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Visualizza Versione Completa : Intellettuali e vita politica in Italia (Bobbio, 1954)



Frescobaldi
28-01-17, 20:23
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“Nuovi Argomenti”, 1954, fasc. 7, pp. 103-119, poi in N. Bobbio, “Politica e cultura”, Einaudi, Torino, 1955, pp. 121-138.



1. Il panorama culturale (parlo della cultura militante) e quello politico (parlo della politica di governo), sono, in Italia, alquanto diversi. Tanto l’uno appare (e forse non è) colorito, vario, vivace, altrettanto l’altro appare (ed è) piatto, squallido, bruciato. Non so se vi sia altro paese in Europa, in cui, dopo la liberazione, siano nate così numerose riviste politiche e politico-letterarie, e sebbene molte sian morte, alcune sono sopravvissute e altre, più numerose, sono sopraggiunte a sostituire quelle cadute, e continuano, ad ogni stagione, ad ogni accenno di crisi, ad ogni allarme, a nascere e a rinascere, vivendo l’una accanto all’altra in buona salute, senza urtarsi, palleggiandosi cortesemente gli autori, moderne e spregiudicate, piene di serietà e di audacia, di impegno critico e morale. Enumeriamone alcune: “Il Ponte”, “Belfagor”, “Lo spettatore italiano”, “Occidente”, “Comunità”, “Il Mulino”, e, ultima arrivata, “Itinerari”: e, s’intende, “Nuovi Argomenti”.

Nel nostro clima politico di prudente conformismo, qual è rappresentato dalla maggior parte dei giornali quotidiani, queste riviste si staccano per uno spirito spiccatamente anticonformistico, che rasenta, per i benpensanti, l’insolenza, se non, addirittura, una condannevole irriverenza verso i sacri miti. I clericali hanno, non solo negli affari dello stato, ma anche, e più, nella società civile, influenza ognor crescente; esse, invece, sono laiche, di un laicismo talora aggressivo (e laici sono pure i cattolici che vi scrivono). Il governo va a destra; ed esse sono irremovibilmente, con maggiore o minore accentuazione, a sinistra. La classe dirigente italiana è reazionaria o amica dei reazionari; ed esse sono progressiste. E si potrebbe continuare parlando di cultura illuministica contro politica oscurantistica; di agilità, mobilità, quasi irrequietezza delle idee, e immobilismo della situazione di fatto; di una qualificazione e riqualificazione continua delle posizioni culturali in una società prevalentemente non qualificata (cioè “qualunquistica”). Infine, se si dovesse dire quali correnti politiche questi “intellettuali” rappresentano, si dovrebbe parlare per la maggior parte di essi di “laburismo” e di “liberalismo radicale”, cioè di due indirizzi politici che non esistono affatto, come movimenti organizzati, come partiti di massa (e neppure di élites) nel nostro paese.


2. Questi intellettuali, in Italia, sono dunque all’opposizione; ma la loro opposizione non è un’opposizione politica. Voglio dire che non ha niente a che vedere e non vuol confondersi con la politica di opposizione dei partiti di estrema sinistra. Neppure con gli intellettuali comunisti, che hanno la loro seria e degna rivista “Società”, corrono sempre buoni rapporti. Nelle file di questi liberali, laici e progressivi, per quanto si contino alcuni amici dei comunisti, vi è pure un gruppetto piuttosto irruente di irriducibili avversari del comunismo. Gli uni e gli altri si rilanciano gravi accuse. Coloro che hanno saltato il fosso, o, con più drastica espressione, l’abisso che separa la concezione liberale da quella comunistica accusano i liberali, che si agitano in una opposizione non organizzata e non organizzabile, di ingenuità, di timidezza, di incomprensione della situazione storica, di snobismo culturale, di colpevole astensione, di essere le mosche cocchiere della storia, se non addirittura – nei momenti in cui l’atmosfera diventa più incandescente – di fare il gioco della reazione. I liberali, di rimando, deplorano la “politica culturale” che impera nei movimenti e in forma più grave negli stati comunisti, e gridano al “tradimento dei chierici”. Talvolta si trovano gli uni e gli altri riuniti in manifestazioni puramente verbali di opposizione (proclami, manifesti, ordini del giorno, ecc.); ma non mai sul terreno dell’azione concreta. E anche sul terreno della protesta verbale sorgono talora spiacevoli e acrimoniose controversie come quella, ben nota, se sia o non sia lecito a un intellettuale liberale firmare un manifesto dove compaiono firme di comunisti.

