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Avamposto
26-07-10, 12:44
La politica economica nazista


2 Maggio 2009


Daily Article by David Gordon




Quasi ogni giorno ci giungono notizie del crollo di grandi istituzioni finanziarie o dell’imminente bancarotta di importanti società. Piani di salvataggio ed interventi del governo sono nell’aria. Anche coloro che professano devozione per la libera impresa hanno vacillato. Non siamo di fronte ad un’emergenza che richiede un’azione immediata per “salvare” il capitalismo?
Di fronte a questa situazione abbiamo bisogno di essere più risoluti che mai in difesa del mercato libero, senza nessun tipo di restrizioni governative. Se non sconfiggiamo queste misure, ci troveremo di fronte ad un grave pericolo. I registri della Germania Nazionalsocialista durante gli anni ‘30 mostrano quanto velocemente l’intervento del governo porti ad un socialismo su vasta scala. Ludwig von Mises ci ha già messi in guardia molti anni fa.Quando il presidente Paul von Hidenburg nominò Adolf Hitler Cancelliere Tedesco il 30 gennaio 1933, la gente non sapeva cosa aspettarsi dal nuovo regime in materia economica. C’erano segnali preoccupanti che indicavano che i Nazionalsocialisti avevano in mente riforme radicali. L’ “immutabile” programma del partito in 25 punti del 1920 proponeva, tra le altre cose, “che tutte le rendite e i redditi non derivanti da lavoro, vengano aboliti”; “la nazionalizzazione di tutti i monopoli”; “la compartecipazione agli utili delle grandi industrie”; e “una riforma agraria che sia conforme alle esigenze Nazionali e la promulgazione di una legge che consenta di espropriare le terre necessarie al bene comune, senza alcuna compensazione economica per i proprietari. L’abolizione dei canoni d’affitto sui terreni e il divieto di speculare sulla terra”.
In questi giorni di condanne frequenti, a volte, mi dispiace informare libertari dichiarati, Wal-Mart e catene simili, che vale la pena notare il punto 16 del programma: “Chiediamo… l’affidamento immediato alle comunità locali di grandi negozi da dare in affitto a basso costo ai piccoli commercianti”.
Anche altri segnali indicavano un programma radicale. Ferdinand Zimmerman, che fu un importante programmatore economico per i Nazisti, fu, prima della loro salita al potere, un sostenitore del giornale Die Tat, edito da Hans Zehrer, con lo pseudonimo di Ferdinand Fried, e un membro di primo piano di un gruppo di intellettuali nazionalisti conosciuti come Tatkreis. Fried si opponeva con fermezza al capitalismo, analizzandolo soprattutto dal punto di vista di Marx. In una valutazione del libro di Fried “Das Ende des Kapitalismus” (”La fine del capitalismo”), per una possibile traduzione in inglese, Isaiah Berlin si riferì a


“un’accettazione incondizionata delle premesse di Marx e Sombart con attenzione alla morte dell’individualismo, crescita della produzione di massa, collettivismo, ecc. e da queste conclusioni naturali si deduce che, visto che il collettivismo sta arrivando in ogni caso, si potrebbe anche gestirlo in modo efficiente e giusto, trasformandolo da collettivismo di monopolio a proprietà statale dei mezzi di produzione. Tutto ciò è il marxismo social-democratico tedesco … (Lettera da Isaiah Berlin a Geoffrey Faber, 4 gennaio 1932, in Isaiah Berlin, Letters, 1928-1946, Henry Hardy, ed., Cambridge University press, 2004, pag. 638-39)”


Wilhelm Roepke scrisse una distruttiva critica contemporanea su Fried, ora disponibile in versione tradotta nel suo Against the Tide (Regnery, 1969). Uno dei migliori bilanci scolastici del punto di vista di Fried, che include alcune discussioni sulle sue attività sotto il regime nazista, si trova nel libro di Walter Struve, Elites Against Democracy: Leadership Ideals in Bourgeois Political Thought in Germany, 1890-1933 (Princeton University Press, 1973).
Tuttavia all’inizio del regime, molti si chiedevano se queste misure radicali fossero solo propaganda. Era noto che il partito includeva ali di destra e di sinistra; la gente si chiedeva se le idee anticapitaliste fossero limitate dalla ala sinistra del partito. Probabilmente il rappresentante più importante della sinistra del partito era Gregor Strasser e anche suo fratello Otto. Dr. Joseph Goebbels, poi tristemente noto come il ministro della propaganda, fu un ardente simpatizzante di sinistra. Gottfried Feder, l’autore principale del programma in 20 punti, famoso per le sue denuncie della “tirannia dell’interesse”, divenne un programmatore economico del governo.
Ma perché pensare che la sinistra non potesse prevalere? Hitler aveva assicurato gli industriali, in incontri tenuti prima di prendere il potere, che non sarebbe stato ostile agli affari. (Contrariamente alla visione marxista dei nazisti, Hitler non era in nessun modo uno strumento dei grandi business. Come Henry Ashby Turner ha documentato massicciamente in German Big Business and the Rise of Hitler [Oxford University Press, 1985], la grande maggioranza dei contributi degli imprenditori prima del 1933 andarono ad altri partiti politici). Il ministro dell’economia, Hjalmar Horace Greeley Schacht, non era un radicale; e lo stesso Hitler si rifiutava di svalutare la valuta tedesca. Forse non lo si poteva identificare con i punti di vista della sinistra del partito. Inoltre, Hitler non assunse immediatamente tutto il potere. Al contrario, era a capo di un governo di coalizione. I nazionalisti conservatori come Franz von Papen, il vice cancelliere, erano convinti di poter tenere Hitler sotto controllo.
Tutto ciò cambiò ovviamente quando Hitler usò la crisi creata dall’incendio del Reichstag per far passare il Decreto dei Pieni Poteri, con il quale si diede poteri dittatoriali. (Contrariamente alla credenza comune, i nazisti non appiccarono il fuoco. Vedi Fritz Tobias, The Reichstag Fire, Putnam, 1964). Ma sebbene ora i nazisti erano liberi di governare a loro piacimento, ciò non fu una vittoria per l’ala sinistra del partito. Hitler eliminò le radicali SA nella famosa Notte dei Lunghi Coltelli, e Gregor Strasser fu tra le vittime di quel sanguinoso evento. Goebbels ovviamente restò influente; ma anche se mantenne la sua visione economica di sinistra, si sottomise completamente a Hitler. Gottfried Feder lasciò la sua posizione nel governo; in seguitò insegnò all’università.
Cosa sarebbe allora la politica economica di Hitler? Imporrebbe un programma “immutabile” o seguirebbe un misurato andamento a favore degli affari? Di fatto, nessuna delle due. La sua politica fu per lo più un’improvvisazione in risposta alla situazione immediata. (A.J.P. Taylor sostiene in modo controverso in The Origins of the Second World War che questo è vero anche per quanto riguarda la politica estera di Hitler). Ma agendo così, egli illustrò un punto chiave che Mises ha spesso sottolineato: ogni intervento nel mercato libero richiede ulteriori interventi perché la misura iniziale non riuscirà a raggiungere i suoi scopi. Se gli interventi continuano, seguirà rapidamente un completo controllo statale del mercato. Il risultato finale non sarà il capitalismo, ma il socialismo. Come Mises sostiene in Human Action,


“Tutte le varie interferenze nel mercato non solo hanno fallito nel raggiungere gli obbiettivi prefissati dai loro autori e sostenitori, ma hanno anche determinato una situazione di affari – secondo i lori autori e le valutazioni dei difensori – meno desiderabile delle condizioni di affari precedenti che dovevano essere modificate. Se qualcuno vuole correggere la propria palese inadeguatezza e irragionevolezza integrando i primi atti di intervento con ulteriori atti di questo tipo, egli dovrà poi proseguire fino al punto in cui l’economia di mercato sarà stata interamente distrutta e sostituita dal socialismo.”


Questo processo ebbe luogo in Germania nel 1933. Come ha osservato Adam Tooze, nel 1932 Hitler indicò il suo interesse in programmi di creazione di posti di lavoro, e ciò richiedeva ovviamente una spesa da parte del governo. Ma una volta al potere, il suo interesse si spostò dalla creazione di posti di lavoro al riarmo. Ciò richiese una spesa del governo ancora maggiore; e gli armamenti aumentarono rapidamente.


“Il partito nazista non fece della creazione di posti di lavoro un punto chiave del suo programma fino alla tarda primavera del 1932, e lo mantenne solo per diciotto mesi, fino al dicembre 1933, quando la spesa per la creazione di lavoro civile fu formalmente rimossa dalle priorità del governo di Hitler… [La creazione di posti di lavoro] era in netto contrasto con i tre punti che univano veramente la destra nazionalista… la tripla priorità di riarmarsi, rifiutare il debito estero della Germania e salvare l’agricoltura tedesca… Fu l’azione di Hitler su questi tre punti, e non la creazione di lavoro, che marcarono davvero la divisione tra la Repubblica di Weimar e il Terzo Reich. (Adam Tooze, The Wages of Destruction, Viking, 2006, pag. 24-5)[1]“


L’economista Burton Klein della Scuola di Chicago, nel libro Germany’s Economic Preparations for War (Harvard University Press, 1959), fece notare parecchio tempo fa che la Germania del 1939 non aveva abbastanza armi da far scoppiare una Guerra mondiale: gli armamenti tedeschi erano sufficienti solo per conflitti più piccoli.
In effetti la Germania aveva avviato una politica Keynesiana: la spesa del governo divenne via via più importante nel guidare l’economia in canali militari che Hitler sceglieva. John T. Flynn notò che Franklin Roosevelt seguì una politica parallela, dopo che il suo programma di spesa nazionale aveva fallito nel far uscire l’America dalla grande Depressione.


“A questo punto [Roosevelt] si trovava con la depressione tra le mani e aveva l’incalzante necessità, come disse lui, di spendere due o tre bilioni all’anno di denaro deficitario, e la cosa più seria in assoluto, come disse a Jum Farley, nessun modo per spenderli… A questo punto ci fu un dono degli dei… C’era qualcosa su cui il governo federale poteva davvero spendere soldi: la preparazione militare e navale. (The Roosevelt Myth, Fox & Wilkes, 50th Anniversary Edition, 1998, pag. 157.)”


Lo stesso Keynes prese in simpatia gli sforzi nazisti. Nella sua prefazione dell’edizione tedesca di The General Theory del 7 settembre 1936, Keynes scrisse che le idee contenute nel suo libro potevano essere attuate prontamente in un regime autoritario:


“Tuttavia l’intera teoria dell’output, che è ciò che il seguente libro intende illustrare, si adatta più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario, piuttosto che in condizioni di libera concorrenza e ampie misure di laissez-faire.”


Come Donald Moggridge fa notare, la versione tedesca (ma non la bozza di Keynes) dice anche,


“Nonostante finora [la teoria di Keynes] sia stata elaborata sulle condizioni dei paesi anglo-sassosi – dove prevale ancora una buona dose di laissez-faire – essa è comunque applicabile a situazioni nelle quali il potere dello stato è più marcato. (Donald Moggridge, Maynard Keynes: An Economist’s Biography, Routledge, 1995, pag. 611.)[2]“


Una volta che questo programma fu messo in atto, la dinamica dalla quale Mises mette in guardia si sviluppò inesorabilmente: un intervento portò ad un altro, fino a quando l’intera economia fu portata sotto il controllo del governo. Chi era riluttante a seguire i piani del Nuovo Ordine fu obbligato a farlo. Una legge permise al governo di imporre cartelli coercitivi. Entro il 1936 il Piano Quadriennale, capeggiato da Hermann Goering, aveva cambiato la natura dell’economia tedesca.


“Il 18 ottobre [1936] Goering ricevette la nomina formale di Hitler di plenipotenziario generale per il Piano Quadriennale. Nei giorni successivi presentò alcuni decreti che lo autorizzavano a prendersi la responsabilità potenzialmente per ogni aspetto della politica economica, compreso il controllo del business dei media. (Tooze, pag. 223-24.)”


Certo, in un sistema di pianificazione, gli scambi internazionali devono essere sottoposti ad uno stretto controllo. La crescita di misure interventiste, alle quali Mises ha detto di fare attenzione, opera anche in quest’area:


“L’economia tedesca, come ogni economia moderna, non poteva sopravvivere senza importare cibo e materie prime. Per poter pagare ciò, doveva esportare. E se questo flusso di merci era ostruito dal protezionismo e dalle svalutazioni, ciò non lasciò alla Germania che ricorrere ad un maggiore controllo sulle esportazioni ed importazioni, che in cambio portarono ad ulteriori interventi. (Tooze, p.113.)”


Un tipo di interventismo commerciale fu particolarmente caratterizzante del regime nazista. Dopo che gli scambi con gli Sati Uniti collassarono drasticamente, Schacht fece una serie di affari commerciali bilaterali con i paesi del sud-est europeo. Questi accordi riguardavano particolari merci, con un tasso di cambio tra la Germania e le valute straniere “fissato a un livello diverso dal reale tasso di cambio… gli accordi di scambio diedero alla Germania un tipo di monopolio commerciale con i paesi dell’Europa del sud-est che non poteva non collegare politicamente questi paesi al Reich.” (Human Action, Scholar’s Edition, pag. 797, 799.)

L’economia non poteva più essere definita capitalista. Tuttavia le forme di proprietà privata furono conservate. Il governo non nazionalizzò i messi di produzione come nella Russia Sovietica. Ma gli apparenti proprietari non potevano decidere i prezzi di loro spontanea volontà. Il governo prendeva tutte le decisione essenziali. Come sostiene Mises,


“Il secondo modello [del socialismo] (potremmo chiamarlo modello di Hidenburg o modello tedesco) di nome e in apparenza preserva la proprietà privata dei mezzi di produzione e mantiene l’apparenza dei mercati ordinari, prezzi, salari e tassi di interesse. Tuttavia, non ci sono più imprenditori, bensì solamente gestori di negozi (Betriebsführer nella terminologia della legislazione Nazista). Questi gestori di negozi sono in apparenza utili alla conduzione delle imprese a loro affidate; essi comprano e vendono, assumono e licenziano lavoratori e retribuiscono i loro servizi, contraggono debiti e pagano tassi di interesse ed ammortizzamenti. Ma in tutte le loro attività devono obbedire incondizionatamente agli ordini promulgati dall’ufficio supremo del governo per l’amministrazione della produzione. Quest’ufficio (il Reichswirtschaftsministerium nella Germania Nazista) dice ai gestori dei negozi cosa e come produrre, a che prezzi e da chi comprare, a che prezzi e a chi vendere. Esso assegna ogni lavoratore al suo lavoro e fissa il suo salario. Esso decreta a chi e in base a quali termini i capitalisti devono affidare i loro fondi. Lo scambio commerciale è semplicemente una messinscena.”


Contrariamente da quanto affermato, per esempio, da Franz Neumann in Behemoth (Harper, 1944), il nazismo non è stato un esempio di “capitalismo monopolistico-totalitario”.
Oggi molti richiedono misure drastiche per fronteggiare la recessione. Paul Krugman, per esempio, in The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008 (Norton, 2008) sostiene che “ci dovrà essere una rivendicazione del controllo da parte del governo – in effetti, ci si avvicinerà ad una piena nazionalizzazione temporanea di una parte significativa del sistema finanziario”.
La rapida transizione al socialismo di stato sotto la Germania durante gli anni 30 illustra i pericoli di una tale evoluzione.


Note


[1] Il libro di Tooze è il più completo resoconto recente sulla politica economica nazista.

[2] Uno dei primi a sottolineare l’importanza della prefazione di Keynes fu il celebre storico libertario James J. Martin.



