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Visualizza Versione Completa : Bobbio: A 40 anni dalla Costituzione – La repubblica rappresentativa (1987)



Frescobaldi
23-12-16, 00:16
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di Norberto Bobbio - “Nuova Antologia”, a. CXXII, fasc. 2161, Gennaio-Marzo 1987, Le Monnier, Firenze


È caduto l’anno scorso il trentesimo anniversario della morte di Piero Calamandrei, avvenuta a Firenze il 27 settembre 1956. Non è possibile in questa nostra rivista parlare della nascita della nostra repubblica senza prendere le mosse da colui che di questa repubblica fu uno dei fautori più intransigenti e uno degli artefici più illuminati.

In un articolo del 28 dicembre 1945 egli scriveva: “Vi sono certe date costituzionali che segnano il destino dei popoli per un secolo o per un cinquantennio; lo statuto albertino del 1848 ha segnato la via dell’Italia sino al 1922; la costituzione del 1787 regge ancora le sorti dell’America. L’anno che si inizia, il 1946, potrà essere per l’Italia una di queste date, che impegnano la fortuna di molte generazioni e vietano ad esse, forse per un secolo, di pentirsi della irrevocabile scelta”.

Di questo secolo è trascorsa quasi la prima metà: anche se da qualche anno sono sorte voci autorevoli in favore di una revisione costituzionale, della scelta di fondo gli italiani non si sono pentiti. Nell’attesa della liberazione Calamandrei aveva scritto un ampio commento al libro di uno degli ultimi rappresentanti dell’Italia liberale, Diritti di libertà di Francesco Ruffini, apparso nelle edizioni di Piero Gobetti nel 1926.

In questo commento, che si può considerare un vero e proprio manifesto della nuova democrazia, si leggeva una definizione ideale del governo democratico, che avrebbe ispirato la nuova costituzione: “Nella democrazia l’autorità trova la sua fonte nella volontà dei cittadini, ossia nell’attivo concorso di essi alla formazione delle leggi nelle quali l’esercizio del comando perde il carattere di arbitrio e diventa giustizia e ragione”. Affermando il nesso indissolubile tra democrazia e riconoscimento delle libertà individuali, affermava che queste erano necessarie per far sì che tutti i cittadini potessero “liberamente contribuire colle loro migliori forze individuali alla formazione e al perenne rinnovellarsi di quella volontà comune che, nella democrazia, è l’unico titolo di legittimazione dell’autorità”.




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Piero Calamandrei (Firenze, 1889-1956)



Calamandrei non aveva dubbi che il presupposto del buon governo democratico fosse la dottrina liberale dei diritti di libertà, che la democrazia non poteva non essere liberale anche se riteneva che fosse ormai venuto il momento di avviare un programma di democrazia sociale senza che questo dovesse mettere in dubbio il necessario presidio di ogni possibile democrazia, la garanzia dei diritti di libertà.

In un articolo del 1956, l’ultimo anno della sua vita, descrisse con spirito realistico come si forma una costituzione: “Come nelle transazioni in cui i giuristi dicono che ogni contraente rinuncia a una parte delle sue pretese in cambio di altrettante rinunce dell’altro contraente, aliquo dato, aliquo retento, così nella Costituzione ogni partito rinunciò a una parte del suo programma massimo, per ritenere soltanto di esso quello che anche gli altri partiti avrebbero potuto accettare: così nella Costituzione fu scritto il programma politico comune a tutti i partiti che avevano fatto la Resistenza”.

Effettivamente quel che avvenne in Italia fra il 1943 e il 1946 è un caso davvero esemplare e particolarmente istruttivo della nascita di una democrazia. Un’applicazione conforme con un alto grado di approssimazione al modello contrattualistico, descritto con variazioni da autore ad autore dalle antiche teorie del contratto sociale. Il che fra l’altro dimostra, contro ogni forma di iper-realismo o di esasperato storicismo, che l’ipotesi contrattualistica, ora fortunatamente riabilitata, non è soltanto il prodotto di una sperimentazione mentale o di una ricostruzione razionale.

Secondo il modello contrattualistico la prima fase della formazione di una società civile, partendo dall’ipotesi dello stato di natura come stato di guerra di tutti contro tutti, che nell’Italia dopo l’otto settembre non era soltanto un’ipotesi ma una spietata realtà, è un patto di non aggressione (quindi puramente negativo, tacito o espresso non importa) tra i gruppi che decidono di istituire tra loro per l’avvenire una convivenza pacifica.