Per quale ragione la strada di questi intellettuali, chiamiamoli così illuministi, sia bloccata anche verso sinistra è stato detto e ridetto infinite volte. Essi sono gli eredi della tradizione liberale: pur nelle divergenze che esistono tra loro, e non soltanto di sfumature, identificano lo sviluppo della cultura con lo sviluppo della libertà (nel senso in cui questa parola è intesa nella dottrina dello stato liberale, come sfera di autonomia nei confronti di ogni potere organizzato). Il loro atteggiamento di fronte al fascismo è stato quello classico della rivoluzione liberale, ossia di resistenza alla oppressione. Credono che la loro funzione di uomini di cultura sia precipuamente quella di difendere il valore di libertà che la politica comunista contrasta o fraintende (o, se si vuole, intende in un significato diverso da quello che è proprio della dottrina liberale).


3. Non possono non essere all’opposizione in un paese retrogrado, ove in politica piccole teste fanno grande strepito, ma non s’identificano con l’unica opposizione politica seriamente organizzata, dove gli intellettuali non hanno privilegi, ma doveri o funzioni. Costituiscono un blocco di ghiaccio, compatto, preso tra due correnti di flutti: i flutti non lo spezzeranno (lo sgretoleranno forse); ma esso non domina i flutti, né è dominato, e oscilla, a seconda della forza delle correnti, ora più a destra, ora più a sinistra. Più vicini ai comunisti quando si tratta di indignarsi della miseria, dell’analfabetismo, della struttura antiquata dello stato dei baroni e dei grandi industriali; più vicini ai liberali quando si tratta di protestare in favore della libertà contro certe forche, certe purghe, certi processi. E naturalmente sono accusati contemporaneamente di essere “guardie svizzere” della reazione dagli uni e “utili idioti” del comunismo internazionale dagli altri.

Essendo fuori dei grandi partiti, esercitano sulla politica ordinaria un’influenza invisibile a occhio nudo. Poiché la politica, in uno stato democratico, si fa coi partiti e non con le riviste (se mai con le “riviste di partito”), e gli intellettuali fanno riviste e non partiti (se mai piccoli partiti, come vedremo, che non sono nulla di più di “partiti di riviste”), essi non mordono nella realtà politica o per lo meno in maniera assai più esigua di quel che lascerebbe supporre quel rigoglio di scritti, talora forti talora pungenti, quel ribollimento d’idee, quella lucidità di analisi, quel susseguirsi di manifesti, di proclami, di proteste, che colpisce l’osservatore imparziale delle cose di casa nostra. L’opinione pubblica è formata in uno stato democratico dei partiti. Questa élite intellettuale, estranea ai partiti, forma tutt’al più l’opinione pubblica degli intellettuali che, nelle competizioni democratiche dove i risultati politici sono in funzione dei milioni che votano e non dei cento che scrivono e dei mille che leggono, rimane senza un peso decisivo e forse lascia il tempo che trova.

Si designi questa situazione coi nomi di “distacco degli intellettuali di massa”, di “divorzio della cultura dalla politica”, e via dicendo; si chiamino gli intellettuali “estraniati” o “sradicati” dalla società in cui vivono; si può dire tranquillamente che questo divorzio o distacco o estraniazione è una caratteristica della società italiana in questi anni di ristagno e di involuzione politica dopo la guerra. Non stiamo a dire se ciò torni ad onore della cultura che non si abbassa a politica ordinaria, e della politica che non si lascia irretire nei lacci delle astratte ideologie. Ci limitiamo a constatare il fatto e a svolgervi sopra qualche considerazione.


4. Che gli intellettuali formino o credano di formare una classe a sé stante, distinta dalle classi sociali o economiche, e si attribuiscano quindi un còmpito singolare e straordinario, è segno di cattivo funzionamento dell’organismo sociale. In una società funzionale, come quella inglese, il problema non si pone neppure. In una recentissima inchiesta di “Occidente”[1] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn1) riguardante il rapporto tra intellettuali e classe politica nei vari paesi europei, l’articolista inglese non dà nessuna importanza al fatto che vi siano in Inghilterra intellettuali che credano di formare un gruppo nella società: sono considerati stravaganti, snobs, o perdigiorno, e nessuno li confonderebbe con gli intellettuali seri, il cui mestiere di professori, critici, letterati, artisti non costituisce una ragione sufficiente per dar loro una qualificazione politica eccezionale.

