Frescobaldi
28-01-17, 20:23
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“Nuovi Argomenti”, 1954, fasc. 7, pp. 103-119, poi in N. Bobbio, “Politica e cultura”, Einaudi, Torino, 1955, pp. 121-138.
1. Il panorama culturale (parlo della cultura militante) e quello politico (parlo della politica di governo), sono, in Italia, alquanto diversi. Tanto l’uno appare (e forse non è) colorito, vario, vivace, altrettanto l’altro appare (ed è) piatto, squallido, bruciato. Non so se vi sia altro paese in Europa, in cui, dopo la liberazione, siano nate così numerose riviste politiche e politico-letterarie, e sebbene molte sian morte, alcune sono sopravvissute e altre, più numerose, sono sopraggiunte a sostituire quelle cadute, e continuano, ad ogni stagione, ad ogni accenno di crisi, ad ogni allarme, a nascere e a rinascere, vivendo l’una accanto all’altra in buona salute, senza urtarsi, palleggiandosi cortesemente gli autori, moderne e spregiudicate, piene di serietà e di audacia, di impegno critico e morale. Enumeriamone alcune: “Il Ponte”, “Belfagor”, “Lo spettatore italiano”, “Occidente”, “Comunità”, “Il Mulino”, e, ultima arrivata, “Itinerari”: e, s’intende, “Nuovi Argomenti”.
Nel nostro clima politico di prudente conformismo, qual è rappresentato dalla maggior parte dei giornali quotidiani, queste riviste si staccano per uno spirito spiccatamente anticonformistico, che rasenta, per i benpensanti, l’insolenza, se non, addirittura, una condannevole irriverenza verso i sacri miti. I clericali hanno, non solo negli affari dello stato, ma anche, e più, nella società civile, influenza ognor crescente; esse, invece, sono laiche, di un laicismo talora aggressivo (e laici sono pure i cattolici che vi scrivono). Il governo va a destra; ed esse sono irremovibilmente, con maggiore o minore accentuazione, a sinistra. La classe dirigente italiana è reazionaria o amica dei reazionari; ed esse sono progressiste. E si potrebbe continuare parlando di cultura illuministica contro politica oscurantistica; di agilità, mobilità, quasi irrequietezza delle idee, e immobilismo della situazione di fatto; di una qualificazione e riqualificazione continua delle posizioni culturali in una società prevalentemente non qualificata (cioè “qualunquistica”). Infine, se si dovesse dire quali correnti politiche questi “intellettuali” rappresentano, si dovrebbe parlare per la maggior parte di essi di “laburismo” e di “liberalismo radicale”, cioè di due indirizzi politici che non esistono affatto, come movimenti organizzati, come partiti di massa (e neppure di élites) nel nostro paese.
2. Questi intellettuali, in Italia, sono dunque all’opposizione; ma la loro opposizione non è un’opposizione politica. Voglio dire che non ha niente a che vedere e non vuol confondersi con la politica di opposizione dei partiti di estrema sinistra. Neppure con gli intellettuali comunisti, che hanno la loro seria e degna rivista “Società”, corrono sempre buoni rapporti. Nelle file di questi liberali, laici e progressivi, per quanto si contino alcuni amici dei comunisti, vi è pure un gruppetto piuttosto irruente di irriducibili avversari del comunismo. Gli uni e gli altri si rilanciano gravi accuse. Coloro che hanno saltato il fosso, o, con più drastica espressione, l’abisso che separa la concezione liberale da quella comunistica accusano i liberali, che si agitano in una opposizione non organizzata e non organizzabile, di ingenuità, di timidezza, di incomprensione della situazione storica, di snobismo culturale, di colpevole astensione, di essere le mosche cocchiere della storia, se non addirittura – nei momenti in cui l’atmosfera diventa più incandescente – di fare il gioco della reazione. I liberali, di rimando, deplorano la “politica culturale” che impera nei movimenti e in forma più grave negli stati comunisti, e gridano al “tradimento dei chierici”. Talvolta si trovano gli uni e gli altri riuniti in manifestazioni puramente verbali di opposizione (proclami, manifesti, ordini del giorno, ecc.); ma non mai sul terreno dell’azione concreta. E anche sul terreno della protesta verbale sorgono talora spiacevoli e acrimoniose controversie come quella, ben nota, se sia o non sia lecito a un intellettuale liberale firmare un manifesto dove compaiono firme di comunisti.
