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Visualizza Versione Completa : Saragat. Palazzo Barberini settanta anni dopo



Frescobaldi
12-01-17, 00:29
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Prima puntata.

E’ facile dire oggi che Saragat aveva ragione. Bisogna riuscire a dimostrare, ripercorrendo la storia degli anni immediatamente precedenti Palazzo Barberini, che Saragat avesse ragione allora. Richiamerò i fatti essenziali. In questo primo pezzo mi soffermerò sulle vicende precedenti il Congresso di Roma del gennaio 1947.


La scissione del Partito socialista, che allora si chiamava Psiup ed era il risultato dell’unificazione del Psi, rifondato a Roma da Romita, Lizzadri, Vernocchi nel 1943, cui si erano aggiunti i reduci dalla prigionia e dall’esilio, Nenni, Saragat, Pertini e Buozzi, con il Movimento di unità popolare di Lelio Basso, che riteneva superate le vecchie distinzioni tra socialisti e comunisti, é infatti solo l’atto finale di uno scontro politico che inizia nell’immediato dopo guerra e che si inscrive pienamente nella storia delle diverse tendenze socialiste. Non a caso nel primo Consiglio nazionale del partito, che si svolse a poche settimane dalla Liberazione nell’estate del 1945, il tema prevalente fu proprio quello della fusione. Un conto era l’accettazione del patto di unità d’azione con il Pci sottoscritto il 28 settembre del 1943, dunque nel periodo successivo all’invasione tedesca, da Sandro Pertini, Pietro Nenni e anche da Giuseppe Saragat, altro conto costruire un unico partito tra socialisti e comunisti. Il contenuto del Patto del 1943 era profondamente diverso da quello sottoscritto in Francia dai due partiti, che seguiva gli anni delle lacerazioni dovute alle teoria terzinternazionalista del socialfascismo, che era prevalentemente di carattere ideologico e manteneva ferme le distinzioni tra i due partiti. Quello sottoscritto in Italia aveva invece un taglio politico e proponeva “l’unità politica della classe operaia”(1). Dunque un obiettivo, peraltro gia previsto nella revisione del patto francese del 1937 che ipotizzava un passo “verso un’unità organica dei due partiti” (2). Dal 1943 al 1945 socialisti e comunisti avevano però maturato convinzioni diverse rispetto al tema della monarchia, che Togliatti, con la svolta di Salerno, imposta da Stalin, accettava come il male minore, mentre Nenni continuava a porre con coerenza la pregiudiziale repubblicana. Tanto che i socialisti, contrariamente ai comunisti, decisero per questo di non partecipare al secondo governo Bonomi. Tale diversa scelta in qualche misura influenzò la stesura del nuovo testo del patto, redatto nel 1944, in cui non si menzionava più l’unità organica tra i due partiti. Eppure, nonostante i comunisti fossero appena stati piuttosto tiepidi ad appoggiare la candidatura di Nenni alla presidenza del Consiglio accettando subito di buon grado quella dell’azionista Ferruccio Parri, il tema della fusione occupò larga parte del primo Consiglio nazionale del Psiup. Già in quella circostanza venne alla luce la geografia politica interna al partito. In questa assise si misurarono infatti due mozioni. La prima, quella unitaria, anche se non immediatamente fusionista, era firmata da Pertini, Morandi e Basso. La seconda, di stampo più autonomista, era sottoscritta da Saragat, Silone e Bonfantini. Nenni, leader del partito, pur non avendo sottoscritto alcun documento, era apertamente schierato coi primi. Neanche loro sostenevano, per la verità, anche se quello più esposto per formazione politica in direzione del partito unico era Lelio Basso, la fusione come obiettivo immediato, ma la prevedevano come prospettiva politica. Questo anche se l’Avanti titolò la conclusione di quel consiglio con un titolo emblematico e cioè: “Verso la creazione del partito unico della classe lavoratrice” (3) e il giorno dopo con un altro titolo ad effetto: “Il partito unico realizza le speranze delle grandi masse popolari” (4). Nemmeno Saragat, Silone e Bonfantini mettevano in discussione il patto d’unità d’azione. Quello che per loro era inaccettabile, e che finiva per svilire le funzioni originali del partito, era la prospettiva del suo annullamento in una strategia di unità organica coi comunisti. Le due posizioni si confronteranno anche nell’arco del 1946 al congresso di Firenze. Nel marzo si era svolta un’ampia consultazione elettorale amministrativa coi socialisti ancora forti e prevalenti in aree urbane del Nord, coi comunisti già egemoni in Emilia e in Toscana. Contemporaneamente Nenni aveva agitato da par suo il tema della Costituente ottenendo, dopo diversi rinvii, la data del due giugno per la sua elezione congiunta al referendum popolare su monarchia-repubblica.


Al congresso, il primo nel dopoguerra, della famiglia socialista, che si svolse al teatro comunale di Firenze, tra l’11 e il 17 aprile del 1946, il partito si trovò unito, sotto la guida di Pietro Nenni, a rivendicare la paternità e l’attualità della Costituente, alla quale i socialisti, più dei comunisti, avevano lavorato con coerenza e senza ripiegamenti. Tuttavia sui caratteri fondamentali del partito, e in particolare sul rapporto col Pci, il Psiup si trovò diviso in tre. Diciamo subito che l’obiettivo della fusione era stato ufficialmente abbandonato anche dalla maggioranza che faceva capo a Basso e Morandi con la copertura di Nenni, e a questa prospettiva restavano legati ormai solo Lizzadri e Cacciatore che poi furono indotti a ritirare il loro documento e a convergere sulla mozione Morandi-Basso. Sandro Pertini si era spostato su posizioni mediane difendendo l’autonomia e l’indipendenza del partito e firmando una mozione assieme a Ignazio Silone. Su questa mozione ripiegarono anche i giovani raccolti attorno alla rivista Iniziativa socialista, che contestavano i governi ciellenisti e sognavano una rivoluzione libertaria e non leninista. Saranno il perno su cui Saragat agirà per far scattare la molla della scissione.