Ma il nostro paese non è una società funzionale. È un corpo malato in preda a continue convulsioni. Veniamo fuori da una convulsione come quella della guerra e della Resistenza, la quale era a sua volta l’effetto della convulsione precedente dell’altra guerra e del colpo di stato fascista. E viviamo e operiamo in questi anni, tutti quanti, come se una nuova convulsione fosse imminente. Nelle società non funzionali, le varie parti invece di ordinarsi ad un fine, si disarticolano; invece di armonizzarsi, cozzano le une contro le altre; si scompongono e si ricompongono in vario modo, e da questo gioco di composizione e scomposizione nasce, staccandosi come un corpo nuovo, benefico o intruso che sia, la classe degli uomini di cultura, con caratteristiche proprie, con pretese di guide o di formatori di coscienze, di educatori politici o addirittura di protagonisti della storia.


5. Come nasca ed operi nella nostra storia la élite degli intellettuali è problema su cui varrebbe la pena di andare più a fondo. Sappiamo quale interesse vi abbia recato il Gramsci, che considerò il problema della storia e della organizzazione degli intellettuali in Italia uno dei maggiori temi a cui avrebbe voluto dedicare le proprie ricerche; ed ora le sue note (raccolte soprattutto nel III volume delle Opere, intitolato Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura)[2] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn2) sono le uniche riflessioni che possediamo e meriterebbero di suscitare nuovi studi.

Quando il Gramsci si occupava della questione, nel 1930, la discussione sulla natura e sulla funzione sociale degli intellettuali era esplosa vivissima. Il totalitarismo si era già imposto in Italia e minacciava l’Europa. Qual era il còmpito degli intellettuali di fronte alla crisi dei regimi liberal-democratici? Come ho già avuto occasione di notare altrove, è del 1927 La trahison des clercs del Benda, che denunciava il pericolo ognor crescente della rinuncia che gli intellettuali venivano compiendo alla loro missione di custodi e promotori dei valori spirituali, per mettersi al servizio dei valori contingenti della politica nazionalistica. Nel 1929 Karl Mannheim, in Ideologie und Utopie, attribuiva agli intellettuali, considerati come individui non legati ad alcuna classe, il còmpito di creare la sintesi delle ideologie contrapposte e in tal modo di promuovere l’avanzamento della società. E Ortega y Gasset, nel 1930, con La rebeliòn de las masas estendeva a tutta l’Europa la diagnosi fatta in España invertebrada (1922) sulla crisi della società dovuta al divorzio tra élite intellettuale e masse. In quegli stessi anni Benedetto Croce (la Storia d’Italia è del ’28, la Storia d’Europa del ’32), che aveva iniziato nel 1° maggio del ’25 le sue pubbliche dichiarazioni di fede antifascista con la protesta contro gli intellettuali fascisti, incitava gli uomini di cultura a resistere all’oppressione richiamandoli alla tradizione della religione della libertà e al loro dovere di non subordinare la verità alle passioni di parte. Parlo di autori noti e di opere che ebbero vasta ripercussione. Ma attorno a questi autori e a queste opere si continuò la polemica, e a mantener vivo il problema contribuirono gli avvenimenti storici che seguirono.


6. Nelle società disorganiche, in processo di riorganizzazione e quindi in istato di continua emergenza, due sono in momenti tipici in cui le minoranze intellettuali assumono un còmpito politico, per lo meno mediatamente, e acquistano una loro fisionomia caratteristica, e dai quali, con un processo arbitrario di astrazione, prende forza la concezione idealistica della storia secondo cui sono le idee che muovono la storia e sono gli uomini di cultura i grandi protagonisti del movimento storico.

Il primo momento è quello della preparazione ideologica del processo di trasformazione. Si pensi, per fare i soliti esempi, ai philosophes del Settecento rispetto alla rivoluzione francese o all’intelligenza russa rispetto alla rivoluzione del ’17: qui gli intellettuali si staccano come categoria a sé stante, avente un suo particolare còmpito politico. Storiografia e sociologia si servono abitualmente di questa categoria come di una categoria della comprensione storica, valida per la spiegazione di una determinata serie di avvenimenti. Così, instauratosi saldamente il regime fascista, l’opposizione degli intellettuali è stata un caratteristico movimento di minoranza che ha avuto, sul suo terreno – che era quello principalmente etico e pedagogico della persuasione alla resistenza – efficacia per il valore di esempio morale più che di azione direttamente politica, e quindi indipendentemente dal maggiore o minor numero dei resistenti (si pensi che cosa contò e quanto fruttificò, per una generazione di giovani, il solo esempio di Croce).

In questi periodi nasce la convinzione che ciò che conta è mantener fede alle proprie idee, non piegarsi per debolezza d’animo o per ambizione al potente. Le doti che valgono sono la fermezza del carattere, lo spirito indomito, il coraggio morale. La massima suprema dell’azione è quella a cui così spesso si appella il Jemolo: “Fa’ quel che devi e avvenga quel che può”. Per fare quel che si deve non vi è bisogno né di organizzazione né di masse. Qui l’individuo vale per il suo valore assoluto di coscienza morale, e la politica è vista sotto specie di storia universale (si pensi alla concezione crociana della storia come storia della libertà che, pur non avendo nulla a che fare con una teoria politica, ha avuto indirettamente un risultato politico).


