teoria dei gruppi elaborata da Bentley al principio del secolo (per non parlare del mito dell’associazionismo americano che deriva da Tocqueville), si scopre che la società americana è interpretata come un vivaio di gruppi sociali che intersecandosi permettono ai diversi interessi di manifestarsi e il cui antagonismo è regolato dal gruppo universale, il gruppo in senso stretto politico, che ha come compito principale quello di non lasciare alterare le regole del gioco.

L’utilità di queste distinzioni sta nel permettere di tracciare le linee di divisione nell’universo dei pluralismi e di far comprendere la ragione per cui su ognuna delle forme di pluralismo possono darsi giudizi di valore contrastanti. I concetti politici sono non solo descrittivamente ambigui ma anche emotivamente polivalenti.
“Pluralismo” evoca positivamente uno stato di cose in cui non vi è un potere monolitico e in cui, al contrario, essendovi tanti centri di potere ben distribuiti sia territorialmente sia funzionalmente, il singolo ha la massima possibilità di partecipare alla formazione delle deliberazioni che lo riguardano (che è la quintessenza della democrazia). Negativamente, suscita l’immagine di uno stato di cose caratterizzato dalla mancanza di un vero centro di potere, e inversamente dall’esistenza di tanti centri di potere continuamente in lotta fra loro e col potere centrale, quindi dalla prevalenza degl’interessi particolari o settoriali o corporativi sull’interesse generale, delle tendenze centrifughe su quelle centripete, dalla frantumazione del corpo sociale anziché dalla sua benefica disarticolazione.

Pluralismo o particolarismo? Pluralismo o nuovo feudalesimo? Pluralismo o corporativismo? Società pluralistica o società policratica? Tanto per fare un esempio che ci riguarda da vicino, che cosa è stata (e che cosa è tuttora) la polemica contro la “partitocrazia” se non l’interpretazione della nostra società non come società pluralistica ma come policratica?

Ho cominciato queste note sul pluralismo dicendo: “Oggi siamo tutti pluralisti”. Si dichiara pluralista, anzi si presenta come corifeo del pluralismo, un partito come il partito comunista che se si dovesse guardare sia alla sua matrice culturale sia a ciò che sono e a come agiscono i partiti comunisti là dove sono al potere, si dovrebbe collocare al polo opposto di una concezione pluralistica della società e della storia. Non è un mistero per nessuno che il tema del pluralismo è stato rimesso in circolazione tanto dalle correnti laiche (che si richiamano al pluralismo antagonistico) quanto dalle correnti cattoliche (che si richiamano al pluralismo organico) in funzione anticomunistica e in particolare antisovietica. E chi conosce un po’ la storia delle dottrine pluralistiche sa bene che si sono formate al di fuori del raggio d’influenza del marxismo nelle sue diverse specie e sottospecie. Si tratta dunque d’intendersi. Per intendersi mi pareva la prima cosa da farsi fosse esplorare con attenzione il territorio, che sulla mappa della teoria generale della politica è stato contrassegnato col nome di pluralismo.

Da questa prima e sommaria esplorazione è apparso un territorio dai confini ancora non ben segnati, accidentato, dal clima incostante, dove si alternano foreste misteriose e terreni coltivi, e, quel che è più grave, conteso da gruppi rivali che se ne attribuiscono il dominio esclusivo. Per ritornare alla domanda con cui ho terminato il primo articolo: “No, non sono proprio sicuro che intendiamo per pluralismo la stessa cosa”.

Norberto Bobbio - 22 settembre 1976

Da Norberto Bobbio, “Le ideologie e il potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e terza forza”, Le Monnier, Firenze 1981.



https://www.facebook.com/notes/norberto-bobbio/pluralismo-ma-intendiamo-la-stessa-cosa-1976/1253304754712937

Frescobaldi
13-01-17, 16:02
Marx pluralista?




