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Visualizza Versione Completa : La battaglia degli Altipiani 15 maggio – 27 giugno 1916



carter
02-01-17, 10:22
La battaglia degli Altipiani (http://www.warfare.it/campi/strafexpedition.html)



Strafexpedition, in tedesco “spedizione punitiva”: gli ufficiali austro-ungarici chiamano così nelle loro conversazioni riservate l’offensiva che il generale Franz Conrad von Hötzendorf sta per scatenare sul fronte trentino in quella Primavera del 1916. Lo riferiscono i disertori in uniforme grigio-azzurra che, all’addensarsi della tempesta, attraversano la terra di nessuno e si consegnano agli italiani. Forse è solo una voce propagandistica studiata a tavolino dal generale Luigi Cadorna negli uffici del Comando Supremo a Udine, per infiammare di sdegno gli animi dei suoi soldati. Non c’è traccia, infatti, di quello sprezzante appellativo nei documenti ufficiali dell’Esercito imperial-regio. Ma, verità o diceria, qualcosa bolle in pentola, e certo tra gli austro-ungarici il sentimento anti-italiano è vivissimo, varcando abbondantemente la soglia del disprezzo. L’Italia ha tradito vergognosamente il patto della Triplice alleanza con un “machiavellico” voltafaccia, una vile pugnalata alla schiena che merita una punizione esemplare. Questo l’animo dell’opinione pubblica austriaca: poco importa che quel patto fosse stato rivisto e corretto dalle diplomazie in numerose occasioni fino a perdere negli anni tutto il suo valore originario. Un patto, oltretutto, che lo stesso Conrad non avrebbe esitato a violare nel 1911, chiedendo al suo governo l’autorizzazione ad attaccare l’Italia quando questa entrò in guerra contro l’Impero ottomano. Franz Conrad aveva maturato l’idea di un attacco preventivo all’Italia dal Trentino quando dal 1903 al 1906 aveva guidato la divisione di fanteria di stanza in Tirolo. Lui stesso, appassionato di alpinismo, aveva esplorato le montagne per trasformarle in un campo di battaglia. Nel 1911 quella proposta, tanto spregiudicata quanto politicamente inopportuna, gli era costata (temporaneamente) il ruolo di capo di stato maggiore dell’esercito imperial-regio, ma ora che l’imperatore Francesco Giuseppe lo aveva richiamato al massimo vertice e che la guerra era in atto, i suoi piani potevano trovare finalmente realizzazione. Sfondare la linea italiana sull’altopiano di Asiago irrompendo nella Pianura veneta a Vicenza significa chiudere in una sacca le centinaia di migliaia di soldati italiani che prendono a spallate le truppe austriache sull’Isonzo e sulle Dolomiti: sconfiggendo La Prima Armata si prendevano prigioniere la Seconda, la Terza e la Quarta, e si costringeva l’Italia alla resa. Per l’Austria, duramente impegnata su troppi fronti e soprattutto preoccupata della situazione in Galizia contro i Russi, riuscire a liberarsi della spina nel fianco rappresentata dall’Italia accendeva la speranza di non venire schiacciata dal conflitto.

Ma se la geografia offriva all’Austria un’opportunità di grande valore strategico, ben altro discorso era riuscire ad approfittarne, perché sempre la geografia descriveva l’Altopiano di Asiago (detto anche dei Sette Comuni) come un campo di battaglia decisamente ostile. Un massiccio di forma quadrangolare, delimitato da ripide scarpate, tra i fiumi Brenta e Astico, largo 25 km in senso Est-Ovest e profondo più di 30 da Nord a Sud, con 20 cime oltre i 2.000 metri concentrate nel suo lato settentrionale che forma un primo altopiano. Superandolo si entra nella sua frastagliata conca centrale, il secondo altopiano, dove l’altezza media è di 1.000 metri. Uno dei luoghi più freddi delle Alpi, con punte di -30º in Inverno e 2 metri in media di neve, ma dove l’acqua è scarsa perché la natura carsica del suolo se la inghiotte.
Eppure Conrad è convinto di poterlo superare. Già a fine 1915 sottopose il progetto al suo omologo tedesco Erich von Falkenhayn per ottenere da lui il sostegno ritenuto necessario: fino a nove divisioni tedesche di prima linea con la loro potente artiglieria per arrivare a un totale ideale di 25 o almeno di 20. Von Falkenhayn espresse subito le proprie perplessità sostanziali: un’offensiva di quell’entità in territorio alpino sarebbe stata troppo soggetta agli imprevisti tipici della guerra in montagna per offrire sufficienti garanzie di riuscita. L’apparato logistico necessario a tenere in vita l’azione di un numero tanto grande di truppe semplicemente non poteva reggere alla prova. Una frana, un guasto, un fiume in piena e tutto si sarebbe bloccato con conseguenze catastrofiche. C’era poi un ostacolo politico: la Germania non era in guerra con l’Italia e aggredirla avrebbe significato ovviamente modificare questo comodo status di indifferenza reciproca, senza alcun beneficio per il Reich. Ma c’era poi un ulteriore motivo che toccava direttamente gli interessi strategici tedeschi, ed era probabilmente la principale ragione del rifiuto di quei rinforzi. Von Falkenhayn stava programmando la gigantesca offensiva contro Verdun, fiducioso di riuscire con essa a “dissanguare” a morte la Francia. I preparativi per quella operazione, che sarebbe scattata il 21 febbraio, erano già iniziati e il comandante tedesco non poteva privarsi nemmeno di una delle sue divisioni, non parliamo di nove, per bruciarle su un fronte secondario come quello italiano, oltretutto in un’impresa che riteneva destinata al fallimento. Consigliò dunque a Conrad senza mezzi termini, peggiorando ancora il rapporto già sufficientemente conflittuale con lui, di rimanersene tranquillamente in difensiva sulle sue ottime posizioni dominanti sulle Alpi.

