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Kavalerists
13-10-16, 06:22
Da dove viene, come evolve e dove va la mega-macchina del sistema finanziario.
di Alessio Pizzichini - 12 ottobre 2016 http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/themes/ID/images/facebook.svg (http://www.facebook.com/share.php?u=http%3A%2F%2Fwww.lintellettualedisside nte.it%2Feconomia%2Fgenesi-e-vita-del-finanzcapitalismo%2F&title=Genesi%20e%20vita%20del%20finanzcapitalismo) http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/themes/ID/images/twitter.svg (http://twitter.com/intent/tweet?status=Genesi%20e%20vita%20del%20finanzcapit alismo+http%3A%2F%2Fwww.lintellettualedissidente.i t%2FojLAQ+@IntDissidente) http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/themes/ID/images/google+.svg (https://plus.google.com/share?url=http%3A%2F%2Fwww.lintellettualedissident e.it%2Feconomia%2Fgenesi-e-vita-del-finanzcapitalismo%2F)
Sull’evoluzione del capitalismo nessuna definizione è più azzeccata di quella di mega-macchina di Lewis Mumford, urbanista e sociologo statunitense: le mega-macchine sono organizzazioni gerarchiche che usano esseri umani come componenti e unità. Luciano Gallino (http://www.lintellettualedissidente.it/rassegna-stampa/luciano-gallino-intellettuale-di-fabbrica/), tra i più grandi sociologi italiani mai esistiti, parte proprio da questa per definire il capitalismo odierno:
“Il finanzcapitalismo è la mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile dal maggior numero possibile di esseri umani. […] Come macchina sociale il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti , compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali e in tutti gli strati della società, della natura e della persona.”
Dunque se prima il capitalismo si fondava sull’investimento del capitalista in risorse per produrre beni o servizi dalla cui vendita ne avrebbe ricavato profitto; oggi è fondato sul concetto di rendita. La differenza viene spiegata da Carlo Vercellone, economista presso il laboratorio CNRS del Centro di Economia della Sorbona e tra i massimi esponenti della teoria del capitalismo cognitivo, in “Il ritorno del rentier. Salario, rendita, profitto nel capitalismo cognitivo”, che qui riassumeremo e semplificheremo: il profitto è il guadagno del capitalista che, direttamente o meno, dirige o partecipa a un processo produttivo; la rendita è il guadagno del rentier, colui che possiede risorse e guadagna dal loro sfruttamento dopo che sono stati retribuiti tutti coloro che effettivamente vi lavorano. Banalizzando, l’industriale ottiene profitto mentre il proprietario rendita. La conseguenza principale di ciò sta nel passaggio dalla formula capitale > produzione e lavoro > consumo > profitti > capitale alla formula, molto più e breve e soprattutto priva di lavoro, capitale > speculazione > rendita > capitale.
Quali sono le caratteristiche di questa mega-macchina che è il capitalismo finanziario? Cercando di raggrupparle e sintetizzarle, cinque sono sicuramente quelle fondamentali:
1. Sviluppo sinergico a globalizzazione e terza rivoluzione industriale
2. Predominio della finanza sull’economia reale
3. Morte della democrazia, cessione di sovranità e passaggio da “nazionale” a “sovranazionale”
4. Aumento delle disuguaglianze e lotta di classe dall’alto come strumento di governo
5. Pauperizzazione del consumatore e sfruttamento dell’uomo come risorsa
La globalizzazione e la terza rivoluzione industriale (la rivoluzione tecnologica trainata dalla combinazione della microelettronica con l’informatica) sono fenomeni sviluppatisi di pari passo al capitalismo finanziario e ne sono allo stesso tempo cause e conseguenze: nessuno di questi tre fenomeni avrebbe raggiunto un’imponenza tale se ne fosse mancato anche solo uno degli altri due. Da un lato infatti la finanziarizzazione dell’economia è stata possibile grazie allo sviluppo di tecnologie all’avanguardia che permettono di acquistare e vendere interi patrimoni dall’altra parte del mondo con un clic, dall’altro la tecnologia ha potuto diffondersi a ritmi sempre più serrati soltanto grazie ad un modello economico globalizzato e inter-connesso, che l’ha portata ovunque sia stato esportato il modello consumistico (http://www.circoloproudhon.it/shop/un-comunista-a-parigi-nel-68/) e l’American way of life.
http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/uploads/2016/10/Sao_Paulo_Stock_Exchange-1024x544.jpgBorsa di San Paolo in Brasile.