Su posizioni ancora più intransigentemente autonomiste stavano i socialisti raccolti nella mozione di Critica sociale, appunto Saragat, Faravelli, Modigliani, D’Aragona, Simonini. Il congresso segnò una svolta. Il confronto, anzi lo scontro, non era più sul tema dell’attualità o meno della fusione, ma sul modello di socialismo. Saragat, nel suo intervento, richiamò il fatto che “lo sviluppo di un socialismo autocratico e autoritario (era) uno dei problemi attuali” (5) e gli contrapponeva il suo socialismo democratico. Basso parlò di un profondo dissenso “tra lo spirito classista e lo spirito liberalsocialista” (6). Alla fine il congresso diede un esito clamoroso. Le mozioni di Pertini, Silone e di Critica sociale raggiunsero il 51 per cento, quella cosiddetta di Base, cioè di Basso e Morandi, solo il 49. La Direzione venne composta per metà da membri della mozione di Base e per metà da esponenti delle altre due. Nenni da segretario si trasferì alla presidenza e segretario del partito venne eletto Ivan Matteo Lombardo, un esponente relativamente conosciuto, e non Sandro Pertini, come ci si attendeva.


Il partito riprese vigore e alle elezioni per la Costituente del 2 giugno la lista socialista col 20,7% sopravanzò, inaspettatamente, quella comunista che si fermò al 18,9. La Dc si affermò come partito di maggioranza relativa col 35,2 e De Gasperi ottenne la presidenza del Consiglio formando un governo comprendente socialisti e comunisti, mentre Saragat venne chiamato alla presidenza dell’Assemblea costituente che dopo la vittoria repubblicana aveva il compito di varare la nuova costituzione. I comunisti rimasero stupiti e in parte scioccati dal risultato elettorale. Nessuno di loro, lo confermò Amendola in dichiarazioni successive, si attendeva un risultato che prevedesse i socialisti più forti di loro. L’aver combattuto in modi più strenui e con truppe più consistenti il fascismo e, di rimbalzo, il forte fascino dell’Urss e della sua eroica e vittoriosa resistenza al nazismo, si erano rivelati elementi non sufficienti per ribaltare i rapporti di forza nella sinistra italiana.


Si apriva, dopo il 2 giugno, una fase nuova, nella quale uno degli obiettivi diventò per Togliatti la conquista di un’egemonia a sinistra, ancora non riconosciuta dagli elettori. Iniziò verso i socialisti una duplice iniziativa, come riveleranno successivamente due dirigenti comunisti dell’epoca, Gianni Corbi e Fabrizio Onofri. Da un lato si intensificò una polemica politica verso la maggioranza autonomista del Psiup che a Firenze aveva vinto il congresso, dall’altro si mise in campo una vera e propria opera di infiltrazione di militanti comunisti nel Partito socialista. Onofri scrive: “La presenza del Pci all’interno del Psiup era derivata sia da coloro che si richiamavano alla linea Togliatti, che da coloro che si richiamavano alla linea Secchia” (7). Per questi ultimi era funzionale a convertire il partito all’ora x della rivoluzione, per i primi a combattere lo slittamento socialdemocratico del partito e il suo distacco politico dal Pci. Ovviamente questa infiltrazione di comunisti nelle fila del Psiup (che fu massiccia e interessò l’intero territorio nazionale e un certo Luciano Lama, iscritto al Psiup, venne scoperto mentre indicava di votare per il partito fratello nella sua Forlì (8)) aveva l’obiettivo immediato di capovolgere i rapporti di forza interni in previsione di un congresso da svolgere in tempi ravvicinati.


La nuova situazione del Psiup spinse poi i socialisti a chiedere una nuova formulazione del Patto d’unità d’azione in modo da veder riconosciuta l’autonomia dei due partiti. Il patto venne rinnovato a ottobre. Questo non valse a moderare l’offensiva politica dei comunisti in particolare nei confronti di Saragat e dei suoi seguaci. Togliatti usò parole durissime, già a settembre, in una intervista al Gazzettino di Venezia, ove volle precisare che “il patto non funziona per colpa dei riformisti che hanno la direzione del partito socialista” (9). In più occasioni su L’Unità i dirigenti comunisti usarono frasi sferzanti verso la nuova maggioranza socialista e Togliatti rivendicò il diritto “di intervenire nelle questioni interne del partito socialista” (10) e di combattere contro tale frazione “con tutti i mezzi polemici i quali ci sono accessibili e dei quali ci sappiamo servire” (11). A Saragat Togliatti dedicò poi un fondo de suo giornale intitolato “Tre colonne di piombo” (12), in cui il leader comunista arrivò a definire Saragat e il suo socialismo democratico, contrapposto al comunismo reale, un simbolo per accreditarsi come “tessera ad honorem del movimento dell’Uomo qualunque” (13). A poco valse la replica di Pertini sull’Avanti dall’emblematico titolo “E il terzo gode”. La spinta autonomista dei socialisti portò non a caso, il 13 ottobre, alla promozione di una grande manifestazione nazionale in occasione del monumento a Filippo Turati, eretto a Canzo. Il leader dei riformisti era improvvisamente tornato di moda al punto che Guido Mazzali ebbe a sottolineare che “Turati è il socialismo” (14).