Il comando austriaco, però, aveva già preso la sua decisione, e anche se forse gli austriaci non pronunciarono mai la parola “Strafexpedition”, l’astio contro l’Italia, congiunto a una scarsa considerazione per la combattività delle sue truppe, rivestì un peso non trascurabile. Comunque, la fiducia di Conrad di poter ottenere una vittoria contando sulle sue sole forze è forse eccessiva, ma non completamente infondata. Anche se non ha esperienze di combattimento precedenti al 1914, è considerato, a ragione, il miglior teorico e stratega dell’esercito di Francesco Giuseppe e, con un po’ di esagerazione, uno dei migliori dell’epoca: il suo è un rischio calcolato. Le truppe austro-ungariche hanno resistito a ben 5 offensive italiane sul fronte dell’Isonzo, con arretramenti di scarsa importanza: questi successi hanno innalzato il loro morale e la loro fiducia. In Galizia e in Serbia, poi, la situazione si è stabilizzata e le crisi dei mesi precedenti sembrano ormai passate. È quindi possibile sottrarre a questi fronti le truppe necessarie a un’offensiva, sostituendole con unità di seconda linea o, semplicemente, indebolendo numericamente i dispositivi.

Si potrà così concentrare nel Tirolo meridionale 14 divisioni, costituendo due armate per quasi 160.000 uomini (con altri 200.000 addetti ai servizi nelle retrovie) e un numero di cannoni talmente alto da annichilire qualsiasi resistenza. E in quanto ad artiglierie, Conrad ha un vero asso nella manica. Sul fronte del Carso ha sperimentato con successo l’utilizzo di trattori per la movimentazione dei grossi calibri, mentre gli italiani ancora spostano i loro con carri trainati da buoi. I mezzi meccanici riusciranno a portare sulla linea del fronte in Tirolo 8 mostruosi mortai da 30,5 cm, e 3 ancora più terribili obici da 42 cm (l’equivalente austriaco della famosa Grosse Bertha tedesca): armi che pesano rispettivamente 21 e 105 tonnellate e sparano proiettili da 4 e 10 quintali, capaci di ridurre qualsiasi fortificazione nemica in un cumulo di macerie. In tutto quasi 2.000 bocche da fuoco (di cui un quarto pesanti) con le quali gli italiani assaggeranno per la prima volta il bombardamento di artiglieria “a tappeto”: il fuoco simultaneo su un’area estesa che chiude in una gabbia di distruzione senza scampo le forze nemiche presenti.

I preparativi per l’offensiva iniziano nel febbraio del 1916: il Tirolo si trasformerà in un formicaio brulicante di soldati ansiosi di passare all’azione. L’impresa è titanica, ma Conrad si dimostra un ottimo organizzatore e, nonostante il freddo intenso di quell’inverno e neve alta da 2 a 4 metri, i preparativi procedono con energia e tenacia, mantenendo alto il morale delle truppe. La sfida logistica non spaventa gli austriaci, ma la montagna è un oste che non manca mai di presentare i suoi conti: nevica anche a marzo e ad aprile, le prevedibili difficoltà ambientali sotto forma di valanghe e frane che bloccano per giorni le lunghe colonne di uomini e mezzi non tardano a manifestarsi, e l’avvio dell’offensiva deve essere rimandato, settimana dopo settimana, fino a metà maggio.

Un apparato militare di quella entità difficilmente passa inosservato e i ritardi e gli intoppi non aiutano certo gli austriaci a mantenere segreta la loro presenza in Tirolo.
E infatti gli italiani già dal febbraio iniziano a ricevere segnali inequivocabili di un’insolita attività nemica. Disertori, come abbiamo visto, ma non solo: Conrad cerca di far marciare le sue truppe per vie nascoste alla vista delle cime italiane, ma interruzioni dei percorsi obbligano a deviazioni che portano le colonne e i fumi degli automezzi a portata di binocolo delle vedette in grigioverde.