PROGETTO MAYHEM » La politica economica nazista (http://progettomayhem.blog.tiscali.it/2009/05/02/la_politica_economica_nazista_1985050-shtml/)

Majorana
28-07-10, 17:04
Da Schiavi delle Banche di Blondet

14 – L’ECONOMIA TEDESCA PRIMA DI HITLER

Domata l’iper-inflazione, riagganciato il marco all’oro, l’economia tedesca conobbe una rinascita immediata. Motore del miracolo fu la grande finanza, lanciata in un esperimento che non si può che chiamare la prima globalizzazione. L’inflazione aveva annichilito i risparmi e vaporizzato i fondi per il funzionamento delle imprese tedesche. Gli Stati Uniti, vincitori della guerra e grandi creditori del mondo, traboccavano d’oro affluito dai paesi debitori. La montagna di lingotti che s’accumulavano a Fort Knox avrebbe avuto come normale conseguenza – effetto collaterale di tanta benedizione – una moltiplicazione di dollari-carta, con conseguente inflazione. I prezzi americani sarebbero cresciuti, col risultato di rendere meno competitive le merci statunitensi; gli Usa sarebbero stati inondati da merci estere a miglior prezzo, provocando la recessione interna – inevitabile conseguenza dopo la superproduzione bellica.La Federal Reserve e i banchieri americani impedirono tutto ciò, con misure artificiose; le stesse cui è ricorso nei nostri anni ‘90 Alan Greenspan, il capo della Banca Centrale sotto Clinton e Bush. Tenere bassi i tassi d’interesse, fornire denaro facile all’ economia interna.

Il capitale americano, poco remunerato in patria, cercò nel mondo retribuzioni più alte. Le trovò in Germania. Nel 1925, quando il tasso di sconto delle Federal Reserve era del 3%, in Germania era del 10%; nel ‘26, il denaro che in America era pagato al 4%, in Germania fruttava l’8%. Il doppio.

Come negli anni ‘90 i capitali globali sono accorsi verso le economie emergenti, le tigri asiatiche, la Cina, dal 1924 i capitali angloamericani fluirono verso la Germania, emergente dalle distruzioni della guerra con la sua impareggiabile manodopera (a basso costo), la sua tecnologia, le sue classi tecniche produttive. Tanto più che quella manodopera costava poco. I salari erano bassi, e i bassi salari stimolano gli investimenti industriali. Come accade nel capitalismo globale oggi, anche allora la Germania forniva agli investitori esteri le garanzie del mercato e della democrazia. Licenziato il kaiser, sradicato il prussianesimo, a Berlino folleggiava, radical-chic, la repubblica parlamentare di Weimar.

Quel che produsse l’eccesso di capitale estero rovente, in forma di crediti a breve termine, ossia speculativi, lo ha raccontato nel 1938 Bruno Heilig, giornalista ebreo che sarebbe scampato poi ai campi di concentramento.

“Le industrie smantellarono le vecchie fabbriche e le rimpiazzarono con i più nuovi macchinari. La Germania era avviata a diventare il paese industriale più avanzato del mondo, superando gli stessi Stati Uniti. La sete di manodopera risucchiò milioni di uomini nelle città; Berlino passò da due a 6 milioni e mezzo di abitanti. [..] L’intero sistema ferroviario fu riorganizzato e rinnovato. A Berlino interi quartieri furono demoliti per allargare le strade. Alexanderplatz doveva diventare la più grande piazza del mondo, circondata da modernissimi grattacieli”.

Com’è avvenuto in Giappone negli anni ‘80, e in Thailandia negli anni ‘90, l’abbondanza di capitale scatenò la febbre edilizia; e questa innescò un fantastico rincaro dei terreni. “Il prezzo della terra crebbe del 700 per cento a Berlino e del 500 per cento ad Amburgo”, dice Heilig: ciò significa che gli speculatori immobiliari videro raddoppiare o triplicare le loro fortune da un giorno all ‘altro, senza lavoro né fatica. Faticavano i cittadini tedeschi, intenti a ricostruire il paese, mentre per loro il costo della vita aumentava. Gli affitti, durante la guerra, erano stati bloccati per legge. La libera stampa di Weimar (pagata dagli speculatori) lanciò una campagna per il loro adeguamento sostenendo che era ingiusto, dati i valori in aumento degli immobili, che le case vecchie in locazione non condividessero la manna. Una legge aumentò gli affitti già bloccati del 125 per cento. E il regalo, nota Heilig, beneficiò proprietari che l’inflazione aveva liberato dei tre quarti del peso dei loro debiti.

Tra questi privilegiati, divenne abitudine mantenere buoni rapporti con le amministrazioni comunali: l’indiscrezione in anteprima che il comune di Berlino stava per estendere la metropolitana ad un nuovo quartiere consentiva guadagni astronomici a chi comprava un pezzo di terra in quel quartiere. La vendita di terreni al comune in espansione era un’altra enorme occasione di profitti speculativi. Heilig ricorda con disgusto un proprietario (non ne fa il nome) che chiese 400mila marchi al comune di Berlino per il suo appezzamento. Il comune, ritenendo il prezzo eccessivo, fece appello ad una speciale commissione, costituita per questo genere di arbitrati. Essa decretò che il terreno valeva, e dunque il proprietario aveva diritto a, non già 400 mila, ma a un milione e 80 mila marchi. “Lo scandalo consisteva in questo”, racconta il giornalista: “che i membri della commissione erano compensati in percentuale al valore della transazione, e dunque avevano un interesse personale al massimo rialzo del prezzo”.

Non mancarono immense e scandalose privatizzazioni del genere preferito, anche oggi, dalla finanza globale. La città di Berlino spese milioni di marchi per rimodernare il suo porto fluviale sulla Sprea (il secondo della Germania), attrezzandolo completamente con enormi gru e vastissimi magazzini. Una volta terminata la costosa opera, l’alto funzionario responsabile del progetto, tale Schuning, dichiarò che la mano pubblica non sarebbe stata capace di gestire con efficienza e profitto il porto (quante volte non abbiamo sentito lo stesso discorso?), e che conveniva quindi cederlo in gestione a imprenditori privati, più efficienti.

Detto fatto. Due imprese, l’ebraica Schenker e la Busch, una ditta di materiale ferroviario, costituirono un consorzio per la gestione del porto. Furono le sole ad offrirsi, non ci fu un’asta. L’area del bacino era un milione di metri quadri; il puro affitto del nudo terreno era valutato a un marco a metro quadro, dunque a un milione di marchi. Ma il consorzio Schenker & Busch ottenne l’affitto dell’area – superbamente attrezzata a spese del comune con gru e magazzini – a 369 mila marchi. Unico pagamento, per cinquant’anni di affitto. Non bastò: i gestori, capitalisti di un genere che ben conosciamo, presero a lamentare che il rischio d’impresa era per loro insostenibile. Il comune di Berlino elargì loro, come capitale operativo, un prestito di 5 milioni di marchi. Occorrerà dire che herr Schuning, che aveva fatto fare al comune un così cattivo affare, lasciò subito dopo l’impiego pubblico, per essere assunto dal consorzio privato?

Intanto i lavoratori berlinesi già aggravati dal rincaro degli affitti dovevano pagare un tributo a quel consorzio privato per ogni pezzo di pane che mangiavano.

Il grande boom durò sette anni. A credito. Fino a sbattere contro quel muro della natura che già Ricardo aveva previsto come il fatale ostacolo contro cui si sarebbe autodistrutto il liberismo, il capitalismo finanziario senza regole.

Le imprese prosperavano. Ma al prezzo di un aumento astronomico delle loro spese incomprimibili: il servizio del debito per l’acquisto dei terreni, degli impianti, degli immobili. Come sempre, i capitalisti agirono sulla spesa che essi ritengono a cuor leggero variabile: i salari.

“Ogni segno di crisi fu scongiurato comprimendo i salari e licenziando lavoratori”, dice Heilig; e poiché “i bassi salari stimolano gli investimenti industriali”, il risparmio sulla manodopera fu compensato con l’acquisto di altri macchinari più efficienti. Era la corsa alla più alta produttività, alla razionalizzazione esaltata dalla finanza globale: produrre più merci con sempre meno lavoratori.

Industria ad alta intensità di capitale. “Modernizzare, modernizzare ad ogni costo, era la sola idea che gli uomini d’affari sapevano concepire”, dice Heilig. E’ la stessa ricetta che viene raccomandata o imposta in nome dell’ efficienza del capitalismo. Heilig dice invece: “la Germania era intossicata”:

Che cosa accade infatti quando si retribuisce troppo il capitale a scapito del lavoro? Finisce che le merci sempre più abbondanti non trovano acquirenti, perché i consumatori – i lavoratori – hanno perso potere d’acquisto.

Gli imprenditori corsero ai ripari, secondo le lezioni di liberismo appena apprese. Nel 1931, nel tentativo disperato di sostenere i prezzi, ridussero la produzione di merci. Con ciò però, dice il giornalista, “gli interessi (sul debito), le tasse, gli ammortamenti e gli affitti, ossia le spese fisse, divise su un volume minore di beni, aumentarono il costo unitario di ogni bene. Il costo di produzione crebbe in proporzione inversa ai profitti calanti, fino a divorarli”.

La soluzione liberista? “Gli operai furono licenziati in massa”. Ma, naturalmente, ” i datori di lavoro ne ottennero ben poco sollievo. Per ogni lavoratore licenziato, era anche un consumatore che spariva”.

La benedizione del capitale facile aveva prodotto questo esito:sovrapproduzione, disoccupazione, crisi.

Heilig ragiona su quei costi incomprimibili che finirono per divorare i profitti. In ultima analisi, essi consistono nell’ enorme rialzo degli immobili e terreni che precedette ogni futuro profitto possibile. Alla fine, “tutto andò ai proprietari immobiliari. L’intera Germania aveva lavorato ‘per loro’ in tutti gli anni del boom”. Più precisamente diciamo: per restituire gli interessi e i ratei dei capitali presi a prestito, e finiti nella speculazione meno produttiva, la Germania si svenò.

Nel corso del 1931 parecchi industriali tedeschi non furono più in grado di pagare i debiti: “i cosiddetti costi incomprimibili erano diventati insopportabili e cessarono di essere pagati”. Con l’insolvenza dei debitori, cominciarono a fallire le banche. Il cancelliere Bruning, allievo modello del liberismo pro-capitalista, spese miliardi di marchi (denaro dei contribuenti) per salvarle. Poi accordò amplissimi sussidi alle imprese in difficoltà.

Come si vede, anche allora il liberismo non si applica quando si profila la rovina del capitale e dei capitalisti: allora torna di moda l’intervento pubblico, la mano visibile dello Stato. Bruning lanciò quella che chiamò politica anti-deflazionista: la quale consisteva nel somministrare più forti dosi del tossico che aveva condotto alla rovina. “Decretò una riduzione generale dei salari, che furono tagliati del 15%”. Era convinto che, ridotto il potere d’acquisto dei lavoratori, questo avrebbe indotto una riduzione successiva dei prezzi (il prezzo umano, la riduzione alla fame della classe operaia, non parve indegno d’essere pagato).

“Ma i prezzi erano determinati da fattori ben diversi che dai salari”, dice Heilig: come abbiamo visto, dalle spese incomprimibili del servizio del debito contratto per comprare suoli sopravvalutati. Era lì, se mai, che si sarebbe dovuto agire.

Ma era troppo tardi. “Sette milioni di salariati, un terzo della forza produttiva, era disoccupato; la classe media spazzata via: questa la situazione a un anno dall’apice della prosperità” indotta dai capitali esteri. In quell’anno, il numero dei deputati nazisti eletti al Reichstag passò da otto a 107. Nel gennaio 1933, Hitler fu nominato cancelliere.

“Infiniti studi, libri e articoli sono stati scritti per spiegare come mai la Germania ha preso la strada della barbarie”, conclude Heilig: “c’era una volta un paese con una bella costituzione democratica,fondata sugli ideali della libertà e dell ‘autogoverno”; un paese che “aveva eletto alla Assemblea Nazionale di Weimar personalità che offrivano le migliori garanzie di estirpare le odiate idee del prussianesimo. Poi dei mascalzoni, dei pazzi, dei viziosi sono apparsi sulla scena della storia, e la democrazia è stata gettata via, la libertà è diventata spazzatura. [...] Si danno di questo fenomeno molte spiegazioni, dalle politiche illiberali [...] all ‘innato militarismo dei tedeschi,che si suppone aspettassero solo una sua diversa reincarnazione per abbracciarlo focosamente. Idee varie: che evitano di dar conto dei meccanismi sociali che distrussero la Germania dall’interno”.

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15) IL MIRACOLO HITLERIANO

Del resto, l’alluvione di capitali provenienti dagli Usa si era, nel 1933, già prosciugata completamente. La crisi del 1929 a Wall Street, il conseguente brutale arretramento dell’economia americana, il tracollo della produzione industriale, la riduzione a un rivolo dei commerci internazionali, segnò la fine della prima globalizzazione finanziaria. I dollari in giro per il mondo furono richiamati in patria. Non solo gli Stati Uniti, ma la Gran Bretagna – la potenza missionaria del vangelo del liberismo – adotta il protezionismo, e impone forti dazi sulle importazioni. Nello stesso tempo, rinuncia al suo ruolo di fornitore internazionale di capitali. Passato il tempo in cui le imprese estere erano incoraggiate a chiedere prestiti sul mercato finanziario di Londra; dal 1931, in forma non ufficiale, si mette in vigore un embargo sulle emissioni di titoli esteri in Inghilterra. Il mercato finanziario globale prima esaltato e promosso viene ridefinito fuga di capitali, osteggiato e punito.

L’Inghilterra si ritira dal mondo. Si ritira, a dire il vero, nel vasto confortevole mercato del suo impero coloniale. Grande importatrice di materie prime, la Gran Bretagna beneficia del crollo dei prezzi mondiali di queste; d’altra parte, fra le sue colonie vi sono alcuni dei massimi produttori planetari di oro, il cui potere d’acquisto si rinforza col calo dei prezzi mondiali (1). Londra gode dunque di due vantaggi: compra a poco con oro rivalutato.

La deflazione mondiale fa sì che in Inghilterra il costo della vita ribassi – fra il 1924 e il 1936 – di 16 punti, mentre i salari calano solo di 2 punti. E’ una situazione felice rispetto al resto del mondo, tanto più che – con la deflazione – il governo britannico inaugura una politica di credito facile (bisogna pur usare gli abbondanti capitali rientrati, e che non possono andare all’estero), che stimola una sorta di ripresa, trainata dal mercato interno. E tuttavia la sua disoccupazione resta,ostinata, sopra il 10 per cento fino al 1939, quando la guerra innescherà il suo truce modello di pieno impiego.

Nella grande America, il New Deal di Roosevelt non otterrà – a parte il suo grande successo propagandistico – effetti migliori. Una severa politica di dirigismo, grandi opere pubbliche pagate con un crescente disavanzo dello Stato, l’aumento dei salari minimi, il sostegno dei prezzi agricoli, non riescono ad aver veramente ragione della crisi.

Nel 1936, il potere d’acquisto degli agricoltori americani è di un terzo inferiore a quello che avevano nel 1929: la disoccupazione generale, che era del 3 per cento prima del ‘29, resta attestata al 19 per cento fino al 1938. Fra ottobre 1937 e il marzo 1938 l’economia americana ricade in una severissima recessione, e altri 4,5 milioni di lavoratori si trovano sulla strada. “L’economia americana non ha ricominciato a riprendersi con le sue sole forze, essa resta dipendente dalle iniezioni costanti di potere d’acquisto alimentate dai deficit di bilancio”, riconosce lo storico francese dell’economia Jacques Nèré (2): “alla vigilia della seconda guerra mondiale, il risanamento dell’economia statunitense resta incompleto e precario”.

In Francia, il Fronte Popolare decreta un aumento generale dei salari del 10-15%, accorcia la settimana lavorativa da 48 a 40 ore, insomma applica le demagogie socialiste, senza restituire un alito di vita alla sua economia in stagnazione. La Russia sovietica applica fino in fondo, con la nota ferocia dottrinaria, l’economia di piano e collettivista, con i risultati disastrosi che sappiamo.

Tutti gli esperimenti dirigisti, insomma, in qualche modo falliscono. Salvo uno.

Quando Hitler sale al potere, la Germania soffre di una crisi industriale enorme, paragonabile a quella americana, con la relativa gigantesca disoccupazione. Ma a differenza degli Stati Uniti, per di più è gravata da debiti esteri schiaccianti. Non solo il debito politico, il peso delle riparazioni; anche il debito commerciale è pauroso. Le sue riserve monetarie sono ridotte quasi a zero. Inoltre, s’è prosciugato totalmente il flusso dei capitali esteri, che si presumevano necessari alla sua rinascita economica. La Germania insomma non ha denaro,ha perso i suoi mercati d’esportazione, è forzatamente isolata – dalla recessione mondiale – dal mercato globale. Costretta a un’economia a circuito chiuso, nei suoi angusti confini.