Nel 1980 il valore degli attivi finanziari globali e il PIL del mondo erano pari, mentre nel 2007 il primo superava il secondo di più di quattro volte (241 trilioni di dollari contro 54). Sempre nel 2007 i primi tre gruppi finanziari degli Stati Uniti (Citigroup, Bank of America, Morgan Chase) possedevano attivi pari a 5,1 trilioni di dollari, mentre lo stato federale incassava meno della metà: 2,4 trilioni. Da questi semplici dati si evince quanto il sistema finanziario sia diventato imponente ed ingestibile. Ciò grazie anche alla brusca diffusione, iniziata negli anni ’80, dei derivati e della cartolarizzazione, pratica tramite le quale possono “impacchettare” e vendere i propri crediti sul mercato. La crisi del 2008 è partita dal settore immobiliare proprio perché le banche potevano concedere mutui vantaggiosi praticamente a chiunque, sapendo che avrebbero potuto rivenderli agevolmente, spesso a società ed enti che come le banche non avevano altra ambizione se non la speculazione. La cartolarizzazione ha trovato particolare slancio dopo dopo l’accordo interbancario Basilea 1 del 1988, che sanciva l’obbligo per ogni banca di accantonare a riserva minimo l’8% di ciascun credito concesso. Le banche cominciarono ad aggirare questa regola trasformando il credito in titolo e vendendolo, così da poter avere liquidità immediata e da poter emettere un nuovo credito (dunque creare nuova moneta fiduciaria) lasciando pressoché inalterata la quota di riserva obbligatoria. A questo riguardo, Gallino scrive:
“Stando a Greenspan [presidente della Federal Reserve, ndr.] nemmeno la Fed, né alcuna banca centrale o nazionale, sapeva o sa quanto denaro e in quali forme sia effettivamente in circolazione nel proprio paese e nel mondo. L’anarchia finanziaria e monetaria generata dai derivati discende in buona parte dal fatto che per oltre nove decimi essi rientrano nella classe degli Otc. Per vari aspetti, i derivati Otc rappresentano il trionfo delle deregolamentazione dei mercati finanziari.”
Non a caso anche il più abile investitore di sempre, lo statunitense Warren Buffet, definì in tempi non sospetti i derivati come “gli equivalenti finanziari delle armi di distruzione di massa.” Tutto ciò è andato a colpire l’economia reale: la grande impresa infatti è sempre più finanziarizzata, ossia guarda più al valore di mercato per l’azionista che a produrre oggetti utili o servizi buoni. Ciò riguarda però le grandi imprese quotate in borsa, mentre le piccole e medie imprese, tutt’oggi ancorate alla definizione di impresa come istituzione e orientate alla produzione, hanno perso rilevanza e considerazione, poiché incapaci di adeguarsi a un sistema economico fondato sull’immateriale. Il celebre tessuto delle piccole-medie imprese italiane è stato colpito gravemente dalla crisi e si sta disgregando a ritmi inverosimili, mentre le grandi imprese finanziarizzate, se in difficoltà, delocalizzano la sede produttiva e/o fiscale o vengono assorbite da altre più grandi.
http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/uploads/2016/10/derivatives.jpgTotale nozionale dei contratti derivati detenuti dalle banche commerciali americane in trilioni di dollari (Fonte: Forbes)