Anche Nenni, sia pur da posizioni diverse, come già era avvenuto per la Costituente, sviluppava da ministro degli Esteri del governo De Gasperi una politica autonoma sui temi di Trieste, e dei confini con la Jugoslavia, al di fuori di condizionamenti ideologici. Un primo elemento negativo nel percorso relativamente autonomista del Psiup fu il risultato delle elezioni amministrative parziali di novembre. Nelle grandi città, da Roma, a Napoli, a Firenze, a Torino, i socialisti vennero superati dai comunisti che riuscirono a ribaltare a loro vantaggio i risultati ottenuti a giugno. Dove la lista socialista e comunista era unica, come a Roma, le cose andarono nel peggiore dei modi, coi comunisti che si aggiudicarono 16 consiglieri e i socialisti solo 5. La sinistra del Pspiup accusò gli autonomisti, questi ultimi, in particolare Saragat, spararono sugli altri che ancora “più imperterriti che mai” (15) si trovavano alla testa del partito. A giudizio del presidente dell’Assemblea costituente gli elettori non volevano “sottoprodotti, ma merce genuina. Se sono comunisti o di tendenza comunista non sanno che farsene di un massimal-fusionismo che ha liquidato il partito nel 1921-22 e che rischia di liquidarlo oggi” (17). Il seme della scissione era già stato lanciato.


Mauro Del Bue


Note


1) A. Benzoni, V. Tedesco, Documenti del socialismo italiano (1943-1966), Bologna 1968, p. 14. Anche in M. Del Bue, Il Partito socialista a Reggio Emilia. Problemi e avvenimenti dalla ricostruzione alla scissione, Venezia 1981, p. 86.
2) Ibidem.
3) Vedi Avanti, 1 agosto 1945.
4) Vedi Avanti, 2 agosto 1945.
5) Il discorso di Saragat, in Avanti, 16 aprile 1946.
6) Il discorso di Basso, ibidem.
7) A. Gambino, Storia del dopoguerra dalla Liberazione al potere Dc, Bari 1975, p. 277.
8) Traditori, in La Giustizia, 23 giugno 1946.
9) Tra comunisti e socialisti, in Avanti, 18 settembre 1946.
10) P. Togliatti, Un partito di governo e di massa, in Politica unitaria ed Emilia rossa, Torino 1946, p. 66.
11) Ibidem
12) Tre colonne di piombo, in L’Unità, 20 settembre 1946.
13) Ibidem.
14) Vedi M. Del Bue, Il Partito socialista, cit, p. 159.
15) Il Nuovo giornale d’Italia, 21 novembre 1946, anche in M. Del Bue, Il Partito socialista, cit, p. 160-161.








Saragat. Palazzo Barberini settanta anni dopo | Avanti! (http://www.avantionline.it/2017/01/palazzo-barberini-70-anni-dopo-prima-puntata/#.WHaxlFPhDIV)

Frescobaldi
17-01-17, 01:30
Seconda puntata.

La legge di amnistia, la successiva votazione da parte dei comunisti dell’articolo 7 della Costituzione che vi includerà i Patti lateranensi, scelte che si sommano alle divaricazioni prodottesi nel passato tutt’altro che remoto (la svolta di Salerno del 1944 di Togliatti su tutte) celano però il vero problema che stava dinnanzi ai socialisti. E cioè il giudizio sul comunismo sovietico e solo dopo sul Pci. Esattamente in questa successione. Farlo all’incontrario portava fuori strada. Era questo che nel passato aveva diviso socialisti e comunisti italiani. Nel 1921 furono i ventuno punti di Mosca, e la conseguente necessità per i leader comunisti di espellere i riformisti dal partito, la ragione della scissione. Nel 1922 furono ancora i dictat di Mosca, e stavolta Serrati volle piegarsi contrariamente all’anno prima, a determinare l’espulsione dal Psi di Turati, Prampolini, Treves e degli altri riformisti. E poi lo stesso argomento, e cioè l’adesione all’Internazionale comunista, comportò la svolta di Serrati del 1924, che coi suoi terzinternazionalisti lasciò il Psi ed entrò nel Pcdi, con Nenni a sguainare la scimitarra per la sopravvivenza del partito e poi a perseguire la prospettiva di una nuova unificazione tra Psi e Psu (che si chiamò poi Psli e infine Psuli), che a Parigi nel 1930 vide massimalisti e riformisti di nuovo insieme. Ancora lo stesso vecchio argomento divideva i socialisti: ancora la questione del rapporto coi comunisti. Che peraltro, nell’immediato dopoguerra, pareva diventato di ben diversa consistenza, coi comunisti italiani che da piccolo partito di rivoluzionari s’erano trasformati in una grande forza politica di massa, e per di più orientati a consolidare, non a demolire, quella democrazia che avevano contribuito a conquistare durante la lotta di liberazione. Questo però deve essere conciliato col suo opposto, perchè in loro restava fondamentale, questo era il filo di continuità col 1921, lo stretto legame con Mosca.