Per quale ragione la strada di questi intellettuali, chiamiamoli così illuministi, sia bloccata anche verso sinistra è stato detto e ridetto infinite volte. Essi sono gli eredi della tradizione liberale: pur nelle divergenze che esistono tra loro, e non soltanto di sfumature, identificano lo sviluppo della cultura con lo sviluppo della libertà (nel senso in cui questa parola è intesa nella dottrina dello stato liberale, come sfera di autonomia nei confronti di ogni potere organizzato). Il loro atteggiamento di fronte al fascismo è stato quello classico della rivoluzione liberale, ossia di resistenza alla oppressione. Credono che la loro funzione di uomini di cultura sia precipuamente quella di difendere il valore di libertà che la politica comunista contrasta o fraintende (o, se si vuole, intende in un significato diverso da quello che è proprio della dottrina liberale).
3. Non possono non essere all’opposizione in un paese retrogrado, ove in politica piccole teste fanno grande strepito, ma non s’identificano con l’unica opposizione politica seriamente organizzata, dove gli intellettuali non hanno privilegi, ma doveri o funzioni. Costituiscono un blocco di ghiaccio, compatto, preso tra due correnti di flutti: i flutti non lo spezzeranno (lo sgretoleranno forse); ma esso non domina i flutti, né è dominato, e oscilla, a seconda della forza delle correnti, ora più a destra, ora più a sinistra. Più vicini ai comunisti quando si tratta di indignarsi della miseria, dell’analfabetismo, della struttura antiquata dello stato dei baroni e dei grandi industriali; più vicini ai liberali quando si tratta di protestare in favore della libertà contro certe forche, certe purghe, certi processi. E naturalmente sono accusati contemporaneamente di essere “guardie svizzere” della reazione dagli uni e “utili idioti” del comunismo internazionale dagli altri.
Essendo fuori dei grandi partiti, esercitano sulla politica ordinaria un’influenza invisibile a occhio nudo. Poiché la politica, in uno stato democratico, si fa coi partiti e non con le riviste (se mai con le “riviste di partito”), e gli intellettuali fanno riviste e non partiti (se mai piccoli partiti, come vedremo, che non sono nulla di più di “partiti di riviste”), essi non mordono nella realtà politica o per lo meno in maniera assai più esigua di quel che lascerebbe supporre quel rigoglio di scritti, talora forti talora pungenti, quel ribollimento d’idee, quella lucidità di analisi, quel susseguirsi di manifesti, di proclami, di proteste, che colpisce l’osservatore imparziale delle cose di casa nostra. L’opinione pubblica è formata in uno stato democratico dei partiti. Questa élite intellettuale, estranea ai partiti, forma tutt’al più l’opinione pubblica degli intellettuali che, nelle competizioni democratiche dove i risultati politici sono in funzione dei milioni che votano e non dei cento che scrivono e dei mille che leggono, rimane senza un peso decisivo e forse lascia il tempo che trova.
Si designi questa situazione coi nomi di “distacco degli intellettuali di massa”, di “divorzio della cultura dalla politica”, e via dicendo; si chiamino gli intellettuali “estraniati” o “sradicati” dalla società in cui vivono; si può dire tranquillamente che questo divorzio o distacco o estraniazione è una caratteristica della società italiana in questi anni di ristagno e di involuzione politica dopo la guerra. Non stiamo a dire se ciò torni ad onore della cultura che non si abbassa a politica ordinaria, e della politica che non si lascia irretire nei lacci delle astratte ideologie. Ci limitiamo a constatare il fatto e a svolgervi sopra qualche considerazione.
