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Visualizza Versione Completa : Benito Mussolini - Discorsi per la Storia



Avamposto
29-07-10, 12:35
Ultimo discorso di Mussolini



Riportiamo qua sotto l'ultimo discorso di Benito Mussolini, Duce d'Italia, tenutosi a Milano al Teatro Lirico.


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Milano, 16 dicembre 1944


Camerati, cari camerati milanesi!
Rinuncio ad ogni preambolo ed entro subito nel vivo della materia del mio discorso.
A sedici mesi di distanza dalla tremenda data della resa a discrezione imposta ed accettata secondo la democratica e criminale formula di Casablanca, la valutazione degli avvenimenti ci pone, ancora una volta, queste domande: Chi ha tradito? Chi ha subito e subisce le conseguenze del tradimento? Non si tratta, intendiamoci bene, di un giudizio in sede di revisione storica, e, meno che mai, in qualsiasi guisa, giustificativa.
È stato tentato da qualche foglio neutrale, ma noi lo respingiamo nella maniera più categorica e per la sostanza e in secondo luogo per la stessa fonte dalla quale proviene. Dunque chi ha tradito? La resa a discrezione annunciata l'8 settembre è stata voluta dalla monarchia, dai circoli di corte, dalle correnti plutocratiche della borghesia italiana, da talune forze clericali, congiunte per l'occasione a quelle massoniche, dagli Stati Maggiori, che non credevano più alla vittoria e facevano capo a Badoglio. Sino dal maggio, e precisamente il 15 maggio, l'ex-re nota in un suo diario, venuto recentemente in nostro possesso, che bisogna ormai «sganciarsi» dall'alleanza con la Germania. Ordinatore della resa, senza l'ombra di un dubbio, l'ex-re; esecutore Badoglio. Ma per arrivare all'8 settembre, bisognava effettuare il 25 luglio, cioè realizzare il colpo di Stato e il trapasso di regime.
La giustificazione della resa, e cioè la impossibilità di più oltre continuare la guerra, veniva smentita quaranta giorni dopo, il 13 ottobre, con la dichiarazione di guerra alla Germania, dichiarazione non soltanto simbolica, perché da allora comincia una collaborazione, sia pure di retrovie e di lavoro, fra l'Italia badogliana e gli Alleati; mentre la flotta, costruita tutta dal fascismo, passata al completo al nemico, operava immediatamente con le flotte nemiche. Non pace, dunque, ma, attraverso la cosiddetta cobelligeranza, prosecuzione della guerra; non pace, ma il territorio tutto della nazione convertito in un immenso campo di battaglia, il che significa in un immenso campo di rovine; non pace, ma prevista partecipazione di navi e truppe italiane alla guerra contro il Giappone.
Ne consegue che chi ha subito le conseguenze del tradimento è soprattutto il popolo italiano. Si può affermare che nei confronti dell'alleato germanico il popolo italiano non ha tradito. Salvo casi sporadici, i reparti dell'Esercito si sciolsero senza fare alcuna resistenza di fronte all'ordine di disarmo impartito dai comandi tedeschi. Molti reparti dello stesso Esercito, dislocati fuori del territorio metropolitano, e dell'Aviazione, si schierarono immediatamente a lato delle forze tedesche, e si tratta di decine di migliaia di uomini; tutte le formazioni della Milizia, meno un battaglione in Corsica, passarono sino all'ultimo uomo coi tedeschi.
Il piano cosiddetto «P. 44», del quale si parlerà nell'imminente processo dei generali e che prevedeva l'immediato rovesciamento del fronte come il re e Badoglio avevano preordinato, non trovò alcuna applicazione da parte dei comandanti e ciò è provato dal processo che nell'Italia di Bonomi viene intentato a un gruppo di generali che agli ordini contenuti in tale piano non obbedirono. Lo stesso fecero i comandanti delle Armate schierate oltre frontiera.
Tuttavia, se tali comandanti evitarono il peggio, cioè l'estrema infamia, che sarebbe consistita nell'attaccare a tergo gli alleati di tre anni, la loro condotta dal punto di vista nazionale è stata nefasta. Essi dovevano, ascoltando la voce della coscienza e dell'onore, schierarsi armi e bagaglio dalla parte dell'alleato: avrebbero mantenuto le nostre posizioni territoriali e politiche; la nostra bandiera non sarebbe stata ammainata in terre dove tanto sangue italiano era stato sparso; le Armate avrebbero conservato la loro organica costituzione; si sarebbe evitato l'internamento coatto di centinaia di migliaia di soldati e le loro grandi sofferenze di natura soprattutto morale; non si sarebbe imposto all'alleato un sovraccarico di nuovi, impreveduti compiti militari, con conseguenze che influenzavano tutta la condotta strategica della guerra. Queste sono responsabilità specifiche nei confronti, soprattutto, del popolo italiano.
Si deve tuttavia riconoscere che i tradimenti dell'estate 1944 ebbero aspetti ancora più obbrobriosi, poiché romeni, bulgari e finnici, dopo avere anch'essi ignominiosamente capitolato, e uno di essi, il bulgaro, senza avere sparato un solo colpo di fucile, hanno nelle ventiquattro ore rovesciato il fronte ed hanno attaccato con tutte le forze mobilitate le unità tedesche, rendendone difficile e sanguinosa la ritirata.
Qui il tradimento è stato perfezionato nella più ripugnante significazione del termine.
Il popolo italiano è, quindi, quello che, nel confronto, ha tradito in misura minore e sofferto in misura che non esito a dire sovrumana. Non basta. Bisogna aggiungere che mentre una parte del popolo italiano ha accettato, per incoscienza o stanchezza, la resa, un'altra parte si è immediatamente schierata a fianco della Germania.
Sarà tempo di dire agli italiani, ai camerati tedeschi e ai camerati giapponesi che l'apporto dato dall'Italia repubblicana alla causa comune dal settembre del 1943 in poi, malgrado la temporanea riduzione del territorio della Repubblica, è di gran lunga superiore a quanto comunemente si crede.
Non posso, per evidenti ragioni, scendere a dettagliare le cifre nelle quali si compendia l'apporto complessivo, dal settore economico a quello militare, dato dall'Italia. La nostra collaborazione col Reich in soldati e operai è rappresentata da questo numero: si tratta, alla data del 30 settembre, di ben settecentottantaseimila uomini. Tale dato è incontrovertibile perché di fonte germanica. Bisogna aggiungervi gli ex-internati militari: cioè parecchie centinaia di migliaia di uomini immessi nel processo produttivo tedesco, e molte altre decine di migliaia di italiani che già erano nel Reich, ove andarono negli anni scorsi dall'Italia come liberi lavoratori nelle officine e nei campi. Davanti a questa documentazione, gli italiani che vivono nel territorio della Repubblica Sociale hanno il diritto, finalmente, di alzare la fronte e di esigere che il loro sforzo sia equamente e cameratescamente valutato da tutti i componenti del Tripartito.
Sono di ieri le dichiarazioni di Eden sulle perdite che la Gran Bretagna ha subito per difendere la Grecia. Durante tre anni l'Italia ha inflitto colpi severissimi agli inglesi ed ha, a sua volta, sopportato sacrifici imponenti di beni e di sangue. Non basta. Nel 1945 la partecipazione dell'Italia alla guerra avrà maggiori sviluppi, attraverso il progressivo rafforzamento delle nostre organizzazioni militari, affidate alla sicura fede e alla provata esperienza di quel prode soldato che risponde al nome del maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani.
Nel periodo tumultuoso di transizione dell'autunno e inverno 1943 sorsero complessi militari più o meno autonomi attorno a uomini che seppero, col loro passato e il loro fascino di animatori, raccogliere i primi nuclei di combattenti. Ci furono gli arruolamenti a carattere individuale. Arruolamenti di battaglioni, di reggimenti, di specialità Erano i vecchi comandanti che suonavano la diana. E fu ottima iniziativa, soprattutto morale. Ma la guerra moderna impone l'unità. Verso l'unità si cammina.
Oso credere che gli italiani di qualsiasi opinione saranno felici il giorno in cui tutte le Forze Armate della Repubblica saranno raccolte in un solo organismo e ci sarà una sola Polizia, l'uno e l'altra con articolazioni secondo le funzioni, entrambi intimamente viventi nel clima e nello spirito del fascismo e della Repubblica, poiché in una guerra come l'attuale, che ha assunto un carattere di guerra «politica», la politicità è una parola vuota di senso ed in ogni caso superata.
Un conto è la «politica», cioè l'adesione convinta e fanatica all'idea per cui si scende in campo, e un conto è un'attività politica, che il soldato ligio al suo dovere e alla consegna non ha nemmeno il tempo di esplicare, poiché la sua politica deve essere la preparazione al combattimento e l'esempio ai suoi gregari in ogni evento di pace e di guerra.