Nell’era del dominio finanziario, una domanda si impone. Mercati e democrazia sono compatibili? Assolutamente no. Lo potevano essere, ma ora non più. In particolar modo dal dopoguerra ad oggi, con forte impulso proveniente dal processo di integrazione europea, si sono cedute parte importanti di sovranità nazionale (politica, economica, monetaria) ad enti sovranazionali quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la Banca Centrale Europea e la Commissione Europea. Ciò ha comportato la perdita di rilevanza delle elezioni democratiche, che ancora esistono e si svolgono liberamente, ma di fatto non sono più significative ed incidenti come in precedenza. In questi anni molti euroscettici utilizzano la metafora del treno a riguardo: con le elezioni ormai si può scegliere soltanto il capostazione, in quanto la direzione del treno è ormai immutabile, almeno entro il meccanismo dell’Unione Europea. È vero d’altra parte che il Parlamento Europeo è sottoposto a libere elezioni, ma il suo potere è decisamente limitato, dato che esamina le proposte legislative della Commissione Europea e controlla il suo operato. È invece questa a detenere il potere esecutivo e legifera, facendo esaminare successivamente le proposte al Parlamento. Parlando di democrazia ed elezioni, la Commissione Europea non è nominata né dai popoli né dai parlamentari:
“I membri della Commissione sono scelti in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo e tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza. […] I membri della Commissione sono scelti tra i cittadini degli Stati membri in base ad un sistema di rotazione assolutamente paritaria tra gli Stati membri che consenta di riflettere la molteplicità demografica e geografica degli Stati membri. Tale sistema è stabilito all’unanimità dal Consiglio europeo.”
È dunque eletta liberamente dal Consiglio europeo, organo composto dai capi di governo dei paesi membri. Per i popoli non c’è spazio. E quello per i governi è sempre minore. Del resto gli stati dell’eurozona (e non solo) sanno che per potersi finanziare sul mercato occorre sposare un’agenda politica gradita agli investitori, pena il rischio di incorrere un’impennata dei tassi e di trovarsi ad un tragico bivio: dichiarare default o sottomettersi all’agenda gradita ai mercati. A riguardo si pensi a ciò che è accaduto al governo Berlusconi nel 2011. In sintesi: il popolo può eleggere chi vuole, tanto l’agenda politica la impongono enti e istituzioni che col consenso popolare non hanno nulla a che fare.
In questo contesto, la lotta di classe non è conclusa, ma la stanno vincendo gli straricchi. Ciò si evince subito da due dati: in primis, la quota salari su PIL è crollata mediamente di dieci punti percentuali (dal 68% al 58%) negli ultimi trent’anni, arrivando a crolli più elevati in Italia (- 15%); in secondo luogo, l’indice di Gini sulla base della parità dei poteri d’acquisto ha superato i 70 punti (l’indice varrebbe 1 se tutti i cittadini avessero la stessa ricchezza, 100 se un cittadino detenesse tutta la ricchezza del mondo). Credit Suisse, una delle più importanti società finanziarie a livello mondiale, prevede che a fine 2016 l’1% del mondo, la parte dei cosiddetti straricchi, vanterà un reddito più elevato del restante 99%. Analizzando le elaborazioni de “Il Sole 24 Ore” nel dossier del 2015 intitolato “Disuguaglianza economica in Italia e nel mondo (http://www.ilsole24ore.com/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/ILSOLE24ORE/Online/_Oggetti_Embedded/Documenti/2016/05/20/Hume-01.pdf)”, si nota come nell’ultimo tredicennio questo 1% sia diventato ancora più ricco in ognuno dei sedici maggiori paesi analizzati. Nel tredicennio precedente a quello appena analizzato, il famoso 1% si è arricchito soltanto in otto paesi sui sedici analizzati, rimasto invariato in uno e addirittura diminuito nei restanti sette (per lo più paesi Europei). Dunque, la recente accelerazione della globalizzazione finanziaria ha causato un aumento delle disuguaglianze a livello globale, causando un’involuzione e un ritorno alla situazione precedente al 1980. Basti pensare anche che i paesi europei, nel loro complesso, hanno impegnato più di tre trilioni di euro per salvare le banche e le istituzioni finanziarie in crisi, sacrificando il celebre welfare europeo proprio laddove è stato creato.
http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/uploads/2016/10/OccupyWallSt99-1024x683.jpgManifestazione del movimento Occupy Wall Street.