7. Il secondo momento è quello del processo rivoluzionario in atto. Dall’astensione, fondata sulla coscienza morale offesa, si passa all’azione, che segue alla convinzione che il pensiero non seguito da azione è sterile, e pensiero ed azione debbono essere coerenti. Dalla tesi crociana valida in tempi di oppressione, della libertà come ideale morale che non può non trionfare perché la storia è per definizione la storia della libertà, invitante a custodire e praticare il dovere di uomo libero nel proprio lavoro quotidiano, si passa – per richiamarci anche qui alla nostra storia – al programma mazziniano di “pensiero ed azione”. Alla formula: “Fa’ quel che devi e avvenga ciò che può”, si sostituisce quest’altra: “Fa’ quel che devi e cerca di ottenere ciò che vuoi”.

Anche in questa situazione le minoranze hanno la loro funzione e il loro prestigio: gli intellettuali da suscitatori d’idee diventano guide del rinnovamento in corso. Nella Resistenza, ad esempio, quegli stessi intellettuali che ora si vedono ai margini trovarono il proprio posto nella lotta. Hanno avuto coscienza che il còmpito a cui attendevano era perfettamente all’unisono col moto di rinnovamento, e perciò si poneva come immediatamente politico. Essi non erano né sradicati né travolti dalle fazioni, perché non vi era una società che li respingesse o di fronte alla quale potessero permettersi il lusso di sentirti estranei, ma una nuova società da edificare; né vi erano fazioni nel senso per essi deteriore della politica ordinaria, ma due parti in lotta, di cui l’una rappresentava, agli occhi loro, la verità, la libertà, la giustizia, l’altra la menzogna, la schiavitù, la prepotenza. Essi, accettando la loro parte in quella storia, si trovarono con piena aderenza inseriti nel processo storico universale. Ricordiamo, come esemplari e nobilmente rappresentative di questo atteggiamento, le parole di Giaime Pintor: “A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento”. E ancora: “Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte[3] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn3).


(continua)


[1] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref1) Pubblicata nel fasc. 1 del 1954.

[2] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref2) Torino 1949.

[3] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref3) Il sangue d’Europa, Torino 1950, p. 247. Il corsivo è mio.

Frescobaldi
29-01-17, 02:07
8. Le condizioni d’oggi in Italia non corrispondono né alla prima né alla seconda delle situazioni descritte; e neppure, del resto, a quella di una società organica. La società italiana, travagliata dall’incombente e sempre più grave inconcludenza di un esperimento pacifico di rinnovamento e nello stesso tempo dalla difficoltà di una trasformazione rivoluzionaria (e non soltanto per ragioni interne), non respinge questi intellettuali come estranei né li attrae come protagonisti; non li invita ad accontentarsi di far bene il loro mestiere, come accade nelle età pacifiche, e neppure a scegliere la loro parte, come nelle età rivoluzionarie. Le parti sono diventate, ai loro occhi, fazioni. E non sanno, per parafrasare le parole di Pintor, quale debba essere la loro parte, o almeno, lo sanno: ma questa parte è soltanto la loro parte, e non la parte degli altri. Di qua il senso di isolamento, reso penoso dalla convinzione che bisogna pur fare qualche cosa; il divorzio dalla società, ma accompagnato da un senso di colpa o di puntigliosa superiorità; il distacco dall’opinione pubblica della maggioranza, ma amareggiato dalla consapevolezza di una fatale impotenza. Essi costituiscono pur sempre una minoranza, ma una minoranza sterile, non di dotti che fanno bene e utilmente il loro mestiere, né di guide intellettuali, ma di politici in vacanza o di ideologi inascoltati. Tra cultura e politica non vi è né separazione netta di còmpiti né corrispondenza reciproca, ma uno stato continuo di attrazione e repulsione.

In tale situazione il problema della funzione degli intellettuali nella società acquista un aspetto inquietante: ed è del resto nei paesi, che hanno maggiormente sofferto delle convulsioni seguite alla prima guerra mondiale, Spagna, Germania, Italia, che esso è stato, come si è visto, primamente dibattuto. S’intende che, essendo gli intellettuali in questo dibattito attori ed autori, tendono ad attribuire la responsabilità della loro sterilità alla società piuttosto che a loro stessi, raffigurando il contrasto come un urto tra élites in anticipo sul loro tempo e masse retrograde, tra cultura progressiva e società arretrata. Ad esempio, la simpatia che esiste tra gli intellettuali di questo tipo per il laburismo inglese (è significativo che due di quelle riviste, “Il Ponte” e “Occidente”, abbiano dedicato quasi contemporaneamente un numero all’esperimento socialista inglese) potrebbe essere interpretata come un segno di spirito precorritore.