Ma proprio da lì, comincia a rinascere. Come? Secondo Rauschning, i nazisti “si basavano sulle idee sempliciste del loro fuehrer, e s’erano creati una teoria monetaria che suonava pressappoco così: le banconote si possono moltiplicare e spendere a volontà,purché si mantengano costanti i prezzi”.

Hitler lo diceva con esplicita brutalità: “dopo l’eliminazione degli speculatori e degli ebrei, si dispone di una sorta di moto perpetuo economico, di circuito chiuso il cui movimento non si arresta mai. Il solo motore necessario per questo meccanismo è la fiducia. Basta creare e mantenere questa fiducia, sia con la suggestione sia con la forza o con entrambe” (3)

Sono idee sempliciste. O anche assurde sul piano della teoria economica: creare inflazione (stampare carta moneta) senza far salire i prezzi – e senza ricorrere al razionamento dei consumi, alle tessere del pane, come stava facendo Stalin negli stessi anni.

Eppure funzionano.

A causa del suo grande indebitamento estero, la Germania non può svalutare la moneta: questa misura renderebbe più competitive le sue esportazioni, ma accrescerebbe il peso del debito. Fra le prime misure del Terzo Reich c’è dunque il riequilibrio del commercio, perché il deficit commerciale non può più essere finanziato come si fa in periodi normali. Di fatto, la libertà di scambio viene sostituita da Hitler da meccanismi inventivi. I creditori della Germania vengono pagati con marchi (stampati apposta, moneta di Stato) che però devono essere utilizzati solo per comprare in Germania merci tedesche. Ben presto, questo sistema sviluppò, quasi spontaneamente, accordi internazionali di scambio per baratto: la Germania non aveva più bisogno di valuta estera (dollari o sterline) per comprare le materie prime di cui necessitava, perché non vendeva né comprava più.

Per il grano argentino, dava in cambio i suoi (pregiati) prodotti industriali; per il petrolio dei Rockefeller, armoniche a bocca e orologi a cucù.

Prendere o lasciare, e le condizioni di gelo del mercato globale non consentivano ai Rockefeller di fare i difficili.

Per i pochi commerci con esborso di valuta, il Reich impose agli importatori tedeschi un’autorizzazione della Banca Centrale all’acquisto di divise estere; il tutto presto fu facilitato da accordi diretti con gli esportatori, che disponevano di quelle divise e le mettevano a disposizione. I negozi sui cambi avvenivano dunque, “dopo l’eliminazione degli speculatori e degli ebrei”, senza che fosse necessario pagare il tributo ai banchieri internazionali.

Controllo statale dei cambi e del commercio estero sono praticati nello stesso periodo dall’Urss, con atroce durezza: ma con risultati miserandi. Il controllo nazista dei cambi e dei commerci esteri invece, deve ammettere lo storico, “dà alla politica economica tedesca una nuova libertà”. Anzitutto, perché il valore interno del marco (il suo potere d’acquisto per i lavoratori) è stato svincolato dal suo prezzo esterno, quello sui mercati valutari anglo-americani.

Lo Stato tedesco può dunque praticare politiche inflazioniste, stampando la moneta di cui ha bisogno, senza essere immediatamente punito dai mercati mondiali dei cambi (governati da speculatori ed ebrei) con una perdita del valore del marco rispetto al dollaro. E il pubblico tedesco non riceve quel segnale di sfiducia mondiale consistente nella svalutazione del cambio della sua moneta nazionale.

Così, Hitler può stampare marchi nella misura che desidera per raggiungere il suo scopo primario: il riassorbimento della disoccupazione. Grandi lavori pubblici, autostrade e poi il riarmo, forniscono salari a un numero crescente di occupati. I risultati sono, dietro le fredde cifre, spettacolari per ampiezza e rapidità.

Nel gennaio 1933, quando Hitler sale al potere, i disoccupati sono 6 milioni e passa. A gennaio 1934, sono calati a 3,7 milioni. A giugno, sono ormai 2,5 milioni. Nel 1936 calano ancora, a 1,6 milioni. Nel 1938 non sono più di 400 mila.

E non sono le industrie d’armamento ad assorbire la manodopera. Fra il 1933 e il 1936, è l’edilizia ad impiegarne di più (più 209%), seguita dall’industria dell’automobile (+ 117%); la metallurgia ne occupa relativamente meno (+83%).

Nei fatti, la stampa di banconote viene evitata – o piuttosto dissimulata – con geniali tecnicismi. Di norma, nel sistema bancario speculativo, le banche creano denaro dal nulla aprendo dei fidi agli investitori; costoro, successivamente servendo il loro debito (e anzitutto pagando gli interessi alla banca), riempiono quel nulla di vera moneta – di cui la banca si trattiene il suo profitto (4), estraendo il suo tradizionale tributo dal lavoro umano. Ma naturalmente questo metodo genera inflazione, perché mette in circolazione moneta aggiuntiva; e Hitler vuole – deve – risparmiare al suo popolo, che ha già conosciuto l’esplosione inflattiva del 1922-23, un’altra disastrosa esperienza del genere.

Nel sistema hideriano, è direttamente la Banca Centrale di Stato (Reichsbank) a fornire agli industriali i capitali di cui hanno bisogno. Non lo fa aprendo a loro favore dei fidi; lo fa autorizzando gli imprenditori ad emettere delle cambiali garantite dallo Stato. E’ con queste promesse di pagamento (dette’ effetti MEFO ‘) che gli imprenditori pagano i fornitori.

In teoria, questi ultimi possono scontarle presso la Reichsbank ad ogni momento, e qui sta il rischio: se gli effetti MEFO venissero presentati all’ incasso massicciamente e rapidamente, l’effetto finale sarebbe di nuovo un aumento esplosivo del circolante e dunque dell’inflazione.

Di fatto, però questo non avviene nel Terzo Reich. Anzi: gli industriali tedeschi si servono degli effetti MEFO come mezzo di pagamento fra loro, senza mai portarli all’incasso; risparmiando così fra l’altro (non piccolo vantaggio) l’aggio dello sconto. Insomma, gli effetti MEFO diventano una vera moneta, esclusivamente per uso delle imprese, a circolazione fiduciaria.

Gli economisti si sono chiesti come questo miracolo sia potuto avvenire, ed hanno sospettato pressioni dello Stato nazista, magari tramite la Gestapo, per mantenere il corso forzoso di questa semimoneta. Ma nessuna coercizione in realtà fu esercitata. Gli storici non hanno trovato, alla fine, altra risposta che quella che non vorrebbero dare: il sistema funzionava grazie alla fiducia. L’immensa fiducia che il regime riscuoteva presso i suoi cittadini, e le sue classi dirigenti.

Hanno detto che Hjalmar Schacht, il banchiere centrale del Reich, ebreo, che è l’inventore del sistema, ha reso invisibile l’inflazione: gli effetti MEFO erano un circolante parallelo che il grande pubblico non vedeva e di cui forse nemmeno aveva conoscenza, e dunque privo di effetti psicologici.

In seguito Schacht (che fu processato a Norimberga ma, naturalmente, assolto) spiegò – fumosamented’aver pensato che, se la recessione manteneva inutilizzato lavoro, officine, materie prime, doveva esserci anche del capitale parimenti inutilizzato nelle casse delle imprese; i suoi effetti MEFO non avrebbero fatto che mobilitare quei fondi dormienti. Bisogna correggere la modestia del geniale banchiere. Erano proprio i fondi a mancare nelle casse, non l’energia, la voglia di lavorare, la capacità attiva del popolo.

Schacht fece molto di più. Da ebreo, conosceva bene la frode fondamentale su cui si basa il sistema del credito, e i lucri che consente l’abuso della fiducia dei risparmiatori e degli attivi, che col loro lavoro riempiono di vero denaro i conti di denaro vuoto, contabile, che la banca crea ex-nihilo. Per una volta nella storia, un ebreo fece funzionare la frode a vantaggio dello Stato – senza lucro – e del popolo. Non a caso, e senza nessuna intenzione sarcastica, Hitler gratificòSchacht del titolo di “ariano d’onore”: mai definizione fu meglio meritata.

Un economista britannico, C.W. Guillebaud (5), ha espresso con altre parole lo stesso concetto: “nel Terzo Reich, all’ origine, gli ordinativi dello Stato forniscono la domanda di lavoro, nel momento in cui la domanda effettiva è quasi paralizzata e il risparmio è inesistente; la Reichsbank fornisce i fondi necessari agli investimenti [con gli effetti MEFO, che sono pseudo-capitale]; l’investimento rimette al lavoro i disoccupati; il lavoro crea dei redditi, e poi dei risparmi, grazie ai quali il debito a breve termine precedentemente creato può essere finanziato [ci si possono pagare gli interessi] e in qualche misura rimborsato (6)”.

Con il denaro creato dal nulla a beneficio del popolo, anziché degli speculatori, la Germania – mentre il mondo gela nella recessione profonda degli anni ‘30 – prospera. La massa dei salari, che ammontava a 32 miliardi di marchi nel 1932, è salita nel 1937 a 48,5 miliardi: parecchio di più della massa salariale del boom pre-1929 (42,4).

E qui gli economisti, i teorici del monetarismo e della mano invisibile del mercato, aspettano al varco l’esperimento hitleriano: quell’abbondanza di potere d’acquisto nelle tasche dei lavoratori provocherà una crescita esponenziale dei consumi, e dunque una pressione al rialzo dei prezzi. Si tenga conto che quel denaro è nelle mani di milioni di uomini e donne che sono stati disoccupati per anni, e per anni hanno vissuto nella privazione: la corsa agli acquisti di generi di consumo sarà dunque inarrestabile. Non ci sarà alcuna creazione di risparmi indicata da Guillebaud. L’inflazione sembra tanto più certa, in quanto nella Germania di Hitler, fra il 1932 e il 1937, la produzione di beni di consumo aumenta poco (+39%), specie in confronto all’enorme aumento di beni di produzione, macchinari, strade, fabbriche (+ 172%). Dunque il potere d’acquisto aggiuntivo si getterà a comprare beni relativamente scarsi, accentuando la spinta all’inflazione.

Ebbene: in Germania, l’inevitabile inflazione non si verifica.

L’indice del costo della vita, pari a 120,6 nel 1932, è nel 1937 a 125,1: in cinque anni l’inflazione sale di poco più che 4 punti.

Come mai? Alla ricerca del trucco, gli economisti si sono chinati sul prelievo fiscale. Certo lo Stato nazista avrà sottratto agli operai una parte notevole del loro nuovo potere d’acquisto con tributi gravosi. In realtà, nella Germania del 1937 la percentuale del prelievo fiscale sul reddito nazionale è pari al 27,6%, appena poco di più del 26% del 1933, quando Hitler prende il potere. Del nuovo reddito creato dalla prosperità indotta, il Reich non preleva che il 7,5%: un prelievo così mite non si è visto mai, né prima né dopo, negli Stati più liberali. E di fatto, il rispannio dei privati in quegli anni, praticamente, si quintuplica: incoraggiato dallo Stato, ma non imposto coercitivamente.

I teorici devono dunque ricorrere a spiegazioni poco scientifiche: la naturale frugalità gennanica, la sua innata disciplina. Per evitare un altro tennine, che spiegherebbe di più: l’entusiasmo di un popolo spontaneamente mobilitato per la propria rinascita, liberato dal giogo dei lucri bancari, che ha capito perfettamente gli scopi dei suoi dirigenti, e vi collabora con energia e creatività.

Va detto che lo stesso Schacht non credeva nel sistema che aveva messo in moto col suo trucco contabile. Devoto allievo della dottrina classica, previde che il miracolo artificiale si sarebbe sgonfiato: raggiunto il pieno impiego, lo sfruttamento totale delle risorse, gli investimenti e le spese pubbliche devono rallentare, perché da quel momento esso genera solo pura inflazione. Così dettava l’economia classica: il serbatoio di manodopera è inelastico, e ogni nuovo investimento compete offrendo sempre più alti salari a una manodopera sempre più scarsa.

E’ in base a questo dogma, notiamolo, che il liberismo supercapitalista raccomanda la globalizzazione, l’internazionalizzazione dell’economia: per attingere ai serbatoi di lavoro inutilizzato e a basso costo dei paesi non sviluppati.

Dal ‘36 in poi, fra l’altro, le materie prime sui mercati mondiali cominciano a rincarare, rendendo più difficile il gioco economico di Hitler. E’ proprio in quel momento che Schacht propone di dedicare somme maggiori alle importazioni: e ciò non tanto per migliorare il tenore di vita dei tedeschi ma – incredibilmente – per “migliorare i nostri rapporti con l’estero” (7). Insomma: indebitiamoci un po’ per far contenti gli usurai.

In quel momento invece Hitler incarica Goering, un Goering ancora giovane e attivo, di lanciare il grande piano di sostituzione delle materie prime: ciò che non si vuole importare deve essere rimpiazzato da surrogati (ersatze). Così nascono i processi di fabbricazione della gomma e benzina sintetica partendo dal carbone, brevetti che l’America – dopo la vittoria sul Reich – si affretterà a sequestrare e a distruggere.

Di fatto, in quegli anni la Germania funziona ancor più di prima a vaso chiuso. Come l’Unione Sovietica di Stalin riduce ulteriormente le sue importazioni. In Unione Sovietica l’autarchia è raggiunta al prezzo di carestie, atrocità poliziesche e concentrazionarie. I contemporanei, dunque, suppongono che i tedeschi, messi da Hitler a lavorare per produrre beni non consumabili, siano soggetti a severe privazioni, o almeno a un regime di austerità. Se non da schiavi di una stato totalitario, almeno da monaci guerrieri.

La realtà viene esposta da una tabella sui consumi annui’ procapite ricavata dal già citato Guillebaud:

consumi tedeschi annui a testa 1932 1937

farina (Kg) 44,6 55,4

carne 42,1 45,9

lardo 8,5 8,1

burro 7,5 8,9

margarina 7,8 5,4

latte (litri) 105,0 111,0

pesce 8,5 12,2

patate 191,0 174,0

zucchero 20,0 24,0

caffè 1,6 2,1

birra 51,4 62,9

La tabella rivela la stupefacente realtà: la qualità dell’alimentazione tedesca migliora durante la dittatura hitleriana. Il tedesco mangia meno margarina ma più burro; cala la dieta di patate (il cibo tedesco della povertà) e aumentano farina, carne, pesce. Persino il consumo di caffè, importato, è più abbondante. In Germania, l’ autarchia funziona.

Gli studiosi del miracolo tedesco si consolano, retrospettivamente, con l’idea che una simile economia a ciclo chiuso non avrebbe potuto espandersi all’infinito. Che, se durò più del previsto, fu perché la Germania, con le annessioni del 1939 e ‘40, ebbe a disposizione nuove fonti di lavoro e materie prime. Forse.

Tuttavia, bisogna pur riconoscere che l’economia tedesca fu messa a regime di mobilitazione totale solo dal 1943. Solo allora la Germania spinse a fondo l’acceleratore. Albert Speer, il genio della mobilitazione economica bellica, racconta (8) che nel 1943 – sotto gli incessanti, apocalittici bombardamenti – la Germania fu ancora capace di produrre 5234 locomotive, il doppio dell’anno precedente. Fra il , 41 e il ‘44 la produzione di munizioni triplicò, quella dei pezzi per mezzi corazzati fu quintuplicata, pur con un risparmio del 79% della manodopera e del 93% dell’acciaio impiegato (rispetto al 1941), grazie a una razionalizzazione scientifica dei processi produttivi.

E la mobilitazione della manodopera fu sempre ben lontana dalla militarizzazione attuata in Inghilterra, dove “tutte le forze del lavoro erano inquadrate in battaglioni, che venivano dislocati dove ce n’era bisogno. Tutta la popolazione civile inglese, comprese le donne, era una gigantesca armata mobile”. In Inghilterra il 61 per cento delle donne era nel’ 44 impiegato nello sforzo bellico; in Germania, il 45 per cento.

Quanto ai beni di consumo, fatta 100 la produzione del 1939,in Gran Bretagna era scesa nel 1942 a 79, in Germania era a 88. Ancora a metà della guerra, il tenore di vita tedesco restava più alto di quello dei suoi nemici.