4. Che gli intellettuali formino o credano di formare una classe a sé stante, distinta dalle classi sociali o economiche, e si attribuiscano quindi un còmpito singolare e straordinario, è segno di cattivo funzionamento dell’organismo sociale. In una società funzionale, come quella inglese, il problema non si pone neppure. In una recentissima inchiesta di “Occidente”[1] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn1) riguardante il rapporto tra intellettuali e classe politica nei vari paesi europei, l’articolista inglese non dà nessuna importanza al fatto che vi siano in Inghilterra intellettuali che credano di formare un gruppo nella società: sono considerati stravaganti, snobs, o perdigiorno, e nessuno li confonderebbe con gli intellettuali seri, il cui mestiere di professori, critici, letterati, artisti non costituisce una ragione sufficiente per dar loro una qualificazione politica eccezionale.
Ma il nostro paese non è una società funzionale. È un corpo malato in preda a continue convulsioni. Veniamo fuori da una convulsione come quella della guerra e della Resistenza, la quale era a sua volta l’effetto della convulsione precedente dell’altra guerra e del colpo di stato fascista. E viviamo e operiamo in questi anni, tutti quanti, come se una nuova convulsione fosse imminente. Nelle società non funzionali, le varie parti invece di ordinarsi ad un fine, si disarticolano; invece di armonizzarsi, cozzano le une contro le altre; si scompongono e si ricompongono in vario modo, e da questo gioco di composizione e scomposizione nasce, staccandosi come un corpo nuovo, benefico o intruso che sia, la classe degli uomini di cultura, con caratteristiche proprie, con pretese di guide o di formatori di coscienze, di educatori politici o addirittura di protagonisti della storia.
5. Come nasca ed operi nella nostra storia la élite degli intellettuali è problema su cui varrebbe la pena di andare più a fondo. Sappiamo quale interesse vi abbia recato il Gramsci, che considerò il problema della storia e della organizzazione degli intellettuali in Italia uno dei maggiori temi a cui avrebbe voluto dedicare le proprie ricerche; ed ora le sue note (raccolte soprattutto nel III volume delle Opere, intitolato Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura)[2] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn2) sono le uniche riflessioni che possediamo e meriterebbero di suscitare nuovi studi.
Quando il Gramsci si occupava della questione, nel 1930, la discussione sulla natura e sulla funzione sociale degli intellettuali era esplosa vivissima. Il totalitarismo si era già imposto in Italia e minacciava l’Europa. Qual era il còmpito degli intellettuali di fronte alla crisi dei regimi liberal-democratici? Come ho già avuto occasione di notare altrove, è del 1927 La trahison des clercs del Benda, che denunciava il pericolo ognor crescente della rinuncia che gli intellettuali venivano compiendo alla loro missione di custodi e promotori dei valori spirituali, per mettersi al servizio dei valori contingenti della politica nazionalistica. Nel 1929 Karl Mannheim, in Ideologie und Utopie, attribuiva agli intellettuali, considerati come individui non legati ad alcuna classe, il còmpito di creare la sintesi delle ideologie contrapposte e in tal modo di promuovere l’avanzamento della società. E Ortega y Gasset, nel 1930, con La rebeliòn de las masas estendeva a tutta l’Europa la diagnosi fatta in España invertebrada (1922) sulla crisi della società dovuta al divorzio tra élite intellettuale e masse. In quegli stessi anni Benedetto Croce (la Storia d’Italia è del ’28, la Storia d’Europa del ’32), che aveva iniziato nel 1° maggio del ’25 le sue pubbliche dichiarazioni di fede antifascista con la protesta contro gli intellettuali fascisti, incitava gli uomini di cultura a resistere all’oppressione richiamandoli alla tradizione della religione della libertà e al loro dovere di non subordinare la verità alle passioni di parte. Parlo di autori noti e di opere che ebbero vasta ripercussione. Ma attorno a questi autori e a queste opere si continuò la polemica, e a mantener vivo il problema contribuirono gli avvenimenti storici che seguirono.
6. Nelle società disorganiche, in processo di riorganizzazione e quindi in istato di continua emergenza, due sono in momenti tipici in cui le minoranze intellettuali assumono un còmpito politico, per lo meno mediatamente, e acquistano una loro fisionomia caratteristica, e dai quali, con un processo arbitrario di astrazione, prende forza la concezione idealistica della storia secondo cui sono le idee che muovono la storia e sono gli uomini di cultura i grandi protagonisti del movimento storico.