La società di massa e il boom economico hanno progressivamente trasformato l’uomo in consumatore (http://www.lintellettualedissidente.it/economia/ricchi-ma-tristi/), quasi atomizzato, in linea con quel processo di creazione dell’homo oeconomicus iniziato circa tre secoli fa: un uomo il cui unico interesse è il perseguimento del proprio interesse e della propria utilità, definito dall’antropologo Marcel Mauss “macchina da calcolo”. La peculiarità di questa nuova forma di capitalismo è che l’uomo non è più un semplice consumatore, ma un consumatore pauperizzato. Riprendendo ancora Gallino:
“il consumatore medio non è diventato più povero per qualche misteriosa disfunzione dell’economia: è stato intenzionalmente impoverito da chi aveva il potere di farlo, al fine di trasferire ai profitti e alle rendite la maggior quota possibile dei redditi da lavoro. Il termine storico di pauperizzazione intende appunto sottolineare che la condizione di povertà relativa in cui la crisi ha spinto milioni di persone delle classi medie e della classe operaia è stato un esito metodicamente perseguito dalle imprese e dai governi.”
In sostanza oggi l’uomo non consuma perché può permetterselo: consuma perché deve tenere a galla il sistema economico e assorbire una quantità stratosferica di beni e servizi prodotti. D’altra parte però egli viene spremuto, poiché in nome della flessibilità e dell’aumento delle rendite e dei profitti è una mera risorsa da cui trarne più valore possibile. Ciò avviene dal lavoro, in particolare da quattro pratiche sempre più accentuate: compressione dei diritti ed erosione dei sistemi di protezione sociale, diminuzione dei salari, diffusione di forme di occupazione flessibili, intensificazione dei ritmi di lavoro e riduzione delle pause. Una condizione dunque di pieno sfruttamento e di vera crisi dell’uomo, ormai iper-individualista e inserito in un contesto che del vecchio concetto di comunità solidaristica non ha più nulla.

Genesi e vita del finanzcapitalismo (http://www.lintellettualedissidente.it/economia/genesi-e-vita-del-finanzcapitalismo/)

Kavalerists
25-12-16, 20:26
Keynes può salvarci ancora?



Ai tempi della “stagnazione secolare”, si ripropone con forza il dibattito economico che ha segnato la storia del capitalismo nel secolo breve: liberisti contro keynesiani. Ma in una società di mercato in cui la crescita economica sembra aver raggiunto un punto di saturazione, entrambi i contendenti ignorano la morte del loro dio comune. Com’è possibile conciliare le politiche keynesiane con una prospettiva di a-crescita? Sarà Keynes a salvarci ancora?
di Fabio Fiorucci - 20 dicembre 2016 http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/themes/ID/images/facebook.svg (http://www.facebook.com/share.php?u=http%3A%2F%2Fwww.lintellettualedisside nte.it%2Feconomia%2Fkeynes-puo-salvarci-ancora%2F&title=Keynes%20pu%C3%B2%20salvarci%20ancora?) http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/themes/ID/images/twitter.svg (http://twitter.com/intent/tweet?status=Keynes%20pu%C3%B2%20salvarci%20ancora ?+http%3A%2F%2Fwww.lintellettualedissidente.it%2Fd vGj1+@IntDissidente) http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/themes/ID/images/google+.svg (https://plus.google.com/share?url=http%3A%2F%2Fwww.lintellettualedissident e.it%2Feconomia%2Fkeynes-puo-salvarci-ancora%2F)
Ai tempi della “crescita debole” e della nuova “stagnazione secolare”, sembra riproporsi con forza il dibattito economico che segna la linea di continuità in tutta storia del capitalismo nel secolo breve: quello fra liberisti e keynesiani. Questa dialettica, che nello scenario politico europeo era scomparsa assieme alla sinistra socialdemocratica, sembra riaffacciarsi nel confuso bipolarismo nuovo fatto di establishment ed anti-establishment. I neo- (ed i post-) keynesiani europei individuano il problema principale nel sistema euro, che, oltre ad impedire il riequilibrio commerciale fra economie diverse tramite la fluttuazione dei cambi, rende impossibile qualsiasi politica di investimento pubblico finanziata in deficit (oltre il famoso 3 percento) che sia in grado di rilanciare i consumi, quindi la crescita e l’occupazione. I monetaristi, partendo da presupposti diversi e motivati spesso da interessi di parte più che da analisi fattuali, difendono il modello neoliberista inaugurato negli anni ’80 e proseguito, in Europa grazie all’Unione e all’egemonia tedesca, fino ai nostri giorni.
http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/uploads/2016/12/Milton-Friedman-Legacy.jpgMilton Friedman, uno dei massimi esponenti del monetarismo.