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l) E’ un altro modo di esprimere lo stesso fenomeno, la deflazione.

2) J.Néré, La crise de 1929, Parigi, 1973, p.163.

3) H. Rauschning, Hitler mi ha detto, citato da Néré.

4) Si ricordi la definizione dell’Enciclopedia Britannica: “la banca lucra gli interessi su tutto il denaro che crea dal nulla”.

5) C.W. Guillebaud, The Economic Recovery oJ Germany, 1933-1939 (Londra, 1939).

6) Si noti che la banca non si preoccupa realmente del rimborso del capitale che presta alle imprese; quel capitale è fittizio, al massimo è denaro dei risparmiatori, ossia per la banca un passivo (perché è la banca a pagarvi degli interessi). Quel che le interessa è che i debitori continuino a pagare gli interessi: sono questi l’attivo della banca. A rigore, per la banca è vantaggioso che il debito non venga estinto mai.

7) A Norimberga, Schacht potrà dire che intendeva, in realtà, sottrarre risorse al riarmo.

8)A.Speer, Memorie del Terzo Reich, Milano, 1976, note a pag 629.

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16 – HITLER ECONOMISTA

A questo punto, è inevitabile porsi la domanda: è possibile che non solo la guerra annichilatrice scatenata dalle potenze anglo-americane contro la Germania, ma la storica satanizzazione del Reich, la sua permanente damnatio memoriae, abbiano avuto come motivazione reale e occulta proprio i successi economici ottenuti da Hitler contro il sistema finanziario internazionale? E’ la domanda più censurata della storia. E’ la domanda-tabù. Non oseremmo porla qui, se non l’avesse adombrata un avversario militare del Terzo Reich: J.F.C. Fuller, generale britannico.

Fuller, scomparso nel 1966, geniale innovatore della guerra corazzata, è considerato il Clausewitz inglese. Ha combattuto la Germania nella prima e nella seconda guerra mondiale. Avversario, ma leale. In un cruciale capitolo della sua opera principale, Storia militare del mondo occidentale (1), Fuller delineò brevemente le ragioni dell’ energica rinascita economica della Germania sotto il Terzo Reich. Con limpida chiarezza.

Fuller attribuisce ad Hitler il seguente pensiero:

“la comunità delle nazioni non vive del fittizio valore della moneta, ma di produzione di merci reali; la quale conferisce valore alla moneta. E’ questa produzione ad essere la vera copertura della valuta nazionale, non una banca o una cassaforte piena d’oro”- Egli [Hitler] decise dunque

1) di rifiutare prestiti esteri gravati da interessi, e di basare la moneta tedesca sulla produzione invece che sulle riserve auree.

2) Di procurarsi le merci da importare attraverso scambio diretto di beni – baratto – e di sostenere le esportazioni quando necessario.

3) Di porre termine a quella che era chiamato ‘libertà dei cambi’, ossia la licenza di speculare sulle {fluttuazioni delle) monete e di trasferire i capitali privati da un paese all ‘altro secondo la situazione politica.

4) Di creare moneta quando manodopera e materie prime erano disponibili per il lavoro, anziché indebitarsi prendendola a prestito”.

Fuller pare aver compreso perfettamente la frode fondamentale, il meccanismo per cui la finanza estrae il suo tributo perpetuo dal lavoro umano. Infatti scrive: “Hitler era convinto che, finché durava il sistema monetario internazionale [...], una nazione, accaparrando l’oro, poteva imporre la propria volontà alle nazioni cui l’oro mancava. Bastava prosciugare le loro riserve di scambio, per costringerle ad accettare prestiti ad interesse, sì da distribuire la loro ricchezza e la loro produzione ai prestatori”.

E aggiunge: “la prosperità della finanza internazionale dipende dall ‘emissione di prestiti ad interesse a nazioni in difficoltà economica; l’economia di Hitler significava la sua rovina. Se gli fosse stato permesso di completarla con successo, altre nazioni avrebbero certo seguito il suo esempio, e sarebbe venuto un momento in cui tutti gli Stati senza riserve auree si sarebbero scambiati beni contro beni; così che non solo la richiesta di prestiti sarebbe cessata e l’oro avrebbe perso valore, ma i prestatori finanziari avrebbero dovuto chiudere bottega “,

“Questa pistola finanziaria era puntata alla tempia, in modo particolare, degli Stati Uniti, i quali detenevano il grosso delle riserve d’oro mondiali, e perché il loro sistema di produzione di massa richiedeva l’esportazione del dieci per cento circa dei loro prodotti per evitare la disoccupazione. Inoltre, poiché i metodi brutali usati da Hitler contro gli ebrei tedeschi aveva irritato i finanzieri ebrei americani, sei mesi dopo che Hitler divenne cancelliere, Samuel Untermeyer, un ricco procuratore di New York, gettò il guanto di sfida. Egli proclamò una ‘guerra santa’ contro il nazionalsocialismo e dichiarò il boicottaggio economico sui beni, trasporti e servizi tedeschi” .

Ciò a cui Fuller allude, nell’ evocare la guerra santa ebraica contro il nazionalsocialismo, è un evento preciso, che ebbe luogo al Madison Square Garden il 6 settembre 1933.

Qui, la comunità ebraica di New York celebrò un vero e proprio rito di maledizione, detto cherem o scomunica maggiore. “Furono accesi due ceri neri e si soffiò tre volte nello shofar [l'antico corno di ariete ebraico] mentre il rabbino B. A Mendelson pronunciava la formula di scumunica: ‘a partire da oggi, ci asterremo da qualunque commercio di materie prime provenienti dalla Germania. Saremo vigilanti per quanto riguarda l’uso di merci tedesche [...] La validità di tale decisione durerà fino alla fine del regime di Hitler, allora il cherem avrà la nostra benedizione “‘(2).

Samuel Untermeyer, membro influente del B’nai B’rith, ripeterà il 5 gennaio 1935 questa dichiarazione; annunciando un embargo totale sulle merci tedesche “a nome di tutti gli ebrei, massoni [sic] e cristiani “.

Non è il caso di sorridere di questi rituali. Bisogna infatti ricordare che, per lo stesso cristianesimo, la comunità ebraica è popolo sacerdotale: titolare cioè del potere sacramentale di rendere efficaci i riti. Inoltre, gli ebrei sono i primi a credere che i loro rabbini siano in grado di lanciare maledizioni efficaci e forme di malocchio. Come il sacerdote cattolico, con il sacramento dell’Ordine, riceve questo potere – e può usarlo per scopi aberranti: le messe nere sataniste richiedono infatti un sacerdote regolarmente ordinato per celebrare il rito inverso, che è per lo più una ”fattura di morte” contro una persona -così gli ebrei sono convinti di poter usare il loro potere sacerdotale in operazioni efficaci di magia nera. L’accensione di candele nere nel rituale eseguito a New York implica, o allude, a una sorta di fattura di morte, con evocazione delle forze infere (3).

In ogni caso, la comunità ebraico-finanziaria non trascurò di mettere in atto anche misure più concrete.

E’ certo che anche il finanziere Bernard Baruch si allarmò del sistema di scambi internazionali diretti di merci, non mediati da trasferimenti monetari, messo in attività da Hitler. In un colloquio che ebbe nel settembre 1939 col presidente Roosevelt, Baruch raccomandò di “tenere i nostri prezzi bassi per conservarci i clienti delle nazioni belligeranti. In questo modo, il sistema di baratto tedesco sarà distrutto”.

Non bastò, e si dovette ricorrere alla guerra. Il potere di Bernard Baruch nel lanciare gli Stati Uniti nel conflitto anti-tedesco non può essere sottovalutato da chi ne conosce le gesta. Nato in Texas nel 1876 (suo padre fu membro del Ku Klux Klan), il miliardario Bernard Baruch è il prototipo eterno del finanziere ebreo (4). Acquirente primario del debito pubblico americano – ossia di fatto membro del ristretto gruppo di banchieri che emettono la moneta Usa indebitandone il paese – Baruch divenne, in forza di tale veste, il consigliere di sei presidenti, da Woodrow Wilson (1912) ad Eisenhower (1950). Fu lui che convinse il presidente Wilson a far entrare l’America nella Grande Guerra; soprattutto, lo convinse che lo sforzo bellico necessitava di un organo onnipotente di pianificazione della produzione industriale; e che quell’ organo supremo doveva essere guidato da un uomo solo. Quell’uomo era lui, Baruch.

Il War Industry Board, di cui fu a capo, impartì ogni ordinativo per materiale bellico e logistico – dagli scarponi alle locomotive – ad ogni azienda americana che lavorava per la guerra; non solo per armare e rifornire le truppe americane, ma in buona misura anche quelle alleate. Come denunciò nel 1919 la Commissione Investigativa del Congresso (guidata dal senatore W.J.Graham) che indagò sui profitti che quell’organo rese possibili, fu “un governo segreto…sette uomini scelti dal presidente hanno concepito l’intero sistema di acquisti militari, programmato la censura sulla stampa, creato un sistema di controllo alimentare… dietro porte chiuse, mesi prima che la guerra fosse dichiarata” .

Insomma, Baruch instaurò – nel bel mezzo della democrazia americana, in un clima politico e culturale totalmente diverso da quello dell’Europa dell’est- il sistema di pianificazione socialista dell’economia, perfettamente simile a quello che stava nascendo in Russia. Completo (come poi in Unione Sovietica) di censura sulla stampa e razionamento alimentare.

Il sistema fu ripetuto, sempre grazie ai consigli che Baruch diede al presidente F. D. Roosevelt, anche nella guerra contro Hitler: l’organo pianificatore si chiamò War Production Board ed ebbe a capo una creatura di Baruch, Harry Hopkins.

Anche allora fu di fatto abolito, senza dirlo, il libero mercato. La mano invisibile cara ad Adam Smith fu sostituita da un’altra mano invisibile, quella del piano e dei pianificatori, i commissari politici degli Usa, ultimi decisori della domanda e dell’offerta. In fondo, per i banchieri, liberismo o socialismo non fanno differenza: purché siano loro a controllarli, e a profittarne.

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l) Major GeneraI J.F.C. Fuller, C.B., C.RE., D.S.O., A Military History oj the Western World, Minerva Press, 1956, pp. 368 e segg.

2) Jewish Daily Bulletin, New Y ork, 6 gennaio 1935, citato da Emmanuel Ratier, Misteri e segreti del B ‘nai B ‘rith, Verrua Savoia, 1995, p. 151.

3) Una fattura di morte come quella descritta sopra fu lanciata, da rabbini fanatici, anche contro il primo ministro Itzhak Rabin, in seguito assassinato da un fanatico ebreo, per la sua volontà di cedere una parte di territorio ai palestinesi. Israel Shahak (Jewish Fundamentalism in Israel, 1999) ha diffusamente illustrato come i rabbini vendano ai loro seguaci amuleti e minaccino maledizioni ai loro avversari anche politici; si tratta di una vera simonia, la vendita dei poteri sacerdotali di cui sarebbero depositari.

4) Per altre notizie sulla figura di B. Baruch, si veda il mio I fanatici dell’Apocalisse, Rimini, 1995, p. 81


Il miracolo economico hitleriano (http://go2.wordpress.com/?id=725X1342&site=msdfli.wordpress.com&url=http%3A%2F%2Fwww.ladestra.info%2F%3Fp%3D3959&sref=http%3A%2F%2Fmsdfli.wordpress.com%2F2009%2F10 %2F23%2Fmiracolo-economico-hitleriano%2F)

Majorana
28-07-10, 18:31
HITLER IMITO’ IL SISTEMA MONETARIO DI LINCOLN

di Ellen Brown

“Non siamo stati così sciocchi da creare una valuta collegata all’oro, di cui non abbiamo disponibilità, ma per ogni marco stampato abbiamo richiesto l’equivalente di un marco in lavoro o in beni prodotti. Ci viene da ridere tutte le volte che i nostri finanzieri nazionali sostengono che il valore della valuta deve essere regolato dall’oro o da beni conservati nei forzieri della banca di stato“. (Adolf Hitler, citato in Hitler’s Monetary System, Jeff Rense Program (http://www.rense.com), che riprende C.C.Veith, Citadels of Chaos, Meador, 1949). Quello di Guernsey (politico del Minnesota, ndr), non fu dunque l’unico governo a risolvere i propri problemi infrastrutturali stampando da solo la propria moneta. Un modello assai più noto si può trovarlo nella Germania uscita dalla Prima Guerra Mondiale. Quando Hitler arrivò al potere, il Paese era completamente, disperatamente, in rovina.

Il Trattato di Versailles aveva imposto al popolo tedesco risarcimenti che lo avevano distrutto, con i quali si intendeva rimborsare i costi sostenuti nella partecipazione alla guerra per tutti i Paesi belligeranti. Costi che ammontavano al triplo del valore di tutte le proprietà esistenti nella Germania. La speculazione sul marco tedesco aveva provocato il suo crollo, affrettando l’evento di uno dei fenomeni d’inflazione più rovinosi della modernità. Al suo apice, una carriola piena di banconote, per l’equivalente di 100 miliardi di marchi, non bastava a comprare nemmeno un tozzo di pane. Le casse dello Stato erano vuote ed enormi quantità di case e di fattorie erano state sequestrate dalle banche e dagli speculatori. La gente viveva nelle baracche e moriva di fame. Nulla di simile era mai accaduto in precedenza: la totale distruzione di una moneta nazionale, che aveva spazzato via i risparmi della gente, le loro attività e l’economia in generale. A peggiorare le cose arrivò, alla fine del decennio, la depressione globale. La Germania non poteva far altro che soccombere alla schiavitù del debito e agli strozzini internazionali. O almeno così sembrava.

Hitler e i Nazional-Socialisti, che arrivarono al potere nel 1933, si opposero al cartello delle banche internazionali iniziando a stampare la propria moneta. In questo presero esempio da Abraham Lincoln, che aveva finanziato la Guerra Civile Americana con banconote stampate dallo Stato, che venivano chiamate “Greenbacks“. Hitler iniziò il suo programma di credito nazionale elaborando un piano di lavori pubblici. I progetti destinati a essere finanziati comprendevano le infrastrutture contro gli allagamenti, la ristrutturazione di edifici pubblici e case private e la costruzione di nuovi edifici, strade, ponti, canali e strutture portuali. Il costo di tutti questi progetti fu fissato a un miliardo di di unità della valuta nazionale. Un miliardo di biglietti di cambio non inflazionati, chiamati Certificati Lavorativi del Tesoro. Questa moneta stampata dal governo non aveva come riferimento l’oro, ma tutto ciò che possedeva un valore concreto. Essenzialmente si trattava di una ricevuta rilasciata in cambio del lavoro e delle opere che venivano consegnate al governo. Hitler diceva: “Per ogni marco che viene stampato, noi abbiamo richiesto l’equivalente di un marco di lavoro svolto o di beni prodotti“. I lavoratori spendevano poi i certificati in altri beni e servizi, creando lavoro per altre persone.

Nell’arco di due anni, il problema della disoccupazione era stato risolto e il Paese si era rimesso in piedi. Possedeva una valuta solida e stabile, niente debito, niente inflazione, in un momento in cui negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali erano ancora senza lavoro e vivevano di assistenza. La Germania riuscì anche a ripristinare i suoi commerci con l’estero, nonostante le banche estere negassero credito e dovesse fronteggiare un boicottaggio economico internazionale. Ci riuscì utilizzando il sistema del baratto: beni e servizi venivano scambiati direttamente con gli altri paesi, aggirando le banche internazionali. Questo sistema di scambio diretto avveniva senza creare debito nè deficit commerciale. L’esperimento economico della Germania lasciò alcuni durevoli monumenti al suo processo, come la famosa Autobahn, la prima rete del mondo di autostrate a larga estensione.

Di Hjalmar Schacht, che era all’epoca a capo della banca centrale tedesca, viene spesso citato un motto che riassume la versione tedesca del miracolo del “Greenback”. Un banchiere americano gli aveva detto: “Dottor Schacht, lei dovrebbe venire in America. Lì abbiamo un sacco di denaro ed è questo il vero modo di gestire un sistema bancario“. Schacht replicò: “Lei dovrebbe venire a Berlino. Lì non abbiamo denaro. E’ questo il vero modo di gestire un sistema bancario” (John Weitz, Hitler’s Banker Warner Books, 1999).