Il primo momento è quello della preparazione ideologica del processo di trasformazione. Si pensi, per fare i soliti esempi, ai philosophes del Settecento rispetto alla rivoluzione francese o all’intelligenza russa rispetto alla rivoluzione del ’17: qui gli intellettuali si staccano come categoria a sé stante, avente un suo particolare còmpito politico. Storiografia e sociologia si servono abitualmente di questa categoria come di una categoria della comprensione storica, valida per la spiegazione di una determinata serie di avvenimenti. Così, instauratosi saldamente il regime fascista, l’opposizione degli intellettuali è stata un caratteristico movimento di minoranza che ha avuto, sul suo terreno – che era quello principalmente etico e pedagogico della persuasione alla resistenza – efficacia per il valore di esempio morale più che di azione direttamente politica, e quindi indipendentemente dal maggiore o minor numero dei resistenti (si pensi che cosa contò e quanto fruttificò, per una generazione di giovani, il solo esempio di Croce).
In questi periodi nasce la convinzione che ciò che conta è mantener fede alle proprie idee, non piegarsi per debolezza d’animo o per ambizione al potente. Le doti che valgono sono la fermezza del carattere, lo spirito indomito, il coraggio morale. La massima suprema dell’azione è quella a cui così spesso si appella il Jemolo: “Fa’ quel che devi e avvenga quel che può”. Per fare quel che si deve non vi è bisogno né di organizzazione né di masse. Qui l’individuo vale per il suo valore assoluto di coscienza morale, e la politica è vista sotto specie di storia universale (si pensi alla concezione crociana della storia come storia della libertà che, pur non avendo nulla a che fare con una teoria politica, ha avuto indirettamente un risultato politico).
7. Il secondo momento è quello del processo rivoluzionario in atto. Dall’astensione, fondata sulla coscienza morale offesa, si passa all’azione, che segue alla convinzione che il pensiero non seguito da azione è sterile, e pensiero ed azione debbono essere coerenti. Dalla tesi crociana valida in tempi di oppressione, della libertà come ideale morale che non può non trionfare perché la storia è per definizione la storia della libertà, invitante a custodire e praticare il dovere di uomo libero nel proprio lavoro quotidiano, si passa – per richiamarci anche qui alla nostra storia – al programma mazziniano di “pensiero ed azione”. Alla formula: “Fa’ quel che devi e avvenga ciò che può”, si sostituisce quest’altra: “Fa’ quel che devi e cerca di ottenere ciò che vuoi”.
Anche in questa situazione le minoranze hanno la loro funzione e il loro prestigio: gli intellettuali da suscitatori d’idee diventano guide del rinnovamento in corso. Nella Resistenza, ad esempio, quegli stessi intellettuali che ora si vedono ai margini trovarono il proprio posto nella lotta. Hanno avuto coscienza che il còmpito a cui attendevano era perfettamente all’unisono col moto di rinnovamento, e perciò si poneva come immediatamente politico. Essi non erano né sradicati né travolti dalle fazioni, perché non vi era una società che li respingesse o di fronte alla quale potessero permettersi il lusso di sentirti estranei, ma una nuova società da edificare; né vi erano fazioni nel senso per essi deteriore della politica ordinaria, ma due parti in lotta, di cui l’una rappresentava, agli occhi loro, la verità, la libertà, la giustizia, l’altra la menzogna, la schiavitù, la prepotenza. Essi, accettando la loro parte in quella storia, si trovarono con piena aderenza inseriti nel processo storico universale. Ricordiamo, come esemplari e nobilmente rappresentative di questo atteggiamento, le parole di Giaime Pintor: “A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento”. E ancora: “Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte[3] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn3).
(continua)
[1] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref1) Pubblicata nel fasc. 1 del 1954.
[2] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref2) Torino 1949.
[3] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref3) Il sangue d’Europa, Torino 1950, p. 247. Il corsivo è mio.