In questo scontro politico per nulla inedito, consumato alle spalle di un sistema prossimo al tracollo, entrambi i contendenti sembrano ignorare la morte annunciata del loro dio comune: la crescita economica (http://www.lintellettualedissidente.it/rassegna-stampa/diventare-atei-della-crescita/). La rivoluzione keynesiana salvò negli anni ’30 quel modello di capitalismo liberale, crollato improvvisamente su se stesso, che le teorie classiche dipingevano come perfetto. Spesa pubblica e stimolo della domanda permisero al mercato di espandersi e all’economia di crescere. Le generazioni dei figli erano sempre più ricche di quelle dei padri, e la crescita economica era la forza dinamica che permetteva al sistema Stato-Mercato di mantenere l’equilibrio. La crescita è allo stesso tempo l’obiettivo ed il requisito essenziale di questo modello di sviluppo. Keynes salvò così il capitalismo, e la socialdemocrazia riuscì a contenere i suoi effetti devastanti sulla società. Ma ai tempi del New Deal, e poi del Piano Marshall, lo scenario economico era ideale per i piani keynesiani: c’era una prateria sociale incontaminata in cui il mercato era libero di espandersi e prosperare, sostituendo i valori tradizionali del mondo contadino, di quello operaio e della borghesia con sfavillanti frigoriferi, palazzine di cemento, rock and roll e minigonne.
http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/uploads/2016/12/sfilata_500_Torino_2955709-k88H-U1080166523988d3F-1024x576@LaStampa.it_.jpgSfilata di 500 a Torino sul finire degli anni ’50, che annunciano il boom economico.

Oggi i Paesi occidentali vivono in un contesto storico molto diverso, dove il mercato e le logiche del consumo hanno colonizzato anche gli anfratti più profondi della società e dell’uomo. (http://www.lintellettualedissidente.it/societa/luomo-a-una-direzione/)Un’espansione ulteriore dei consumi in una società satura di mercato sarebbe indesiderabile sia per gli evidenti limiti ambientali, ampiamente analizzati fin dai tempi del Club di Roma, sia per gli ancor più insormontabili limiti sociali, dettagliatamente descritti da economisti come Fred Hirsh (e sui quali, a differenza che sui primi, la tecnologia può ben poco). Secondo la teoria della Negative Endogenous Growth, la poca crescita economica occidentale degli ultimi trent’anni è stata provocata per la gran parte dalla distruzione di beni gratuiti (le relazioni sociali, l’ambiente naturale), sostituiti dal mercato. Un’altra parte di questa crescita effimera è stata frutto di politiche monetarie espansive che, in un contesto in cui la produzione non cresce e in cui le regole dei mercati finanziari sono ridotte a zero (http://www.lintellettualedissidente.it/economia/genesi-e-vita-del-finanzcapitalismo/), si concretizzano nella creazione di immense bolle speculative destinate a scoppiare, come avvenne nel 2008. Un controllo pubblico degli investimenti, accompagnato da un’adeguata regolamentazione, potrebbe indirizzare parte della produzione verso scopi collettivamente desiderabili e limitare le esternalità negative del mercato; Ma il risultato complessivo di queste politiche sul prodotto interno lordo dovrebbe necessariamente essere positivo? E, se anche lo fosse, dovrebbe continuare ad esserlo indefinitamente nel tempo? Se la crescita fosse impossibile nel medio periodo, anche rimettendo nelle mani pubbliche la moneta ed i settori economici strategici, spesa pubblica e debito sarebbero ancora meccanismi sostenibili? In definitiva, com’è possibile conciliare le politiche keynesiane con una prospettiva di a-crescita?
http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/uploads/2016/12/growth-1024x664.pngIl tasso di crescita annuale del PIL a livello mondiale è rimasto sotto la fatidica soglia del 3% dal 2011.