Benchè Hitler sia citato con infamia nei libri di storia, egli fu popolare presso il popolo tedesco. Stephen Zarlenga, in The Lost Science of Money, afferma che ciò era dovuto al fatto che egli salvò la Germania dalle teorie economiche inglesi. Le teorie secondo le quali il denaro deve essere scambiato sulla base delle riserve aurifere in possesso di un cartello di banche private piuttosto che stampato direttamente dal governo. Secondo il ricercatore canadeseHenry Makow, questo fu probabilmente il motivo principale per cui Hitler doveva essere fermato; egli era riuscito a scavalcare i banchieri internazionali e creare una propria moneta. Makow cita un interrogatorio del 1938 di C.G.Rakowsky, uno dei fondatori del bolscevismo sovietico e intimo di Trotzky, che finì sotto processo nell’URSS di Stalin. Secondo Rakowsky, “[Hitler] si era impadronito del privilegio di fabbricare il denaro, e non solo il denaro fisico, ma anche quello finanziario; si era impadronito dell’intoccabile meccanismo della falsificazione e lo aveva messo a lavoro per il bene dello Stato. Se questa situazione fosse arrivata a infettare anche altri Stati, potete ben immaginare le implicazioni controrivoluzionarie” (Henry Makow, “Hitler Did Not Want War”, Barons Brewing Co (http://www.savethemales.com)).

L’economista inglese Henry C.K.Liu ha scritto sull’incredibile trasformazione tedesca: “I nazisti arrivarono al potere in Germania nel 1933, in un momento in cui l’economia era al collasso totale, con rvinosi obblighi di risarcimento postbellico e zero prospettive per il credito e gli investimenti stranieri. Eppure, attraverso una politica di sovranità monetaria indipendente e un programma di lavori pubblici che garantiva la piena occupazione, il Terzo Reich riuscì a trasformare una Germania in bancarotta, privata perfino di colonie da poter sfruttare, nell’economia più forte d’Europa, in soli quattro anni, ancor prima che iniziassero le spese per gli armamenti“. In Billions for the Bankers, Debts for the People (Miliardi per le Banche, Debito per i Popoli, 1984), Sheldon Hemry commenta: “Dal 1935 in poi, la Germania iniziò a stampare una moneta libera dal debito e dagli interessi, ed è questo che spiega la sua travolgente ascesa dalla depressione alla condizione di potenza mondiale in soli 5 anni. La Germania finanziò il proprio governo e tutte le operazioni belliche, dal 1935 al 1945, senza aver bisogno di oro nè debito, e fu necessaria l’unione di tutto il mondo capitalista e comunista per distruggere il potere della Germania sull’Europa e riportare l’Europa sotto il tallone dei banchieri“.

L’IPERINFLAZIONE DI WEIMAR

Nei testi moderni si parla della disastrosa inflazione che colpì nel 1923 la Repubblica di Weimar (nome con cui è conosciuta la repubblica che governò la Germania dal 1919 al 1933). La radicale svalutazione del marco tedesco è citata nei testi come esempio di ciò che può accadere quando ai governi viene conferito il potere incontrollato di stampare da soli la propria moneta. Questo è il motivo per cui viene citata, ma nel complesso mondo dell’economia le cose non sono come sembrano. La crisi finanziaria di Weimar ebbe inizio con gli impossibili obblighi di risarcimento imposti dal Trattato di Versailles.

Schacht, che all’epoca era il responsabile della zecca della repubblica, si lamentava: “Il Trattato di Versailles è un ingegnoso sistema di provvedimenti che hanno per fine la distruzione economica della Germania. Il Reich non è riuscito a trovare un sistema per tenersi a galla diverso dall’espediente inflazionistico di continuare a stampare banconote“. Questo era quello che egli dichiarava all’inizio. Ma Zarlenga scrive che Schacht, nel suo libro del 1967 The Magic of Money, decise “di tarar fuori la verità, scrivendo in lingua tedesca alcune notevoli rivelazioni che fanno a pezzi la saggezza comune propagandata dalla comunità finanziaria riguardo all’iperinflazione tedesca“. Schacht rivelò che era la Banca del Reich, posseduta da privati, e non il governo tedesco che pompava nuova valuta all’economia. Nel meccanismo finanziario conosciuto come vendita a breve termine, gli speculatori prendono in prestito qualcosa che non possiedono, la vendono e poi “coprono” le spese ricomprandola a prezzo inferiore. La speculazione sul marco tedesco fu resa possibile dal fatto che la Banca del Reich rendeva disponibili massicce quantità di denaro liquido per i prestiti, marchi che venivano creati dal nulla annotando entrate sui registri bancari e poi prestati ad interessi vantaggiosi.

Quando la Banca del Reich non riuscì più a far fronte alla vorace richiesta di marchi, ad altre banche private fu permesso di crearli dal nulla e di prestarli, a loro volta, a interesse. Secondo Schacht, quindi, non solo non fu il governo a provocare l’iperinflazione di Weimar, ma fu proprio il governo che la tenne sotto controllo. Alla Banca del Reich furono imposti severi regolamenti governativi e vennero prese immediate misure correttive per bloccare le speculazioni straniere, eliminando la possibilità di facile accesso ai prestiti del denaro fabbricato dalle banche. Hitler poi rimise in sesto il paese con i suoi Certificati del Tesoro, stampati dal governo su modello del Greenback americano. Schacht disapprovava l’emissione di moneta da parte del governo e fu rimosso dal suo incarico alla Banca del Reich quando si rifiutò di sostenerlo (cosa che probabilmente lo salvò dal processo di Norimberga). Ma nelle sue memorie più tarde, egli dovette riconoscere che consentire al governo di stampare la moneta di cui aveva bisogno non aveva prodotto affatto l’inflazione prevista dalla teoria economica classica. Teorizzò che essa fosse dovuta al fatto che le fattorie erano ancora inoperose e la gente senza lavoro. In questo si trovò d’accordo con John Maynard Keynes: quando le risorse per incrementare la produzione furono disponibili, aggiungere liquidità all’economia non provocò affatto l’aumento dei prezzi; provocò invece la crescita dei beni e di servizi. Offerta e domanda crebbero di pari passo, lasciando i prezzi inalterati. (da Webofdebt)

di Ellen Brown

HITLER IMITO’ IL SISTEMA MONETARIO DI LINCOLN - (http://www.altrainformazione.it/wp/la-fonte-del-potere-2/signoraggio-la-linfa-vitale-dei-poteri-forti/hitler-imito-il-sistema-monetario-di-lincoln/)

Avamposto
07-09-10, 11:29
Il miracolo economico nazionalsocialista







Solitamente si è portati a pensare che gli economisti, a causa della serietà della materia che trattano, siano obbligati a scrivere in maniera particolarmente noiosa e soporifera; la migliore cioè per rendere le loro tesi accettabili e farle considerare importanti. Se il motivo per cui John Maynard Keynes fu tenuto lontano dalle cariche pubbliche risale alla dura critica da lui mossa contro la pace punitiva imposta alla Germania dal trattato di Versailles, sicuramente alcune frasi della Teoria generale (pubblicata nel 1936), ritenute poco serie sia nella forma che nel contenuto, gli peggiorarono, agli occhi dei responsabili dei dicasteri economici, la già traballante reputazione.

Il brano maggiormente incriminato, riferendosi alla disoccupazione seguita alla Grande Crisi, dice: «Se il Ministro del Tesoro riempisse delle bottiglie con banconote, le interrasse a profondità convenuta in vecchie miniere di carbone abbandonate, ricoprisse il tutto fino alla superficie di immondizie e lasciasse alle imprese private, secondo il ben noto principio del laissez-faire, il compito di dissotterrare le banconote (il diritto di fare ciò essendo ottenuto, naturalmente, mediante l’appalto dello sfruttamento del terreno), non ci sarebbe più disoccupazione e, grazie agli effetti secondari, il reddito reale della collettività, e anche il suo capitale, diventerebbe senza dubbio più alto di quanto è attualmente».

J. M. Keynes, “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, pag.129

La soluzione proposta da Keynes era, tutto sommato, perfettamente logica. Presentava, però, il difetto di mandare inevitabilmente in rosso il bilancio dello Stato; ciò che gli economisti “seri”, che di certo non avevano perso il lavoro, come era invece accaduto a milioni di lavoratori americani ed europei, non apprezzavano granché.

Il 10 maggio 1932, un deputato nazionalsocialista, Georg Strasser, in un discorso al Reichstag che verrà pubblicato sotto il titolo Pane e Lavoro, anticipò di quattro anni le tesi keynesiane. «Le necessità della vita», disse, «vengono soddisfatte dal lavoro: cibo, abitazione, vestiti, luce e ri*scaldamento. Il benessere di una nazione sta nel lavoro e non nel capitale: è questo il punto. E perciò quando si tratta del problema della creazione di posti di lavoro lo Stato non deve, mai chiedersi: posseggo il denaro per fare ciò?, ma piuttosto c’è una sola domanda che deve porsi: come devo usare il denaro? C’è sempre abbastanza denaro per creare lavoro e come ultima risorsa si dovrebbe creare credito produttivo (incrementando il disavanzo) che è, in questo caso, economicamente del tutto giustificato».

Ritenere il deficit del bilancio statale un qualcosa di giusto e di apprezzabile era un’idea che nelle più prestigiose università inglesi ed americane avrebbe inibito l’incauto assertore dal proseguire gli studi economici nella maniera più assoluta. La sufficienza con cui venne riguardato il programma economico nazionalsocialista negli ambienti finanziari avrebbe dovuto rientrare completamente in meno di tre anni, prima ancora della pubblicazione della Teoria Generale.

La Germania attraversa, dalla fine della Prima Guerra Mondiale, una crisi profondissima: in balia di una disoccupazione-record, umiliata dalle condizione di pace, costretta a pagare indennità che lo stesso Keynes, un inglese, definì nel 1919, in Le conseguenze economiche della pace, come eccessivamente gonfiate. L’inflazione del 1922-23, che giunse a stabilire il cambio di un dollaro contro quattro miliardi di reichsmarks, lascia come conseguenza, anche quando si attenua, le riserve monetarie della Reich- sbank ridotte al lumicino. Nel 1929, quando il livello di disoccupazione è già alto, la Grande Depressione mette la Germania definitivamente in ginocchio. Le riserve della Banca di Stato passano dai 2.381 milioni di reichsmarks del gennaio ’29 ai 923 milioni dello stesso mese quattro anni dopo, alla vigilia della vittoria elettorale del N.S.D.A.P. La “soluzione” di Brii- ning, del ’31, fu degna del miglior conservatore inglese: riduzione dei redditi e dei prezzi e, nel contempo, aumento delle tasse. La situazione, che già non era rosea, s’incupì ulteriormente. A tutto ciò si aggiungano le conseguenze psicologiche del pesantissimo stato di cose del dopoguerra.

Fermamente deciso a non sottostare alle leggi imposte dall’alta finanza, Hitler riteneva che, dopo l’allontanamento degli speculatori dalla scena economica, fosse possibile dare vita ad un meccanismo economico chiuso, ovvero in grado di trovare in se stesso la forza di alimentarsi, senza, o quasi, connessioni con l’esterno. L’unico combustibile, di cui un tale motore abbisognava, era la fiducia del pubblico; esattamente ciò che nei primi anni trenta, in tutto il mondo, mancava più di ogni altra cosa. Si sarebbe adoperato per fare si che il popolo tedesco la riacquistasse. Il programma che ne segui fu, come già accennato, accolto dal mondo economico e finanziario ufficiale con l’irritazione cui è destinato chiunque voglia quadrare il cerchio, ovvero garantire la piena occupazione a prezzi stabili.

Il 30 gennaio 1933 il Partito Nazionalsocialista vinse con largo margine le elezioni e Adolf Hitler divenne cancelliere del Reich. Immediatamente la ricetta “eretica” venne messa in pratica.

La spinta iniziale fu data dal riassorbimento della disoccupazione ottenuto mediante un imponente piano di opere pubbliche. Hitler prese denaro in prestito e lo spese largamente nell’edilizia pubblica, nella costruzione di canali, ferrovie e, soprattutto, di autostrade.

L’aumentata facilità dei trasporti, sia privati che commerciali, favori l’esplosione dell’economia che in breve si risollevò e costituì la più seria minaccia per l’ormai affermato oligopolio delle corporations statunitensi. Le autostrade, fra l’altro, dettero l’impulso al primo fenomeno europeo di automobile di massa, la Volkswagen, la vettura del popolo, voluta da Hitler personalmente.

Nel giro di tre anni il programma economico nazionalsocialista aveva impiegato quasi due milioni di cittadini del Reich e, grazie agli effetti collaterali, che Keynes più tardi riterrà scontati, altri due milioni e mezzo avevano trovato lavoro nella nuova dinamica del sistema cosi impostato.

Guillebaud, un profondo conoscitore dell’economia nazionalsocialista, descrive il “circuito chiuso” nel seguente modo:«All’origine, le commesse dello Stato forniscono l’offerta di lavoro in un momento in cui la domanda effettiva è quasi paralizzata e il risparmio netto è inesistente; la Reich- sbank fornisce i fondi necessari agli investimenti, gli investimenti mettono i disoccupati al lavoro, il lavoro crea reddito e, di conseguenza, risparmio, grazie al quale il debito a breve termine precedentemente creato può essere finanziato e, in una certa misura, rimborsato».

Come aveva dichiarato Strasser l’anno precedente il denaro per iniziare i lavori fu trovato ma non ci fu bisogno di un mago, anche se il protagonista principale dell’operazione in seguito si autodefinì tale.


L’esperienza più che bimillenaria nella gestione della moneta ha dato ampia dimostrazione di due fatti. Primo: la moneta, specialmente quando è cartacea, si può creare a piacimento; secondo: seguire disinvoltamente questa pratica è estremamente pericoloso e quantomai sconsigliabile.4 Il rimedio nazionalsocialista contro la disoccupazione era, tutto sommato, piuttosto semplice e non si può dire che rappresentasse una grande scoperta. Se manca il lavoro si tratta di crearlo. Tuttavia, se il problema fosse di cosi pronta soluzione, è abbastanza probabile che una buona percentuale di Paesi l’avrebbe adottata fin dai tempi della prima rivoluzione industriale, sia pur contro il parere dei responsabili dei ministeri economici per tradizione scelti accuratamente fra gli uomini politici più incompetenti in ma*teria.

L’altra faccia della medaglia della vasta occupazione era rappresentata dall’aggravarsi dell’inflazione. Questo, almeno, fino alla crisi del ’29. Ci volle Keynes per dimostrare che in un’economia che si preparava a diventare postcapitalistica, disoccupazione ed inflazione potevano benissimo convivere ed anzi andare d’amore e d’accordo. Vi è inoltre da tenere conto della particolare condizione psicologica del cittadino tedesco medio di fronte alla minaccia di una nuova ondata inflattiva, quando ancora le profonde ferite aperte da quella del ’23 non si erano rimarginate completamente.

Gli economisti di sicura ortodossia non prestarono troppa attenzione a ciò che accadeva in Germania. Se l’alto livello di disoccupazione, che veniva accettato nei Paesi di secolare democrazia, condannava milioni di famiglie a vivere di stenti, l’inflazione che “sicuramente” si doveva abbattere sulla Germania avrebbe ridotto enormemente il reddito reale dei lavoratori; il che, per coloro che in Inghilterra e negli Stati Uniti un lavoro ce l’avevano, costituiva un motivo più che valido per non adeguarsi al modello tedesco. Per non parlare, poi, delle critiche cui fu soggetto il forte disavanzo della bilancia dei pa*gamenti del Reich.