“Nuovi Argomenti”, 1954, fasc. 7, pp. 103-119, poi in N. Bobbio, “Politica e cultura”, Einaudi, Torino, 1955, pp. 121-138.
1. Il panorama culturale (parlo della cultura militante) e quello politico (parlo della politica di governo), sono, in Italia, alquanto diversi. Tanto l’uno appare (e forse non è) colorito, vario, vivace, altrettanto l’altro appare (ed è) piatto, squallido, bruciato. Non so se vi sia altro paese in Europa, in cui, dopo la liberazione, siano nate così numerose riviste politiche e politico-letterarie, e sebbene molte sian morte, alcune sono sopravvissute e altre, più numerose, sono sopraggiunte a sostituire quelle cadute, e continuano, ad ogni stagione, ad ogni accenno di crisi, ad ogni allarme, a nascere e a rinascere, vivendo l’una accanto all’altra in buona salute, senza urtarsi, palleggiandosi cortesemente gli autori, moderne e spregiudicate, piene di serietà e di audacia, di impegno critico e morale. Enumeriamone alcune: “Il Ponte”, “Belfagor”, “Lo spettatore italiano”, “Occidente”, “Comunità”, “Il Mulino”, e, ultima arrivata, “Itinerari”: e, s’intende, “Nuovi Argomenti”.
Nel nostro clima politico di prudente conformismo, qual è rappresentato dalla maggior parte dei giornali quotidiani, queste riviste si staccano per uno spirito spiccatamente anticonformistico, che rasenta, per i benpensanti, l’insolenza, se non, addirittura, una condannevole irriverenza verso i sacri miti. I clericali hanno, non solo negli affari dello stato, ma anche, e più, nella società civile, influenza ognor crescente; esse, invece, sono laiche, di un laicismo talora aggressivo (e laici sono pure i cattolici che vi scrivono). Il governo va a destra; ed esse sono irremovibilmente, con maggiore o minore accentuazione, a sinistra. La classe dirigente italiana è reazionaria o amica dei reazionari; ed esse sono progressiste. E si potrebbe continuare parlando di cultura illuministica contro politica oscurantistica; di agilità, mobilità, quasi irrequietezza delle idee, e immobilismo della situazione di fatto; di una qualificazione e riqualificazione continua delle posizioni culturali in una società prevalentemente non qualificata (cioè “qualunquistica”). Infine, se si dovesse dire quali correnti politiche questi “intellettuali” rappresentano, si dovrebbe parlare per la maggior parte di essi di “laburismo” e di “liberalismo radicale”, cioè di due indirizzi politici che non esistono affatto, come movimenti organizzati, come partiti di massa (e neppure di élites) nel nostro paese.
2. Questi intellettuali, in Italia, sono dunque all’opposizione; ma la loro opposizione non è un’opposizione politica. Voglio dire che non ha niente a che vedere e non vuol confondersi con la politica di opposizione dei partiti di estrema sinistra. Neppure con gli intellettuali comunisti, che hanno la loro seria e degna rivista “Società”, corrono sempre buoni rapporti. Nelle file di questi liberali, laici e progressivi, per quanto si contino alcuni amici dei comunisti, vi è pure un gruppetto piuttosto irruente di irriducibili avversari del comunismo. Gli uni e gli altri si rilanciano gravi accuse. Coloro che hanno saltato il fosso, o, con più drastica espressione, l’abisso che separa la concezione liberale da quella comunistica accusano i liberali, che si agitano in una opposizione non organizzata e non organizzabile, di ingenuità, di timidezza, di incomprensione della situazione storica, di snobismo culturale, di colpevole astensione, di essere le mosche cocchiere della storia, se non addirittura – nei momenti in cui l’atmosfera diventa più incandescente – di fare il gioco della reazione. I liberali, di rimando, deplorano la “politica culturale” che impera nei movimenti e in forma più grave negli stati comunisti, e gridano al “tradimento dei chierici”. Talvolta si trovano gli uni e gli altri riuniti in manifestazioni puramente verbali di opposizione (proclami, manifesti, ordini del giorno, ecc.); ma non mai sul terreno dell’azione concreta. E anche sul terreno della protesta verbale sorgono talora spiacevoli e acrimoniose controversie come quella, ben nota, se sia o non sia lecito a un intellettuale liberale firmare un manifesto dove compaiono firme di comunisti.