Il giorno 15 settembre il Partito Nazionale Fascista diventava il Partito Fascista Repubblicano. Non mancarono allora elementi malati di opportunismo o forse in stato di confusione mentale, che si domandarono se non sarebbe stato più furbesco eliminare la parola «fascismo», per mettere esclusivamente l'accento sulla parola «Repubblica». Respinsi allora, come respingerei oggi, questo suggerimento inutile e vile.
Sarebbe stato errore e viltà ammainare la nostra bandiera, consacrata da tanto sangue, e fare passare quasi di contrabbando quelle idee che costituiscono oggi la parola d'ordine nella battaglia dei continenti. Trattandosi di un espediente, ne avrebbe avuto i tratti e ci avrebbe squalificato di fronte agli avversari e soprattutto di fronte a noi stessi.
Chiamandoci ancora e sempre fascisti, e consacrandoci alla causa del fascismo, come dal 1919 ad oggi abbiamo fatto e continueremo anche domani a fare, abbiamo dopo gli avvenimenti impresso un nuovo indirizzo all'azione e nel campo particolarmente politico e in quello sociale. Veramente più che di un nuovo indirizzo, bisognerebbe con maggiore esattezza dire: ritorno alle posizioni originarie. È documentato nella storia che il fascismo fu sino al 1927 tendenzialmente repubblicano e sono stati illustrati i motivi per cui l'insurrezione del 1922 risparmiò la monarchia.
Dal punto di vista sociale, il programma del fascismo repubblicano non è che la logica continuazione del programma del 1919: delle realizzazioni degli anni splendidi che vanno dalla Carta del lavoro alla conquista dell'impero. La natura non fa dei salti, e nemmeno l'economia.
Bisognava porre le basi con le leggi sindacali e gli organismi corporativi per compiere il passo, ulteriore della socializzazione. Sin dalla prima seduta del Consiglio dei ministri del 27 settembre 1943 veniva da me dichiarato che «la Repubblica sarebbe stata unitaria nel campo politico e decentrata in quello amministrativo e che avrebbe avuto un pronunciatissimo contenuto sociale, tale da risolvere la questione sociale almeno nei suoi aspetti più stridenti, tale cioè da stabilire il posto, la funzione, la responsabilità del lavoro in una società nazionale veramente moderna».
In quella stessa seduta, io compii il primo gesto teso a realizzare la più vasta possibile concordia nazionale, annunciando che il Governo escludeva misure di rigore contro gli elementi dell'antifascismo.
Nel mese di ottobre fu da me elaborato e riveduto quello che nella storia politica italiana è il «manifesto di Verona», che fissava in alcuni punti abbastanza determinati il programma non tanto del Partito, quanto della Repubblica. Ciò accadeva esattamente il 15 novembre, due mesi dopo la ricostituzione del Partito Fascista Repubblicano.
Il manifesto dell'assemblea nazionale del Partito Fascista Repubblicano, dopo un saluto ai caduti per la causa fascista e riaffermando come esigenza suprema la continuazione della lotta a fianco delle potenze del Tripartito e la ricostituzione delle Forze Armate, fissava i suoi diciotto punti programmatici.
Vediamo ora ciò che è stato fatto, ciò che non è stato fatto e soprattutto perché non è stato fatto.
Il manifesto cominciava con l'esigere la convocazione della Costituente e ne fissava anche la composizione, in modo che, come si disse, «la Costituente fosse la sintesi di tutti i valori della nazione».
Ora la Costituente non è stata convocata. Questo postulato non è stato sin qui realizzato e si può dire che sarà realizzato soltanto a guerra conclusa. Vi dico con la massima schiettezza che ho trovato superfluo convocare una Costituente quando il territorio della Repubblica, dato lo sviluppo delle operazioni militari, non poteva in alcun modo considerarsi definitivo. Mi sembrava prematuro creare un vero e proprio Stato di diritto nella pienezza di tutti i suoi istituti, quando non c'erano Forze Armate che lo sostenessero. Uno Stato che non dispone di Forze Armate è tutto, fuorché uno Stato.
Fu detto nel manifesto che nessun cittadino può essere trattenuto oltre i sette giorni senza un ordine dell'Autorità giudiziaria. Ciò non è sempre accaduto. Le ragioni sono da ricercarsi nella pluralità degli organi di Polizia nostri e alleati e nell'azione dei fuori legge, che hanno fatto scivolare questi problemi sul piano della guerra civile a base di rappresaglie e contro-rappresaglie. Su taluni episodi si è scatenata la speculazione dell'antifascismo, calcando le tinte e facendo le solite generalizzazioni. Debbo dichiarare nel modo più esplicito che taluni metodi mi ripugnano profondamente, anche se episodici. Lo Stato, in quanto tale, non può adottare metodi che lo degradano. Da secoli si parla della legge del taglione. Ebbene, è una legge, non un arbitrio più o meno personale.
Mazzini, l'inflessibile apostolo dell'idea repubblicana, mandò agli albori della Repubblica romana nel 1849 un commissario ad Ancona per insegnare ai giacobini che era lecito combattere i papalini, ma non ucciderli extra-legge, o prelevare, come si direbbe oggi, le argenterie dalle loro case. Chiunque lo faccia, specie se per avventura avesse la tessera del Partito, merita doppia condanna.
Nessuna severità è in tal caso eccessiva, se si vuole che il Partito, come si legge nel «manifesto di Verona», sia veramente «un ordine di combattenti e di credenti, un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell'idea rivoluzionaria».
Alta personificazione di questo tipo di fascista fu il camerata Resega, che ricordo oggi e ricordiamo tutti con profonda emozione, nel primo anniversario della sua fine, dovuta a mano nemica.
Poiché attraverso la costituzione delle brigate nere il Partito sta diventando un «ordine di combattenti», il postulato di Verona ha il carattere di un impegno dogmatico e sacro. Nello stesso articolo 5, stabilendo che per nessun impiego o incarico viene richiesta la tessera del Partito, si dava soluzione al problema che chiamerò di collaborazione di altri elementi sul piano della Repubblica. Nel mio telegramma in data 10 marzo XXII ai capi delle provincie, tale formula veniva ripresa e meglio precisata. Con ciò ogni discussione sul problema della pluralità dei partiti appare del tutto inattuale.
In sede storica, nelle varie forme in cui la Repubblica come istituto politico trova presso i differenti popoli la sua estrinsecazione, vi sono molte repubbliche di tipo totalitario, quindi con un solo partito. Non citerò la più totalitaria di esse, quella dei sovieti, ma ricorderò una che gode le simpatie dei sommi bonzi del vangelo democratico: la Repubblica turca, che poggia su un solo partito, quello del popolo, e su una sola organizzazione giovanile, quella dei «focolari del popolo».
A un dato momento della evoluzione storica italiana può essere feconda di risultati, accanto al Partito unico e cioè responsabile della direzione globale dello Stato, la presenza di altri gruppi, che, come dice all'articolo tre il «manifesto di Verona», esercitino il diritto di controllo e di responsabile critica sugli atti della pubblica amministrazione. Gruppi che, partendo dall'accettazione leale, integrale e senza riserve del trinomio Italia, Repubblica, socializzazione, abbiano la responsabilità di esaminare i provvedimenti del Governo e degli enti locali, di controllare i metodi di applicazione dei provvedimenti stessi e le persone che sono investite di cariche pubbliche e che devono rispondere al cittadino, nella sua qualità di soldato-lavoratore contribuente, del loro operato.
L'assemblea di Verona fissava al numero otto i suoi postulati di politica estera. Veniva solennemente dichiarato che il fine essenziale della politica estera della Repubblica è «l'unità, l'indipendenza, l'integrità territoriale della patria nei termini marittimi e alpini segnati dalla natura, dal sacrificio di sangue e dalla storia».
Quanto all'unità territoriale, io mi rifiuto, conoscendo la Sicilia e i fratelli siciliani, di prendere sul serio i cosiddetti conati separatistici di spregevoli mercenari del nemico. Può darsi che questo separatismo abbia un altro motivo: che i fratelli siciliani vogliano separarsi dall'Italia di Bonomi per ricongiungersi con l'Italia repubblicana.
È mia profonda convinzione che, al di là di tutte le lotte e liquidato il criminoso fenomeno dei fuorilegge, l'unità morale degli italiani di domani sarà infinitamente più forte di quella di ieri, perché cementata da eccezionali sofferenze, che non hanno risparmiato una sola famiglia. E quando attraverso l'unità morale l'anima di un popolo è salva, è salva anche la sua integrità territoriale e la sua indipendenza politica.