Com’era prevedibile, il dibattito si è svolto principalmente lungo il tema “pluralismo e socialismo”; un tema a molte facce che conviene tener separate. Sono stati toccati soprattutto quattro punti, ciascuno dei quali meriterebbe una trattazione più esauriente di quella che possa fare in questa note: 1) pluralismo e marxismo; 2) pluralismo e teoria (e pratica) dei partiti comunisti; 3) pluralismo e compromesso storico; 4) pluralismo e futura società socialista.

Sul primo punto rinvio alle osservazioni fatte da Pietro Rossi nell’articolo È possibile conciliare il pluralismo con Marx? (Il giorno, 19 settembre 1976), che condivido pienamente. Pluralismo e marxismo divergono, secondo Rossi, sia rispetto alla concezione generale della società che per il primo “è costituita da una molteplicità di gruppi i quali sono portatori di interessi differenti ma non necessariamente incompatibili”, mentre per il secondo è costituita da classi antagonistiche; sia rispetto alla concezione del partito, la cui funzione è per il primo rappresentativa e mediatrice, per il secondo rappresentativa ma non altrettanto mediatrice in quanto rappresenta gl’interessi permanenti di una sola classe sociale; sia rispetto alla filosofia della storia, che, secondo il marxismo, mette capo a una società senza classi, cioè ha un fine prestabilito e, nei riguardi del corso storico si qui compiuto, conclusivo.

Da queste osservazioni che mi paiono ineccepibili deriva che non si può annettere il pluralismo nel suo significato specifico al marxismo e a maggior ragione al leninismo senza compiere un’opera di revisione della dottrina così com’è stata sinora tramandata e canonizzata, se non correndo il rischio di essere accusati dagli ortodossi di “revisionismo”. Si osservi come un “ismo” non può essere corretto o “riveduto” se non contrapponendogli un altro “ismo”. Per chi invece consideri Marx come uno scienziato, la revisione di questo o quel risultato delle sue ricerche è un fatto naturale, non catastrofico: la scienza procede per continue revisioni senza mai dar luogo alla contrapposizione frontale fra ortodossi e revisionisti: anzi, colui che “rivede” è considerato generalmente non un traditore ma un benemerito.
Rispetto al rapporto fra pluralismo e teoria (e pratica) dei partiti comunisti, non ignoro che in questi ultimi anni nell’ambito della stessa scienza politica americana, che aveva costruito la categoria del totalitarismo in funzione apparentemente antifascista ma di fatto anticomunista, sono stati fatti alcuni tentativi di dare un’interpretazione pluralistica del nuovo corso dello Stato sovietico (si vedano gli articoli contenuti nel fascicolo dell’autunno 1975 degli Studies in comparative communism). Non ignoro neppure che la più grande inchiesta-analisi sull’Unione Sovietica del periodo staliniano, scritta da occidentali e tradotta in italiano con tutti gli onori nel 1950 (parlo de Il comunismo sovietico: una nuova civiltà di Beatrice e Sidney Webb) era un tentativo (temerario a dire il vero) di presentare la società sovietica come una “democrazia multiforme”, ovvero “un nuovo tipo di organizzazione sociale, nella quale gl’individui medesimi che ne fanno parte, nella loro triplice qualità di cittadini, produttori e consumatori, si uniscono per realizzare una vita migliore” (II, p. 708).

Ma il contrasto di fondo, indipendentemente dalle parole usate, fra i sistemi politici dei Paesi comunisti e dei Paesi di democrazia rappresentativa, per la cui interpretazione è stata foggiata la categoria del pluralismo, rimane. Nonostante gli sforzi degli attuali liberals americani, e dei due illustri fabiani di quarant’anni fa, sono gli stessi scrittori e politici sovietici che considererebbero l’interpretazione pluralistica del loro sistema come un travestimento, se non proprio come un’aberrazione.

Ripesco nei miei ricordi un episodio che dovrebbe mettere ai neo-pluralisti del comunismo occidentale almeno una pulce nell’orecchio: quando un gruppo di intellettuali ungheresi andati in esilio dopo la rivoluzione fallita del 1956 fondarono a Bruxelles una rivista di forte polemica antisovietica, intitolata Etudes, sapete quale sottotitolo vi apposero dopo qualche anno? Revue du socialisme pluraliste!