L’effetto sorpresa è perso, ma non del tutto. Cadorna conosce le difficoltà della guerra in montagna e semplicemente non riesce a credere che i suoi avversari possano realizzare l’impossibile. Sta per cominciare la più grande battaglia in montagna di quella guerra e di ogni tempo: la più grande battaglia di montagna di una guerra combattuta per quattro quinti in montagna. Gli asini non volano, e anche se ne vedessimo uno coi nostri occhi volarci sopra le teste penseremmo come prima cosa ad un trucco. Così Cadorna e i vertici militari italiani. Gli austriaci secondo loro stanno solo organizzando un’offensiva limitata, che cerca di distrarre la loro attenzione dal fronte isontino dove si sta preparando una sesta grande offensiva contro Gorizia.
C’è poi un’anomalia nei rapporti di intelligence che arrivano ai comandi italiani: dal fronte giungono copiosi segnali allarmanti, mentre le spie a Vienna non hanno nulla da segnalare. Sono due canali informativi paralleli che dovrebbero convergere nel Comando Supremo per essere sottoposti a un confronto e a una valutazione. Negli uffici di Udine, però, si ripone maggiore fiducia alle fonti riservate, ai rapporti personali, ai sussurri nei corridoi della corte asburgica, e se questi tacciono significa che c’è poco di cui preoccuparsi. Persino gli alleati dell’Italia sono scettici sull’eventualità di un’azione sul fronte trentino: dove potrebbero mai prendere le truppe necessarie gli austro-ungarici? Sguarnirebbero il fronte galiziano contro la Russia rischiando il disastro solo per dare una lezione agli italiani? Sono capaci di un simile azzardo?
La prudenza non è mai troppa, però, e Cadorna, proprio in vista della Sesta battaglia sull’Isonzo, non vuole fastidi alle sue spalle: il 22 marzo invia dunque l’ordine al generale Roberto Brusati, comandante della I Armata, di abbandonare il terreno conquistato e di ripiegare sulle “posizioni principali di resistenza” assumendo una disposizione strettamente difensiva. Con Cadorna non è facile discutere, non è propriamente un leader che dia particolare ascolto alle opinioni diverse dalle sue, e Brusati non pensa di poter far valere col “generalissimo” le proprie ragioni. In realtà le conquiste della I Armata hanno ridotto l’estensione del fronte di un buon 40%: e questo è un beneficio non trascurabile per uno schieramento difensivo. D’altro canto il fronte italiano ora corre addossato a montagne dominate dagli austriaci, senza lo spazio di manovra necessario a un’efficace azione di difesa. Così Brusati, che pure è personalmente convinto dell’imminenza della Strafexpedition, “interpreta” gli ordini ricevuti e lascia la I Armata dov’è, in maggioranza in prima linea, pronta ad attaccare ancora, semmai, per guadagnarsi sulle montagne che ha di fronte posizioni difensive sempre migliori. Anzi, a questo scopo chiede insistentemente a Cadorna ulteriori truppe arrivando a circa 110.000 effettivi. Alle sue spalle rinforza per sicurezza alcuni capisaldi, ma siamo ben lontani da quella seconda e terza linea ininterrotte e organiche di una difesa in profondità che si rispetti. In caso di ripiegamento molto dovrà essere improvvisato, con risultati che è facile prevedere saranno un’incognita.
Ai primi di maggio Cadorna visita il fronte. Da giorni sulla linea italiana cadono isolati colpi di artiglieria, alcuni dei quali di inusitata potenza: sono i tiri di aggiustamento che preludono al prossimo bombardamento d’attacco. È un altro indizio che va ad aggiungersi a quelli precedenti, ma ancora Cadorna non crede a un pericolo imminente e continua a sospettare sia solo un inganno orchestrato dagli austriaci per fargli rimandare la prossima offensiva sull’Isonzo. Tuttavia riscontra di persona come Brusati abbia “interpretato” i suoi ordini con eccessiva libertà e lo esautora dal comando, sostituendolo con il generale Guglielmo Pecori Giraldi: questi avrà solo una settimana di tempo per ambientarsi prima che su quelle montagne si scateni la tempesta annunciata. Lascerà la I Armata dov’è perché sa di non avere il tempo materiale per spostarla più indietro.






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Il piano di battaglia austro-ungarico è semplice, né potrebbe essere diversamente visto le scenario in cui si svolgerà: le due armate si schiereranno l’una dietro l’altra: l’11ª Armata, con 7 divisioni, effettuerà lo sfondamento, la 3ª, con altre 7 divisioni, lo amplierà e gli darà profondità.

L’ala destra austriaca, costituita dall’VIII corpo, partendo da Rovereto deve percorrere la Vallarsa puntando sul passo di Pian delle Fugazze, e da qui scenderà verso Schio diretta a Thiene. Al centro agiranno due corpi: il XX schierato tra Lavarone e Luserna si farà strada sull’Altipiano di Asiago e per la Val d’Astico, puntando su Arsiero e Thiene: il III, attraversando il Passo di Vezzena, si dirigerà su Asiago. Infine l’ala sinistra con il XVII corpo (che apparteneva però alla 3ª armata) partendo da Borgo percorrerà la Valsugana seguendo il corso del fiume Brenta fino a Cismon.

Il 15 maggio alle 6 del mattino i cannoni austriaci iniziano la loro opera distruttrice contro le principali fortificazioni italiane. 120 sono pesanti, ovvero dai 24 ai 42 cm di calibro, e in tre ore di fuoco intenso trasformano il paesaggio aprendo nel terreno voragini profonde anche 8 metri, scagliando per lungo raggio letali schegge di roccia.
Dopo un’ora di pausa, alle 10 scatta il via per le fanterie. Lo shock del bombardamento ha annichilito le truppe italiane: alcune unità semplicemente non esistono più, altre si arrendono, altre ancora combattono con una caparbietà che stupisce gli austriaci. Ma anche queste prove di eroismo non possono durare, perché la superiorità numerica del nemico è schiacciante e perché i rinforzi non arrivano. Ma nemmeno ci si può ritirare, perché non si saprebbe dove andare: gli ufficiali non hanno ordini e nessuno glieli fa arrivare.

Cadorna ha sottovalutato il nemico, ma in questa occasione il nemico ha anche sottovalutato Cadorna. Il comandante in capo italiano è gelido, impenetrabile, accentratore, inflessibile: questo carattere che tanto ha influito sull’attuale, disastrosa situazione lo aiuterà anche ad uscirne. Se intorno a lui ormai è il panico, se l’opinione pubblica italiana è profondamente scossa dall’invasione del “sacro suolo della Patria”, lui sa rimanere impassibile e concentrato nel suo ruolo e nelle sue responsabilità. Assume direttamente il comando del fronte riorganizzando la difesa e inizia ad emanare gli ordini necessari alla formazione di una nuova estemporanea Quinta Armata prelevando le migliori unità dal fronte dell’Isonzo, da ogni parte d’Italia e persino dalla Libia e dall’Albania. L’apparato logistico italiano fa miracoli portando in pochi giorni decine di migliaia di uomini da un fronte all’altro, prima in treno e poi in camion, un’impresa ricordata dalla festa dell’Arma dei Trasporti e Materiali dell’Esercito italiano che si svolge tradizionalmente il 22 maggio.