Le cause della possibile inflazione avrebbero potuto essere due. La grande massa di denaro posta in circolazione dallo Stato per pagare i lavori da esso commissionati e il giustificabile desiderio degli ex disoccupati di spenderlo immediatamente, sia per mancanza di fiducia nello stesso sia per acquistare tutti quei beni cui avevano dovuto rinunciare per troppo tempo. Al primo problema venne ovviato con i cosiddetti “effetti Me.Fo.”, una sorta di pseudo-denaro garantito dalla Banca di Stato ma con il pregio di non alimentare la massa monetaria nominale e quindi di non influire sulla fiducia del pubblico nel valore della stessa. Fiducia che il nuovo stato nazionalsocialista aveva conquistato immediatamente. L’inflazione, tenuta “sotterranea” nel modo sommariamente descritto, non era percepita ed era pertanto priva degli effetti catastrofici che altrimenti avrebbe avuto. Venne inoltre applicato un rigido controllo sul cambio, che non invogliava all’acquisto di merci di produzione straniera, indirizzandolo, invece, su quelle di produzione tedesca. Oltretutto la crisi aveva provocato una maggior caduta dei prezzi agricoli e delle materie prime, cioè di quei beni di cui la Germania era importatrice, mentre i prezzi dei prodotti finiti, che essa esportava, pur risentendo dell’effetto della depressione, si mantennero relativamente agli altri, molto più alti.

Contemporaneamente l’aumento del reddito della quasi totalità dei lavoratori tendeva a provocare l’aumento dei prezzi interni, cosi nel novembre 1936 venne stabilito un “tetto” sia ai redditi che ai prezzi. Esattamente il contrario della scala mobile. L’effetto fu che il costo della vita, dal 1933 allo scoppio della guerra, rimase praticamente stabile.

Un risultato decisamente unico nel mondo industrializzato. Il “moto perpetuo” era ormai ben avviato. A conferma di ciò, mentre la situazione economica tedesca andava, come si è visto, costantemente migliorando, lo Stato non ebbe più bisogno di investire denaro per creare nuovi posti di lavoro, poiché questi venivano già generati dal sistema economico stesso, senza necessità di alcun intervento esterno. Ormai la fiducia nella moneta era stata pienamente riacquistata, il che comportò la fine della corsa a convertire il denaro appena guadagnato in beni “reali” e, quindi, favori un aumento dei risparmi e il rinsanguamento delle riserve della Reichsbank, quasi azzeratesi nel triennio 1930-32.

Di fronte a queste misure clamorosamente eterodosse e al loro altrettanto clamoroso successo gli economisti dei Paesi democratici, oltre a giudicare artificiale l’esperimento nazionalsocialista, e a predirne il collasso, vollero dare dimostrazione ufficiale della loro scienza consigliando accoratamente a Roosevelt il ritorno al pareggio del bilancio.

Roosevelt, infatti, preoccupato per il riarmo della Germania, oltre che per il suo successo economico, si era visto costretto ad aumentare considerevolmente il budget per le commesse militari, il che non solo aveva il difetto di far calare la disoccupazione (una calamità poiché aggravava l’inflazione), e questo per Roosevelt poteva ancora passare, ma, cosa ben peggiore, mandava in rosso il bilancio federale, fatto che l’opposizione repubblicana avrebbe indubbiamente sfruttato a proprio vantaggio non appena se ne fosse presentata l’occasione. Nel 1937 gli effetti della Grande Depressione iniziarono a mitigarsi. Immediatamente l’ortodossia dell’establishment si fece sentire. Le spese pubbliche (con l’eccezione di quelle militari) furono diminuite e le tasse aumentate. La politica fiscale del Presidente ottenne esattamente il risultato previsto da Keynes. Ne segui un immediato crollo dei titoli e, con esso, delle speranze di ripresa. La disoccupazione tornò ad aumentare.

Non sarebbe stato bene che un economista di Cambridge o un consigliere economico del Presidente avessero riconosciuto la bontà del sistema imposto in Germania, anche perché ciò avrebbe implicato un conseguente giudizio positivo sull’intera dottrina politica nazionalsocialista. Il fatto era che nel Reich le manovre economiche funzionavano tutte mentre, anche quando di analoghe ne venivano adottate negli Stati Uniti, esse lasciavano pur sempre il Paese con quasi dieci milioni di disoccupati. Fu allora che vennero attribuiti a Schacht poteri quasi magici.

Egli, dal 1934, aveva riunito in sé le cariche di Presidente della Reichsbank e di Ministro dell’economia, ovvero nel campo di sua competenza, il potere pressoché assoluto. Tuttavia oltre ad avere avuto compro*missioni con la Repubblica di Weimar, Schacht restava pur sempre un liberale.

Fedele, quindi, alla sua natura politica, una volta risanata l’economia tedesca, iniziò a proporre una serie di misure “conciliatorie” verso i Paesi a democrazia liberale; prime fra tutte l’arresto del riarmo tedesco, da lui indicato ormai come nulla più che una fonte di inflazione. Tecnicamente la proposta era ragionevole.

In presenza di piena occupazione (o comunque una volta instradati verso di essa) le spese dello Stato rischiano di gonfiare eccessivamente e senza alcuna necessità la massa monetaria. Schacht riteneva inoltre opportuno un riaggiustamento del valore del reichsmarck sul mercato dei cambi internazionali, onde favorire le esportazioni degli altri Paesi verso la Germania in cambio del reingresso di questa nel sistema mondiale.

L’economia di un Paese, tuttavia, non è semplicemente soggetta ad una serie di regole tecniche, seguendo le quali si ottiene, quasi fosse un problema scolastico, la soluzione meccanica. Esiste una complessa interazione di equilibri geopolitici dei quali è obbligatorio tenere conto. La Germania aveva fatto la sua scelta radicale rifiutando di sottostare al dominio del dollaro e della sterlina. Si delineava la possibilità del sorgere di un mondo economico parallelo a quello che faceva centro a Londra e a New York e, nei suoi confronti, assolutamente autonomo.

Una simile prospettiva non doveva certo far saltare di gioia i banchieri e i responsabili delle multinazionali, che vedevano sottrarsi ai loro affari una parte del mondo, da essi considerata ormai sotto il loro pieno controllo. Inoltre lo spargersi dell’idea nazionalsocialista (in senso lato, quindi non solo tedesco) faceva presagire la creazione di un blocco economico-politico-militare di cui si supponeva avrebbero fatto parte l’Italia, la Spagna, forse il Giappone e, ovviamente, la Germania, con un ruolo di guida da parte di quest’ultima in ragione delle sue maggiori potenzialità economico-militari. A fianco di questo blocco vi sarebbe stata tutta una schiera di Paesi quali la Romania, l’Ungheria, l’Irlanda, l’Austria, alcuni stati arabi e forse qualcuno sudamericano, in cui una larga parte della popolazione era favorevole ad inserirvisi alla prima occasione e, addirittura, si temeva che esso potesse costituire un punto di appoggio per le istanze nazionali in Francia e in Inghilterra.

Questa miscela di minacce, portate contemporaneamente su tutti e tre i piani geopoliticamente più importanti, non lasciò di certo indifferenti coloro che, favorita la crisi del ’29 per distruggere le piccole e medie imprese, rischiavano ora di trovarsi di fronte ad un’opposizione ben più radicale. Del resto la Germania voleva autenticamente un’indipendenza che non fosse solo formale e nel contempo non accettava di essere utilizzata come gendarme di Wall Street contro il comunismo (a mò di tanti Paesi latinoamericani del dopoguerra) la sua doveva essere una politica di forza. Economicamente e militarmente intesa.

In base a queste considerazioni per il liberale Schacht dal 1936 in poi non vi era più spazio. Egli venne cosi man mano rimpiazzato al vertice dell’economia del Reich da Gòring, il quale si mise subito al lavoro per rendere ancora più spinta l’autosufficienza tedesca, in particolare laddove essa risultava debole. Venne cosi lanciato un piano quadriennale di produzione delle materie prime di sostituzione. Nel frattempo venne fissato il termine del completo riarmo della Germania approssimativamente per il 1942-43 e, nell’ottica della creazione di una “Patria di tutti i tedeschi”, nel 1938 l’Austria venne annessa al Reich. L’Italia fascista dichiarò immediatamente il suo appoggio all’Anschluss; nel frattempo la situazione interna spagnola appariva ormai sufficientemente stabilizzata.

I timori espressi dalle corporation angloamericane e dai Ministeri della Guerra delle democrazie liberali incominciavano ad assumere una dimensione concreta. Il 1° settembre 1939 le truppe del Reich entrarono in Polonia.

Due giorni dopo l’Inghilterra dichiarava guerra alla Germania.

P.M. VIRGILIO

fonte “Heliodromos”, Inverno 1989





C.W.Guillebaud. “The economie recovery of Germany”. pag 61

II supporto tecnico a tutto il sistema economico venne dato da Hjalmar Schacht. Questi, già presidente della Reichsbank negli anni Venti, si dimise dopo l’entrata in vigore del piano Jang ej nonostante le sue convinzioni liberali si schierò con “l’opposizione nazionale” che allora era un coacervo indistinto nel mezzo del quale il NSDAP non era ancora diventato egemone. A capo della banca centrale, al posto di Schacht, venne posto Hans Luthe conservatore e persona incapace di dominare la delicata situazione. I primi contatti fra Schacht e Hitler risalgono al 1931, ampiamente dopo la prima grande impennata elettorale nazionalsocialista, il che porta a sospettare nel banchiere quelle doti di opportunismo politico che egli rivelerà in seguito. Con la vittoria del NSDAP del 1933, Schacht diviene nuovamente presidente della Reichsbank e dopo poco più di un anno ministro dell’economia. Nel dopoguerra spiegherà nei dettagli il suo rimedio alla crisi tedesca nel libro “Memorie di un mago”.

Un clamoroso pur se non unico, esempio di sconsiderata creazione di moneta venne dato nel 1719 da John Law, uno scozzese che ottenne dal duca d’Orleans, reggente del trono di Francia, l’autorizzazione a fondare la Banque Royale. Il permesso venne accordato in cambio del risanamento, da parte di detta banca, della pesantissima situazione del Tesoro francese. La Banque Royale liquidò in fretta il debito pubblico con l’emissione di banconote da essa create, garantite in oro e argento dalle riserve più fornite della Terra. Tali enormi quantità di metalli preziosi, si diceva, non attendevano altro che di essere portate alla luce dal profondo delle miniere nelle quali si trovavano. Miniere situate in quel favoloso continente di recente scoperta che era l’America.

Law possedeva, naturalmente, il diritto di sfruttamento di tali miniere e le numerose mappe indicavano i luoghi ove esse si trovavano con grande precisione. Non è noto se il proprietario della Banque Royale si sia mai interrogato sulla probabilità dei suoi possedimenti d’oltreoceano. Se anche lo avesse fatto è certo che non andò a controllare di persona. In realtà le famose miniere non erano mai state viste da nessuno (quanto a questo non lo furono neppure in seguito) e le mappe, probabilmente, redatte da qualcuno che del Nuovo Continente non aveva mai messo piede. Nonostante ciò non,solo le banconote di Law godettero di ottima fama, ma pure le azioni della sua banca e della Compagnia dal Mississipi, da lui creata per sfruttare tutta quella ricchezza, conobbero un boom spettacoloso. Law divenne Controllore Generale di Francia; la massima autorità in maniera finanziaria. Nei primi mesi del 1720 cominciarono però a sorgere i primi dubbi. La convenzione del valore della cartamoneta di Law venne

messa rispettosamente in forse Egli allora annunciò candidamente quello che pure Nixon

avrebbe fatto due secoli e mezzo più tardi: la non convertibilità. Cioè nessuno poteva più richiedere oro in cambio delle banconote che possedeva. Statisticamente i responsabili di misure di questo genere non hanno avuto carriera fortunata. Se Richard Nixon fu costretto a dimettersi sia pure per altri motivi, Jonn Law si salvò a stento dalla furia della popolazione di Parigi con una ingloriosa quanto rapida fuga. Si deve comunque ammettere che la manovra dell’ex presidente degli Stati Uniti era meno truffaldina ed egli personalmente non ne trasse gli stessi spropositati guadagni.



Il miracolo economico nazionalsocialista (http://thule-italia.com/wordpress/archives/2240)

Avamposto
07-09-10, 11:29
Il miracolo economico nazionalsocialista







Solitamente si è portati a pensare che gli economisti, a causa della serietà della materia che trattano, siano obbligati a scrivere in maniera particolarmente noiosa e soporifera; la migliore cioè per rendere le loro tesi accettabili e farle considerare importanti. Se il motivo per cui John Maynard Keynes fu tenuto lontano dalle cariche pubbliche risale alla dura critica da lui mossa contro la pace punitiva imposta alla Germania dal trattato di Versailles, sicuramente alcune frasi della Teoria generale (pubblicata nel 1936), ritenute poco serie sia nella forma che nel contenuto, gli peggiorarono, agli occhi dei responsabili dei dicasteri economici, la già traballante reputazione.

Il brano maggiormente incriminato, riferendosi alla disoccupazione seguita alla Grande Crisi, dice: «Se il Ministro del Tesoro riempisse delle bottiglie con banconote, le interrasse a profondità convenuta in vecchie miniere di carbone abbandonate, ricoprisse il tutto fino alla superficie di immondizie e lasciasse alle imprese private, secondo il ben noto principio del laissez-faire, il compito di dissotterrare le banconote (il diritto di fare ciò essendo ottenuto, naturalmente, mediante l’appalto dello sfruttamento del terreno), non ci sarebbe più disoccupazione e, grazie agli effetti secondari, il reddito reale della collettività, e anche il suo capitale, diventerebbe senza dubbio più alto di quanto è attualmente».

J. M. Keynes, “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, pag.129

La soluzione proposta da Keynes era, tutto sommato, perfettamente logica. Presentava, però, il difetto di mandare inevitabilmente in rosso il bilancio dello Stato; ciò che gli economisti “seri”, che di certo non avevano perso il lavoro, come era invece accaduto a milioni di lavoratori americani ed europei, non apprezzavano granché.

Il 10 maggio 1932, un deputato nazionalsocialista, Georg Strasser, in un discorso al Reichstag che verrà pubblicato sotto il titolo Pane e Lavoro, anticipò di quattro anni le tesi keynesiane. «Le necessità della vita», disse, «vengono soddisfatte dal lavoro: cibo, abitazione, vestiti, luce e ri*scaldamento. Il benessere di una nazione sta nel lavoro e non nel capitale: è questo il punto. E perciò quando si tratta del problema della creazione di posti di lavoro lo Stato non deve, mai chiedersi: posseggo il denaro per fare ciò?, ma piuttosto c’è una sola domanda che deve porsi: come devo usare il denaro? C’è sempre abbastanza denaro per creare lavoro e come ultima risorsa si dovrebbe creare credito produttivo (incrementando il disavanzo) che è, in questo caso, economicamente del tutto giustificato».

Ritenere il deficit del bilancio statale un qualcosa di giusto e di apprezzabile era un’idea che nelle più prestigiose università inglesi ed americane avrebbe inibito l’incauto assertore dal proseguire gli studi economici nella maniera più assoluta. La sufficienza con cui venne riguardato il programma economico nazionalsocialista negli ambienti finanziari avrebbe dovuto rientrare completamente in meno di tre anni, prima ancora della pubblicazione della Teoria Generale.

La Germania attraversa, dalla fine della Prima Guerra Mondiale, una crisi profondissima: in balia di una disoccupazione-record, umiliata dalle condizione di pace, costretta a pagare indennità che lo stesso Keynes, un inglese, definì nel 1919, in Le conseguenze economiche della pace, come eccessivamente gonfiate. L’inflazione del 1922-23, che giunse a stabilire il cambio di un dollaro contro quattro miliardi di reichsmarks, lascia come conseguenza, anche quando si attenua, le riserve monetarie della Reich- sbank ridotte al lumicino. Nel 1929, quando il livello di disoccupazione è già alto, la Grande Depressione mette la Germania definitivamente in ginocchio. Le riserve della Banca di Stato passano dai 2.381 milioni di reichsmarks del gennaio ’29 ai 923 milioni dello stesso mese quattro anni dopo, alla vigilia della vittoria elettorale del N.S.D.A.P. La “soluzione” di Brii- ning, del ’31, fu degna del miglior conservatore inglese: riduzione dei redditi e dei prezzi e, nel contempo, aumento delle tasse. La situazione, che già non era rosea, s’incupì ulteriormente. A tutto ciò si aggiungano le conseguenze psicologiche del pesantissimo stato di cose del dopoguerra.