Nell’attuale dibattito peraltro ogni riferimento deve essere fatto, per essere di qualche utilità, al partito comunista italiano, rispetto al quale sono di fondamentale importanza le dichiarazioni fatte da Pietro Ingrao (Il pluralismo, 7 ottobre), e quelle successive di Ugo La Malfa (Pluralismo e socialismo, 9 ottobre), che citandole sostiene non doversi fare il processo alle intenzioni.

Nell’articolo di Ingrao vi sono almeno tre punti che non si possono passare sotto silenzio: il richiamo alla Costituzione e alla indubbia concezione pluralistica cui essa è ispirata; l’affermazione di fatto che rispetto alla tradizione marxistica “non siamo stati fermi” e quella di principio “siamo laici” perché “non crediamo che esistano carismi né per noi né per gli altri”; infine la dichiarazione che nei partiti politici moderni resta un’ambiguità perché nonostante la spinta alla socializzazione del potere che essi esprimono, vi si rivela “un’inclinazione ad un ruolo totalizzante che finisce per trasformarsi in delega”.

Ha ragione La Malfa nel dire che, quando non si consideri strumentale questa posizione di Ingrao, essa rappresenta “un salto enorme” rispetto al pensiero tradizionale dei partiti comunisti. Zaccagnini a sua volta ricorda alcune dichiarazioni di Togliatti relative alla nostra Costituzione. Il salto è davvero “enorme” perché va – o almeno io ritengo che vada – non solo oltre Gramsci (il che lascia intendere lo stesso Ingrao quando dice “e qui non bastano nemmeno le anticipazioni geniali di Gramsci”) ma anche oltre Togliatti. Il che, per un partito laico, per un partito che non sta fermo, non è uno scandalo: è una necessità. Il partito socialista dal tempo del “fusionismo” di salti ne ha fatti molti (forse anche troppi): ma nessuno lo mette in croce per questo.

Il tema del rapporto fra pluralismo e compromesso storico è stato l’oggetto principale dell’intervento di Antonio Giolitti (Pluralismo e compromesso, 12 ottobre). Il problema può essere posto con questa domanda: il compromesso storico è una proposta politica pluralistica? Ho già avuto occasione di dire in più occasioni che il compromesso storico, se davvero fosse destinato a essere “storico”, finirebbe per bloccare lo sviluppo di una società pluralistica, e che pertanto esso è suggerito dalla preoccupazione per l’emergere degli elementi negativi del pluralismo più che non degli elementi positivi.

La Malfa è di diverso parere, e naturalmente anche Ingrao. Contrari, oltre Giolitti, Orlandi e Zanone. Giolitti ritiene che si debba prevenire il pericolo della mancanza di alternativa, perché senza alternativa, cioè senza la possibilità di un’opposizione capace di sostituire pacificamente il governo in carica, “si avrebbe un pluralismo sociale ingabbiato in un totalitarismo politico”. Questo argomento mi pare difficilmente superabile.

Non ho nulla in contrario, si badi, che mi si venga a dire: in una società che presenta chiari sintomi di disgregazione, come quella italiana, insistere sullo sviluppo del pluralismo anziché sul suo (momentaneo) arresto, è un errore. Mi pare invece poco convincente che si agiti la bandiera del pluralismo per fare una politica che con tutta la buona volontà di non fare la polemica per la polemica non si può considerare se non antipluralistica in tutti i sensi sinora descritti di questo straziatissimo termine. Al Festival di Napoli mi si è obiettato: “Il fatto che noi (comunisti) non solo non respingiamo ma cerchiamo l’alleanza coi diversi, è la prova che non siamo esclusivisti, che siamo pluralisti”. Rispondo: la prova del pluralismo non è mai la formazione di un nuovo “blocco storico”, ma (come ha notato d’Entrèves) la libertà del dissenso, ovvero la condizione riservata a coloro che non fanno parte del blocco.