A questo punto occorre dire una parola sull'Europa e relativo concetto. Non mi attardo a domandarmi che cosa è questa Europa, dove comincia e dove finisce dal punto di vista geografico, storico, morale, economico; né mi chiedo se oggi un tentativo di unificazione abbia migliore successo dei precedenti. Ciò mi porterebbe troppo lontano. Mi limito a dire che la costituzione di una comunità europea è auspicabile e forse anche possibile, ma tengo a dichiarare in forma esplicita che noi non ci sentiamo italiani in quanto europei, ma ci sentiamo europei in quanto italiani. La distinzione non è sottile, ma fondamentale.
Come la nazione è la risultante di milioni di famiglie che hanno una fisionomia propria, anche se posseggono il comune denominatore nazionale, così nella comunità europea ogni nazione dovrebbe entrare come un'entità ben definita, onde evitare che la comunità stessa naufraghi nell'internazionalismo di marca socialista o vegeti nel generico ed equivoco cosmopolitismo di marca giudaica e massonica.
Mentre taluni punti del programma di Verona sono stati scavalcati dalla successione degli eventi militari, realizzazioni più concrete sono state attuate nel campo economico-sociale.
Qui la innovazione ha aspetti radicali. I punti undici, dodici e tredici sono fondamentali. Precisati nella «premessa alla nuova struttura economica della nazione», essi hanno trovato nella legge sulla socializzazione la loro pratica applicazione. L'interesse suscitato nel mondo è stato veramente grande e oggi, dovunque, anche nell'Italia dominata e torturata dagli anglo-americani, ogni programma politico contiene il postulato della socializzazione.
Gli operai, dapprima alquanto scettici, ne hanno poi compreso l'importanza. La sua effettiva realizzazione è in corso. Il ritmo di ciò sarebbe stato più rapido in altri tempi. Ma il seme è gettato. Qualunque cosa accada, questo seme è destinato a germogliare. È il principio che inaugura quello che otto anni or sono, qui a Milano, di fronte a cinquecentomila persone acclamanti, vaticinai «secolo del lavoro», nel quale il lavoratore esce dalla condizione economico-morale di salariato per assumere quella di produttore, direttamente interessato agli sviluppi dell'economia e al benessere della nazione.
La socializzazione fascista è la soluzione logica e razionale che evita da un lato la burocratizzazione dell'economia attraverso il totalitarismo di Stato e supera l'individualismo dell'economia liberale, che fu un efficace strumento di progresso agli esordi dell'economia capitalistica, ma oggi è da considerarsi non più in fase con le nuove esigenze di carattere «sociale» delle comunità nazionali.
Attraverso la socializzazione i migliori elementi tratti dalle categorie lavoratrici faranno le loro prove. Io sono deciso a proseguire in questa direzione.
Due settori ho affidato alle categorie operaie: quello delle amministrazioni locali e quello alimentare. Tali settori, importantissimi specie nelle circostanze attuali, sono ormai completamente nelle mani degli operai. Essi devono mostrare, e spero mostreranno, la loro preparazione specifica e la loro coscienza civica.
Come vedete, qualche cosa si è fatto durante questi dodici mesi, in mezzo a difficoltà incredibili e crescenti, dovute alle circostanze obiettive della guerra e alla opposizione sorda degli elementi venduti al nemico e all'abulia morale che gli avvenimenti hanno provocato in molti strati del popolo.
In questi ultimissimi tempi la situazione è migliorata. Gli attendisti, coloro cioè che aspettavano gli anglo-americani, sono in diminuzione. Ciò che accade nell'Italia di Bonomi li ha delusi. Tutto ciò che gli anglo-americani promisero, si è appalesato un miserabile espediente propagandistico.
Credo di essere nel vero se affermo che le popolazioni della valle del Po non solo non desiderano, ma deprecano l'arrivo degli anglosassoni, e non vogliono saperne di un governo, che, pur avendo alla vicepresidenza un Togliatti, riporterebbe a nord le forze reazionarie, plutocratiche e dinastiche, queste ultime oramai palesemente protette dall'Inghilterra.
Quanto ridicoli quei repubblicani che non vogliono la Repubblica perché proclamata da Mussolini e potrebbero soggiacere alla monarchia voluta da Churchill. Il che dimostra in maniera irrefutabile che la monarchia dei Savoia serve la politica della Gran Bretagna, non quella dell'Italia!
Non c'è dubbio che la caduta di Roma è una data culminante nella storia della guerra. II generale Alexander stesso ha dichiarato che era necessaria alla vigilia dello sbarco in Francia una vittoria che fosse legata ad un grande nome, e non vi è nome più grande e universale di Roma; che fosse creata, quindi, una incoraggiante atmosfera.
Difatti, gli anglo-americani entrano in Roma il 5 giugno; all'indomani, 6, i primi reparti alleati sbarcano sulla costa di Normandia, tra i fiumi Vire e Orne. I mesi successivi sono stati veramente duri, su tutti i fronti dove i soldati del Reich erano e sono impegnati.
La Germania ha chiamato in linea tutte le riserve umane, con la mobilitazione totale affidata a Goebbels, e con la creazione della «Volkssturm». Solo un popolo come il germanico, schierato unanime attorno al Führer, poteva reggere a tale enorme pressione; solo un Esercito come quello nazionalsocialista poteva rapidamente superare la crisi del 20 luglio e continuare a battersi ai quattro punti cardinali con eccezionale tenacia e valore, secondo le stesse testimonianze del nemico.
Vi è stato un periodo in cui la conquista di Parigi e Bruxelles, la resa a discrezione della Romania, della Finlandia, della Bulgaria hanno dato motivo a un movimento euforico tale che, secondo corrispondenze giornalistiche, si riteneva che il prossimo Natale la guerra sarebbe stata praticamente finita, con l'entrata trionfale degli Alleati a Berlino.
Nel periodo di tale euforia venivano svalutate e dileggiate le nuove armi tedesche, impropriamente chiamate «segrete». Molti hanno creduto che grazie all'impiego di tali armi, a un certo punto, premendo un bottone, la guerra sarebbe finita di colpo. Questo miracolismo è ingenuo quando non sia doloso. Non si tratta di armi segrete, ma di «armi nuove», che, è lapalissiano il dirlo, sono segrete sino a quando non vengono impiegate in combattimento. Che tali armi esistano, lo sanno per amara constatazione gli inglesi; che le prime saranno seguite da altre, lo posso con cognizione di causa affermare; che esse siano tali da ristabilire l'equilibrio e successivamente la ripresa della iniziativa in mani germaniche, è nel limite delle umane previsioni quasi sicuro e anche non lontano.
Niente di più comprensibile delle impazienze, dopo cinque anni di guerra, ma si tratta di ordigni nei quali scienza, tecnica, esperienza, addestramento di singoli e di reparti devono procedere di conserva. Certo è che la serie delle sorprese non è finita; e che migliaia di scienziati germanici lavorano giorno e notte per aumentare il potenziale bellico della Germania.
Nel frattempo la resistenza tedesca diventa sempre più forte e molte illusioni coltivate dalla propaganda nemica sono cadute. Nessuna incrinatura nel morale del popolo tedesco, pienamente consapevole che è in gioco la sua esistenza fisica e il suo futuro come razza; nessun accenno di rivolta e nemmeno di agitazione fra i milioni e milioni di lavoratori stranieri, malgrado gli insistenti appelli e proclami del generalissimo americano. E indice eloquentissimo dello spirito della nazione è la percentuale dei volontari dell'ultima leva, che raggiunge la quasi totalità della classe. La Germania è in grado di resistere e di determinare il fallimento dei piani nemici.
Minimizzare la perdita di territori, conquistati e tenuti a prezzo di sangue, non è una tattica intelligente, ma lo scopo della guerra non è la conquista o la conservazione dei territori, bensì la distruzione delle forze nemiche, cioè la resa e quindi la cessazione delle ostilità.
Ora le Forze Armate tedesche non solo non sono distrutte, ma sono in una fase di crescente sviluppo e potenza.
Se si prende in esame la situazione dal punto di vista politico, sono maturati, in questo ultimo periodo del 1944, eventi e stati d'animo interessanti.
Pur non esagerando, si può osservare che la situazione politica non è oggi favorevole agli Alleati.
Prima di tutto in America, come in Inghilterra, vi sono correnti contrarie alla richiesta di resa a discrezione. La formula di Casablanca significa la morte di milioni di giovani, poiché prolunga indefinitamente la guerra; popoli come il tedesco e il giapponese non si consegneranno mai mani e piedi legati al nemico, il quale non nasconde i suoi piani di totale annientamento dei paesi del Tripartito.