Adesso, dinnanzi ai socialisti, come una dannazione, oscillava il pendolo del filocomunismo e dell’unità socialista, progetti che s’escludevano a vicenda e che rimbalzavano nel dibattito politico come un’alternativa che era impossibile porre a sintesi. Partire dall’esame del Pci oppure da quello del comunismo? Questo era il punto di fondo. E come mettere a sistema l’esistenza dell’uno con quella dell’altro, il loro livello di relazione e addirittura di dipendenza? La questione dell’unificazione parigina del 1930 veniva, così, ancora, messa in discussione. Lo aveva sottolineato Saragat, che nel 1930 proveniva dal partito di Turati e che condusse l’operazione di ricongiunzione con Nenni, anche allora leader del Psi. I due, che avevano unito il socialismo italiano, si apprestavano ora a dividerlo di nuovo. E ancora, sul vecchio tema del rapporto coi comunisti e col comunismo. Lo riuniranno e poi lo divideranno di nuovo (ma la scissione del 1969 non sarà colpa loro). Anche Saragat aveva firmato i vari testi del patto d’unità d’azione col Pci e anche lui l’aveva giudicato necessario durante il fascismo, ma anche dopo la Liberazione. Aveva, Saragat, contestato la corrente fusionista e anche Nenni, che peraltro aveva sempre considerato la fusione una prospettiva d’avvenire. Dopo il primo Consiglio nazionale del luglio del 1945, ma già prima, tra Saragat e Nenni c’era stata un profonda divaricazione di giudizi. Dopo il patto Ribbentrop-Molotov Nenni era andato in minoranza nel Psi e aveva preferito appartarsi anche dal partito, mentre Saragat e Tasca erano diventati i fautori dell’immediata rottura di ogni rapporto coi comunisti, allora accusati di subalternità addirittura col nazismo.

In Saragat, già allora, era comparsa quella sua convinzione dell’antitesi tra socialismo democratico e umanitario, da un lato, e comunismo realizzato, di stampo totalitario, dall’altro. Due visioni antiteche, che del resto anche Silone e lo stesso Tasca, due che provenivano dalle fila comuniste e ne erano usciti proprio su questo argomento, avevano prospettato. Non si riusciva tuttavia a comprendere allora perchè il leader dell’autonomismo socialista continuasse ad apporre la sua firma ai vari patti d’unità d’azione col Pci che venivano firmati, anche dopo il fascismo. Nenni, e con lui anche Basso e, sia pur con distinzioni non trascurabili, lo stesso Morandi (gli ultimi due erano rimasti in Italia durante il regime), erano invece convinti della necessità del rapporto unitario coi comunisti per battere il fascismo e quando gli eserciti tedeschi superarono il confine russo, a Nenni ritornò il sorriso e la voglia di lottare assieme ai vecchi compagni d’arma che già in Spagna avevano combattuto il franchismo, col concorso degli aiuti sovietici. La resistenza degli eserciti e della popolazione sovietica all’aggressione nazista aveva fatto il resto e individuato nell’Urss di Stalin l’autentica potenza che aveva consentito di battere Hitler. Se poi si aggiunge che nella resistenza italiana i comunisti erano stati al primo posto nella dura e sanguinosa battaglia contro il nazifascismo ne derivava una considerazione che non poteva certo rimandare alle polemiche del 1921. Anche perchè il Pci di Togliatti non era affatto quello di Bordiga e di Bombacci. Lo si poteva considerare tutto meno che estremista, velleitario e ancorato alla necessità di una rivoluzione armata, facendo “come in Russia nel 1917”. Anzi, come è stato già sottolineato, Togliatti esprimeva spesso posizioni moderate, realistiche, superando a destra lo stesso Psiup. Il problema che Nenni non teneva in sufficiente considerazione, ed è davvero anomalo per chi come lui aveva sempre privilegiato la lettura della situazione internazionale ed era in quel momento ministro degli Esteri, era proprio la natura del regime sovietico e dei paesi che dopo la guerra erano finiti sotto la sua egida e, a seguire, la natura del rapporto tra Pci e Mosca.

Su questo Saragat aveva visto giusto. Lo aveva intuito già quando, a fronte di una visione ottimistica di Nenni sul futuro del comunismo, esplicitata al primo Consiglio nazionale, e che giustificava anche la prospettiva della fusione dei due partiti, visione che presupponeva inevitabile la democratizzazione del comunismo e la creazione di un’unica Internazionale, faceva da contrappeso Saragat, che già intravvedeva alle porte la contrapposizione dei blocchi occidentale e orientale e auspicava una funzione dell’Europa come potenza di mediazione e di propulsione di un dialogo tra le due parti, anche attraverso, com’era ovvio, l’Internazionale dei Partiti socialisti, alla quale quello italiano avrebbe naturalmente dovuto aderire. Per Nenni il comunismo post bellico non poteva ritornare quello dei processi di Mosca degli anni trenta, per Saragat il comunismo sovietico era l’altra faccia del socialismo, di natura totalitaria, burocratica, dispotica. Difficile, in una contrapposizione così forte, permanere a lungo in un unico partito. Si poteva partire, come faceva Nenni, dal giudizio sul Pci italiano per come si comportava in Italia e per quel che sosteneva, si poteva invece partire, come faceva Saragat, dal legame che tale partito manteneva con Mosca e col regime comunista e capire così anche la nuova moderazione di Togliatti e del Pci (una moderazione che rappresentava una vera consapevolezza democratica o la proiezione delle indicazioni sovietiche nella logica di Yalta?). La rivoluzione impossibile pareva in effetti la conseguenza, più che di una conversione di Togliatti alla democrazia “borghese”, della nuova situazione internazionale, che Togliatti, come Saragat e molto più di Nenni, tentava di interpretare. In questo senso sia Saragat che Togliatti appaiono molto più realisti di Nenni.