L’ultimo tema – pluralismo e futura società socialista – è quello su cui, se dovessi attenermi agli interventi, non avrei niente da dire. La Malfa l’ha posto in forma di domanda, ma nessuno in forma di risposta. La ragione per cui non è stata data una chiara risposta a questa domanda sta nel fatto che una società che sia insieme interamente socialista e democratica, sinora nessuno l’ha mai vista. Una società che sia interamente socialista e democratica appartiene alla categoria degli eventi desiderabili. Ma non tutti gli eventi desiderabili sono possibili.

Siccome il pluralismo è entrato ormai a far parte del nostro concetto di democrazia, sappiamo soltanto che una società socialista per essere democratica dovrà essere pluralista. Ma non sappiamo come.

Per definire la democrazia occorrono non una ma due negazioni: la negazione del potere autocratico in cui consiste la partecipazione, e la negazione del potere monocratico in cui consiste il pluralismo. Si può benissimo pensare a una società democratica non pluralistica (la repubblica di Rousseau); così come sono esistite società pluralistiche (ad esempio, la società feudale) non democratiche. Una società socialista, per essere democratica, dovrebbe essere non autocratica e non monocratica. Gli sforzi del pensiero socialista e democratico sono stati diretti verso il primo obiettivo – allargamento della partecipazione dal potere politico strettamente inteso al potere economico -, non ancora verso il secondo. Ci sarebbe da rallegrarsi se questo dibattito fosse servito, se non altro, a individuare un problema.


Norberto Bobbio, 28 novembre 1976



Da N. Bobbio, “Le ideologie e il potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e terza forza”, Le Monnier, Firenze 1981.





https://www.facebook.com/notes/norberto-bobbio/pluralismo-marx-pluralista/1335784016465010

Frescobaldi
18-01-17, 02:27
Non è tutto oro quello che luce



Da N. Bobbio, “Le ideologie e il potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e terza forza”, Le Monnier, Firenze 1981.


Avevo cominciato il primo articolo sull’argomento scrivendo: “Ferve la discussione sul pluralismo”. Posso essermi sbagliato in tante cose, ma non in questa constatazione. La discussione che si è svolta per due mesi su questo giornale (e non solo su questo giornale) ne è una conferma. In questo frattempo sono anche usciti due libri, che segnalo ai curiosi (e di cui si potrà parlare in altre occasioni): Unità e pluralismo nella Chiesa (Atti del convegno di studio, Roma, maggio 1975, a cura del Comitato cattolico dei docenti universitari, Edizioni Ares, Milano, 1976) e Il pluralismo fra liberalismo e socialismo di Rainer Eisfeld (Il Mulino, Bologna, 1976). Nel primo, Giovanni Bognetti traccia le linee della dottrina e della pratica pluralistica nello Stato contemporaneo in un saggio intitolato Pluralismo nella società civile (pp. 23-63). Nel secondo il giovane autore, ultimo rampollo della Scuola di Francoforte, fa del pluralismo, con una certa forzatura, una categoria storica di vasta portata, considerandolo lo strumento di analisi più adeguato per comprendere quella fase di sviluppo della società industriale che ha superato il liberalismo ed è destinata ad essere superata dal socialismo.

La discussione, seguita ai mei due articoli, si è concentrata soprattutto su questi due punti: 1) significato di “pluralismo”; 2) aspetti positivi e negativi del pluralismo.

Alla mia descrizione del pluralismo è stato mosso il rimprovero di essere limitativa (Passerin d’Entrèves) e arretrata (Ingrao). Probabilmente i miei critici non hanno considerato che io non avevo affatto preteso di dare una mia personale definizione di “pluralismo”, ma mi ero limitato ad assumere questo termine nel suo significato tecnico, che potevo presumere noto agli addetti ai lavori, non altrettanto noto ai lettori di un giornale. Nella storia del pensiero politico dell’ultimo secolo si chiamano pluralistiche certe dottrine e non altre; e si chiamano così perché hanno certe caratteristiche e non altre. Le dottrine pluralistiche nascono dalla scoperta dell’importanza dei gruppi sociali (una volta si diceva i “corpi intermedi” che si interpongono fra gli individui singoli e lo Stato; e tendono a considerare bene organizzata quella società in cui i gruppi sociali godono di una certa autonomia rispetto al potere centrale e hanno il diritto di partecipare, anche in concorrenza fra loro, alla formazione delle deliberazioni collettive.