Ecco perché Churchill ha dovuto sottoporre a doccia fredda i suoi connazionali surriscaldati e prorogare la fine del conflitto all'estate del 1945 per l'Europa e al 1947 per il Giappone.
Un giorno un ambasciatore sovietico a Roma, Potemkin, mi disse: «La prima guerra mondiale bolscevizzò la Russia, la seconda bolscevizzerà l'Europa». Questa profezia non si avvererà, ma se ciò accadesse, anche questa responsabilità ricadrebbe in primo luogo sulla Gran Bretagna.
Politicamente Albione è già sconfitta. Gli eserciti russi sono sulla Vistola e sul Danubio, cioè a metà dell'Europa. I partiti comunisti, cioè i partiti che agiscono al soldo e secondo gli ordini del maresciallo Stalin, sono parzialmente al potere nei paesi dell'occidente.
Che cosa significhi la «liberazione» nel Belgio, in Italia, in Grecia, lo dicono le cronache odierne. Miseria, disperazione, guerra civile. I «liberati»greci che sparano sui «liberatori» inglesi non sono che i comunisti russi che sparano sui conservatori britannici.
Davanti a questo panorama, la politica inglese è corsa ai ripari. In primo luogo, liquidando in maniera drastica o sanguinosa, come ad Atene, i movimenti partigiani, i quali sono l'ala marciante e combattente delle sinistre estreme, cioè del bolscevismo; in secondo luogo, appoggiando le forze democratiche, anche accentuate, ma rifuggenti dal totalitarismo, che trova la sua eccelsa espressione nella Russia dei sovieti.
Churchill ha inalberato il vessillo anticomunista in termini categorici nel suo ultimo discorso alla Camera dei Comuni, ma questo non può fare piacere a Stalin. La Gran Bretagna vuole riservarsi come zone d'influenza della democrazia l'Europa occidentale, che non dovrebbe essere contaminata, in alcun caso, dal comunismo.
Ma questa «fronda» di Churchill non può andare oltre ad un certo segno, altrimenti il grande maresciallo del Cremlino potrebbe adombrarsi. Churchill voleva che la zona d'influenza riservata alla democrazia nell'Occidente europeo fosse sussidiata da un patto tra Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Norvegia, in funzione antitedesca prima, eventualmente in funzione antirussa poi.
Gli accordi Stalin-De Gaulle hanno soffocato nel germe questa idea, che era stata avanzata, su istruzioni di Londra, dal belga Spaak. Il gioco è fallito e Churchill deve, per dirla all'inglese, mangiarsi il cappello e, pensando all'entrata dei Russi nel Mediterraneo e alla pressione russa nell'Iran, deve domandarsi se la politica di Casablanca non sia stata veramente per la «vecchia povera Inghilterra» una politica fallimentare.
Premuta dai due colossi militari dell'Occidente e dell'Oriente, dagli insolenti insaziabili cugini di oltre Oceano e dagli inesauribili euroasiatici, la Gran Bretagna vede in gioco e in pericolo il suo avvenire imperiale; cioè il suo destino. Che i rapporti «politici» tra gli Alleati non siano dei migliori, lo dimostra la faticosa preparazione del nuovo convegno a tre.
Parliamo ora del lontano e vicino Giappone. Più che certo, è dogmatico che l'impero del Sole Levante non piegherà mai e si batterà sino alla vittoria. In questi ultimi mesi le armi nipponiche sono state coronate da grandi successi. Le unità dello strombazzatissimo sbarco nell'isola di Leyte, una delle molte centinaia di isole che formano l'arcipelago delle Filippine, sbarco fatto a semplice scopo elettorale, sono, dopo due mesi, quasi al punto di prima.
Che cosa sia la volontà e l'anima del Giappone è dimostrato dai volontari della morte. Non sono decine, sono decine di migliaia di giovani che hanno come consegna questa: «Ogni apparecchio una nave nemica». E lo provano. Davanti a questa sovrumanamente eroica decisione, si comprende l'atteggiamento di taluni circoli americani, che si domandano se non sarebbe stato meglio per gli statunitensi che Roosevelt avesse tenuto fede alla promessa da lui fatta alle madri americane che nessun soldato sarebbe andato a combattere e a morire oltremare. Egli ha mentito, come è nel costume di tutte le democrazie.
È per noi, italiani della Repubblica, motivo di orgoglio avere a fianco come camerati fedeli e comprensivi i soldati, i marinai, gli aviatori del Tenno, che colle loro gesta s'impongono all'ammirazione del mondo.
Ora io vi domando: la buona semente degli italiani, degli italiani sani, i migliori, che considerano la morte per la patria come l'eternità della vita, sarebbe dunque spenta? (La folla grida: «No! No!»). Ebbene, nella guerra scorsa non vi fu un aviatore che non riuscendo ad abbattere con le armi l'aeroplano nemico, vi si precipitò contro, cadendo insieme con lui? Non ricordate voi questo nome? Era un umile sergente: Dall'Oro.
Nel 1935, quando l'Inghilterra voleva soffocarci nel nostro mare e io raccolsi il suo guanto di sfida (la folla si leva in piedi con un grido unanime di esaltazione: «Duce! Duce! Duce!») e feci passare ben quattrocentomila legionari sotto le navi di Sua Maestà britannica, ancorate nei porti del Mediterraneo, allora si costituirono in Italia, a Roma, le squadriglie della morte. Vi devo dire, per la verità, che il primo della lista era il comandante delle forze aeree. Ebbene, se domani fosse necessario ricostituire queste squadriglie, se fosse necessario mostrare che nelle nostre vene circola ancora il sangue dei legionari di Roma, il mio appello alla nazione cadrebbe forse nel vuoto? (La folla risponde: «No!»).
Noi vogliamo difendere, con le unghie e coi denti, la valle del Po (grida: «Sì!»); noi vogliamo che la valle del Po resti repubblicana in attesa che tutta l'Italia sia repubblicana. (Grida entusiastiche: «Si! Tutta!»). Il giorno in cui tutta la valle del Po fosse contaminata dal nemico, il destino dell'intera nazione sarebbe compromesso; ma io sento, io vedo, che domani sorgerebbe una forma di organizzazione irresistibile ed armata, che renderebbe praticamente la vita impossibile agli invasori. Faremmo una sola Atene di tutta la valle del Po. (La folla prorompe in grida unanimi di consenso. Si grida: «Si! Sì!»).
Da quanto vi ho detto, balza evidente che non solo la coalizione nemica non ha vinto, ma che non vincerà. La mostruosa alleanza fra plutocrazia e bolscevismo ha potuto perpetrare la sua guerra barbarica come la esecuzione di un enorme delitto, che ha colpito folle di innocenti e distrutto ciò che la civiltà europea aveva creato in venti secoli. Ma non riuscirà ad annientare con la sua tenebra lo spirito eterno che tali monumenti innalzò.
La nostra fede assoluta nella vittoria non poggia su motivi di carattere soggettivo o sentimentale, ma su elementi positivi e determinanti. Se dubitassimo della nostra vittoria, dovremmo dubitare dell'esistenza di Colui che regola, secondo giustizia, le sorti degli uomini.
Quando noi come soldati della Repubblica riprenderemo contatto con gli italiani di oltre Appennino, avremo la grata sorpresa di trovare più fascismo di quanto ne abbiamo lasciato. La delusione, la miseria, l'abbiezione politica e morale esplode non solo nella vecchia frase «si stava meglio», con quel che segue, ma nella rivolta che da Palermo a Catania, a Otranto, a Roma stessa serpeggia in ogni parte dell'Italia «liberata».
Il popolo italiano al sud dell'Appennino ha l'animo pieno di cocenti nostalgie. L'oppressione nemica da una parte e la persecuzione bestiale del Governo dall'altra non fanno che dare alimento al movimento del fascismo. L'impresa di cancellarne i simboli esteriori fu facile; quella di sopprimerne l'idea, impossibile. (La folla grida: «Mai!»).
I sei partiti antifascisti si affannano a proclamare che il fascismo è morto, perché lo sentono vivo. Milioni di italiani confrontano ieri e oggi; ieri, quando la bandiera della patria sventolava dalle Alpi all'equatore somalo e l'italiano era uno dei popoli più rispettati della terra.
Non v'è italiano che non senta balzare il cuore nel petto nell'udire un nome africano, il suono di un inno che accompagnò le legioni dal Mediterraneo al Mar Rosso, alla vista di un casco coloniale. Sono milioni di italiani che dal 1919 al 1939 hanno vissuto quella che si può definire l'epopea della patria. Questi italiani esistono ancora, soffrono e credono ancora e sono disposti a serrare i ranghi per riprendere a marciare, onde riconquistare quanto fu perduto ed è oggi presidiato fra le dune libiche e le ambe etiopiche da migliaia e migliaia di caduti, il fiore di innumerevoli famiglie italiane, che non hanno dimenticato, né possono dimenticare.
Già si notano i segni annunciatori della ripresa, qui, soprattutto in questa Milano antesignana e condottiera, che il nemico ha selvaggiamente colpito, ma non ha minimamente piegato.
Camerati, cari camerati milanesi!
È Milano che deve dare e darà gli uomini, le armi, la volontà e il segnale della riscossa!