La V armata si schiera in pianura per fermare gli austriaci se dovessero riuscire a scendere dall’Altopiano di Asiago, ma anche pronta a passare al contrattacco. In montagna la battaglia prosegue senza sosta. Gli austriaci continuano ad avanzare, ma ogni giorno che passa, ogni metro conquistato, le difficoltà aumentano anziché diminuire. Da un lato la resistenza italiana si fa sempre più decisa, dall’altro le difficoltà della logistica crescono in modo esponenziale. Il munizionamento di artiglieria, dopo i primi giorni, già inizia a scarseggiare. Gli arsenali sono vuoti e le magre finanze dell’Impero asburgico non possono riempirli. Per altro, anche se le munizioni fossero disponibili nel numero sufficiente a proseguire i bombardamenti con l’intensità necessaria, la linea del fronte, ormai, si è distanziata oltre la portata iniziale dei cannoni pesanti, che su quel terreno sono difficili da spostare e persino da schierare in batteria, mentre i calibri più maneggevoli e capaci di seguire le fanterie contendono ad esse il magro carico che è possibile trasportare sui sentieri di montagna. Pane o proiettili? O tacciono i cannoni o gli uomini si devono accontentare, finché ne hanno, della dura galletta che portano nel tascapane.

Le condizioni ambientali sono durissime. Il freddo è intenso nonostante la Primavera inoltrata, tanto che le zone più fredde sono ancora coperte di neve, e gli uomini ci scavano dentro le trincee. Dove non c’è la neve, invece, si muore di sete perché non si può nemmeno scioglierla per dissetarsi: non c’è acqua sull’altopiano e anche quella deve arrivare coi trasporti. In questo gelido inferno gli uomini si affrontano con uguale disperata ferocia. Conrad sta iniziando probabilmente a riconsiderare la propria opinione sulla combattività degli italiani. L’inattesa resistenza delle unità superstiti della I Armata inizia a evidenziare i difetti del piano strategico di Conrad. I primi, come abbiamo appena visto riguardano una generale sottovalutazione degli avversari e delle condizioni ambientali, con le ripercussioni sulla logistica. Di fatto lo sfondamento e la discesa nella pianura veneta avrebbe dovuto essere molto più veloce, anticipando le contromisure improvvisate da Cadorna, per poter avere il successo. A questo scopo potevano tornare utili le nove divisioni tedesche richieste da Conrad, sempre che si riuscissero a risolvere i problemi logistici, destinati a crescere più che proporzionalmente all’aumentare delle truppe coinvolte. Ma c’è anche un difetto di concezione: quattro direttrici di attacco praticamente parallele e indipendenti l’una dall’altra suggeriscono una grave indecisione strategica che affida al caso la riuscita di un’operazione di questa portata.

Troppo pochi, troppo deboli, troppo indecisi: col senno di poi possiamo spenderci in un giudizio. In quei giorni però si insanguinavano le montagne e tutta l’Italia guardava con costernazione l’avanzata del nemico: tra il 27 e il 28 maggio gli austriaci hanno raggiunto e superato Arsiero e Asiago, quest’ultima rasa al suolo dai bombardamenti, giungendo in vista delle ultime propaggini dell’Altopiano. Sull’ala sinistra italiana negli stessi giorni gli austriaci attaccano ripetutamente passo Buole, la cui conquista aprirebbe loro la Val Lagarina che conduce a Verona, venendo sempre respinti e guadagnando al passo l’appellativo di “Termopili d’Italia”. Sulla destra, invece, gli austriaci furono fermati ad Ospedaletto, un paesino della Valsugana trasformato in una vera e propria fortezza.

Cadorna ritiene maturo il momento di un contrattacco e il 2 giugno lancia le unità fresche della V Armata al centro dell’Altopiano. L’azione si infrange contro la resistenza austriaca, ma il suo significato è strategico. Il comandante italiano ha chiesto e ottenuto dai russi di anticipare al 4 giugno la ripresa delle loro operazioni offensive e sa che per gli austriaci è iniziato il conto alla rovescia: quei due giorni di anticipo dovrebbero dimostrare all’Italia e agli alleati che l’Esercito italiano è solido e reattivo, capace di vincere con le sue “sole” forze.

Per gli austriaci è un brutto colpo. I tedeschi hanno prestato la loro assistenza nel teatro di operazioni russo, ma la coperta rimane comunque troppo corta e le divisioni che sono state sottratte da quel fronte, presto dovranno tornarvi.
Si susseguono i tentativi di sfondamento come a Monte Fior, tra il 5 e il 9 giugno: reparti di alpini e della Brigata Sassari rimangono aggrappati con le unghie e con i denti su quel ciglione che si apre sulla pianura veneta. Alla fine sono costretti ad abbandonarlo ma senza aprire falle nella difesa. Gli austriaci bruciano così, senza risultati e senza prospettive, le loro ultime energie: nella notte tra il 24 e il 25 giugno Conrad arretra tutte le sue unità su posizioni più sicure che sono già state predisposte. La sua spedizione ha punito crudelmente e futilmente 15.443 italiani morti, 76.630 feriti e 55.635 fra dispersi e prigionieri, e 10.203 austro-ungarici morti, 45.650 feriti, e 26.960 prigionieri e dispersi.