Una riappropriazione pubblica della moneta e di settori chiave dell’economia – educazione, sanità, servizi essenziali – è senza dubbio auspicabile e necessaria. Ancor più necessaria è una redistribuzione massiccia dei redditi, in un’epoca in cui l’1 percento della popolazione possiede quanto il restante 99 e in cui il lavoro, sostituito dalla tecnologia, (http://www.lintellettualedissidente.it/economia/il-ritorno-del-generale-ludd/) perde sempre più importanza nella produzione. Ma il progresso economico di cui abbiamo bisogno in occidente è fatto di qualità della vita e non di quantità dei consumi, di riconquista di quegli spazi personali, sociali e civili invasi dalla colonizzazione totalitaria del mercato. Per capirlo, è necessario osservare l’economia nelle sue molteplici sfaccettature, nelle sue interazioni istituzionali, sociali e culturali, e non soltanto attraverso la coda del mostro rappresentata dalla produzione. Potremmo porci nell’ottica assolutistica dell’economia neoclassica e considerare ogni attività umana, dal crescere i figli al passeggiare in un bosco, come produzione e consumo.
http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/uploads/2016/12/becker.jpgGary Becker, economista della scuola di Chicago e premio Nobel per l’economia, applicò la scienza economica a numerosi campi del vivere umano, dalla famiglia alla pratica religiosa.

E’ quello che si è tentato di fare con il concetto di “beni relazionali” o con l’economia ambientale, che stima i valori monetari dei beni non di mercato come l’aria o la bellezza di un paesaggio. In un’ottica simile è facile capire che la crescita della produzione misurata dal pil sia un obiettivo parziale e non per forza desiderabile, perché esclude dal risultato economico qualsiasi “consumo” che non si manifesti sotto forma di prezzo. E’ un approccio che evidenzia le storture paradossali della teoria economica, ma che fornisce risposte molto limitate – e spesso poco credibili – a livello normativo. Non esiste e forse non può esistere una teoria organica della decrescita o della società post-crescita. Esistono però molti spunti teorici, forniti ad esempio dalla lunga tradizione istituzionalista, che potrebbero almeno indicarci la via. Una via fatta di decolonizzazione della società e dell’uomo dall’imperativo del consumo, di regolazione del mercato in grado di ridimensionare il suo peso nella società e di indirizzare la produzione verso le esigenze collettive, molto diverse dalla semplice somma di quelle individuali e molto più varie di quella piena occupazione tanto agognata dai keynesiani. Solo abbandonando l’illusoria chimera della crescita, intrinseca tanto nella visione neoclassica quanto in quella keynesiana, potremmo finalmente perseguire il progresso alla maniera in cui lo concepiva Pasolini (http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/ppp-manuale-dattualita/). Impariamo ad usare quel giocattolino potentissimo che è il capitalismo prima di implodere definitivamente con esso. John Maynard Keynes ci salvò già una volta; se produci-consuma-crepa smetterà di essere la nostra regola, non è detto che possa farlo ancora.

http://www.lintellettualedissidente.it/economia/keynes-puo-salvarci-ancora/

Kavalerists
25-12-16, 20:29
Gramsci e lo Stato “guardiano notturno”