Mussolini - Discorso al Teatro Lirico - L'ultimo discorso di Mussolini (http://www.mussolinibenito.net/discorso%20al%20teatro%20lirico%20di%20milano.htm)

Avamposto
29-07-10, 12:37
I DISCORSI DI

BENITO MUSSOLINI



I DIRITTI DELLA VITTORIA.



Prefazione

All'inaugurazione dell'adunata Fascista di Firenze, il 9 Ottobre 1919, il Duce pronunciò il seguente discorso.


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Compagni Fascisti, non so se riuscirò a farvi un discorso molto ordinato perché non ho avuto modo, secondo la mia abitudine, di prepararlo. Un discorso Fascista io mi ripromettevo di pronunciare domani mattina per una ragione mia personale che vi può anche interessare e che mi dava diritto a chiedervi qualche ora di riposo.

Anche io ho fatto una piccola beffa a Sua Indecenza Nitti (Grida di: Abbasso Nitti! Abbasso Cagoia!). Sono partito da Novi Ligure sopra uno SVA insieme ad un magnifico pilota. Abbiamo attraversato l'Adriatico e siamo discesi a Fiume. D'Annunzio ci ha accolti molto festosamente, perché ha bisogno di aviatori e di apparecchi. Ieri mattina al ritorno siamo stati colti da una bufera di "bora" sull'altipiano istriano. Abbiamo perciò dovuto deviare dalla rotta e siamo atterrati ad Aiello. A Fiume ho vissuto quello che D'Annunzio giustamente chiama:" Un atmosfera di miracolo e di prodigio." Vi porto intanto il suo saluto. Egli si riprometteva di scrivere un messaggio apposta per la nostra adunata. (Applausi e grida di: Viva Fiume).

Il mio arrivo a Fiume ha coinciso con la cattura del piroscafo Persia, per cui tanto si era agitato il capitano Giulietti della Federazione del Mare.

La situazione di Fiume è ottima, sotto tutti gli aspetti. Vi sono viveri per tre mesi.

I jugoslavi non hanno nessuna intenzione di muoversi. Non solo, ma i croati riforniscono in parte Fiume, ciò che dimostra come sia sconcia ed insidiosa la manovra nittiana, tendente a sommuovere il popolino, facendo credere che si fosse alla vigilia di una guerra tra noi ed i jugoslavi. Niente di tutto questo esiste! D'Annunzio non ha fatto sparare finora nessun colpo di fucile contro coloro che stanno al di là della linea di armistizio; ha anzi emanato un proclama ai croati che è un magnifico documento, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista umano.

Esso conclude con le parole: "Viva la fratellanza italo-croata! Viva la fratellanza sul mare."

Ora, nei rapporti internazionali la situazione di Fiume è chiarissima. D'Annunzio non si muoverà, perché tutti gli eventi sono favorevoli a lui. Che cosa possono fare le potenze plutocratiche del capitalismo occidentale contro di lui? Nulla. Assolutamente nulla, perché il rimuovere un fatto compiuto sarebbe scatenare un altro più grosso guaio ed a questo nessuno pensa, nè in Francia, nè in Inghilterra. In Francia, lo possiamo dire tranquillamente, c'è un sacro orrore per un nuovo spargimento di sangue. Quanto al popolo dai "cinque pasti", ha fatto la guerra molto bene e brillantemente, ma ora tutto il suo ordine di idee è contrario a qualsiasi impresa guerresca ed a qualsiasi avventura un po' complicata. Domani il fatto compiuto di Fiume sarebbe compiuto per tutti, perché nessuno avrebbe la forza di modificarlo. Se il governo fosse stato meno vile, a quest'ora avrebbe risolto il problema di Fiume e gli alleati avrebbero dovuto accettarlo, magari con una protesta che forse avrebbe servito di argomento a qualche giornale umoristico. (Applausi).

E veniamo alle nostre cose. Noi siamo degli antipregiudizialisti, degli antidottrinari, dei problemisti, dei dinamici; non abbiamo pregiudiziali nè monarchiche, nè repubblicane. Se ora diciamo che la monarchia è assolutamente inferiore al suo compito, non lo diciamo certo in base ai sacri trattati. Noi giudichiamo dai fatti e diciamo: in questi mesi di Settembre e di Ottobre si è fatto in Italia più propaganda repubblicana che non si fosse fatta negli ultimi cinquant'anni, perché quando la monarchia chiama al Quirinale Giovanni Giolitti (Grida assordanti di:"Abbasso Giolitti."); quando la monarchia mantiene al potere quello che ormai passa bollato col marchio di infamia trovato a Fiume; quando essa scioglie la Camera e tollera che Nitti pronunci un discorso in cui si fa un chiaro appello alle forze bolsceviche della Nazione; quando essa tollera al potere un uomo che non è Kerenski, ma Karolyi; quando infine ratifica la pace per decreto reale, allora io vi dico chiaramente che il problema monarchico che ieri non esisteva per noi in linea pregiudiziale, si pone oggi in tutti i suoi termini. La monarchia ha forse compiuto la sua funzione creando ed in parte riuscendo ad unificare l'Italia. Ora dovrebbe essere compito della repubblica di unirla e decentrarla regionalmente e socialmente, di garantire la grandezza che noi vogliamo di tutto il popolo italiano.

Io credo di essermi spiegato e di avere fissato la linea esatta per cui noi siamo assolutamente coerenti nella nostra base iniziale. Ma noi non dobbiamo svalutare i nostri avversari. Il "babau" di una dittatura militare è grottesco. E' stato inventato da Nitti con la complicità dell'alta banca e dei giornali pseudo democratici che sono legati notoriamente all'alta e parassitaria siderurgia italiana. Io penso che domani, nell'attesa della crisi, i difensori delle istituzioni oramai superate non esisterebbero più perché tutti si squaglierebbero. Ma nella falla che si verrebbe ad aprire certo tutte le forze vi precipiterebbero.

Noi dovremmo allora tener presente il movimento pussista. Questa forza pussista consideriamola un po'' da vicino. I pussisti hanno dovuto contarsi ultimamente e intanto su 80.000 iscritti, 14.000 non si sa dove siano andati a finire. Sono gli sbandati. Ben 500 sezioni non sono state rappresentate in quelle che si chiamano le assise del proletariato italiano. Tutto quello che durante il congresso si è detto e fatto è stato molto meschino. Bordiga non è un gran generale. Si eleva un po'' dalla mediocrità. Quello che egli ha riportato alla tribuna è quanto io avevo già dato in pasto alla folla nel 1913. Di veramente importante non c'è stato che il discorso di Turati. Ma gli infiniti discorsi non hanno dato alla fine indicazioni pratiche su quello che i pussisti devono o vogliono fare. Noi siamo molto più precisi di loro e vi diciamo subito che noi dobbiamo porre un "ultimatum" al governo dichiarando che se non abolisce la censura noi fascisti non parteciperemo alle elezioni. Bisogna protestare contro una censura ripristinata in regime elettorale, altrimenti dimostreremo di poter accettare qualunque altro arbitrio. A questa protesta, noi ne possiamo aggiungere un'altra positiva e di azione. In quanto ai socialisti, la grandissima parte si distingue per una fisiologica vigliaccheria. Essi non amano battersi, non vogliono battersi, il ferro e il fuoco li spaventa. D'altra parte, e su questo mi preme di richiamare la vostra attenzione, noi non dobbiamo confondere questa creazione piuttosto artificiosa con un partito del quale i proletari sono un'infima minoranza, mentre abbondano tutti quelli che vogliono un posticino al parlamento, al consiglio comunale e nelle organizzazioni. E' in realtà una cricca politica che vorrebbe sostituirsi alla cricca dominante. Noi non dobbiamo confondere questa cricca di politicanti mediocri con l'immenso movimento del proletariato che ha una sua ragione di vita, di sviluppo e di fratellanza.