Ma se ragioniamo da storici e non da paladini della parte interessata, la questione della responsabilità non si può porre a quel modo: ogni società ha gli intellettuali che le convengono e se la società è in preda a convulsioni o arretrata o malata, i gruppi intellettuali non possono non risentirne. Più la società è arretrata, più gli intellettuali sono retori, astratti ideologi, spregiatori delle tecniche, esaltatori di un sapere contemplativo, che si vanta della propria totale inutilità. Nelle società arretrate fioriscono, com’è noto, le utopie sociali. Si guardi alla cultura nostra e si vedrà che gli intellettuali, anche quelli più progressivi, sono più umanisti che tecnici, specialisti in dispute teoriche che non smuovono neppure una foglia del frondoso albero sociale. Dal punto di vista della società, si potrebbe dire, invertendo il ragionamento, che il guaio non è che la società non li comprenda, ma che essi, vagheggiando ideali astratti e irraggiungibili, non comprendano la società. Ciò che visto da una lato è, positivamente, spirito precorritore, visto dall’altro è, negativamente, utopismo. Restando nell’esempio del laburismo si potrebbe domandare quanti di coloro che lo idoleggiano, facciano o sappiano fare quel che hanno fatto e fanno tuttora i gruppi intellettuali inglesi, che influirono e continuano a influire sulla politica laburista: inchieste e ricerche sociologiche, piani economici a lungo respiro, opere documentate di storia sociale; cioè adempiano al còmpito che è proprio e naturale degli intellettuali in una società funzionale.


9. Quanto più si viene delineando la situazione d’isolamento degli intellettuali dalle masse e vien riconosciuta come una situazione tipica, tanto più si forma la convinzione che agli intellettuali spetti, nella società, un còmpito straordinario, inconfondibile con quello degli altri gruppi costituiti.

Di che natura è questo còmpito? Generale è la tendenza a considerarlo nettamente distinto dai còmpiti che si prefigge la politica ordinaria, qual è svolta dai gruppi di interessi che agiscono attraverso i partiti tradizionali e di massa. Vi sono vari modi, infatti, con cui l’intellettuale suol prender posizione di fronte alla politica ordinaria. Vediamone alcuni.

1) La politica è radicata al suolo racchiuso nei confini geografici, è nazionale e nazionalistica; la cultura è cosmopolitica. Di fronte alla cultura non vi sono barriere né politiche né geografiche. La patria dell’uomo di cultura è il mondo.

2) La politica traffica in cose contingenti e particolari; la cultura maneggia soltanto valori assoluti e universali. L’uomo politico conosce solo le occasioni e le opportunità; l’uomo di cultura afferma contro le mobili occasioni i fermi ideali, contro la mutevole opportunità l’eterna giustizia.

3) La politica si regge sopra una certa dose di conformismo; la cultura non respira se non in un’atmosfera di libera ricerca. Nella vita politica il dogma sembra altrettanto necessario del dubbio critico nella vita del pensiero.

4) Nella politica c’è bisogno di spirito gregario, mentre la cultura è per eccellenza la più alta espressione della individualità. L’uomo di cultura che cede alla politica finisce per rinunciare a una parte di se stesso, a ciò che lo caratterizza come uomo di cultura.

5) La politica è parziale, mentre la scienza è imparziale. Chi fa il politico non può essere nello stesso tempo uomo di cultura, perché le passioni che si convengono al primo turbano e deviano il secondo.

6) La politica appartiene alla sfera dell’economico, della vitalità, rappresenta il momento della forza. La cultura ha il còmpito di far valere di fronte alla forza le esigenze della vita morale. Contro il politico che obbedisce alla ragion di stato, l’uomo di cultura è il devoto interprete della coscienza morale.

Queste antitesi affiorano continuamente, or l’una or l’altra, nel dissidio tra i diritti della cultura e quelli della politica, e colorano in varia misura il dissenso tra intellettuali e politici. Se facciamo un esame di coscienza le troviamo al fondo di certi nostri sdegni o impazienze, dei nostri stessi errori, del “disgusto” della politica, che anche quando è superato non cessa di tanto in tanto di assalirci e di blandire la nostra pigrizia.