La causa del tracollo socialista alle elezioni amministrative del 10 novembre 1946 non poteva essere però solo una disfunzione organizzativa. L’Avanti infatti ne individua anche una di natura politica. Secondo il quotidiano socialista, diretto da Pertini, “il partito era stato incapace di dare una direttiva al Paese ed era irrimediabilmente diviso tra tendenze che non riuscivano a trovare un minino comun denominatore” (1). Secondo l’Avanti il partito aveva dato all’operaio e all’impiegato non una linea, ma “l’opinione del socialista A contro l’opinione del socialista B” (2). Quanto alla debolezza organizzativa il ragionamento era semplice. Se i comunisti a Torino avevano 58mila iscritti e i socialisti solo 14mila, allora anche il risultato del 2 giugno, che vedeva un Psiup più forte del Pci, poteva essere facilmente ribaltato in elezioni amministrative dove la mobilitazione era più incisiva rispetto al voto politico, che era più condizionato da un moto di opinione. E per di più a fronte di una grande astensione. La sconfitta alle elezioni amministrative del 10 novembre diede il colpo di accelerazione alla scissione, ma non ne fu certo la causa. La vera ragione fu proprio la diversa concezione del socialismo che potremmo definire, da un lato, quella di dimensione democratica e umanitaria e, dall’altro, quella rigorosamente classista. La prima portava ad una netta distinzione tra socialismo e comunismo e alla conseguente rottura tra socialisti e comunisti in Italia, la seconda alla più stretta unità d’azione in nome degli interessi del proletariato. Questo, del rapporto col comunismo e coi comunisti, non rimanda a letture ancorate ad etichette prefabbricate di destra e di sinistra nei confronti delle tendenze politiche interne al Psiup.

Prendiamo la corrente di “Iniziativa socialista”, che aveva prospettato la rottura del Cln in nome della pregiudiziale repubblicana, poi dei governi ciellenisti e l’opposizione alla presidenza democristiana del Consiglio e che era sostenuta da giovani antifascisti e da ex partigiani che nulla avevano a che fare con le vecchie barbe riformiste. Consideriamo anche la posizione di “Critica sociale”, dove invece avevano trovato la loro naturale collocazione quasi tutti i vecchi riformisti, a cominciare da Saragat fino a Simonini. Questi stessi avevano contestato la politica del partito non solo sul tema della fusione e del rapporto col Pci, ma anche sulla questione della partecipazione al governo e sulla evidenziata subalternità socialista alla Dc. In loro l’autonomia pareva valore assoluto. Anche se è netta l’impressione che le polemiche suscitate da questi ultimi sul lato destro fossero funzionali, come si dimostrerà nel prosieguo della evoluzione politica e di governo, a mantenere un rapporto di coesione col gruppo di “Iniziativa”. Era la questione del rapporto col comunismo internazionale e di conseguenza col Pci, il pomo della discordia, non l’identità di sinistra e di destra. Saragat aveva parlato al congresso di Firenze di una netta contrapposizione tra socialismo democratico e socialismo autoritario. Del primo i socialisti italiani, a giudizio di Saragat, hanno avuto scarsa coscienza. Egli sottolineava come “la maggioranza, la grande maggioranza dei lavoratori dei paesi dell’Europa occidentale e centrale milita sotto la bandiera del socialismo democratico. Allora perchè questa sfiducia nelle forze costitutive del socialismo italiano, da parte dei nostri dirigenti? Perché solo da noi le masse operaie dovrebbero allontanarsi da quello che fu il loro partito storico?” (3). Domande che i socialisti si sarebbero più volte rivolti anche in seguito. E lo stesso Saragat, che col nuovo partito non riuscirà mai a sfondare una percentuale da forza politica minore, se le sarebbe rivolte ancora. Saragat continua analizzando la situazione del paese del socialismo realizzato e dichiara: “Si era in diritto di attendere che questa prima fase della dittatura, per carattere progressivo che tutti i governi operai hanno necessariamente in se stessi, avrebbe avuto un carattere transitorio e sarebbe fiorita una vera democrazia. Assistiamo invece ad un processo di involuzione, che pare smentire nel modo più clamoroso le previsioni di Marx. Invece di assistere a quella morte dello Stato che era nella profezia di Engels, abbiamo assistito al contrario. Invece di assistere all’eliminazione della burocrazia come corpo separato dalla massa del popolo, che è una delle dottrine più costanti del marxismo, abbiamo assistito allo sviluppo enorme di una burocrazia onnipotente, che si separa sempre più dalla massa del popolo. Insomma tutti i fenomeni che abbiamo constatato nel totalitarismo borghese, si verificano, su un ben diverso piano umano, ma con una simmetricità singolare, nel totalitarismo proletario” (4). La conclusione era: “E’ camuffare i dati presentare il comunismo come convertito alla nozione democratica del socialismo occidentale, quando tutto nella sua struttura organizzativa, nella sua politica, nella sua mentalità, grida il contrario” (5).