Per quale ragione la strada di questi intellettuali, chiamiamoli così illuministi, sia bloccata anche verso sinistra è stato detto e ridetto infinite volte. Essi sono gli eredi della tradizione liberale: pur nelle divergenze che esistono tra loro, e non soltanto di sfumature, identificano lo sviluppo della cultura con lo sviluppo della libertà (nel senso in cui questa parola è intesa nella dottrina dello stato liberale, come sfera di autonomia nei confronti di ogni potere organizzato). Il loro atteggiamento di fronte al fascismo è stato quello classico della rivoluzione liberale, ossia di resistenza alla oppressione. Credono che la loro funzione di uomini di cultura sia precipuamente quella di difendere il valore di libertà che la politica comunista contrasta o fraintende (o, se si vuole, intende in un significato diverso da quello che è proprio della dottrina liberale).
3. Non possono non essere all’opposizione in un paese retrogrado, ove in politica piccole teste fanno grande strepito, ma non s’identificano con l’unica opposizione politica seriamente organizzata, dove gli intellettuali non hanno privilegi, ma doveri o funzioni. Costituiscono un blocco di ghiaccio, compatto, preso tra due correnti di flutti: i flutti non lo spezzeranno (lo sgretoleranno forse); ma esso non domina i flutti, né è dominato, e oscilla, a seconda della forza delle correnti, ora più a destra, ora più a sinistra. Più vicini ai comunisti quando si tratta di indignarsi della miseria, dell’analfabetismo, della struttura antiquata dello stato dei baroni e dei grandi industriali; più vicini ai liberali quando si tratta di protestare in favore della libertà contro certe forche, certe purghe, certi processi. E naturalmente sono accusati contemporaneamente di essere “guardie svizzere” della reazione dagli uni e “utili idioti” del comunismo internazionale dagli altri.
Essendo fuori dei grandi partiti, esercitano sulla politica ordinaria un’influenza invisibile a occhio nudo. Poiché la politica, in uno stato democratico, si fa coi partiti e non con le riviste (se mai con le “riviste di partito”), e gli intellettuali fanno riviste e non partiti (se mai piccoli partiti, come vedremo, che non sono nulla di più di “partiti di riviste”), essi non mordono nella realtà politica o per lo meno in maniera assai più esigua di quel che lascerebbe supporre quel rigoglio di scritti, talora forti talora pungenti, quel ribollimento d’idee, quella lucidità di analisi, quel susseguirsi di manifesti, di proclami, di proteste, che colpisce l’osservatore imparziale delle cose di casa nostra. L’opinione pubblica è formata in uno stato democratico dei partiti. Questa élite intellettuale, estranea ai partiti, forma tutt’al più l’opinione pubblica degli intellettuali che, nelle competizioni democratiche dove i risultati politici sono in funzione dei milioni che votano e non dei cento che scrivono e dei mille che leggono, rimane senza un peso decisivo e forse lascia il tempo che trova.
Si designi questa situazione coi nomi di “distacco degli intellettuali di massa”, di “divorzio della cultura dalla politica”, e via dicendo; si chiamino gli intellettuali “estraniati” o “sradicati” dalla società in cui vivono; si può dire tranquillamente che questo divorzio o distacco o estraniazione è una caratteristica della società italiana in questi anni di ristagno e di involuzione politica dopo la guerra. Non stiamo a dire se ciò torni ad onore della cultura che non si abbassa a politica ordinaria, e della politica che non si lascia irretire nei lacci delle astratte ideologie. Ci limitiamo a constatare il fatto e a svolgervi sopra qualche considerazione.