Quando tali antitesi vengono spinte alle estreme conseguenze, dànno luogo ad atteggiamenti degenerati che tradiscono qualcosa di più che non la differenziazione, vale a dire l’apoliticità, lo spirito di evasione. L’antinazionalismo degenera in cosmopolitismo astratto; la difesa dei valori supremi in inerte contemplazione; l’esaltazione del dubbio metodico, per usare una parola significativa del linguaggio filosofico italiano, in problematicismo; lo spirito individualistico in anarchismo; l’imparzialità in indifferentismo; l’antipoliticismo in predicazione moralistica.


10. Se sono contenute entro certi limiti, le medesime antitesi intervengono, quale più quale meno, a determinare vari atteggiamenti tipici che costituiscono la fenomenologia dei rapporti tra cultura e politica in una società lacerata dalle fazioni. Tali atteggiamenti sono in maggiore o minor misura rappresentati nella odierna situazione italiana.

Il primo atteggiamento si potrebbe disegnare con la celebre formula di Romain Rolland: al disopra della mischia. Differisce dall’atteggiamento puro e semplice di evasione, così come lo “stare al di sopra” differisce dallo “stare al di fuori”. Si assiste alla lacerazione della società in fazioni con un senso di orrore e di vergogna. Il còmpito dell’intellettuale, custode della verità, è di non lasciarsi contaminare dalle passioni che accecano i contendenti, e di guardare dall’alto il campo di battaglia in attesa della pace o della tregua che gli permetta di scendere dal piedistallo e di mescolarsi tra la folla con animo puro.

L’aspetto positivo di questo atteggiamento è insito nel fatto che l’uomo di cultura, se è veramente tale, non può abbandonare l’abitudine a giudicare gli eventi sotto specie di storia universale. Un tale abito dovrebbe consentirgli di considerare gli episodi quotidiani della politica del proprio paese con il distacco, o, se si vuole, con l’esperienza e la maturità, dello storico che non è in balìa degli avvenimenti come il cronista o l’uomo di parte. Effettivamente, l’uomo di cultura che corre dietro agli avvenimenti con le paure, le idiosincrasie, le impressioni fuggevoli dell’uomo della strada, vien meno a uno dei suoi doveri che è la cautela nel giudizio, la precisione nell’accertamento dei fatti, il parlare a ragion veduta. Ma guai se questo abito alla moderazione si trasforma nell’atteggiamento di chi giudica i suoi contemporanei con la vista del postero, rimandando la realizzazione della giusta società a dopo la zuffa in cui egli, per stare al di sopra, non ha preso parte. Non direi che un atteggiamento simile sia molto condiviso dagli intellettuali, oggi, in Italia.


(continua)

Frescobaldi
29-01-17, 13:31
11. Un secondo atteggiamento si potrebbe definire con questa altra formula: né di qua né di là. Chi volesse anche qui un celebre ispiratore potrebbe ricordarsi di Erasmo. A chi afferma che bisogna scegliere, c’è qualcuno che risponde che è un modo di scegliere anche il non decidersi per nessuna delle due parti. A chi protesta che tutti devono impegnarsi, c’è qualcuno che risponde che l’unico impegno ch’egli accetta è per la verità che i fanatici hanno abbandonato. Emerge la figura dell’uomo di cultura come di colui che rifiuta di lasciarsi strappare un consenso dall’una e dall’altra parte, e se pur standosene dinanzi all’incendio non contribuisce a spegnerlo, tuttavia non lo attizza; anzi costituisce una barriera che gli impedisce di allargarsi. Mi pare che un simile atteggiamento non sia del tutto inesistente fra gli intellettuali italiani. Forse molti di coloro che gli occidentalisti arrabbiati chiamano filocomunisti, compagni di viaggio, o con qualche nomignolo meno riguardoso, sono soltanto dei neutrali che non sanno decidersi a dar la preferenza all’una o all’altra parte. Il mondo appare loro come una gabbia di matti, e non si può dire con certezza se i matti siano più a destra o più a sinistra. Parlano male dell’America e della Russia, che non pregiano la cultura, ma sono vòlte alla completa tecnicizzazione; e diffidano della vecchia Europa decaduta e impotente.

All’attivo di questi neutrali c’è una certa dignità o semplicemente compostezza: non partecipano alle crociate, non condividono i furori; vorrebbero pace invece di guerra. Ma il passivo è maggiore: essi in fondo non fanno la storia; la lasciano fare, non tanto perché se ne lavino le mani (la posizione del neutrale non è da confondere con quella del solitario sdegnoso nella torre d’avorio), ma perché la storia è già fatta senza di loro, ed è fatta male. È un’avventura a triste fine scontata in anticipo.