Fu questo patto di non aggressione che stette alla base dell’accordo dei gruppi politici che diedero vita al Comitato di liberazione nazionale. L’effetto di simile patto è la rinuncia, da parte di ognuno dei gruppi, ad usare la forza contro ognuno degli altri per risolvere i conflitti interni, salvo a usarla insieme, viribus unitis, conto il nemico esterno. Di fondamentale importanza per l’avvenire della nostra democrazia fu che a questo patto avessero aderito tutti i gruppi politici la cui associazione aveva il fine comune di liberare il paese dal regime fascista e dall’occupazione tedesca, dalla estrema sinistra alla destra storica, e che questo patto, nonostante alti e bassi, sia stato sostanzialmente rispettato, tanto che questa osservanza costituisce ancor oggi il fondamento di legittimità delle nostre istituzioni.

Che nell’ipotesi contrattualistica i contraenti siano singoli individui, mentre nella sua applicazione al caso italiano siano stati dei gruppi, non costituisce una differenza rilevante.

In una società complessa, come quelle che abbiamo sottocchio, soggetti politici non sono soltanto gl’individui ma anche i gruppi, anzi più i gruppi che gl’individui che sono stati in gran parte espropriati del loro potere originario, tanto che nell’espressione abituale “democrazia pluralistica” o “poliarchia”, è sottinteso che i plures sono soprattutto le varie forme di associazione, del resto ben previste nella Costituzione dove all’art. 2 entrano in scena, introducendo un notevole precedente, le “formazioni sociali”.

Al patto iniziale di non aggressione segue nel modello contrattualistico il vero e proprio patto di unione in base al quale i soggetti, individui o gruppi che siano, decidono di costituire tra di loro una società permanente sottomettendosi ad un potere comune che avrà il diritto esclusivo di usare in difesa di tutti quella forza cui ciascuno ha rinunciato nel primo patto.

Nelle vicende che hanno dato origine al nuovo stato, il patto di unione prese la forma del decreto luogotenenziale del 25 giugno 1944 con cui quegli stessi gruppi politici che avevano stabilito fra loro il patto di non aggressione decisero che le forme istituzionali sarebbero state scelte dopo la liberazione del territorio nazionale da una assemblea costituente eletta dal popolo. La forma che assunse questo patto di unione nella circostanza specifica fu decisiva per la nascita di uno stato democratico.

È noto che nella tradizione del pensiero contrattualistico il patto di unione può dar origine a diverse forme di governo, autocratiche se il potere comune è attribuito a una sola persona o a un’assemblea ristretta, democratiche se il potere comune è attribuito in forma diretta o indiretta agli stessi individui o gruppi che danno vita alla società civile. Il patto concretato nel decreto del 25 giugno era chiaramente di questo secondo tipo. Il che vuol dire che il primo patto di non aggressione temporanea, dovuto alla circostanza eccezionale della lotta al nemico comune, si istituzionalizza in un secondo patto di non aggressione permanente in base al quale i contraenti decidono di dar vita a regole che permettano la soluzione pacifica, e quindi senza ricorso alla forza reciproca, delle controversie che nasceranno dopo la costituzione della società civile e all’interno della stessa.

Queste sono le leggi fondamentali di una costituzione democratica che trasforma definitivamente lo stato polemico iniziale in uno stato agonistico, per riprendere la terminologia della teoria dei conflitti, vale a dire lo stato in cui la soluzione dei conflitti è affidata alla forza in quello in cui i membri della società civile si sono accordati sulla posizione di regole per la soluzione pacifica dei conflitti, di cui la principale è quella che vale come decisione collettiva, cioè come decisione vincolante tutto il gruppo, la decisione approvata almeno dalla maggioranza (quando non è possibile l’unanimità) di tutti i cittadini elettori o di coloro che sono stati delegati a prendere queste decisioni da un voto popolare.

Nella nostra costituzione tutte le volte, ma non sono molte, che ricorre la parola “democrazia” o derivati, essa fa riferimento al modo di prendere le decisioni collettive attraverso il consenso diretto o indiretto di coloro che sono i destinatari delle decisioni. Sin dall’art. 1 che definisce l’Italia una “repubblica democratica”, e subito dopo precisa che la sovranità appartiene al popolo. (L’aggiunta “fondata sul lavoro” è superflua, perché senza alcun effetto: sarebbe efficace se godessero dei diritti politici soltanto i lavoratori, il che non è vero). La parola “popolo” suona un po’ antiquata, in quanto risente di una concezione organica della società oggi battuta in breccia dalla prevalente concezione individualistica della società e della democrazia, asserita e bene argomentata dal cosiddetto individualismo metodologico.