4. Che gli intellettuali formino o credano di formare una classe a sé stante, distinta dalle classi sociali o economiche, e si attribuiscano quindi un còmpito singolare e straordinario, è segno di cattivo funzionamento dell’organismo sociale. In una società funzionale, come quella inglese, il problema non si pone neppure. In una recentissima inchiesta di “Occidente”[1] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn1) riguardante il rapporto tra intellettuali e classe politica nei vari paesi europei, l’articolista inglese non dà nessuna importanza al fatto che vi siano in Inghilterra intellettuali che credano di formare un gruppo nella società: sono considerati stravaganti, snobs, o perdigiorno, e nessuno li confonderebbe con gli intellettuali seri, il cui mestiere di professori, critici, letterati, artisti non costituisce una ragione sufficiente per dar loro una qualificazione politica eccezionale.
Ma il nostro paese non è una società funzionale. È un corpo malato in preda a continue convulsioni. Veniamo fuori da una convulsione come quella della guerra e della Resistenza, la quale era a sua volta l’effetto della convulsione precedente dell’altra guerra e del colpo di stato fascista. E viviamo e operiamo in questi anni, tutti quanti, come se una nuova convulsione fosse imminente. Nelle società non funzionali, le varie parti invece di ordinarsi ad un fine, si disarticolano; invece di armonizzarsi, cozzano le une contro le altre; si scompongono e si ricompongono in vario modo, e da questo gioco di composizione e scomposizione nasce, staccandosi come un corpo nuovo, benefico o intruso che sia, la classe degli uomini di cultura, con caratteristiche proprie, con pretese di guide o di formatori di coscienze, di educatori politici o addirittura di protagonisti della storia.
5. Come nasca ed operi nella nostra storia la élite degli intellettuali è problema su cui varrebbe la pena di andare più a fondo. Sappiamo quale interesse vi abbia recato il Gramsci, che considerò il problema della storia e della organizzazione degli intellettuali in Italia uno dei maggiori temi a cui avrebbe voluto dedicare le proprie ricerche; ed ora le sue note (raccolte soprattutto nel III volume delle Opere, intitolato Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura)[2] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn2) sono le uniche riflessioni che possediamo e meriterebbero di suscitare nuovi studi.
Quando il Gramsci si occupava della questione, nel 1930, la discussione sulla natura e sulla funzione sociale degli intellettuali era esplosa vivissima. Il totalitarismo si era già imposto in Italia e minacciava l’Europa. Qual era il còmpito degli intellettuali di fronte alla crisi dei regimi liberal-democratici? Come ho già avuto occasione di notare altrove, è del 1927 La trahison des clercs del Benda, che denunciava il pericolo ognor crescente della rinuncia che gli intellettuali venivano compiendo alla loro missione di custodi e promotori dei valori spirituali, per mettersi al servizio dei valori contingenti della politica nazionalistica. Nel 1929 Karl Mannheim, in Ideologie und Utopie, attribuiva agli intellettuali, considerati come individui non legati ad alcuna classe, il còmpito di creare la sintesi delle ideologie contrapposte e in tal modo di promuovere l’avanzamento della società. E Ortega y Gasset, nel 1930, con La rebeliòn de las masas estendeva a tutta l’Europa la diagnosi fatta in España invertebrada (1922) sulla crisi della società dovuta al divorzio tra élite intellettuale e masse. In quegli stessi anni Benedetto Croce (la Storia d’Italia è del ’28, la Storia d’Europa del ’32), che aveva iniziato nel 1° maggio del ’25 le sue pubbliche dichiarazioni di fede antifascista con la protesta contro gli intellettuali fascisti, incitava gli uomini di cultura a resistere all’oppressione richiamandoli alla tradizione della religione della libertà e al loro dovere di non subordinare la verità alle passioni di parte. Parlo di autori noti e di opere che ebbero vasta ripercussione. Ma attorno a questi autori e a queste opere si continuò la polemica, e a mantener vivo il problema contribuirono gli avvenimenti storici che seguirono.
6. Nelle società disorganiche, in processo di riorganizzazione e quindi in istato di continua emergenza, due sono in momenti tipici in cui le minoranze intellettuali assumono un còmpito politico, per lo meno mediatamente, e acquistano una loro fisionomia caratteristica, e dai quali, con un processo arbitrario di astrazione, prende forza la concezione idealistica della storia secondo cui sono le idee che muovono la storia e sono gli uomini di cultura i grandi protagonisti del movimento storico.