12. Il terzo atteggiamento è simile al precedente, ma in chiave positiva. Potremmo definirlo in questo modo: e di qua e di là. In base a questo ideale, l’intellettuale non deve ritirarsi né attendere, ma deve essere presente dovunque vi siano valori positivi. E questi non sono soltanto da una parte. Anzi egli ha lo scopo, questi valori positivi, di liberarli dalla materia passionale in cui sono impastati, di metterli in evidenza, di farsene portatore e persuasore. Egli non riesce a vedere il mondo, come lo dipingono i propagandisti delle due parti, spaccato in buoni e malvagi. Se gli si chiedesse dove sta la verità, dove sta il bene, dove sta il giusto, risponderebbe che non sta né da una parte né dall’altra, ma è mescolato con la menzogna, con il male, con l’iniquità tanto di qua che di là. Onde il còmpito, nobilissimo, di rompere i blocchi, d’impedire le chiusure e le fratture, d’invocare la tolleranza, di perseguire il dialogo. È un atteggiamento non passivo, ma attivo: bisogna correre instancabilmente da una parte e dall’altra per combattere la menzogna, per sventare insensate propagande, per ristabilire i fatti nella loro nuda verità, per difendere la libertà dovunque sia minacciata anche se, nella protesta, ci si trovi a fianco di facce poco rassicuranti. In questo atteggiamento contano in primo luogo i valori in quanto tali; e i valori supremi da difendere sono quelli senza i quali ogni progresso della cultura sarebbe impossibile: la libertà e la verità. Guai a lasciarsi prendere dalla tentazione della furberia o del machiavellismo, che sono concessi ai politici militanti, non a coloro che hanno il dovere di difendere libertà e verità. L’unico abito che si addice all’intellettuale che assume questo difficile posto non tra due fuochi, ma dentro i due fuochi, è l’intransigenza sui valori. Ma l’intransigenza, per non trasformarsi in pedanteria morale, deve essere accompagnata dalla massima apertura, che è una forma di generosità mentale, sulle tavole dei valori in contrasto.

Mi pare che qui l’attivo sia maggiore del passivo, che forse sta nel pericolo (a questo punto la descrizione rischia di diventare una confessione) di consumare la propria vocazione in se stessi, paghi della tranquillità di coscienza che viene al filantropo dall’aver compiuto il proprio dovere, e quindi di adottare un ritmo di impegno e di lavoro che è troppo lento per la storia così frettolosa del nostro tempo. Si è parlato, a proposito di questo atteggiamento, in contrapposto alla politica ordinaria, di una politica della cultura, considerata come l’unica azione politica concessa all’uomo di cultura in tempo di crisi. Di questa si è fatta banditrice la Società europea di cultura in un manifesto del 1951 a cui hanno partecipato, credo senza riserve, parecchi intellettuali italiani, che diceva tra l’altro: “Sur le plan ù nous nous sommes placés, qui est celui d’une politique de la culture, au lieu de dire oui d’une part et non de l’autre, on peut et doit dire oui et oui, car les valeurs essentielles, où qu’elles soient, ne doivent pas être laissées à la merci de la violence”.


13. Considero infine un ultimo atteggiamento, che è il più ambizioso e anche il più temerario. L’intellettuale ha il còmpito della sintesi. È un modo di porsi al disopra della parti, non con atto di distacco o di sfida, ma con pretesa di guida. Coloro che sono immersi nella lotta politica, vedono solo un lato della questione, difendono punti di vista parziali, sono portatori di ideologie. L’intellettuale, invece, abbracciando in uno sguardo più puro le singole prospettive, presume di proporre una considerazione globale o totale della realtà, che, appunto perché globale o totale, non è più ideologia; e in questo còmpito sintetico prepara il futuro. Si trovano in questa direzione le varie forme di “terza via” come sintesi di liberalismo e di socialismo, di personalismo e di solidarismo, di individualismo e di universalismo, di cui raccoglierebbe abbondante messe chi avesse pazienza di spigolare in libri filosofici, sociologici, storici di questo mezzo secolo (si potrebbe quasi dire che la terza via è una specie di superideologia degli intellettuali ritornante, nel nostro secolo, in mille esemplari e sotto le più diverse forme); e così pure i vari conati di europeismo, intesa l’Europa come civiltà mediatrice-superatrice del contrasto tra Oriente e Occidente, tra civiltà scientifica e civiltà religiosa, tra spirito tecnico e spirito mistico, tra materialismo e spiritualismo.

Più che come programma politico queste sintesi sono sentite e vagheggiate come motivi culturali. Prova ne sia che sono difese anche se la realtà è ostile, anche se non vi sono attualmente forze politiche capaci di renderle efficaci. Sono astratti ideali a cui la realtà dovrà pure adeguarsi, ma s’ignora per quali vie e con quali mezzi. Di qua l’aspetto negativo di tale posizione che è la capacità di illusione, la quale può generare persino una sorta d’indifferenza di fronte alla storia.