La sovranità appartiene in realtà ai singoli individui, col solo limite della maggior età, che sono i soli soggetti originari del contratto sociale. L’espressione “sovranità popolare” nacque in contrapposizione all’espressione “sovranità del principe”, anche quando per ‘popolo’ s’intendeva una frazione minoritaria degli abitanti di un paese. Dopo il suffragio universale, i soggetti primari del potere pubblico, quelli a cui spetta di prendere le decisioni collettive o di metterne in moto il meccanismo, sono gl’individui uti singuli. Il popolo è un’astrazione, gl’individui sono una realtà.

Com’è ben noto, ‘democrazia’ può essere intesa in due modi secondo che si contrapponga ad aristocrazia o ad autocrazia: si può dire con una certa semplificazione che la prima accezione è quella corrispondente alla democrazia degli antichi, a cominciare da Aristotele che definiva la democrazia come il governo dei poveri contrapposto a quello dei ricchi, la seconda è quella corrispondente alla democrazia dei moderni (ma risalente in realtà al medioevo) e dei contemporanei, per cui democratico è il potere ascendente dal basso verso l’alto che si contrappone al potere autocratico o discendente dall’alto verso il basso. La distinzione fra i due diversi significati di democrazia è importante perché, mentre nella prima accezione la parola ha quasi sempre avuto una connotazione negativa, nella seconda al contrario ha un significato prevalentemente positivo. Ignazio Silone mette in bocca a un contadino di Fontamara la più bella definizione di potere discendente, che serva a far capire il significato della posizione contrapposta: “In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni”.

Nella nostra costituzione quando si legge che per la registrazione dei sindacati è necessario che i loro statuti predispongano un ordinamento democratico (art. 39, 1) oppure che i partiti debbono concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49), il senso della parola è chiaramente quello che corrisponde alla seconda accezione, e che riguarda non tanto chi esercita il potere, i poveri contro i ricchi, oppure la plebe contro gli ottimati, ma il modo con cui viene esercitato, ripeto, dal basso verso l’alto o dall’alto verso il basso.

Negli scrittori politici italiani, da Machiavelli e Vico, ciò che ora noi chiamiamo ‘democrazia’ si chiamava alla latina ‘governo popolare’. La parola ‘democrazia’ e ‘governo democratico’ erano pressoché sconosciute. Ma per governo popolare, come del resto per ‘democrazia’ senza altri aggettivi, s’intendeva la democrazia diretta. E quando si parlava di governo rappresentativo non era detto che questo fosse anche democratico. La congiunzione fra i due concetti di democrazia e di rappresentanza avvenne nella seconda metà del Settecento. Lo stesso Rousseau quella forma di governo che oggi chiameremmo ‘democrazia rappresentativa’ la chiamava ‘aristocrazia elettiva’.

Secondo Luciano Guerci, attento recensione dei due tomi del quarto volume dell’opus magnum di Franco Venturi, Settecento riformatore, la parola “democrazia rappresentativa” si trova una volta sola, in un testo di Condorcet del 1787. Ma se non la parola, il concetto si era venuto facendo strada e si veniva affermando con una connotazione positiva in contrasto con il prevalente giudizio negativo della democrazia diretta, sia per ragioni di fatto, ovvero l’impossibilità materiale di radunare il popolo in assemblea nei grandi stati, sia per considerazioni di principio, tra le quali la massima destinata ad avere grande fortuna di Montesquieu: “Il popolo è ammirevole quando deve scegliere coloro ai quali deve affidare parte della propria autorità” ma non altrettanto quando deve condurre un affare, in proprio. Una massima che trova riscontro in un brano non meno famoso di Madison, il quale afferma che il vantaggio della democrazia rappresentativa rispetto alla diretta consiste nella formazione di un corpo scelto dai cittadini “la cui provata saggezza può meglio discernere l’interesse effettivo del proprio paese”.

Oggi, al contrario, quando si parla di democrazia senz’altra aggiunta s’intende la democrazia rappresentativa. Curiosamente quando nella nostra costituzione s’introduce l’istituto della democrazia diretta, il referendum, lo si accompagna sempre con l’aggettivo usato dai nostri classici per questa forma di governo, “popolare” (“È indetto referendum popolare ecc.”, art. 75, 1). Di fatto il termine “rappresentanza” e derivati ricorre molto meno frequentemente di quel che si possa immaginare, spesso in accezioni non tecniche, come quando si parla dei “rappresentanti diplomatici” (artt. 87, 8 e 98, 3). Però la parola si trova nella sua accezione propria, quella che permette di parlare di “democrazia rappresentativa”, in un testo fondamentale, l’art. 67 che prevede il divieto di mandato imperativo: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

Anche i nostri costituenti si trovarono dinnanzi al dilemma: rappresentanza degl’interessi o rappresentanza politica? E lo risolsero nel senso della grande tradizione che risaliva in Inghilterra alla teoria che si suole ricondurre al partito whig e in Francia al dibattito e alla soluzione data al problema nell’Assemblea nazionale: il deputato una volta eletto non rappresenta gl’interessi parziali degli elettori ma rappresenta solo l’interesse della nazione.