Biordo
03-01-17, 19:27
La battaglia degli Altipiani (http://www.warfare.it/campi/strafexpedition.html)



Strafexpedition, in tedesco “spedizione punitiva”: gli ufficiali austro-ungarici chiamano così nelle loro conversazioni riservate l’offensiva che il generale Franz Conrad von Hötzendorf sta per scatenare sul fronte trentino in quella Primavera del 1916. Lo riferiscono i disertori in uniforme grigio-azzurra che, all’addensarsi della tempesta, attraversano la terra di nessuno e si consegnano agli italiani. Forse è solo una voce propagandistica studiata a tavolino dal generale Luigi Cadorna negli uffici del Comando Supremo a Udine, per infiammare di sdegno gli animi dei suoi soldati. Non c’è traccia, infatti, di quello sprezzante appellativo nei documenti ufficiali dell’Esercito imperial-regio. Ma, verità o diceria, qualcosa bolle in pentola, e certo tra gli austro-ungarici il sentimento anti-italiano è vivissimo, varcando abbondantemente la soglia del disprezzo. L’Italia ha tradito vergognosamente il patto della Triplice alleanza con un “machiavellico” voltafaccia, una vile pugnalata alla schiena che merita una punizione esemplare. Questo l’animo dell’opinione pubblica austriaca: poco importa che quel patto fosse stato rivisto e corretto dalle diplomazie in numerose occasioni fino a perdere negli anni tutto il suo valore originario. Un patto, oltretutto, che lo stesso Conrad non avrebbe esitato a violare nel 1911, chiedendo al suo governo l’autorizzazione ad attaccare l’Italia quando questa entrò in guerra contro l’Impero ottomano. Franz Conrad aveva maturato l’idea di un attacco preventivo all’Italia dal Trentino quando dal 1903 al 1906 aveva guidato la divisione di fanteria di stanza in Tirolo. Lui stesso, appassionato di alpinismo, aveva esplorato le montagne per trasformarle in un campo di battaglia. Nel 1911 quella proposta, tanto spregiudicata quanto politicamente inopportuna, gli era costata (temporaneamente) il ruolo di capo di stato maggiore dell’esercito imperial-regio, ma ora che l’imperatore Francesco Giuseppe lo aveva richiamato al massimo vertice e che la guerra era in atto, i suoi piani potevano trovare finalmente realizzazione. Sfondare la linea italiana sull’altopiano di Asiago irrompendo nella Pianura veneta a Vicenza significa chiudere in una sacca le centinaia di migliaia di soldati italiani che prendono a spallate le truppe austriache sull’Isonzo e sulle Dolomiti: sconfiggendo La Prima Armata si prendevano prigioniere la Seconda, la Terza e la Quarta, e si costringeva l’Italia alla resa. Per l’Austria, duramente impegnata su troppi fronti e soprattutto preoccupata della situazione in Galizia contro i Russi, riuscire a liberarsi della spina nel fianco rappresentata dall’Italia accendeva la speranza di non venire schiacciata dal conflitto.

Ma se la geografia offriva all’Austria un’opportunità di grande valore strategico, ben altro discorso era riuscire ad approfittarne, perché sempre la geografia descriveva l’Altopiano di Asiago (detto anche dei Sette Comuni) come un campo di battaglia decisamente ostile. Un massiccio di forma quadrangolare, delimitato da ripide scarpate, tra i fiumi Brenta e Astico, largo 25 km in senso Est-Ovest e profondo più di 30 da Nord a Sud, con 20 cime oltre i 2.000 metri concentrate nel suo lato settentrionale che forma un primo altopiano. Superandolo si entra nella sua frastagliata conca centrale, il secondo altopiano, dove l’altezza media è di 1.000 metri. Uno dei luoghi più freddi delle Alpi, con punte di -30º in Inverno e 2 metri in media di neve, ma dove l’acqua è scarsa perché la natura carsica del suolo se la inghiotte.
Eppure Conrad è convinto di poterlo superare. Già a fine 1915 sottopose il progetto al suo omologo tedesco Erich von Falkenhayn per ottenere da lui il sostegno ritenuto necessario: fino a nove divisioni tedesche di prima linea con la loro potente artiglieria per arrivare a un totale ideale di 25 o almeno di 20. Von Falkenhayn espresse subito le proprie perplessità sostanziali: un’offensiva di quell’entità in territorio alpino sarebbe stata troppo soggetta agli imprevisti tipici della guerra in montagna per offrire sufficienti garanzie di riuscita. L’apparato logistico necessario a tenere in vita l’azione di un numero tanto grande di truppe semplicemente non poteva reggere alla prova. Una frana, un guasto, un fiume in piena e tutto si sarebbe bloccato con conseguenze catastrofiche. C’era poi un ostacolo politico: la Germania non era in guerra con l’Italia e aggredirla avrebbe significato ovviamente modificare questo comodo status di indifferenza reciproca, senza alcun beneficio per il Reich. Ma c’era poi un ulteriore motivo che toccava direttamente gli interessi strategici tedeschi, ed era probabilmente la principale ragione del rifiuto di quei rinforzi. Von Falkenhayn stava programmando la gigantesca offensiva contro Verdun, fiducioso di riuscire con essa a “dissanguare” a morte la Francia. I preparativi per quella operazione, che sarebbe scattata il 21 febbraio, erano già iniziati e il comandante tedesco non poteva privarsi nemmeno di una delle sue divisioni, non parliamo di nove, per bruciarle su un fronte secondario come quello italiano, oltretutto in un’impresa che riteneva destinata al fallimento. Consigliò dunque a Conrad senza mezzi termini, peggiorando ancora il rapporto già sufficientemente conflittuale con lui, di rimanersene tranquillamente in difensiva sulle sue ottime posizioni dominanti sulle Alpi.