Qui la consapevolezza dell’intellettuale di costituire una classe separata e avente un còmpito straordinario tocca la punta estrema. Ma nel momento stesso in cui l’uomo di cultura pretende di essere l’unico interprete del corso storico, e di dirigerlo verso la mèta che lui solo è in grado di vedere, si pone al di fuori della storia.Il ciclo del divorzio tra cultura e politica che ha inizio dall’atteggiamento di evasione deliberata sbocca in questo atteggiamento che è un inserimento, sì, ma illusorio, o una specie di evasione mascherata.


14. Di questi vari atteggiamenti, mal separabili nella realtà gli uni dagli altri, il prodotto più appariscente e caratteristico, qui in Italia, è stato il tentativo più volte ripreso, di costituire il partito degli intellettuali.

Si ricordi quali sforzi fece il Croce per dimostrare che, essendo il liberalismo il “partito della cultura”, il partito liberale, così come si ricostituì alla ripresa della vita democratica nel nostro paese, non era un partito come tutti gli altri ma una specie di super-partito (che è ciò che conviene a una superideologia), composto e sostenuto dal ceto medio che nell’immagine del Croce si veniva identificando col ceto culturale. Ma il partito degli intellettuali, nonostante questi astratti teorizzamenti del Croce, non fu il Partito liberale, bensì il Partito d’azione, che si è reincarnato recentemente nel movimento di Unità popolare. I gruppi di intellettuali, di cui abbiamo sinora parlato, e la cui concreta esistenza abbiamo rivelato riferendoci ad alcune riviste di cultura e politica, sono stati i principali sostenitori di questi movimenti politici che si collocano, con spirito di marcata e insofferente indipendenza, tra i due blocchi.

Il partito degli intellettuali è un fenomeno alquanto mostruoso del corpo politico (inconcepibile in un organismo politico sano) con l’avvertenza che il termine “mostruoso” è usato come termine descrittivo e non di valore. Nasce dallo scambio tra politica della cultura, che è politica a lunga scadenza, e politica ordinaria, che è la sola politica formulabile in programmi e in organizzazioni di partito, e quindi dalla falsa immagine che si possa promuovere la politica della cultura con gli stessi mezzi con cui si promuove l’azione politica ordinaria; o dalla confusione fra terza forza culturale (che è la cosiddetta sintesi o terza via) e la terza forza politica (che è il centro quadripartitico, di cui questi intellettuali sono in genere avversari). Questo scambio, questa confusione sono il prodotto naturale e inevitabile dell’isolamento in cui si vengono a trovare gli intellettuali in una società disorganica e della conseguente impossibilità e incapacità di trovare un inserimento politico nei partiti ch’essi degradano a fazioni o condannano come chiese. Essi, respinti ormai su posizioni di contorno, pur continuando a coltivare la convinzione di essere guide spirituali, non trovano altra via d’uscita politica che quella di costituire, come tutte le altre forze sociali, un partito il quale rispecchi la loro superideologia e sia perciò inconfondibile con gli altri partiti ideologici (o di meri interessi). Ma questo partito è tanto inconfondibile che non ha i requisiti usuali del partito in senso sociologico. Gli mancano soprattutto due elementi, senza i quali non si può parlare di partito moderno (e intendo per “partito moderno” il partito nell’età del suffragio universale): l’organizzazione di massa e un leader. Gli mancano insomma il corpo e la testa. Quale sia poi la forza politica, voglio dire la forza sul piano della politica ordinaria, di un siffatto quasi-partito, l’esperienza delle elezioni che si son susseguite in questi anni lo dimostra abbastanza chiaramente. È difficile immaginare sanzione storica più rigorosa a un partito di fuori-classe che il non trovar nessuna classe a cui possa chiedere appoggio; e prova più schiacciante del fatto, da cui abbiamo preso le mosse e che ha costituito il filo conduttore di questa nota, cioè del divorzio, esistente in Italia, tra il prevalente indirizzo culturale e il prevalente indirizzo politico, che il costituirsi di un partito di capi senza seguito.

Più che un giudizio di valore, questa constatazione-conclusione vorrebbe essere il frutto di una riflessione, fatta con animo quanto più è possibile pacato, da parte di chi non si sente così estraneo alla situazione descritta da non dividerne le responsabilità; o, se si vuole, un esame di coscienza che non emette condanne, ma attende da un dialogo onesto smentite o conferme.



Norberto Bobbio (1954)




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