Io ripeto qui quanto dissi altra volta. Nessuna demagogia. I calli alle mani non bastano ancora per dimostrare che uno sia capace di reggere uno Stato o una famiglia. Bisogna reagire contro tutti questi cortigiani e questi nuovi semi-idoli per elevare questa gente dalla schiavitù morale e materiale in cui è caduta. Non bisogna andare verso di essa con l'atteggiamento dei partigiani. Noi siamo dei sindacalisti, perché crediamo che attraverso la massa sia possibile di determinare un trapasso dell'economia, ma questo trapasso ha un corso molto lungo e complesso. Una rivoluzione politica si fa in 24 ore, ma in 24 ore non si rovescia l'economia di una Nazione che è parte di un'economia mondiale. Noi non intendiamo con questo di essere considerati una specie di "guardia del corpo" di una borghesia che specialmente nel ceto dei nuovi ricchi è semplicemente indegna e vile. Se questa gente non sa difendersi da se stessa, non speri di essere difesa da noi.

Noi difendiamo la Nazione, il popolo nel suo complesso. Vogliamo la fortuna morale e materiale del popolo e questo perché sia ben inteso.

Io credo che con il nostro atteggiamento sia possibile di avvicinarci alla massa. Intanto la Federazione dei Lavoratori del Mare si è staccata dalla Confederazione Generale del Lavoro; i ferrovieri hanno dimostrato nello scioperismo di essere italiani e di voler essere italiani, e mentre l'alta burocrazia delle amministrazioni pubbliche è piuttosto nittiana e giolittiana, il proletariato delle stesse amministrazioni tende a simpatizzare con noi.

Da cinquant'anni si prendono i generali, i diplomati, i burocratici dalle classi dirigenti, da un nucleo chiuso di ceti e di persone. E' tempo di spezzare tutto ciò se si vogliono mettere nuove energie e nuovo sangue nel corpo della nazione.

E veniamo alle elezioni. Dobbiamo occuparci delle elezioni perché qualunque cosa si faccia è sempre buona regola di stringersi insieme, di non bruciare i vascelli dietro di se. Può essere che in questo mese di Ottobre le cose precipitino in un ritmo così frenetico, da rendere quasi superato il fatto elettorale. Può essere, invece, che le elezioni si svolgano. Dobbiamo essere pronti anche a questa seconda eventualità. Ed allora noi Fascisti dobbiamo affermarci da soli, dobbiamo uscire distinti, contati, e, se saremo pochi, bisognerà pensare che siamo al mondo da sei mesi soltanto.Dove una probabilità di affermazione isolata non esista, si potrà costituire il blocco interventista di sinistra che deve avere da un lato la rivendicazione dell'utilità dell'intervento italiano ai fini universali, umani e nazionali, contro tutti coloro, giolittiani, pussisti e clericali, che l'hanno osteggiato. D'altra parte questo programma non può esaurire la nostra azione, e allora bisognerà presentare alla massa i dati fondamentali su cui vogliamo erigere la nuova Italia. Dove la situazione sarà più complicata, si potrà aderire anche ad un blocco interventista in senso più completo e più vasto.

Ma noi vogliamo, soprattutto, consacrare in questa nostra adunata - rivendicandola contro coloro che la negano e che vorrebbero dimenticarla - la immensa vittoria italiana.

Noi abbiamo debellato un impero nemico che era giunto fino al Piave ed i cui dirigenti avevano tentato di assassinare l'Italia. Noi abbiamo ora il Brennero, abbiamo le Alpi Giulie e Fiume e tutti gli italiani della Dalmazia. Noi possiamo dire che tra Piave e Isonzo abbiamo distrutto un impero e determinato il crollo di quattro autocrazie.

(Un'ovazione vivissima accoglie la chiusa de discorso di Mussolini che è stato seguito e sottolineato nei punti più salienti da entusiastiche acclamazioni).


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I diritti della vittoria (http://www.nuovo-ordine-nazionale.org/Discorsi%20di%20Benito%20M/I%20diritti%20della%20vittoria/idiritti.htm)

Avamposto
29-07-10, 12:37
IL QUINTO ANNIVERSARIO DELL'ENTRATA IN GUERRA.



Prefazione

Inaugurandosi la seconda Adunata Nazionale dei Fasci di Combattimento, al Teatro Lirico di Milano, il 24 Maggio 1920, quinto anniversario della nostra entrata in guerra, il Duce pronunciava il seguente discorso


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Le parole, in determinati momenti, possono essere dei fatti. Supponiamo dunque e facciamo sì che tutte le parole pronunziate qui oggi siano delle azioni potenziali dell'oggi e reali del domani. Cinque anni fa in questi giorni l'entusiasmo popolare prorompeva in tutte le piazze e le strade d'Italia. Ed in questi giorni, rivedendo i documenti dell'epoca, posso affermare, a tanta distanza di tempo, con sicura e pura coscienza, che la causa dell'intervento, nelle settimane del Maggio, non fu sposata dalla cosiddetta borghesia, ma dalla parte più sana e migliore del popolo italiano. E quando dico popolo intendo parlare anche del proletariato, perché nessuno può pensare che le migliaia di cittadini che nelle giornate di Maggio seguivano Corridoni, fossero tutti dei borghesi. Ricordo che una Camera del lavoro agricola, quella di Parma, a grande maggioranza, si dichiarò favorevole all'intervento dell'Italia.

Anche ammesso che la guerra sia stata un errore, ed io non lo ammetto, di animo spregevole è colui che sputa su questo sacrificio. Se si vuole ritornare ad un esame critico io sono disposto ad affrontare in contraddittorio chiunque ed a dimostrare:

1°) che la guerra fu voluta dagli Imperi centrali come è stato confessato dagli uomini politici della repubblica tedesca e come hanno confermato gli archivi dell'impero;

2°) che l'Italia non poteva rimanere neutrale;

3°) che se fosse rimasta neutrale oggi si troverebbe in una condizione peggiore di quella in cui si trova.

D'altra parte noi interventisti non dobbiamo stupirci se il mare è in tempesta. Sarebbe assurdo pretendere che un popolo uscente da una crisi così grave si rimetta a posto nelle 24 ore successive. E quando voi pensate che a due anni di distanza non abbiamo ancora la nostra pace, quando voi pensate al trattamento fattoci dagli alleati, alla deficienza dei nostri governanti, voi dovete comprendere certe crisi di dubbio. Ma la guerra ha dato quello che doveva dare: la vittoria.

Fischiando poco fa la evocazione della falce e del martello, voi non avete certamente voluto spregiare questi che sono due strumenti del lavoro umano, niente di più bello e di più nobile della falce che ci dà il pane e del martello che forge i metalli. Non dunque spregio al lavoro manuale. Dobbiamo comprendere che questa sopravvalutazione odierna del lavoro manuale è data dal fatto che la umanità soffre della mancanza dei beni materiali ed è naturale che coloro che producono questi elementi necessari abbiano una sopravvalutazione eccessiva. Noi non rappresentiamo un punto di reazione. Diciamo alle masse di non andare troppo oltre e di non pretendere di trasformare la società attraverso un figurino che poi non conoscono. Se trasformazioni devono verificarsi, devono avvenire tenendo conto degli elementi storici e psicologici della nostra civiltà.

Non intendiamo osteggiare il movimento delle masse lavoratrici, ma intendiamo smascherare la ignobile turlupinatura che ai danni delle masse lavoratrici fa una accozzaglia di borghesi, semi borghesi e pseudo borghesi, che per il solo fatto di avere la tessera credono di essere diventati salvatori dell'umanità. Non contro il proletariato, ma contro il partito socialista, fino a quando continuerà ad essere anti-italiano. Il partito socialista ha continuato, dopo la vittoria, a svalutare la guerra, a fare la guerra all'intervento ed agli interventisti, minacciando rappresaglie e scomuniche. Ebbene, io, per mio conto, non credo. Delle scomuniche me ne rido, ma davanti alle rappresaglie risponderemo con le nostre sacrosante rappresaglie. Noi non possiamo però andare contro il popolo, perché il popolo è quello che ha fatto la guerra. I contadini che oggi si agitano per risolvere il problema terriero non possono essere guardati da noi con antipatia. Commetteranno degli eccessi, ma vi prego di considerare che il nerbo delle fanterie era composto di contadini, che chi ha fatto la guerra sono stati i contadini.