Il comando austriaco, però, aveva già preso la sua decisione, e anche se forse gli austriaci non pronunciarono mai la parola “Strafexpedition”, l’astio contro l’Italia, congiunto a una scarsa considerazione per la combattività delle sue truppe, rivestì un peso non trascurabile. Comunque, la fiducia di Conrad di poter ottenere una vittoria contando sulle sue sole forze è forse eccessiva, ma non completamente infondata. Anche se non ha esperienze di combattimento precedenti al 1914, è considerato, a ragione, il miglior teorico e stratega dell’esercito di Francesco Giuseppe e, con un po’ di esagerazione, uno dei migliori dell’epoca: il suo è un rischio calcolato. Le truppe austro-ungariche hanno resistito a ben 5 offensive italiane sul fronte dell’Isonzo, con arretramenti di scarsa importanza: questi successi hanno innalzato il loro morale e la loro fiducia. In Galizia e in Serbia, poi, la situazione si è stabilizzata e le crisi dei mesi precedenti sembrano ormai passate. È quindi possibile sottrarre a questi fronti le truppe necessarie a un’offensiva, sostituendole con unità di seconda linea o, semplicemente, indebolendo numericamente i dispositivi.

Si potrà così concentrare nel Tirolo meridionale 14 divisioni, costituendo due armate per quasi 160.000 uomini (con altri 200.000 addetti ai servizi nelle retrovie) e un numero di cannoni talmente alto da annichilire qualsiasi resistenza. E in quanto ad artiglierie, Conrad ha un vero asso nella manica. Sul fronte del Carso ha sperimentato con successo l’utilizzo di trattori per la movimentazione dei grossi calibri, mentre gli italiani ancora spostano i loro con carri trainati da buoi. I mezzi meccanici riusciranno a portare sulla linea del fronte in Tirolo 8 mostruosi mortai da 30,5 cm, e 3 ancora più terribili obici da 42 cm (l’equivalente austriaco della famosa Grosse Bertha tedesca): armi che pesano rispettivamente 21 e 105 tonnellate e sparano proiettili da 4 e 10 quintali, capaci di ridurre qualsiasi fortificazione nemica in un cumulo di macerie. In tutto quasi 2.000 bocche da fuoco (di cui un quarto pesanti) con le quali gli italiani assaggeranno per la prima volta il bombardamento di artiglieria “a tappeto”: il fuoco simultaneo su un’area estesa che chiude in una gabbia di distruzione senza scampo le forze nemiche presenti.

I preparativi per l’offensiva iniziano nel febbraio del 1916: il Tirolo si trasformerà in un formicaio brulicante di soldati ansiosi di passare all’azione. L’impresa è titanica, ma Conrad si dimostra un ottimo organizzatore e, nonostante il freddo intenso di quell’inverno e neve alta da 2 a 4 metri, i preparativi procedono con energia e tenacia, mantenendo alto il morale delle truppe. La sfida logistica non spaventa gli austriaci, ma la montagna è un oste che non manca mai di presentare i suoi conti: nevica anche a marzo e ad aprile, le prevedibili difficoltà ambientali sotto forma di valanghe e frane che bloccano per giorni le lunghe colonne di uomini e mezzi non tardano a manifestarsi, e l’avvio dell’offensiva deve essere rimandato, settimana dopo settimana, fino a metà maggio.

Un apparato militare di quella entità difficilmente passa inosservato e i ritardi e gli intoppi non aiutano certo gli austriaci a mantenere segreta la loro presenza in Tirolo.
E infatti gli italiani già dal febbraio iniziano a ricevere segnali inequivocabili di un’insolita attività nemica. Disertori, come abbiamo visto, ma non solo: Conrad cerca di far marciare le sue truppe per vie nascoste alla vista delle cime italiane, ma interruzioni dei percorsi obbligano a deviazioni che portano le colonne e i fumi degli automezzi a portata di binocolo delle vedette in grigioverde.