Dal canto suo Rodolfo Morandi, che si era distinto da Basso, e in parte anche da Nenni, per l’elaborazione di contenuti non omogenei a quelli comunisti e aveva portato avanti il progetto dei consigli di gestione operai anche da neo ministro dell’Industria, rispondeva a Saragat con una certa decisione: “La sinistra”, afferma Morandi, “che considera l’esistenza di due partiti proletari come una manifestazione della lotta di classe (…) ritiene di capitale importanza la coordinazione e lo stesso affiancamento di essi nell’azione, quale espressione differenziata in questa fase di transizione di uno stesso interesse e di una stessa qualità di classe. La destra, invece, non trova spiegazione a questo fenomeno, né giustificazione storica ad una prassi di partito che fa perno attorno alla potenza sovietica come originaria forza di espansione della rivoluzione proletaria, e persiste a giudicare il comunismo militante come una degenerazione del socialismo e qualcosa di abnorme, col quale i contatti non debbono essere tanto più intimi di quelli che non possono tenersi con altri partiti” (6)). Due opposte concezioni della politica del partito, dunque. E un partito unico che stava dividendosi ancora sul solito tema del rapporto coi comunisti. Una dannazione.


Mauro Del Bue


Note

1) Autocritica, in Avanti, 14 novembre 1946
2) Ibidem.
3) Socialismo democratico e socialismo totalitario, in A. Benzoni, V. Tedesco, Documenti del socialismo italiani di questo dopoguerra (1943-1966), Bologna 1968, p. 39.
4) Ibidem.
5) Ibidem.
6) M. Del Bue, Il Partito socialista a Reggio Emilia, cit, p. 162.





Saragat e la scissione di Palazzo Barberini (seconda puntata) | Avanti! (http://www.avantionline.it/2017/01/saragat-e-la-scelta-di-palazzo-barberini/#.WH1XKFPhDIU)

Frescobaldi
23-01-17, 17:42
La scissione di Palazzo Barberini (terza e ultima parte)



Alberto Simonini era un tipo tosto. Il deputato reggiano, già discepolo di Camillo Prampolini, sapeva che la scissione era un pericolo reale. Anzi, sapeva che la scissione era praticamente già decisa. Non dai suoi amici di “Critica sociale”, cioè dai vecchi riformisti D’Aragona, Mondolfo, Modigliani, Faravelli e dagli altri ex aderenti al Psu di Turati, ma da Saragat e dai giovani di “Iniziativa socialista”. Saragat s’era convinto della necessità della scissione già subito dopo le elezioni del novembre del 1946. Ricorda a tale proposito Mario Zagari, allora leader di “Iniziativa socialista”: “Ad un certo punto dell’autunno del 1946 (Saragat) giunse alla conclusione che, data quella che era la situazione italiana, valutata anche in base ai riflessi del più generale quadro internazionale, un partito socialdemocratico sarebbe stato, almeno per qualche decennio, una componente indispensabile del gioco politico” (1).

Ignazio Silone fa risalire la scelta di Saragat addirittura all’estate o forse alla primavera precedente (ma la vittoria socialista alla Costituente non avrebbe certo giustificato tale predisposizione). E precisa: “Al tentativo di Nenni e Basso di organizzare la loro corrente per conquistare quella maggioranza che a Firenze non erano riusciti ad ottenere, Saragat non oppose alcuna reazione. Il suo scopo preciso è infatti ormai quello di crearsi un partito tutto suo, che sia strumento docile per ogni manovra politica. Per questo, invece di prendere tempestivamente contatto con gli altri esponenti non della sinistra, con Pertini, con Romita, con me, o perfino con alcuni degli uomini più rappresentativi di “Critica sociale”, cerca l’accordo solo con alcuni dei giovani di “Iniziativa socialista”, anch’essi decisi a fare la scissione a tutti i costi” (2).

Naturalmente alla scissione guardavano con interesse sia i democristiani sia i comunisti, anche se con opposti, ma convergenti, obiettivi. De Gasperi, prima della partenza per l’America, aveva sollecitato Saragat “ad andare avanti sulla strada che aveva imboccata” (3), proprio per potere collaborare con un partito socialista autonomo dai comunisti nel momento in cui prendeva forma il suo progetto di espulsione dei comunisti dal governo. Togliatti, preoccupato per il risultato del 2 giugno, non poteva che favorire la divisione del Psiup, un partito che si era dimostrato in grado di limitare l’avanzata comunista. E per di più tendeva ad inserirsi con ogni mezzo nello scontro in atto nel partito socialista ai fini di favorire la tendenza che era in grado di garantire un rapporto di subordinazione nei confronti del Pci. Ma anche all’interno del Psiup c’era chi guardava con favore all’ipotesi della scissione. Lelio Basso, che aveva costruito una ferrea organizzazione interna, si dimostrò ostile a qualsiasi compromesso che oltretutto avrebbe comportato la sua rinuncia alla segreteria del partito, non potendo sopportare “che, dopo il successo ottenuto mobilitando la base socialista, la vittoria (…) venisse sottratta all’ultimo momento” (4).

Nenni, dal canto suo, assunse un atteggiamento di assoluta indifferenza rispetto al pericolo della scissione che continuava a ritenere probabile solo come “un distacco di rami secchi dalla pianta sana del socialismo” (5). Intanto, poco dopo Natale, giungeva a Roma un altro dei protagonisti del congresso e leader di “Iniziativa socialista”, e cioè Matteo Matteotti, figlio del grande martire. Recatosi da Saragat negli uffici dell’Assemblea costituente, egli si dichiarò ormai convinto che la scissione era inevitabile. Un tale giudizio venne subito condiviso da Saragat, il quale gli propose di scrivere una sorta di memoriale di denuncia per l’invalidazione del congresso, quasi a ricordare quello tragico del padre nei confronti delle elezioni del 1924. Matteotti si mise al lavoro e stese la relazione che avrebbe dovuto essere consegnata all’inizio del congresso.