Fermamente deciso a non sottostare alle leggi imposte dall’alta finanza, Hitler riteneva che, dopo l’allontanamento degli speculatori dalla scena economica, fosse possibile dare vita ad un meccanismo economico chiuso, ovvero in grado di trovare in se stesso la forza di alimentarsi, senza, o quasi, connessioni con l’esterno. L’unico combustibile, di cui un tale motore abbisognava, era la fiducia del pubblico; esattamente ciò che nei primi anni trenta, in tutto il mondo, mancava più di ogni altra cosa. Si sarebbe adoperato per fare si che il popolo tedesco la riacquistasse. Il programma che ne segui fu, come già accennato, accolto dal mondo economico e finanziario ufficiale con l’irritazione cui è destinato chiunque voglia quadrare il cerchio, ovvero garantire la piena occupazione a prezzi stabili.

Il 30 gennaio 1933 il Partito Nazionalsocialista vinse con largo margine le elezioni e Adolf Hitler divenne cancelliere del Reich. Immediatamente la ricetta “eretica” venne messa in pratica.

La spinta iniziale fu data dal riassorbimento della disoccupazione ottenuto mediante un imponente piano di opere pubbliche. Hitler prese denaro in prestito e lo spese largamente nell’edilizia pubblica, nella costruzione di canali, ferrovie e, soprattutto, di autostrade.

L’aumentata facilità dei trasporti, sia privati che commerciali, favori l’esplosione dell’economia che in breve si risollevò e costituì la più seria minaccia per l’ormai affermato oligopolio delle corporations statunitensi. Le autostrade, fra l’altro, dettero l’impulso al primo fenomeno europeo di automobile di massa, la Volkswagen, la vettura del popolo, voluta da Hitler personalmente.

Nel giro di tre anni il programma economico nazionalsocialista aveva impiegato quasi due milioni di cittadini del Reich e, grazie agli effetti collaterali, che Keynes più tardi riterrà scontati, altri due milioni e mezzo avevano trovato lavoro nella nuova dinamica del sistema cosi impostato.

Guillebaud, un profondo conoscitore dell’economia nazionalsocialista, descrive il “circuito chiuso” nel seguente modo:«All’origine, le commesse dello Stato forniscono l’offerta di lavoro in un momento in cui la domanda effettiva è quasi paralizzata e il risparmio netto è inesistente; la Reich- sbank fornisce i fondi necessari agli investimenti, gli investimenti mettono i disoccupati al lavoro, il lavoro crea reddito e, di conseguenza, risparmio, grazie al quale il debito a breve termine precedentemente creato può essere finanziato e, in una certa misura, rimborsato».

Come aveva dichiarato Strasser l’anno precedente il denaro per iniziare i lavori fu trovato ma non ci fu bisogno di un mago, anche se il protagonista principale dell’operazione in seguito si autodefinì tale.


L’esperienza più che bimillenaria nella gestione della moneta ha dato ampia dimostrazione di due fatti. Primo: la moneta, specialmente quando è cartacea, si può creare a piacimento; secondo: seguire disinvoltamente questa pratica è estremamente pericoloso e quantomai sconsigliabile.4 Il rimedio nazionalsocialista contro la disoccupazione era, tutto sommato, piuttosto semplice e non si può dire che rappresentasse una grande scoperta. Se manca il lavoro si tratta di crearlo. Tuttavia, se il problema fosse di cosi pronta soluzione, è abbastanza probabile che una buona percentuale di Paesi l’avrebbe adottata fin dai tempi della prima rivoluzione industriale, sia pur contro il parere dei responsabili dei ministeri economici per tradizione scelti accuratamente fra gli uomini politici più incompetenti in ma*teria.

L’altra faccia della medaglia della vasta occupazione era rappresentata dall’aggravarsi dell’inflazione. Questo, almeno, fino alla crisi del ’29. Ci volle Keynes per dimostrare che in un’economia che si preparava a diventare postcapitalistica, disoccupazione ed inflazione potevano benissimo convivere ed anzi andare d’amore e d’accordo. Vi è inoltre da tenere conto della particolare condizione psicologica del cittadino tedesco medio di fronte alla minaccia di una nuova ondata inflattiva, quando ancora le profonde ferite aperte da quella del ’23 non si erano rimarginate completamente.

Gli economisti di sicura ortodossia non prestarono troppa attenzione a ciò che accadeva in Germania. Se l’alto livello di disoccupazione, che veniva accettato nei Paesi di secolare democrazia, condannava milioni di famiglie a vivere di stenti, l’inflazione che “sicuramente” si doveva abbattere sulla Germania avrebbe ridotto enormemente il reddito reale dei lavoratori; il che, per coloro che in Inghilterra e negli Stati Uniti un lavoro ce l’avevano, costituiva un motivo più che valido per non adeguarsi al modello tedesco. Per non parlare, poi, delle critiche cui fu soggetto il forte disavanzo della bilancia dei pa*gamenti del Reich.

Le cause della possibile inflazione avrebbero potuto essere due. La grande massa di denaro posta in circolazione dallo Stato per pagare i lavori da esso commissionati e il giustificabile desiderio degli ex disoccupati di spenderlo immediatamente, sia per mancanza di fiducia nello stesso sia per acquistare tutti quei beni cui avevano dovuto rinunciare per troppo tempo. Al primo problema venne ovviato con i cosiddetti “effetti Me.Fo.”, una sorta di pseudo-denaro garantito dalla Banca di Stato ma con il pregio di non alimentare la massa monetaria nominale e quindi di non influire sulla fiducia del pubblico nel valore della stessa. Fiducia che il nuovo stato nazionalsocialista aveva conquistato immediatamente. L’inflazione, tenuta “sotterranea” nel modo sommariamente descritto, non era percepita ed era pertanto priva degli effetti catastrofici che altrimenti avrebbe avuto. Venne inoltre applicato un rigido controllo sul cambio, che non invogliava all’acquisto di merci di produzione straniera, indirizzandolo, invece, su quelle di produzione tedesca. Oltretutto la crisi aveva provocato una maggior caduta dei prezzi agricoli e delle materie prime, cioè di quei beni di cui la Germania era importatrice, mentre i prezzi dei prodotti finiti, che essa esportava, pur risentendo dell’effetto della depressione, si mantennero relativamente agli altri, molto più alti.

Contemporaneamente l’aumento del reddito della quasi totalità dei lavoratori tendeva a provocare l’aumento dei prezzi interni, cosi nel novembre 1936 venne stabilito un “tetto” sia ai redditi che ai prezzi. Esattamente il contrario della scala mobile. L’effetto fu che il costo della vita, dal 1933 allo scoppio della guerra, rimase praticamente stabile.

Un risultato decisamente unico nel mondo industrializzato. Il “moto perpetuo” era ormai ben avviato. A conferma di ciò, mentre la situazione economica tedesca andava, come si è visto, costantemente migliorando, lo Stato non ebbe più bisogno di investire denaro per creare nuovi posti di lavoro, poiché questi venivano già generati dal sistema economico stesso, senza necessità di alcun intervento esterno. Ormai la fiducia nella moneta era stata pienamente riacquistata, il che comportò la fine della corsa a convertire il denaro appena guadagnato in beni “reali” e, quindi, favori un aumento dei risparmi e il rinsanguamento delle riserve della Reichsbank, quasi azzeratesi nel triennio 1930-32.

Di fronte a queste misure clamorosamente eterodosse e al loro altrettanto clamoroso successo gli economisti dei Paesi democratici, oltre a giudicare artificiale l’esperimento nazionalsocialista, e a predirne il collasso, vollero dare dimostrazione ufficiale della loro scienza consigliando accoratamente a Roosevelt il ritorno al pareggio del bilancio.

Roosevelt, infatti, preoccupato per il riarmo della Germania, oltre che per il suo successo economico, si era visto costretto ad aumentare considerevolmente il budget per le commesse militari, il che non solo aveva il difetto di far calare la disoccupazione (una calamità poiché aggravava l’inflazione), e questo per Roosevelt poteva ancora passare, ma, cosa ben peggiore, mandava in rosso il bilancio federale, fatto che l’opposizione repubblicana avrebbe indubbiamente sfruttato a proprio vantaggio non appena se ne fosse presentata l’occasione. Nel 1937 gli effetti della Grande Depressione iniziarono a mitigarsi. Immediatamente l’ortodossia dell’establishment si fece sentire. Le spese pubbliche (con l’eccezione di quelle militari) furono diminuite e le tasse aumentate. La politica fiscale del Presidente ottenne esattamente il risultato previsto da Keynes. Ne segui un immediato crollo dei titoli e, con esso, delle speranze di ripresa. La disoccupazione tornò ad aumentare.

Non sarebbe stato bene che un economista di Cambridge o un consigliere economico del Presidente avessero riconosciuto la bontà del sistema imposto in Germania, anche perché ciò avrebbe implicato un conseguente giudizio positivo sull’intera dottrina politica nazionalsocialista. Il fatto era che nel Reich le manovre economiche funzionavano tutte mentre, anche quando di analoghe ne venivano adottate negli Stati Uniti, esse lasciavano pur sempre il Paese con quasi dieci milioni di disoccupati. Fu allora che vennero attribuiti a Schacht poteri quasi magici.

Egli, dal 1934, aveva riunito in sé le cariche di Presidente della Reichsbank e di Ministro dell’economia, ovvero nel campo di sua competenza, il potere pressoché assoluto. Tuttavia oltre ad avere avuto compro*missioni con la Repubblica di Weimar, Schacht restava pur sempre un liberale.

Fedele, quindi, alla sua natura politica, una volta risanata l’economia tedesca, iniziò a proporre una serie di misure “conciliatorie” verso i Paesi a democrazia liberale; prime fra tutte l’arresto del riarmo tedesco, da lui indicato ormai come nulla più che una fonte di inflazione. Tecnicamente la proposta era ragionevole.

In presenza di piena occupazione (o comunque una volta instradati verso di essa) le spese dello Stato rischiano di gonfiare eccessivamente e senza alcuna necessità la massa monetaria. Schacht riteneva inoltre opportuno un riaggiustamento del valore del reichsmarck sul mercato dei cambi internazionali, onde favorire le esportazioni degli altri Paesi verso la Germania in cambio del reingresso di questa nel sistema mondiale.

L’economia di un Paese, tuttavia, non è semplicemente soggetta ad una serie di regole tecniche, seguendo le quali si ottiene, quasi fosse un problema scolastico, la soluzione meccanica. Esiste una complessa interazione di equilibri geopolitici dei quali è obbligatorio tenere conto. La Germania aveva fatto la sua scelta radicale rifiutando di sottostare al dominio del dollaro e della sterlina. Si delineava la possibilità del sorgere di un mondo economico parallelo a quello che faceva centro a Londra e a New York e, nei suoi confronti, assolutamente autonomo.

Una simile prospettiva non doveva certo far saltare di gioia i banchieri e i responsabili delle multinazionali, che vedevano sottrarsi ai loro affari una parte del mondo, da essi considerata ormai sotto il loro pieno controllo. Inoltre lo spargersi dell’idea nazionalsocialista (in senso lato, quindi non solo tedesco) faceva presagire la creazione di un blocco economico-politico-militare di cui si supponeva avrebbero fatto parte l’Italia, la Spagna, forse il Giappone e, ovviamente, la Germania, con un ruolo di guida da parte di quest’ultima in ragione delle sue maggiori potenzialità economico-militari. A fianco di questo blocco vi sarebbe stata tutta una schiera di Paesi quali la Romania, l’Ungheria, l’Irlanda, l’Austria, alcuni stati arabi e forse qualcuno sudamericano, in cui una larga parte della popolazione era favorevole ad inserirvisi alla prima occasione e, addirittura, si temeva che esso potesse costituire un punto di appoggio per le istanze nazionali in Francia e in Inghilterra.

Questa miscela di minacce, portate contemporaneamente su tutti e tre i piani geopoliticamente più importanti, non lasciò di certo indifferenti coloro che, favorita la crisi del ’29 per distruggere le piccole e medie imprese, rischiavano ora di trovarsi di fronte ad un’opposizione ben più radicale. Del resto la Germania voleva autenticamente un’indipendenza che non fosse solo formale e nel contempo non accettava di essere utilizzata come gendarme di Wall Street contro il comunismo (a mò di tanti Paesi latinoamericani del dopoguerra) la sua doveva essere una politica di forza. Economicamente e militarmente intesa.

In base a queste considerazioni per il liberale Schacht dal 1936 in poi non vi era più spazio. Egli venne cosi man mano rimpiazzato al vertice dell’economia del Reich da Gòring, il quale si mise subito al lavoro per rendere ancora più spinta l’autosufficienza tedesca, in particolare laddove essa risultava debole. Venne cosi lanciato un piano quadriennale di produzione delle materie prime di sostituzione. Nel frattempo venne fissato il termine del completo riarmo della Germania approssimativamente per il 1942-43 e, nell’ottica della creazione di una “Patria di tutti i tedeschi”, nel 1938 l’Austria venne annessa al Reich. L’Italia fascista dichiarò immediatamente il suo appoggio all’Anschluss; nel frattempo la situazione interna spagnola appariva ormai sufficientemente stabilizzata.

I timori espressi dalle corporation angloamericane e dai Ministeri della Guerra delle democrazie liberali incominciavano ad assumere una dimensione concreta. Il 1° settembre 1939 le truppe del Reich entrarono in Polonia.

Due giorni dopo l’Inghilterra dichiarava guerra alla Germania.

P.M. VIRGILIO

fonte “Heliodromos”, Inverno 1989





C.W.Guillebaud. “The economie recovery of Germany”. pag 61

II supporto tecnico a tutto il sistema economico venne dato da Hjalmar Schacht. Questi, già presidente della Reichsbank negli anni Venti, si dimise dopo l’entrata in vigore del piano Jang ej nonostante le sue convinzioni liberali si schierò con “l’opposizione nazionale” che allora era un coacervo indistinto nel mezzo del quale il NSDAP non era ancora diventato egemone. A capo della banca centrale, al posto di Schacht, venne posto Hans Luthe conservatore e persona incapace di dominare la delicata situazione. I primi contatti fra Schacht e Hitler risalgono al 1931, ampiamente dopo la prima grande impennata elettorale nazionalsocialista, il che porta a sospettare nel banchiere quelle doti di opportunismo politico che egli rivelerà in seguito. Con la vittoria del NSDAP del 1933, Schacht diviene nuovamente presidente della Reichsbank e dopo poco più di un anno ministro dell’economia. Nel dopoguerra spiegherà nei dettagli il suo rimedio alla crisi tedesca nel libro “Memorie di un mago”.

Un clamoroso pur se non unico, esempio di sconsiderata creazione di moneta venne dato nel 1719 da John Law, uno scozzese che ottenne dal duca d’Orleans, reggente del trono di Francia, l’autorizzazione a fondare la Banque Royale. Il permesso venne accordato in cambio del risanamento, da parte di detta banca, della pesantissima situazione del Tesoro francese. La Banque Royale liquidò in fretta il debito pubblico con l’emissione di banconote da essa create, garantite in oro e argento dalle riserve più fornite della Terra. Tali enormi quantità di metalli preziosi, si diceva, non attendevano altro che di essere portate alla luce dal profondo delle miniere nelle quali si trovavano. Miniere situate in quel favoloso continente di recente scoperta che era l’America.

Law possedeva, naturalmente, il diritto di sfruttamento di tali miniere e le numerose mappe indicavano i luoghi ove esse si trovavano con grande precisione. Non è noto se il proprietario della Banque Royale si sia mai interrogato sulla probabilità dei suoi possedimenti d’oltreoceano. Se anche lo avesse fatto è certo che non andò a controllare di persona. In realtà le famose miniere non erano mai state viste da nessuno (quanto a questo non lo furono neppure in seguito) e le mappe, probabilmente, redatte da qualcuno che del Nuovo Continente non aveva mai messo piede. Nonostante ciò non,solo le banconote di Law godettero di ottima fama, ma pure le azioni della sua banca e della Compagnia dal Mississipi, da lui creata per sfruttare tutta quella ricchezza, conobbero un boom spettacoloso. Law divenne Controllore Generale di Francia; la massima autorità in maniera finanziaria. Nei primi mesi del 1720 cominciarono però a sorgere i primi dubbi. La convenzione del valore della cartamoneta di Law venne

messa rispettosamente in forse Egli allora annunciò candidamente quello che pure Nixon

avrebbe fatto due secoli e mezzo più tardi: la non convertibilità. Cioè nessuno poteva più richiedere oro in cambio delle banconote che possedeva. Statisticamente i responsabili di misure di questo genere non hanno avuto carriera fortunata. Se Richard Nixon fu costretto a dimettersi sia pure per altri motivi, Jonn Law si salvò a stento dalla furia della popolazione di Parigi con una ingloriosa quanto rapida fuga. Si deve comunque ammettere che la manovra dell’ex presidente degli Stati Uniti era meno truffaldina ed egli personalmente non ne trasse gli stessi spropositati guadagni.