Noi non ci illudiamo di riuscire a silurare completamente la ormai naufragante nave bolscevica. Ma io noto già dei segni di resipiscenza. Credo che ad un dato momento la massa operaia, stanca di lasciarsi mistificare, tornerà verso di noi, riconoscendo che non l'abbiamo mai adulata, ma abbiamo sempre detta la parola della brutale verità, facendo realmente il suo interesse. Se oggi l'Italia non è precipitata nel baratro ungherese lo si deve anche a noi che ci siamo nessi di traverso con la nostra azione e con la nostra vita. Un solo dovere abbiamo dunque: comprendere i fenomeni sociali che si svolgono sotto i nostri occhi, combattere i mistificatori del popolo ed avere una fede sicura e assoluta nell'avvenire della nazione.

All'indomani di tutte le grandi crisi storiche c'è sempre stato un periodo di lassitudine. Ma poi a poco a poco i muscoli stanchi riprendono. Tutto ciò che fu ieri trascurato e vilipeso ritorna ad essere onorato ed ammirato.Oggi non si vuole più sentire parlare di guerra ed è naturale. Ma fra qualche tempo la psicologia del popolo sarà mutata e tutto o gran parte del popolo italiano riconoscerà il valore morale e materiale della vittoria; tutto il popolo onorerà i suoi combattenti e combatterà quei governi che non volessero garantire l'avvenire della nazione. Tutto il popolo onorerà gli arditi.

Sono gli arditi che andavano alle trincee cantando e se siamo ritornati dal Piave all'Isonzo è merito degli arditi; se teniamo ancora Fiume è merito degli arditi; se siamo ancora nella Dalmazia lo dobbiamo agli arditi. Tre martiri fra i mille che hanno consacrato la guerra italiana hanno voluto fissare i destini della nazione: Battisti ci dice che il Brennero dev'essere il confine d'Italia; Sauro ci dice che l'Adriatico deve essere un mare italiano e commercialmente italo-slavo; Rismondo ci dice che la Dalmazia è italiana. Ebbene, giuriamo davanti al vessillo che porta le insegne della morte che infutura la vita, e della vita che non teme la morte, di tener fede al sacrifico di questi martiri.


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Il quinto anniversario dell'entrata in guerra (http://www.nuovo-ordine-nazionale.org/Discorsi%20di%20Benito%20M/Il%20quinto%20anniversario%20dell'entrata%20in%20g uerra/ilquinto.htm)

Avamposto
29-07-10, 12:38
DISCORSO DI TRIESTE.



Prefazione

Il 20 Settembre 1920 - cinquantesimo anniversario del compimento della prima fase dell'unità d'Italia - il Duce pronunciava questo discorso in Trieste, al Politeama Rossetti. Coglieva l'occasione per considerare, in una sintesi critica, l'attivo e il passivo del Risorgimento italiano e della più recente Storia d'Italia, per stabilire la genesi, i compiti e i fini del Fascismo. Questo discorso - critico e programmatico a un tempo - è uno di quelli che pongono, nei momenti più torbidi e tristi, le chiare basi della ricostruzione. In esso appare quel supremo ideale della missione di Roma che è destinato a divenire, dopo il 1922, uno dei capisaldi spirituali e pragmatici del Regime Fascista.


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Io non vi considero, o triestini, come degli italiani ai quali non si può dire ancora la verità o tutta la verità, perché io vi considero come i migliori fra gli italiani, ed il vostro entusiasmo di oggi me lo dimostra. L'evento, che ebbe il 20 Settembre 1870 in Roma il suo compimento, fu un magnifico quadro dentro ad una mediocre cornice, nè su ciò mi soffermerò.

Dopo cinquant'anni dalla Breccia di Porta Pia, noi dobbiamo fare il nostro esame di coscienza. Una nazione come la nostra, che era uscita da una lunga divisione plurisecolare, che aveva appena raggiunto l'unità, non aveva ossa sufficientemente robuste per reggere il peso di una politica mondiale. Un uomo grande nel pensiero italiano, Francesco Crispi, ruppe questa tradizione.

In cinquant'anni di vita, l'Italia ha realizzato progressi meravigliosi. Prima di tutto c'è un dato di fatto: ed è la vitalità della nostra stirpe, della nostra razza. Ci sono delle nazioni che ogni anno devono compulsare con una certa preoccupazione i registri dello stato civile, perché, o signori, è appunto in questo disquilibrio che si producono le grandi crisi dei popoli, e voi sapete a chi alludo. Ma l'Italia non ha di queste preoccupazioni. L'Italia faceva 27.000.000 di abitanti nel 1870; ne ha 50.000.000 adesso: 40.000.000 nella penisola, ed è il blocco più omogeneo che ci sia in Europa. Perché, a paragone del blocco boemo, ad esempio, dove 5.000.000 di ezechi governano 7.000.000 di un'altra razza, l'Italia non ha che 180.000 tedeschi nell'Alto Adige immigrati in casa nostra; non ha che 360.000 slavi immigrati in casa nostra, mentre tutto il resto è un blocco unico e compatto. E accanto a questi 40.000.000 in Italia, ce ne sono 10.000.000 che hanno straripato in tutti i continenti, oltre tutti gli oceani: 700.000 italiani sono a Nuova York, 400.000 nello stato di San Paolo, dove la lingua di stato dovrà divenire la lingua italiana, 900.000 nella repubblica argentina, 120.000 in Tunisia, quella Tunisia alla quale rinunciammo in un momento di minchioneria colossale: quella Tunisia che abbiamo riconquistato attraverso l'opera meravigliosa dei coloni siciliani che ivi hanno trasportato le loro tende che oggi lavorano per la reggenza francese, ma che molto probabilmente lavoreranno domani sotto la reggenza italiana.

E' un peccato che gli stranieri ci conoscano poco, ma è anche più grave che gli italiani conoscano poco l'Italia, perché se la conoscessero, si vedrebbe che molti popoli d'oltre confine sono ancora più indietro di noi, si saprebbe che nel campo industriale il più potente impianto idroelettrico del mondo è in Italia. E non mi si parli di forze reazionarie in Italia. Mi fanno ridere quelli che parlano di governo reazionario, specialmente se sono elementi immigrati o rinnegati di Trieste; perché se c'è un paese al mondo dove la libertà sta per sconfinare nella licenza, dove la libertà è patrimonio inviolabile di tutti i cittadini, è l'Italia.

Non si è visto ancora in Italia quello che si è visto in Francia, dove per uno sciopero politico la Repubblica francese, ha sciolto la Confederazione generale del Lavoro, ha legato i capi e li tiene ancora n galera; non si è visto ancora quello che si è visto in Inghilterra, dove elementi cosiddetti non desiderabili sono spediti oltre la Manica, e non si è visto ancora in Italia quello che si è visto compiuto nell'ultra democratica repubblica degli Stati Uniti, dove in una sola notte 500 cosiddetti sovversivi vengono legati e spediti in 24 ore oltre l'Atlantico. Se c'è qualche cosa da dire è questo: è tempo di imporre una ferrea disciplina ai singoli ed alle folle, perché un conto è la rinnovazione sociale, alla quale non siamo contrari, ed un conto è la dissoluzione in casa. Finché si parla di trasformazione, noi ci siamo tutti, ma quando invece si vuol fare il salto nel buio, allora noi poniamo il nostro alto là. Passerete, diciamo, ma passerete sui nostri corpi; e prima dovete vincere la nostra resistenza.

Ora, dopo mezzo secolo di vita italiana, che io vi ho così schematicamente riassunto, Trieste è italiana e sul Brennero sventola il tricolore. Se fosse possibile attardarci un minuto a misurare la grandiosità dell'evento, voi trovereste che il fatto che sul Brennero ci sia il tricolore, è un fatto di importanza capitale, non solo nella storia italiana, ma anche nella storia europea. Il tricolore sul Brennero significa che i tedeschi non caleranno più impunemente nelle nostre contrade. Si sono messi tra noi e loro i ghiacciai e sopra i ghiacciai quei magnifici alpini che andavano all'assalto del Monte Nero, che si sono sacrificati all'Ortigara ed hanno sulle loro bandiere il motto: " Di qui non si passa". (Applausi fragorosi).

Ora è un fatto importantissimo che Trieste è venuta all'Italia dopo una vittoria colossale.

Se noi non fossimo così quotidianamente presi dalle necessità della vita materiale, se non avessimo continuamente attraversato il pensiero da altri problemi mediocri e banali, noi sapremmo misurare tutto ciò che si svolse sulle rive del Piave nel Giugno ed a Vittorio Veneto nell'Ottobre. Un impero andò in isfacelo in un'ora, un impero che aveva resistito nei secoli, un impero dove si era sviluppata necessariamente un'arte sopraffina di governo che consisteva nel suo eterno divide et impera, saggiamente, secondo la sapienza di Budapest e di Vienna. Questo impero aveva un esercito, aveva una politica tradizionale, aveva una burocrazia, aveva legato tutti i cittadini a suffragio universale. Quest'impero che sembrava potente, invincibile, crollò sotto i colpi delle baionette del popolo italiano.