Era evidente che con queste premesse più che una difficile pacificazione si sarebbe consumata la definitiva rottura. Eppure Simonini, quando si reca a Roma, è convinto ancora di potere combinare qualcosa. Quando il congresso del Psiup inizia alla città universitaria, la scissione era anche fisicamente già stata consumata. La maggioranza di “Iniziativa socialista” e la minoranza di “Critica sociale” erano già a Palazzo Barberini. Eppure tentativi furono messi in atto fino all’ultimo. E quello più significativo fu proprio promosso da Simonini. Simonini, appena arrivato a Roma, decise di prendere un’iniziativa per tentare in extremis di salvare l’unità del partito o almeno di arrivare a una soluzione che permettesse a molti degli esponenti della sua corrente (naturalmente lui compreso) di rimanere, depotenziando così la scissione di Saragat e della maggioranza di “Iniziativa socialista”. Il leader reggiano non era solo. Anche Antonio Greppi, sindaco di Milano, gli stessi Mondolfo e D’Aragona, avevano appoggiato il suo tentativo.

Non appena giunto a Roma Simonini scrive subito a Pertini . “Caro Sandro, in ordine al noto problema io penso che molto difficile sia evitare la scissione. Mia opinione, strettamente personale, è che un tentativo si potrebbe fare in questo senso: fare approvare al congresso il rinvio a maggio o giugno, affidare il partito ad un comitato (che chiamerò di salute pubblica), accuratamente scelto; il nuovo congresso si tenga in una città dell’Alta Italia, il tesseramento sia fatto a cura dei comitati provinciali nominati con lo stesso criterio con cui si nominerà la direzione. Queste a grandi linee le mie idee. Penso che sia l’unica via ancora aperta che ci possa permettere di ripartire da Roma con un partito unito” (6). Dal canto suo Pertini ricorda che Simonini, “che per quattro o cinque giorni è al centro di tutti gli incontri diretti ad arrestare il processo della scissione” (7), lo andò a trovare alla direzione dell’Avanti il 6 o il 7 gennaio. Simonini confidò a Pertini la sua disponibilità e quella di molti suoi compagni di corrente a restare nel partito, senza poter evitare del tutto la scissione (Saragat gli aveva confidato che se il suo tentativo di scissione fosse fallito si sarebbe ritirato dalla vita politica magari emigrando in Sud America).

L’unica cosa che Simonini, a nome dei suoi, chiedeva era che la segreteria non fosse affidata a Basso. L’ideale, per Simonini, era che il nuovo segretario fosse proprio lui, Pertini, che però non poteva assecondare l’iniziativa di Simonini se fosse stato sospettato di farlo “pro domo” sua. Pertini gli fece allora il nome di Morandi. Simonini volle a quel punto consultare i suoi, poi ritornò da Pertini alle 2 di notte, col loro consenso a patto che Pertini conservasse la direzione dell’Avanti. Pertini, allora, di prima mattina, si recò da Morandi al ministero dell’Industria e, dopo aver ricevuto il suo consenso, scrisse subito un biglietto a Nenni, invitandolo a presentare un documento firmato da loro due, con la proposta di Morandi segretario e l’invito all’unità del partito. Nenni si comportò in modo formalmente ineccepibile sottoponendo la proposta ai delegati della corrente maggioritaria, ma non cercò di forzare la situazione, com’era suo costume fare, e come aveva sempre fatto quando la proposta era da lui pienamente condivisa: così il tentativo svanì e Basso ebbe buon gioco ad obiettare che “non si poteva scavalcare all’ultimo momento il mandato della base” (8). Col sopravvento di Basso, assecondato da Nenni, svanì anche il tentativo di Simonini.

La scissione era cosa fatta e anche i vecchi di “Critica sociale”, compreso Simonini, si preparavano a condividerla. Matteo Matteotti lesse il memoriale per l’invalidazione del congresso documentando le irregolarità: a) l’assenteismo ai congressi di sezione e di federazione, l’irregolarità nel tesseramento e nelle votazioni b) le irregolarità e gli arbitri di procedura nei congressi di sezione e di federazione c) sistemi antidemocratici, interventi di forze esterne, coazioni fisiche e morali (9). Si trattava di una denuncia analitica e molto grave. Difficile in quel contesto pensare a un regolamento di conti “democratico”. Difficile però anche ritenere che senza quelle irregolarità denunciate il risultato congressuale sarebbe stato sostanzialmente diverso. Secondo Matteotti “manca ormai nel seno del partito socialista quella atmosfera democratica che rende possibile un’aperta espressione della volontà dei militanti (…), è stato spezzato quel patto di solidarietà e di libertà che è presupposto di ogni consorzio civile” (10).

Pertini non si rassegnò e decise di gettarsi a capofitto, com’era nella sua indole, nella baraonda congressuale recandosi personalmente a Palazzo Barberini per un disperato estremo tentativo. Quando arrivò venne accolto da un grido di vittoria, “Sandro, Sandro”, coi delegati scissionisti tutti in piedi, convinti che anche Pertini si fosse unito a loro. Ma quando egli volle manifestare il suo proposito unitario, Saragat gli rispose ringraziandolo, ma dichiarando che ormai la scissione era stata consumata. Simonini, invece, aveva parlato alla Città universitaria invitando i seguaci di Nenni e Basso a non rompere i ponti, a “non spezzare le possibilità, se ve ne sono ancora, e lo dico io”, proseguì, “che ho l’onestà di dirvi che spiritualmente sono alla sala Borromini anche se fisicamente sono qui” (11). Saragat volle parlare alla Città universitaria e svolse una dura requisitoria contro Nenni e poi con un gruppo di delegati se n’andò raggiungendo gli altri a Palazzo Barberini e annunciando la costituzione del nuovo partito: il Psli (Partito socialista dei lavoratori italiani) dopo che, su proposta di Olindo Vernocchi, il Psiup tornò a chiamarsi Psi per il timore che gli scissionisti si impadronissero del vecchio nome del partito.