Antonio Gramsci aveva identificato i punti deboli e le aporie dello Stato minimo già quasi un secolo fa, dimostrando le ponderate scelte politiche che forniscono al Capitale il miglior schema di governo e predominio.
di Matteo Persico - 23 dicembre 2016 http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/themes/ID/images/facebook.svg (http://www.facebook.com/share.php?u=http%3A%2F%2Fwww.lintellettualedisside nte.it%2Fsocieta%2Fgramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno%2F&title=Gramsci%20e%20lo%20Stato%20%E2%80%9Cguardian o%20notturno%E2%80%9D) http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/themes/ID/images/twitter.svg (http://twitter.com/intent/tweet?status=Gramsci%20e%20lo%20Stato%20%E2%80%9Cg uardiano%20notturno%E2%80%9D+http%3A%2F%2Fwww.lint ellettualedissidente.it%2FiMCKm+@IntDissidente) http://www.lintellettualedissidente.it/wp-content/themes/ID/images/google+.svg (https://plus.google.com/share?url=http%3A%2F%2Fwww.lintellettualedissident e.it%2Fsocieta%2Fgramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno%2F)
La dottrina economica liberista classica si basa su un principio assunto come oggettivo: la società civile e la società politica sono due entità completamente separate. In altre parole, lo Stato- entità politica- non deve in alcun modo interferire con i processi di sviluppo del mercato e della vita economica, declinati dalla sola società civile. Da questo principio deriva una concezione di Stato molto limitata, chiamata anche Stato guardiano notturno. In quest’ottica le uniche funzioni dello Stato sono circoscritte al mantenimento della sicurezza pubblica e al rispetto delle leggi vigenti.

Tutto ciò che concerne, anche solo in maniera marginale, l’economia e il mercato sono responsabilità delle forze private
Tale visione, imperante tra il ‘700 e l’800, ha vissuto un periodo di forte crisi durante il XX secolo, specialmente nella fase successiva alla prima guerra mondiale, in cui molte nazioni europee si videro costrette ad effettuare primi e poderosi interventi nella sfera economica. Il punto più basso del laissez-faire fu infine raggiunto con la crisi del ’29 e l’avvento dei totalitarismi, massima espressione della subordinazione della società civile rispetto a quella politica. Ciononostante le teorie dello “Stato guardiano notturno” non sono mai del tutto scomparse: hanno continuato, tacitamente e in particolar modo in paesi anglosassoni come gli Stati Uniti, ad esprimere una certa forza attrattiva, sia sul mondo economico che su quello politico. Non deve dunque stupire se la crisi del 2008, quella più vicina a noi e forse la più grave della storia del sistema capitalistico, sia stata frutto di un approccio approssimativo da parte di chi avrebbe dovuto vigilare, certamente influenzato dalle dottrine liberiste del libero mercato. Come sappiamo, la quasi totale assenza di controllo delle istituzioni sul mercato e sulle banche ha condotto a quello che tutti oggi conosciamo come grande recessione.
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Facciamo ora un formidabile passo indietro, di circa 85 anni. Dal carcere di Turi dove era rinchiuso, già nei primi anni ’30 Antonio Gramsci (http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/antonio-gramsci-o-leroica-coerenza/) aveva identificato i punti deboli e le aporie dello Stato minimo. La sua strategia è chiara e lineare, vuole distruggere e far deflagrare le teorie liberiste proprio a partire dal loro principio fondante: l’economia e la politica sono due entità separate, la seconda non deve in nessun caso interferire con la prima. Gramsci decide di problematizzare l’assunto, riscontrando due falle nel discorso. Da una parte l’impossibilità di una traduzione pratica dello Stato minimo. In altre parole, è una forma di Stato che può esistere solo teoricamente o può essere messa in pratica solo in modo parziale. In secondo luogo, ed è proprio su questo punto che Gramsci pone il problema più profondo, lo Stato minimo è un regime[1] (http://www.lintellettualedissidente.it/societa/gramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno/#_ftn1), è quindi l’esito di una decisione politica. Se quello che Gramsci afferma nella seconda critica dovesse rivelarsi vero, crollerebbero tutti i presupposti dello “Stato guardiano notturno” e del libero mercato. Come potrebbe risultare credibile una visione dello Stato che si basa sull’indipendenza dell’economia dalla politica, se allo stesso tempo anch’essa è frutto di una scelta politica?
Il discorso che fa Gramsci è logico e molto semplice. Sostiene infatti che la società civile, unica responsabile dello sviluppo economico, coincide con lo Stato. O per meglio dire, la società civile è lo Stato stesso[2] (http://www.lintellettualedissidente.it/societa/gramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno/#_ftn2). Dunque l’indipendenza della sfera economica non è altro che una gentile concessione dello Stato, di cui la società civile è parte integrante. Per capire meglio l’accusa mossa da Gramsci, leggiamo questo estratto dei Quaderni:

L’impostazione del movimento di libero scambio si basa su un errore teorico di cui non è difficile identificare l’origine pratica: sulla distinzione, cioè, tra società politica e società civile, che da distinzione metodica viene fatta diventare ed è presentata come distinzione organica. Così si afferma che l’attività economica è propria della società civile e che lo Stato non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome nella realtà effettuale società civile e Stato si identificano, è da fissare che anche il liberismo è una “regolamentazione” di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva […] [3] (http://www.lintellettualedissidente.it/societa/gramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno/#_ftn3)
Questa citazione dovrebbe farci intendere il nucleo della critica Gramsciana allo Stato minimo. Riassumendo, egli identifica il liberismo come una regolamentazione statale non diversa dal protezionismo o da qualunque altro intervento statale, e quindi sottolinea come lo sviluppo dell’economia di mercato non sia un processo spontaneo, come vorrebbero far credere i teorici classici, ma è una scelta volontaria e consapevole della sfera politica. Per esporre cosa egli intenda praticamente, Gramsci pone l’esempio delle Trade Unions[4] (http://www.lintellettualedissidente.it/societa/gramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno/#_ftn4): nel periodo in cui nacquero le teorie del liberismo e quindi dello “Stato determinato” di Ricardo, ancora non esisteva il concetto di “salario collettivo” e di sindacato. Perciò i lavoratori non erano in grado di associarsi e far valere la propria forza come collettività. Non si poteva invece dire lo stesso della classe dei capitalisti, i quali potevano vantare una forte radicalizzazione nelle istituzioni statali. Essi– come riporta Gramsci- avevano nel Parlamento la propria Trade Union[5] (http://www.lintellettualedissidente.it/societa/gramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno/#_ftn5).
Il paradosso che ne deriva, che purtroppo nella realtà dei fatti tanto paradossale non è, getta luce sulle reali meccaniche della teoria del libero mercato: ciò che sembra un’economia non regolamentata è in realtà la conseguenza di una reale scelta politica, il cui potere legislativo ed esecutivo è ricoperto da individui facenti parte della classe dominante. La scelta di mantenere il mercato libero è, per l’appunto, già di per sé una scelta e quindi una restrizione: nel momento in cui scelgo A invece di B, sto “restringendo” il campo delle possibilità. E in quanto “restrizione” deve derivare necessariamente dall’azione politica, poiché il potere coercitivo appartiene solo allo Stato, anche se Minimo. In poche pagine Gramsci confuta l’indipendenza del mercato dallo Stato, a lungo millantata dai teorici liberisti. Il mercato che essi ritenevano autonomo ed autoregolato non era altro che una “situazione economica” creata artificiosamente dallo Stato stesso. Quella stessa situazione che oggi, stante l’assenza di una nuova rivoluzione Keynesiana (http://www.lintellettualedissidente.it/economia/keynes-puo-salvarci-ancora/) e la definitiva conclusione dell’autonoma utopia di un modello altro quale quello sovietico, certifica la stasi comatosa- e forse irrimediabile- del finanzcapitalismo. (http://www.lintellettualedissidente.it/economia/genesi-e-vita-del-finanzcapitalismo/)

Note
[1] (http://www.lintellettualedissidente.it/societa/gramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno/#_ftnref1)Q 26, par. 6, pp. 2302- 3.
[2] (http://www.lintellettualedissidente.it/societa/gramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno/#_ftnref2)Ivi. Nota 1
[3] (http://www.lintellettualedissidente.it/societa/gramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno/#_ftnref3)Q 13, par. 18, pp. 1589-1590
[4] (http://www.lintellettualedissidente.it/societa/gramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno/#_ftnref4)T. Maccabelli, La grande trasformazione (…), p. 615
[5] (http://www.lintellettualedissidente.it/societa/gramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno/#_ftnref5)Q 10, par. 41, p. 1310

Gramsci e lo Stato ?guardiano notturno? (http://www.lintellettualedissidente.it/societa/gramsci-e-lo-stato-guardiano-notturno/)

LupoSciolto°
26-12-16, 19:45
Parole da incidere sulla pietra quelle di Gramsci!