La rappresentanza degl’interessi aveva generalmente avuto nel dibattito politico italiano una cattiva stampa: era insorto contro di essa sin dal 1919 Luigi Einaudi che sarà membro autorevole dell’Assemblea costituente. Aveva contribuito ad aumentare la diffidenza verso di essa il cattivo precedente del corporativismo fascista. La rappresentanza degl’interessi fu relegata nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, nato morto, e sempre rimorto ogni qual volta si è tentato di farlo rinascere. L’art. 99 che lo istituisce usa la parola stessa “rappresentanti” per indicare i chiamati a comporlo (“rappresentanti delle categorie produttive”), come del resto usa la parola a proposito del presidente della repubblica che “rappresenta” l’unità nazionale (analogamente il presidente della giunta regionale rappresenta la Regione, art. 121, 4).

Oggi sappiamo benissimo che usare un’unica parola “rappresentare” in tutti questi diversi contesti è una fonte di grande confusione, attenuata se mai nella lingua italiana giacché noi abbiamo due parole “rappresentanza” e “rappresentazione” dove i francesi e gl’inglesi ne hanno una sola. Possiamo così distinguere la “rappresentanza” in senso giuridico dalla “rappresentazione” delle varie componenti della società nelle assemblee elettive: rappresentazione che è favorita dal sistema elettorale proporzionale, sicché un sistema elettivo a rappresentanza proporzionale è rappresentativo sia nel senso della rappresentanza sia in quello della rappresentazione.

E ci rendiamo anche conto che il concetto di rappresentanza degl’interessi, con vincolo di mandato e potere di revoca, e quella di rappresentanza politica senza vincolo di mandato e senza diritto di revoca, sono due istituti così diversi che il chiamarli con lo stesso nome non può che ingenerare confusione, tanto che c’è chi ha ritenuto da tempo che la teoria della rappresentanza debba essere completamente riveduta.

Fortunatamente la pratica politica s’incarica spesso, e certamente anche in questo caso, di mescolare le carte e di rendere molto meno rigide le distinzioni dottrinali. Ci accorgiamo ogni giorno più che il grande dilemma storico: rappresentanza degli interessi o rappresentanza politica va perdendo ogni giorno più la sua rilevanza per una duplice ragione. Per un verso, nelle democrazia rappresentative contemporanee, in cui i soggetti politici principali sono i partiti, i deputati sono sottoposti a preciso vincolo di mandato e, per un altro verso, in una società pluralistica dove si formano gruppi d’interesse contrapposti molto forti tanto da costituire fonti di pressione diretta sui membri del parlamento, questi diventano ogni giorno più rappresentanti d’interessi particolari e l’interesse nazionale viene sempre più interpretato in mancanza di indici calcolabili come il risultato di volta in volta cangiante d’interessi di gruppo prevalenti o di compromessi tra i gruppi forti.

Questi cambiamenti non debbono preoccuparci. Uno dei caratteri propri della democrazia, che in quanto tale si distingue dal dispotismo, è che essa è capace di trasformarsi, in corrispondenza alle trasformazioni della società civile. Il dispotismo è statico, la democrazia dinamica, e in questa capacità di sottoporsi a continua revisione sta una delle ragioni della sua eccellenza. Questo è l’insegnamento che si può trarre, che io stesso ho tratto, dalla recente Storia della democrazia in Europa di Salvo Mastellone, la quale ci mostra che la democrazia ha continuato ad espandersi e a completare il proprio ordinamento superando le crisi periodiche, e dopo ogni crisi ritornando più agguerrita e più sicura di sé.

A chi un giorno mi chiedeva se la democrazia ha un futuro risposti che non lo sapevo: so soltanto che essa deve essere il nostro futuro, e con ciò voglio dire che, almeno per coloro che non hanno cessato, nonostante tutto, di credere alla “magnifiche sorte e progressive”, essa è l’oggetto non tanto di una profezia quanto di un impegno. Di quello stesso impegno da cui nacque quarant’anni fa la nostra repubblica.



Norberto Bobbio


L’articolo di Norberto Bobbio destinato alla “Nuova Antologia” segue il filo del discorso introduttivo tenuto il 22 settembre 1986 a Firenze in occasione dell’inaugurazione del Congresso internazionale su “Gli aspetti sociali delle istituzioni rappresentative nell’età medievale, moderna e contemporanea” coordinato dal professor Salvo Mastellone.





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