Il primo momento è quello della preparazione ideologica del processo di trasformazione. Si pensi, per fare i soliti esempi, ai philosophes del Settecento rispetto alla rivoluzione francese o all’intelligenza russa rispetto alla rivoluzione del ’17: qui gli intellettuali si staccano come categoria a sé stante, avente un suo particolare còmpito politico. Storiografia e sociologia si servono abitualmente di questa categoria come di una categoria della comprensione storica, valida per la spiegazione di una determinata serie di avvenimenti. Così, instauratosi saldamente il regime fascista, l’opposizione degli intellettuali è stata un caratteristico movimento di minoranza che ha avuto, sul suo terreno – che era quello principalmente etico e pedagogico della persuasione alla resistenza – efficacia per il valore di esempio morale più che di azione direttamente politica, e quindi indipendentemente dal maggiore o minor numero dei resistenti (si pensi che cosa contò e quanto fruttificò, per una generazione di giovani, il solo esempio di Croce).
In questi periodi nasce la convinzione che ciò che conta è mantener fede alle proprie idee, non piegarsi per debolezza d’animo o per ambizione al potente. Le doti che valgono sono la fermezza del carattere, lo spirito indomito, il coraggio morale. La massima suprema dell’azione è quella a cui così spesso si appella il Jemolo: “Fa’ quel che devi e avvenga quel che può”. Per fare quel che si deve non vi è bisogno né di organizzazione né di masse. Qui l’individuo vale per il suo valore assoluto di coscienza morale, e la politica è vista sotto specie di storia universale (si pensi alla concezione crociana della storia come storia della libertà che, pur non avendo nulla a che fare con una teoria politica, ha avuto indirettamente un risultato politico).
7. Il secondo momento è quello del processo rivoluzionario in atto. Dall’astensione, fondata sulla coscienza morale offesa, si passa all’azione, che segue alla convinzione che il pensiero non seguito da azione è sterile, e pensiero ed azione debbono essere coerenti. Dalla tesi crociana valida in tempi di oppressione, della libertà come ideale morale che non può non trionfare perché la storia è per definizione la storia della libertà, invitante a custodire e praticare il dovere di uomo libero nel proprio lavoro quotidiano, si passa – per richiamarci anche qui alla nostra storia – al programma mazziniano di “pensiero ed azione”. Alla formula: “Fa’ quel che devi e avvenga ciò che può”, si sostituisce quest’altra: “Fa’ quel che devi e cerca di ottenere ciò che vuoi”.
Anche in questa situazione le minoranze hanno la loro funzione e il loro prestigio: gli intellettuali da suscitatori d’idee diventano guide del rinnovamento in corso. Nella Resistenza, ad esempio, quegli stessi intellettuali che ora si vedono ai margini trovarono il proprio posto nella lotta. Hanno avuto coscienza che il còmpito a cui attendevano era perfettamente all’unisono col moto di rinnovamento, e perciò si poneva come immediatamente politico. Essi non erano né sradicati né travolti dalle fazioni, perché non vi era una società che li respingesse o di fronte alla quale potessero permettersi il lusso di sentirti estranei, ma una nuova società da edificare; né vi erano fazioni nel senso per essi deteriore della politica ordinaria, ma due parti in lotta, di cui l’una rappresentava, agli occhi loro, la verità, la libertà, la giustizia, l’altra la menzogna, la schiavitù, la prepotenza. Essi, accettando la loro parte in quella storia, si trovarono con piena aderenza inseriti nel processo storico universale. Ricordiamo, come esemplari e nobilmente rappresentative di questo atteggiamento, le parole di Giaime Pintor: “A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento”. E ancora: “Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte[3] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftn3).
(continua)
[1] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref1) Pubblicata nel fasc. 1 del 1954.
[2] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref2) Torino 1949.
[3] (https://forum.termometropolitico.it/#_ftnref3) Il sangue d’Europa, Torino 1950, p. 247. Il corsivo è mio.