Il miracolo economico nazionalsocialista (http://thule-italia.com/wordpress/archives/2240)

Majorana
27-06-11, 20:01
Hitler imitò il sistema monetario di Lincoln
di Ellen Brown

“Non siamo stati così sciocchi da creare una valuta collegata all’oro, di cui non abbiamo disponibilità, ma per ogni marco stampato abbiamo richiesto l’equivalente di un marco in lavoro o in beni prodotti. Ci viene da ridere tutte le volte che i nostri finanzieri nazionali sostengono che il valore della valuta deve essere regolato dall’oro o da beni conservati nei forzieri della banca di stato“. (Adolf Hitler, citato in Hitler’s Monetary System, Jeff Rense Program (http://www.rense.com), che riprende C.C.Veith, Citadels of Chaos, Meador, 1949). Quello di Guernsey (politico del Minnesota, ndr), non fu dunque l’unico governo a risolvere i propri problemi infrastrutturali stampando da solo la propria moneta. Un modello assai più noto si può trovarlo nella Germania uscita dalla Prima Guerra Mondiale. Quando Hitler arrivò al potere, il Paese era completamente, disperatamente, in rovina.

http://ilgraffionews.files.wordpress.com/2010/04/germania_1919.jpg?w=459&h=278

Il Trattato di Versailles aveva imposto al popolo tedesco risarcimenti che lo avevano distrutto, con i quali si intendeva rimborsare i costi sostenuti nella partecipazione alla guerra per tutti i Paesi belligeranti. Costi che ammontavano al triplo del valore di tutte le proprietà esistenti nella Germania. La speculazione sul marco tedesco aveva provocato il suo crollo, affrettando l’evento di uno dei fenomeni d’inflazione più rovinosi della modernità. Al suo apice, una carriola piena di banconote, per l’equivalente di 100 miliardi di marchi, non bastava a comprare nemmeno un tozzo di pane. Le casse dello Stato erano vuote ed enormi quantità di case e di fattorie erano state sequestrate dalle banche e dagli speculatori. La gente viveva nelle baracche e moriva di fame. Nulla di simile era mai accaduto in precedenza: la totale distruzione di una moneta nazionale, che aveva spazzato via i risparmi della gente, le loro attività e l’economia in generale. A peggiorare le cose arrivò, alla fine del decennio, la depressione globale. La Germania non poteva far altro che soccombere alla schiavitù del debito e agli strozzini internazionali. O almeno così sembrava.
Hitler e i Nazional-Socialisti, che arrivarono al potere nel 1933, si opposero al cartello delle banche internazionali iniziando a stampare la propria moneta. In questo presero esempio da Abraham Lincoln, che aveva finanziato la Guerra Civile Americana con banconote stampate dallo Stato, che venivano chiamate “Greenbacks“. Hitler iniziò il suo programma di credito nazionale elaborando un piano di lavori pubblici. I progetti destinati a essere finanziati comprendevano le infrastrutture contro gli allagamenti, la ristrutturazione di edifici pubblici e case private e la costruzione di nuovi edifici, strade, ponti, canali e strutture portuali. Il costo di tutti questi progetti fu fissato a un miliardo di di unità della valuta nazionale. Un miliardo di biglietti di cambio non inflazionati, chiamati Certificati Lavorativi del Tesoro. Questa moneta stampata dal governo non aveva come riferimento l’oro, ma tutto ciò che possedeva un valore concreto. Essenzialmente si trattava di una ricevuta rilasciata in cambio del lavoro e delle opere che venivano consegnate al governo. Hitler diceva: “Per ogni marco che viene stampato, noi abbiamo richiesto l’equivalente di un marco di lavoro svolto o di beni prodotti“. I lavoratori spendevano poi i certificati in altri beni e servizi, creando lavoro per altre persone.
Nell’arco di due anni, il problema della disoccupazione era stato risolto e il Paese si era rimesso in piedi. Possedeva una valuta solida e stabile, niente debito, niente inflazione, in un momento in cui negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali erano ancora senza lavoro e vivevano di assistenza. La Germania riuscì anche a ripristinare i suoi commerci con l’estero, nonostante le banche estere negassero credito e dovesse fronteggiare un boicottaggio economico internazionale. Ci riuscì utilizzando il sistema del baratto: beni e servizi venivano scambiati direttamente con gli altri paesi, aggirando le banche internazionali. Questo sistema di scambio diretto avveniva senza creare debito nè deficit commerciale. L’esperimento economico della Germania lasciò alcuni durevoli monumenti al suo processo, come la famosa Autobahn, la prima rete del mondo di autostrate a larga estensione.
Di Hjalmar Schacht, che era all’epoca a capo della banca centrale tedesca, viene spesso citato un motto che riassume la versione tedesca del miracolo del “Greenback”. Un banchiere americano gli aveva detto: “Dottor Schacht, lei dovrebbe venire in America. Lì abbiamo un sacco di denaro ed è questo il vero modo di gestire un sistema bancario“. Schacht replicò: “Lei dovrebbe venire a Berlino. Lì non abbiamo denaro. E’ questo il vero modo di gestire un sistema bancario” (John Weitz, Hitler’s Banker Warner Books, 1999).
Benchè Hitler sia citato con infamia nei libri di storia, egli fu popolare presso il popolo tedesco. Stephen Zarlenga, in The Lost Science of Money, afferma che ciò era dovuto al fatto che egli salvò la Germania dalle teorie economiche inglesi. Le teorie secondo le quali il denaro deve essere scambiato sulla base delle riserve aurifere in possesso di un cartello di banche private piuttosto che stampato direttamente dal governo. Secondo il ricercatore canadeseHenry Makow, questo fu probabilmente il motivo principale per cui Hitler doveva essere fermato; egli era riuscito a scavalcare i banchieri internazionali e creare una propria moneta. Makow cita un interrogatorio del 1938 di C.G.Rakowsky, uno dei fondatori del bolscevismo sovietico e intimo di Trotzky, che finì sotto processo nell’URSS di Stalin. Secondo Rakowsky, “[Hitler] si era impadronito del privilegio di fabbricare il denaro, e non solo il denaro fisico, ma anche quello finanziario; si era impadronito dell’intoccabile meccanismo della falsificazione e lo aveva messo a lavoro per il bene dello Stato. Se questa situazione fosse arrivata a infettare anche altri Stati, potete ben immaginare le implicazioni controrivoluzionarie” (Henry Makow, “Hitler Did Not Want War”, Barons Brewing Co (http://www.savethemales.com)).
L’economista inglese Henry C.K.Liu ha scritto sull’incredibile trasformazione tedesca: “I nazisti arrivarono al potere in Germania nel 1933, in un momento in cui l’economia era al collasso totale, con rvinosi obblighi di risarcimento postbellico e zero prospettive per il credito e gli investimenti stranieri. Eppure, attraverso una politica di sovranità monetaria indipendente e un programma di lavori pubblici che garantiva la piena occupazione, il Terzo Reich riuscì a trasformare una Germania in bancarotta, privata perfino di colonie da poter sfruttare, nell’economia più forte d’Europa, in soli quattro anni, ancor prima che iniziassero le spese per gli armamenti“. In Billions for the Bankers, Debts for the People (Miliardi per le Banche, Debito per i Popoli, 1984), Sheldon Hemry commenta: “Dal 1935 in poi, la Germania iniziò a stampare una moneta libera dal debito e dagli interessi, ed è questo che spiega la sua travolgente ascesa dalla depressione alla condizione di potenza mondiale in soli 5 anni. La Germania finanziò il proprio governo e tutte le operazioni belliche, dal 1935 al 1945, senza aver bisogno di oro nè debito, e fu necessaria l’unione di tutto il mondo capitalista e comunista per distruggere il potere della Germania sull’Europa e riportare l’Europa sotto il tallone dei banchieri“.
L’IPERINFLAZIONE DI WEIMAR
Nei testi moderni si parla della disastrosa inflazione che colpì nel 1923 la Repubblica di Weimar (nome con cui è conosciuta la repubblica che governò la Germania dal 1919 al 1933). La radicale svalutazione del marco tedesco è citata nei testi come esempio di ciò che può accadere quando ai governi viene conferito il potere incontrollato di stampare da soli la propria moneta. Questo è il motivo per cui viene citata, ma nel complesso mondo dell’economia le cose non sono come sembrano. La crisi finanziaria di Weimar ebbe inizio con gli impossibili obblighi di risarcimento imposti dal Trattato di Versailles.
Schacht, che all’epoca era il responsabile della zecca della repubblica, si lamentava: “Il Trattato di Versailles è un ingegnoso sistema di provvedimenti che hanno per fine la distruzione economica della Germania. Il Reich non è riuscito a trovare un sistema per tenersi a galla diverso dall’espediente inflazionistico di continuare a stampare banconote“. Questo era quello che egli dichiarava all’inizio. Ma Zarlenga scrive che Schacht, nel suo libro del 1967 The Magic of Money, decise “di tarar fuori la verità, scrivendo in lingua tedesca alcune notevoli rivelazioni che fanno a pezzi la saggezza comune propagandata dalla comunità finanziaria riguardo all’iperinflazione tedesca“. Schacht rivelò che era la Banca del Reich, posseduta da privati, e non il governo tedesco che pompava nuova valuta all’economia. Nel meccanismo finanziario conosciuto come vendita a breve termine, gli speculatori prendono in prestito qualcosa che non possiedono, la vendono e poi “coprono” le spese ricomprandola a prezzo inferiore. La speculazione sul marco tedesco fu resa possibile dal fatto che la Banca del Reich rendeva disponibili massicce quantità di denaro liquido per i prestiti, marchi che venivano creati dal nulla annotando entrate sui registri bancari e poi prestati ad interessi vantaggiosi.
Quando la Banca del Reich non riuscì più a far fronte alla vorace richiesta di marchi, ad altre banche private fu permesso di crearli dal nulla e di prestarli, a loro volta, a interesse. Secondo Schacht, quindi, non solo non fu il governo a provocare l’iperinflazione di Weimar, ma fu proprio il governo che la tenne sotto controllo. Alla Banca del Reich furono imposti severi regolamenti governativi e vennero prese immediate misure correttive per bloccare le speculazioni straniere, eliminando la possibilità di facile accesso ai prestiti del denaro fabbricato dalle banche. Hitler poi rimise in sesto il paese con i suoi Certificati del Tesoro, stampati dal governo su modello del Greenback americano. Schacht disapprovava l’emissione di moneta da parte del governo e fu rimosso dal suo incarico alla Banca del Reich quando si rifiutò di sostenerlo (cosa che probabilmente lo salvò dal processo di Norimberga). Ma nelle sue memorie più tarde, egli dovette riconoscere che consentire al governo di stampare la moneta di cui aveva bisogno non aveva prodotto affatto l’inflazione prevista dalla teoria economica classica. Teorizzò che essa fosse dovuta al fatto che le fattorie erano ancora inoperose e la gente senza lavoro. In questo si trovò d’accordo con John Maynard Keynes: quando le risorse per incrementare la produzione furono disponibili, aggiungere liquidità all’economia non provocò affatto l’aumento dei prezzi; provocò invece la crescita dei beni e di servizi. Offerta e domanda crebbero di pari passo, lasciando i prezzi inalterati. (da Webofdebt)

Majorana
06-08-11, 21:01
http://www.dailymotion.com/video/xgycqu_i-banchieri-internazionali-scatenarono-la-ii-guerra-mondiale_news]Dailymotion - I Banchieri internazionali scatenarono la II Guerra Mondiale - Actu et Politique

Freikorp88
26-07-12, 10:41
Discussione da salvare e studiare attentamente.

Interessantissimi gli articoli inseriti, uno meglio dell'altro da quanto ho potuto vedere ad una prima occhiata.

Sull sistema economico nazionalsocialista si conosce poco e ancora meno si ha interesse a far conoscere.

E invece sono convinto che se applicate le stesse ricette utilizzate dal partito nazionalsocialista nella Germania degli anni trenta sarebbero validissime pure oggi per uscire da questa crisi mondiale.

Avanguardia
26-07-12, 12:58
Discussione da salvare e studiare attentamente.

Interessantissimi gli articoli inseriti, uno meglio dell'altro da quanto ho potuto vedere ad una prima occhiata.

Sull sistema economico nazionalsocialista si conosce poco e ancora meno si ha interesse a far conoscere.

E invece sono convinto che se applicate le stesse ricette utilizzate dal partito nazionalsocialista nella Germania degli anni trenta sarebbero validissime pure oggi per uscire da questa crisi mondiale.
Ne sono convinto io pure. L' attacco delle plutocrazie al Terzo Reich era dovuto alla paura del contaggio della "terza via" nazifascista.

Freezer
26-07-12, 22:53
Il Terzo Reich io lo vedo come uno stato etico, adesso lo stato deve essere laico, neutro, ma così diventa solo un tritacarne in mano ai banchieri.

Kavalerists
01-08-12, 21:33
Ne sono convinto io pure. L' attacco delle plutocrazie al Terzo Reich era dovuto alla paura del contaggio della "terza via" nazifascista.

"L' imperdonabile crimine della Germania, prima della seconda guerra mondiale, fu il suo tentativo di svincolare il suo potere economico dal sistema commerciale mondiale, e di creare un proprio meccanismo di scambio che avrebbe negato al mondo finanziario la sua opportunità di profitto".
- Winston Churchill
Forse l'unica verità detta dal personaggio più infame del secolo scorso.



Il Terzo Reich io lo vedo come uno stato etico, adesso lo stato deve essere laico, neutro, ma così diventa solo un tritacarne in mano ai banchieri.

Non penso che i termini laico ed etico siano necessariamente in contraddizione. L'etica non è e non deve essere esclusivamente di matrice religiosa.

Freezer
01-08-12, 22:56
"L' imperdonabile crimine della Germania, prima della seconda guerra mondiale, fu il suo tentativo di svincolare il suo potere economico dal sistema commerciale mondiale, e di creare un proprio meccanismo di scambio che avrebbe negato al mondo finanziario la sua opportunità di profitto".
- Winston Churchill
Forse l'unica verità detta dal personaggio più infame del secolo scorso.




Non penso che i termini laico ed etico siano necessariamente in contraddizione. L'etica non è e non deve essere esclusivamente di matrice religiosa.
Il mio è il punto di vista di un credente,non riesco a scindere le due cose ;) , specie in episodi del passato che per me hanno propio rappresentato uno scontro Bene - male .

Kavalerists
01-08-12, 23:14
Il mio è il punto di vista di un credente,non riesco a scindere le due cose ;) , specie in episodi del passato che per me hanno propio rappresentato uno scontro Bene - male .

L'avevo capito che sei credente e rispetto il tuo punto di vista

CON LA PALESTINA
07-08-12, 00:22
"L' imperdonabile crimine della Germania, prima della seconda guerra mondiale, fu il suo tentativo di svincolare il suo potere economico dal sistema commerciale mondiale, e di creare un proprio meccanismo di scambio che avrebbe negato al mondo finanziario la sua opportunità di profitto".
- Winston Churchill
Forse l'unica verità detta dal personaggio più infame del secolo scorso.







Grandissimo intervento Kavalerists.

E straordinaria citazione di quel maiale grasso e ubriacone da strapazzo di Churchill.

CON LA PALESTINA
07-08-12, 00:24
Il mio è il punto di vista di un credente,non riesco a scindere le due cose ;) , specie in episodi del passato che per me hanno propio rappresentato uno scontro Bene - male .

Fu uno scontro effettivamente metapolitico quello che avvenne in Europa 70 anni fa.

Due concezioni del mondo, due idee del mondo, due modi di percepire l'individuo e il suo sviluppo completamente antitetiche: da una parte i Fascismi dall'altra le democrazie capitaliste e il bolscevismo entrambe basate sul materialismo, l'egoismo, la barbarie sociale e la tirannia delle macchine e della tecnica contro l'uomo.