Non ho alcuna difficoltà ad ammettere – e in ciò sono d’accordo con Ingrao – che alcune dottrine storiche del pluralismo sono sotto molti aspetti arretrate (di questa arretratezza c’è ad esempio un riconoscimento nell’intervento di Zaccagnini nei riguardi del pluralismo organico dei cattolici), anche se l’esigenza fondamentale, da cui tutte le varianti storiche del pluralismo sono sorte, di trovare antidoti al prepotere dello Stato nel contro-potere dei gruppi, non solo non è venuta meno, ma, proprio per quel che dice lo stesso Ingrao circa la formazione delle grandi concentrazioni, è sempre attuale, anzi – si dovrebbe dire – sempre più attuale. Ma se sono arretrate alcune forme di pluralismo, non è arretrata la mappa con cui le ho descritte. Chi scava ruderi non è egli stesso un rudere, ma un archeologo. L’unico giudizio legittimo per una descrizione, per una mappa, qual era la mia, è: “Fedele o non fedele?”.

Dicendo che “pluralismo” è un termine del linguaggio tecnico non contesto il suo uso sempre più frequente (anche nel nostro dibattito) come termine del linguaggio comune. Mi limito ad ammonire che non lo si può gonfiare o sgonfiare a piacere e neppure svuotare di qualsiasi significato, come fa, ad esempio, Cerroni in un articolo di Paese sera (Pluralismo e democrazia socialista, 22 settembre 1976), quando scrive che il pluralismo “a volte allude al metodo della democrazia politica” (il che è molto generico), “a volte, invece, alla esistenza dei rapporti sociali tipici del capitalismo” (il che è fuorviante), e conclude che in questa seconda accezione “il pluralismo finisce col significare puramente e semplicemente individualismo dominante, libertà di mercato, e anche sfruttamento” (il che è insieme generico e fuorviante).

Considero una spia del passaggio del termine dal suo significato tecnico a un significato più generico il richiamo fatto da Ingrao all’art. 3 della nostra Costituzione: l’articolo della Costituzione che ha introdotto il pluralismo nel senso tecnico, come teoria e ideologia dei gruppi sociali, è l’art. 2, che vuol tutelato l’individuo non solo in quanto tale ma anche nelle “formazioni sociali” di cui fa parte. Il pluralismo dell’art. 3 è generico, quello dell’art. 2 è specifico.

Anche del pluralismo si può dire che non è tutto oro quello che luce. Io stesso avevo detto che accanto al beneficio che può derivare dalla frantumazione del potere c’è il maleficio della disgregazione. Chi vada a rileggere il secondo articolo (Come intendere il pluralismo, 22 settembre 1976 [https://www.facebook.com/notes/norberto-bobbio/pluralismo-ma-intendiamo-la-stessa-cosa-1976/1253304754712937]) mi darà atto che sulla mappa del pluralismo non aveva piantato una bandiera (vessillo), ma semplicemente collocato delle bandierine (segnali). Ad eccezione di Orlandi (Il pluralismo negato, 14 ottobre) e di Zaccagnini (Quale pluralismo?, 18 novembre), il quale scrive saggiamente “che non bisogna mai accentuare il rischio della disgregazione, per sminuire o sottovalutare, invece, il pericolo della burocratizzazione partitica”, la maggior parte dei miei interlocutori hanno colto più l’aspetto negativo che non quello positivo.

Sull’aspetto negativo si è soffermato in modo particolare C. Tullio Altan, Forze disgreganti nella società italiana (6 ottobre). Ma vi hanno richiamato l’attenzione anche altri, come Ugo La Malfa (Pluralismo e socialismo, 9 ottobre) e con maggior forza Valerio Zanone (Il pluralismo si basa sul dissenso, 20 ottobre). D’Entrèves ha osservato che il pluralismo di oggi a differenza di quello proprio della società medioevale è pur sempre una “creatura dello Stato, perché sussiste in quanto lo Stato… lo permette e addirittura lo tutela”. Giustissimo: il pluralismo non è anarchismo. Il pluralismo è un’interpretazione, e insieme un progetto di riforma, dello Stato moderno: non è mai stato una negazione radicale di ogni forma possibile di Stato.