L’effetto sorpresa è perso, ma non del tutto. Cadorna conosce le difficoltà della guerra in montagna e semplicemente non riesce a credere che i suoi avversari possano realizzare l’impossibile. Sta per cominciare la più grande battaglia in montagna di quella guerra e di ogni tempo: la più grande battaglia di montagna di una guerra combattuta per quattro quinti in montagna. Gli asini non volano, e anche se ne vedessimo uno coi nostri occhi volarci sopra le teste penseremmo come prima cosa ad un trucco. Così Cadorna e i vertici militari italiani. Gli austriaci secondo loro stanno solo organizzando un’offensiva limitata, che cerca di distrarre la loro attenzione dal fronte isontino dove si sta preparando una sesta grande offensiva contro Gorizia.
C’è poi un’anomalia nei rapporti di intelligence che arrivano ai comandi italiani: dal fronte giungono copiosi segnali allarmanti, mentre le spie a Vienna non hanno nulla da segnalare. Sono due canali informativi paralleli che dovrebbero convergere nel Comando Supremo per essere sottoposti a un confronto e a una valutazione. Negli uffici di Udine, però, si ripone maggiore fiducia alle fonti riservate, ai rapporti personali, ai sussurri nei corridoi della corte asburgica, e se questi tacciono significa che c’è poco di cui preoccuparsi. Persino gli alleati dell’Italia sono scettici sull’eventualità di un’azione sul fronte trentino: dove potrebbero mai prendere le truppe necessarie gli austro-ungarici? Sguarnirebbero il fronte galiziano contro la Russia rischiando il disastro solo per dare una lezione agli italiani? Sono capaci di un simile azzardo?
La prudenza non è mai troppa, però, e Cadorna, proprio in vista della Sesta battaglia sull’Isonzo, non vuole fastidi alle sue spalle: il 22 marzo invia dunque l’ordine al generale Roberto Brusati, comandante della I Armata, di abbandonare il terreno conquistato e di ripiegare sulle “posizioni principali di resistenza” assumendo una disposizione strettamente difensiva. Con Cadorna non è facile discutere, non è propriamente un leader che dia particolare ascolto alle opinioni diverse dalle sue, e Brusati non pensa di poter far valere col “generalissimo” le proprie ragioni. In realtà le conquiste della I Armata hanno ridotto l’estensione del fronte di un buon 40%: e questo è un beneficio non trascurabile per uno schieramento difensivo. D’altro canto il fronte italiano ora corre addossato a montagne dominate dagli austriaci, senza lo spazio di manovra necessario a un’efficace azione di difesa. Così Brusati, che pure è personalmente convinto dell’imminenza della Strafexpedition, “interpreta” gli ordini ricevuti e lascia la I Armata dov’è, in maggioranza in prima linea, pronta ad attaccare ancora, semmai, per guadagnarsi sulle montagne che ha di fronte posizioni difensive sempre migliori. Anzi, a questo scopo chiede insistentemente a Cadorna ulteriori truppe arrivando a circa 110.000 effettivi. Alle sue spalle rinforza per sicurezza alcuni capisaldi, ma siamo ben lontani da quella seconda e terza linea ininterrotte e organiche di una difesa in profondità che si rispetti. In caso di ripiegamento molto dovrà essere improvvisato, con risultati che è facile prevedere saranno un’incognita.
Ai primi di maggio Cadorna visita il fronte. Da giorni sulla linea italiana cadono isolati colpi di artiglieria, alcuni dei quali di inusitata potenza: sono i tiri di aggiustamento che preludono al prossimo bombardamento d’attacco. È un altro indizio che va ad aggiungersi a quelli precedenti, ma ancora Cadorna non crede a un pericolo imminente e continua a sospettare sia solo un inganno orchestrato dagli austriaci per fargli rimandare la prossima offensiva sull’Isonzo. Tuttavia riscontra di persona come Brusati abbia “interpretato” i suoi ordini con eccessiva libertà e lo esautora dal comando, sostituendolo con il generale Guglielmo Pecori Giraldi: questi avrà solo una settimana di tempo per ambientarsi prima che su quelle montagne si scateni la tempesta annunciata. Lascerà la I Armata dov’è perché sa di non avere il tempo materiale per spostarla più indietro.





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Il piano di battaglia austro-ungarico è semplice, né potrebbe essere diversamente visto le scenario in cui si svolgerà: le due armate si schiereranno l’una dietro l’altra: l’11ª Armata, con 7 divisioni, effettuerà lo sfondamento, la 3ª, con altre 7 divisioni, lo amplierà e gli darà profondità.

L’ala destra austriaca, costituita dall’VIII corpo, partendo da Rovereto deve percorrere la Vallarsa puntando sul passo di Pian delle Fugazze, e da qui scenderà verso Schio diretta a Thiene. Al centro agiranno due corpi: il XX schierato tra Lavarone e Luserna si farà strada sull’Altipiano di Asiago e per la Val d’Astico, puntando su Arsiero e Thiene: il III, attraversando il Passo di Vezzena, si dirigerà su Asiago. Infine l’ala sinistra con il XVII corpo (che apparteneva però alla 3ª armata) partendo da Borgo percorrerà la Valsugana seguendo il corso del fiume Brenta fino a Cismon.

Il 15 maggio alle 6 del mattino i cannoni austriaci iniziano la loro opera distruttrice contro le principali fortificazioni italiane. 120 sono pesanti, ovvero dai 24 ai 42 cm di calibro, e in tre ore di fuoco intenso trasformano il paesaggio aprendo nel terreno voragini profonde anche 8 metri, scagliando per lungo raggio letali schegge di roccia.
Dopo un’ora di pausa, alle 10 scatta il via per le fanterie. Lo shock del bombardamento ha annichilito le truppe italiane: alcune unità semplicemente non esistono più, altre si arrendono, altre ancora combattono con una caparbietà che stupisce gli austriaci. Ma anche queste prove di eroismo non possono durare, perché la superiorità numerica del nemico è schiacciante e perché i rinforzi non arrivano. Ma nemmeno ci si può ritirare, perché non si saprebbe dove andare: gli ufficiali non hanno ordini e nessuno glieli fa arrivare.

Cadorna ha sottovalutato il nemico, ma in questa occasione il nemico ha anche sottovalutato Cadorna. Il comandante in capo italiano è gelido, impenetrabile, accentratore, inflessibile: questo carattere che tanto ha influito sull’attuale, disastrosa situazione lo aiuterà anche ad uscirne. Se intorno a lui ormai è il panico, se l’opinione pubblica italiana è profondamente scossa dall’invasione del “sacro suolo della Patria”, lui sa rimanere impassibile e concentrato nel suo ruolo e nelle sue responsabilità. Assume direttamente il comando del fronte riorganizzando la difesa e inizia ad emanare gli ordini necessari alla formazione di una nuova estemporanea Quinta Armata prelevando le migliori unità dal fronte dell’Isonzo, da ogni parte d’Italia e persino dalla Libia e dall’Albania. L’apparato logistico italiano fa miracoli portando in pochi giorni decine di migliaia di uomini da un fronte all’altro, prima in treno e poi in camion, un’impresa ricordata dalla festa dell’Arma dei Trasporti e Materiali dell’Esercito italiano che si svolge tradizionalmente il 22 maggio.