Il Psi elesse Lelio Basso segretario e Pietro Nenni direttore dell’Avanti, mentre il Psli si diede una segreteria collegiale, nella quale entrò anche Simonini, in attesa di incoronare Giuseppe Saragat, che intanto si dimise, con un atto di elevato valore simbolico, dalla presidenza della Costituente. All’alba del nuovo anno il socialismo italiano si trovò, così, diviso in due partiti, come nel 1922, quando i massimalisti del Psi vollero espellere i riformisti del Psu. Allora la divisione non avvenne a causa di una consapevole scissione, ma per un provvedimento disciplinare imposto da Mosca. Ora, invece, una parte del partito aveva deliberatamente deciso di andarsene e l’altra parte non aveva fatto nulla per evitarlo. Anzi, Nenni, nelle sue conclusioni, volle affermare che la scissione non era da collegare a quelle deleterie del 1921 (scissione dei comunisti) e del 1922 (espulsione dei riformisti), ma a quelle del 1892 (divisione dagli anarchici), del 1908 (separazione dei sindacalisti rivoluzionari), del 1912 (espulsione di Bissolati e degli altri riformisti di destra, proprio da parte di Mussolini).

In sostanza la scissione di Saragat era “non una sconfitta, ma una vittoria del socialismo” (12). Eppure dal vecchio partito si staccò una parte consistente del gruppo parlamentare (e questo poteva far supporre che la vera analogia fosse proprio quella con la costituzione del Psu turatiano nel 1922), e cioè 52 deputati su 115 (il 45%), e sette componenti della vecchia Direzione su 15 eletti a Firenze. Il dato degli iscritti è invece meno confortante per gli scissionisti. Basandoci su quelli finali del congresso della Città universitaria si può registrare che su 923mila voti rappresentati al congresso 237mila non parteciparono alla votazione finale (il 25%). Questi delegati non avevano però ricevuto generalmente alcun mandato sulla scissione ed è da presumere dunque che l’incidenza alla base fosse anche minore. L’anno successivo il Psli denunciò 200mila iscritti, ma il Psi avrebbe, secondo i dati ufficiali, addirittura aumentato i suoi. Parliamo di iscritti, non certo di voti che, col Fronte popolare del 18 aprile dell’anno seguente, andranno dispersi a tutto vantaggio della rappresentanza comunista.

L’esito della separazione socialista dal punto di vista elettorale sarà deleterio e i comunisti diverranno il primo partito della sinistra rimanendo al comando fino alla fine del Pci. La scissione, che pure fu pienamente giustificata sul piano politico per l’evidente e imbarazzante subalternità della maggioranza dei socialisti al comunismo e ai comunisti, tuttavia determinò una situazione sfavorevole per entrambi i partiti. Il Psi finirà per essere assorbito, anche a causa della mancanza di forze autonomistiche al suo interno in grado di condizionarne le scelte, dalla nuova politica frontista e poi da un filo comunismo oltranzista dal quale inizierà a liberarsi solo a partire dal 1956, il Psli (che nel 1952 diverrà Psdi con l’ingresso di Romita e del suo Psu) dovrà presto rinnegare una delle sue componenti originarie, quella dell’opposizione governativa, e finirà per divenire una componente di un governo moderato negli anni della guerra fredda.

Il partito socialdemocratico sarà certamente utile, anzi in taluni frangenti anche determinante, per assicurare all’Italia una democrazia più matura e per sventare i pericoli quarantotteschi, ma non riuscirà mai a sfondare e a divenire una forza paragonabile a quella delle socialdemocrazie europee. In generale la divisione del partito, determinata dal filocomunismo del gruppo dirigente del Psiup, partorì una sfiducia nell’elettorato che il 2 giugno aveva premiato i socialisti e non i comunisti, e finirà per essere utile proprio a questi ultimi perché funzionale a costruire, e poi a mantenere, la loro egemonia sulla sinistra italiana.


M. Del Bue


Note

1) A. Gambino, Storia del dopoguerra dalla Liberazione al potere Dc, Bari 1975, p. 285.
2) Ibidem.
3) Ibidem.
4) Ibidem.
5) La frase di Nenni pronunciata il giorno di Natale del 1946 davanti alle sezioni socialiste di Monterotondo è la seguente: “Se ci sono nel partiti rami secchi, questi cadranno, se ci sono delle foglie morte il vento di gennaio se le porterà via”. In A. Gambino, Storia del dopoguerra…, cit, p. 285.
6) G. Averardi, I socialisti democratici da Palazzo Barberini alla Costituente socialista, Roma 1971, p. 39.
7) A. Gambino, Storia del dopoguerra…, cit, p. 288.
8) Ibidem, p. 289.
9) Il memoriale di denuncia di Matteotti è interamente pubblicato su G. Averardi, I socialisti democratici…, cit, p. 39.
10) Ibidem.
11) A. Simonini, Non spezzare completamente i ponti, in Avanti, 11 gennaio 1947.
12) Una sola scissione sarebbe fatale, quella nelle officine e nei campi, in Avanti, 14 gennaio 1947.





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