Al Festival di Napoli, dopo aver indicato la tendenza delle nostre società alla moltiplicazione dei gruppi d’interesse non soltanto politici ed economici (i genitori degli alunni di una scuola non costituiscono né un gruppo politico né un gruppo economico), avevo aggiunto: “Non bisogna peraltro nascondersi che questa tendenza può presentare pericoli gravissimi. Non c’è alcun processo lineare nella storia. Se la storia fosse lineare, sarebbe meno complicata di quel che appaia a noi che la facciamo (o la subiamo). Il pericolo più grave è l’eccesso opposto alla concentrazione; cioè la disgregazione. Detto altrimenti, la riduzione dell’interesse pubblico a una miriade scomposta e non più ricomponibile d’interessi privati. Ovvero: il paventato (o evocato) ritorno al Medioevo, dove anziché contese fra famiglie rivali (del resto in un’economia precapitalistica la famiglia è anche il centro del potere economico), sorgono contese fra gruppi d’interessi contrapposti che rendono impossibile la soddisfazione di qualsiasi interesse collettivo”.

Il pluralismo nasce contro lo Stato-totalità, e difatti è rinato dopo i vari totalitarismi contemporanei; ma non è una teoria eversiva. Riconosce l’importanza dei gruppi, delle società parziali che l’unitario Rousseau deprecava, ma non disconosce l’importanza decisiva e conclusiva di quel gruppo universale i cui membri sono gl’individui in quanto cittadini, e che costituisce lo Stato-comunità (distinto dallo Stato-apparato). Accentua, per ragioni polemiche e in date circostanze storiche, il momento della ridistribuzione del potere, ma non rifiuta quella della riaggregazione. Invita a non dimenticare che in una società complessa come lo Stato moderno accanto all’equilibrio fra il momento della forza e il momento del consenso, su cui si soffermano di solito i teorici della politica, ci deve essere anche un equilibrio fra il momento dell’unità e quello della pluralità. Chi ha consuetudine coi testi classici sa che la secolare discussione pro e contro il governo misto si muove fra i fautori dell’unità e i fautori della pluralità del potere.

Constato se mai che non è stato ripreso l’accenno che io avevo fatto alla società policratica, cioè a quell’aspetto negativo del pluralismo che consiste non già nell’impotenza dello Stato ma nella prepotenza del gruppo sull’individuo. Il pluralismo è sempre stato bifronte: una faccia rivolta contro lo statalismo totalizzante e un’altra contro l’individualismo atomizzante. Se dal punto di vista dello Stato l’accusa che può essere mossa al pluralismo è d’indebolirne la compattezza e quindi di diminuirne la necessaria forza unificante, dal punto di vista dell’individuo il pericolo consiste nella tendenza naturale di ogni gruppo d’interesse a irrigidire le sue strutture via via che cresce il numero dei membri e si estende il raggio dell’attività, sicché l’individuo singolo che crede di essersi liberato dello Stato padrone diventa servo di tanti padroni.

Valga la considerazione che nelle nostre società caratterizzate da gruppi e organizzazioni sociali a grandi dimensioni, la rivendicazione dei tradizionali diritti di libertà, come la libertà di pensiero, d’opinione, di riunione, e persino della libertà politica intesa come diritto di partecipare alla formazione della volontà collettiva, si va spostando dal terreno tradizionale dello Stato-apparato a quello delle grandi organizzazioni che sono cresciute dentro o anche al di là dello Stato (come le imprese). L’art. 1 dello Statuto dei lavoratori che proclama il diritto dei lavoratori di manifestare liberamente il proprio pensiero nei luoghi dove prestano la loro opera, dimostra che la libertà dell’individuo non si difende soltanto contro lo Stato ma anche dentro la società, e che, dovunque si è costituito un potere, questo mostrerà presto o tardi il suo volto “demoniaco”.



Norberto Bobbio, 1° dicembre 1976


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