La V armata si schiera in pianura per fermare gli austriaci se dovessero riuscire a scendere dall’Altopiano di Asiago, ma anche pronta a passare al contrattacco. In montagna la battaglia prosegue senza sosta. Gli austriaci continuano ad avanzare, ma ogni giorno che passa, ogni metro conquistato, le difficoltà aumentano anziché diminuire. Da un lato la resistenza italiana si fa sempre più decisa, dall’altro le difficoltà della logistica crescono in modo esponenziale. Il munizionamento di artiglieria, dopo i primi giorni, già inizia a scarseggiare. Gli arsenali sono vuoti e le magre finanze dell’Impero asburgico non possono riempirli. Per altro, anche se le munizioni fossero disponibili nel numero sufficiente a proseguire i bombardamenti con l’intensità necessaria, la linea del fronte, ormai, si è distanziata oltre la portata iniziale dei cannoni pesanti, che su quel terreno sono difficili da spostare e persino da schierare in batteria, mentre i calibri più maneggevoli e capaci di seguire le fanterie contendono ad esse il magro carico che è possibile trasportare sui sentieri di montagna. Pane o proiettili? O tacciono i cannoni o gli uomini si devono accontentare, finché ne hanno, della dura galletta che portano nel tascapane.

Le condizioni ambientali sono durissime. Il freddo è intenso nonostante la Primavera inoltrata, tanto che le zone più fredde sono ancora coperte di neve, e gli uomini ci scavano dentro le trincee. Dove non c’è la neve, invece, si muore di sete perché non si può nemmeno scioglierla per dissetarsi: non c’è acqua sull’altopiano e anche quella deve arrivare coi trasporti. In questo gelido inferno gli uomini si affrontano con uguale disperata ferocia. Conrad sta iniziando probabilmente a riconsiderare la propria opinione sulla combattività degli italiani. L’inattesa resistenza delle unità superstiti della I Armata inizia a evidenziare i difetti del piano strategico di Conrad. I primi, come abbiamo appena visto riguardano una generale sottovalutazione degli avversari e delle condizioni ambientali, con le ripercussioni sulla logistica. Di fatto lo sfondamento e la discesa nella pianura veneta avrebbe dovuto essere molto più veloce, anticipando le contromisure improvvisate da Cadorna, per poter avere il successo. A questo scopo potevano tornare utili le nove divisioni tedesche richieste da Conrad, sempre che si riuscissero a risolvere i problemi logistici, destinati a crescere più che proporzionalmente all’aumentare delle truppe coinvolte. Ma c’è anche un difetto di concezione: quattro direttrici di attacco praticamente parallele e indipendenti l’una dall’altra suggeriscono una grave indecisione strategica che affida al caso la riuscita di un’operazione di questa portata.

Troppo pochi, troppo deboli, troppo indecisi: col senno di poi possiamo spenderci in un giudizio. In quei giorni però si insanguinavano le montagne e tutta l’Italia guardava con costernazione l’avanzata del nemico: tra il 27 e il 28 maggio gli austriaci hanno raggiunto e superato Arsiero e Asiago, quest’ultima rasa al suolo dai bombardamenti, giungendo in vista delle ultime propaggini dell’Altopiano. Sull’ala sinistra italiana negli stessi giorni gli austriaci attaccano ripetutamente passo Buole, la cui conquista aprirebbe loro la Val Lagarina che conduce a Verona, venendo sempre respinti e guadagnando al passo l’appellativo di “Termopili d’Italia”. Sulla destra, invece, gli austriaci furono fermati ad Ospedaletto, un paesino della Valsugana trasformato in una vera e propria fortezza.

Cadorna ritiene maturo il momento di un contrattacco e il 2 giugno lancia le unità fresche della V Armata al centro dell’Altopiano. L’azione si infrange contro la resistenza austriaca, ma il suo significato è strategico. Il comandante italiano ha chiesto e ottenuto dai russi di anticipare al 4 giugno la ripresa delle loro operazioni offensive e sa che per gli austriaci è iniziato il conto alla rovescia: quei due giorni di anticipo dovrebbero dimostrare all’Italia e agli alleati che l’Esercito italiano è solido e reattivo, capace di vincere con le sue “sole” forze.

Per gli austriaci è un brutto colpo. I tedeschi hanno prestato la loro assistenza nel teatro di operazioni russo, ma la coperta rimane comunque troppo corta e le divisioni che sono state sottratte da quel fronte, presto dovranno tornarvi.
Si susseguono i tentativi di sfondamento come a Monte Fior, tra il 5 e il 9 giugno: reparti di alpini e della Brigata Sassari rimangono aggrappati con le unghie e con i denti su quel ciglione che si apre sulla pianura veneta. Alla fine sono costretti ad abbandonarlo ma senza aprire falle nella difesa. Gli austriaci bruciano così, senza risultati e senza prospettive, le loro ultime energie: nella notte tra il 24 e il 25 giugno Conrad arretra tutte le sue unità su posizioni più sicure che sono già state predisposte. La sua spedizione ha punito crudelmente e futilmente 15.443 italiani morti, 76.630 feriti e 55.635 fra dispersi e prigionieri, e 10.203 austro-ungarici morti, 45.650 feriti, e 26.960 prigionieri e dispersi.




Interessante.Da perfetto ignorante su questa offensiva, son rimasto però interdetto dalle ultime due righe. Mi chiedo come sia stato possibile avere più perdite italiane (quindi dei difensori) rispetto agli austriaci (che dal testo sembrerebbero aver operato un'offensiva suicida...)....

carter
03-01-17, 21:51
Giusta osservazione, cmq anche Wiki riporta questi dati: https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_degli_Altipiani

massena
05-01-17, 00:38
i molti morti italiani sono dovuti anche alle controffensive.