Il risorgimento italiano non è che una lotta fra un popolo ed uno Stato, fra il popolo italiano da una parte e lo Stato absburgico dall'altra, fra la forza viva a venire e il morto passato. Era fatale che avendo passato il Mincio nel 1859 e l'Adige nel 1866, nel 1915 si dovesse passare l'Isonzo e giungere oltre: era fatale, tanto fatale che oggi gli stessi neutralisti, lo stesso uomo del "parecchio", Giolitti, intervistato da un giornalista americano, ha dovuto riconoscere che l'Italia, pena il suicidio, pena la morte, pena maggiore: la vergogna, non poteva rimanere neutrale. Era per lui questione di modo e di tempo. Ma essenziale per noi è che l'uomo del "parecchio" abbia detto che l'Italia doveva intervenire più tardi o prima non importa, e che era logico e fatale che l'intervento si sviluppasse a fianco dell'Intesa.

Questa rivendicazione del nostri interventismo è quella che ci dà la massima soddisfazione. E che cosa importa se leggo in un libro nero e melanconico che Trieste, Trento e Fiume rappresentano ancora un deficit di fronte alla guerra? Questo modo di ragionare è ridicolo. Prima di tutto non si riducono gli avvenimenti della storia ad una partita computistica di dare ed avere, di entrata ed uscita. Non si può fare un bilancio preventivo nei fatti della storia, e pretendere che collimi col bilancio consuntivo. Tutto questo è frutto di una melanconia filosofica abbastanza diffusa in Italia dopo la guerra.

Ma speriamo che passi presto, per dar posto a sentimenti di ottimismo e di orgoglio. Questo dopoguerra è certamente critico: lo riconosco; ma chi pretende che una crisi gigantesca come quella di cinque anni di guerra mondiale si risolva subito? Che tutto il mondo ritorni tranquillo come prima in men di due anni? La crisi non è di Trieste, di Milano, d'Italia, ma mondiale, e non è finita.

La lotta è l'origine di tutte le cose perché la vita è tutta piena di contrasti: c'è l'amore e l'odio, il bianco e il nero, il giorno e la notte, il bene e il male e finché questi contrasti non si assommano in equilibrio, la lotta sarà sempre nel fondo della natura umana, come suprema fatalità. E del resto è bene che sia così. Oggi può essere la lotta di guerra economica, di idee, ma il giorno in cui più non si lottasse, sarebbe giorno di malinconia, di fine, di rovina. Ora, questo giorno non verrà. Appunto perché la storia si presenta sempre come un panorama cangiante. Se si pretendesse di ritornare alla calma, alla pace, alla tranquillità, si combatterebbero le odierne tendenze dell'attuale periodo dinamico. Bisogna prepararsi ad altre sorprese, ad altre lotte. Non ci sarà un periodo di pace sino a quando i popoli si abbandoneranno ad un sogno cristiano di fratellanza universale e potranno stendersi la mano oltre gli oceani e le montagne. Io, per mio conto, non credo troppo a questi ideali, ma non li escludo perché io non escludo niente: tutto è possibile, anche l'impossibile e l'assurdo. Ma oggi, come oggi, sarebbe fallace, pericoloso, criminoso costruire le nostre case sulla fragile sabbia dell'internazionale cristiano-socialista-comunista. Questi ideali sono rispettabili, ma sono ancora molto lontani dalla realtà. (Applausi).

Quale l'azione del Fascismo in questo periodo così travagliato del dopoguerra? Primo pilastro fondamentale dell'azione Fascista è l'italianità, cioè: noi siamo orgogliosi di essere italiani, noi intendiamo, anche andando in Siberia, di gridare ad alta voce: Siamo Italiani ! Ora è appunto tutto questo che ci separa da molta altra gente che è così grottesca e piccina e che nasconde la sua italianità perché in Italia c'era una volta l'80% di analfabeti. Analfabeta non significa niente, perché anche la piccola mediocre istruzione elementare può essere peggiore dell'analfabetismo puro e semplice. E' vecchia idealità quella di credere che è più intelligente uno che sa scrivere di uno che, essendo forse più intelligente non lo sa.

Quella gente si vergogna, per esempio, se gli emigranti italiani distribuiscono qualche generosa coltellata: ma tutto questo è un modo molto brillante di dimostrare che gli italiani non sono vigliacchi nè rammolliti e che hanno il mezzo di difendere l'italianità quando i consoli non sanno difenderla. Ora noi rivendichiamo l'onore di essere italiani, perché nella nostra penisola, meravigliosa e adorabile -adorabile benché ci siano degli abitatori non sempre adorabili - s'è svolta la storia più prodigiosa e meravigliosa del genere umano. Pensate voi a un uomo che stia pure nel lontano Giappone o nell'America dei dollari o in qualche altro sito anche recondito, pensate se quest'uomo possa essere civile senza conoscere la storia di Roma. Non è possibile.

Roma è il nome che riempie tutta la storia per 20 secoli. Roma dà il segnale della civiltà universale; Roma che traccia strade, segna confini e che dà al mondo le leggi eterne dell'immutabile suo diritto. Ma se questo è stato il compito universale di Roma nell'antichità, ecco che dobbiamo assolvere ancora un altro compito universale. Questo destino non può diventare universale se non si trapianta nel terreno di Roma. Attraverso il cristianesimo, Roma trova la sua forma e trova il modo di reggersi nel mondo. Ecco Roma che ritorna centro dell'impero universale che parla la sua lingua. Pensate che il compito di Roma non è finito, no, perché la storia italiana del medioevo, la storia più brillante di Venezia, che regna per 10 secoli, che porta le sue galee in tutti i mari, che ha ambasciate e governi , governi di cui oggi si è perduta la semente, non si è chiusa. La storia dei comuni italiani, è una storia piena di prodigi, piene di grandezza, di nobiltà. Andate a Venezia, a Pisa, ad Amalfi, a Genova, a Firenze, e voi troverete là sui palazzi, nelle strade, il segno, l'impronta di questa nostra meravigliosa e non ancora marcita civiltà.

Ora, amici che ascoltate, dopo questo periodo, sul principio dell'800 in cui l'Italia era divisa in 7 piccoli stati, sorse una generazione di poeti: la poesia ha anche il compito di suscitare l'entusiasmo e di accendere le fedi e non per niente il più grande poeta dell'Italia moderna, lo vogliano o no gli scribi che non sanno esprimere nel loro cervello un'ideuzza, il più grande poeta d'Italia, Gabriele D'Annunzio, realizza, nella magnifica unità di pensiero e di sentimento, l'azione che è una caratteristica del popolo italiano. (Il pubblico scatta in piedi al grido di :"Viva D'Annunzio, Viva Fiume")

Siamo orgogliosi di essere italiani, non già per un criterio di gretto esclusivismo. Lo spirito moderno ha il timpano auricolare teso verso la bellezza e la verità. Non si può pensare un uomo moderno che non abbia letto Cervantes, Shakespeare, Goethe, che non abbia letto Tolstoj. Ma tutto questo non deve farci dimenticare che noi abbiamo tenuto il primato, che noi eravamo grandi quando gli altri non erano nati, che mentre il tedesco Klopstock scriveva la verbosa messiade, Dante Alighieri dal 1265 al 1321 giganteggiava. E abbiamo ancora la scultura di Michelangelo, la pittura di Raffaello, l'astronomia di Galileo, la medicina di Morgagni e accanto a questi il misterioso Leonardo da Vinci, che eccelle in tutti i campi e, se volete passare all'arte della politica e della guerra, ecco Napoleone, ma soprattutto Garibaldi latinamente italiano.

Queste sono le Dolomiti del pensiero, dello spirito italiano, ma accanto a queste Dolomiti, quasi inaccessibili, c'è un panorama di culmini e di vette minori, che dimostrano che non si può assolutamente pensare alla civiltà umana senza il contributo formidabile recatovi dal pensiero italiano. E questo bisogna ripetere qui dove stanno, ai nostri confini, tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili e che pretenderebbero, soltanto perché sono in tanti di sopprimere e soppiantare questa nostra meravigliosa civiltà che ha resistito due millenni e si prepara a resistere il terzo.

Quanto al secondo pilastro del Fascismo esso significa antidemagogia e pragmatismo. Non abbiamo nessun preconcetto, non ideali fissi e soprattutto non orgoglio sciocco. Coloro che dicono: "Siete infelici, eccovi la ricetta per la felicità", mi fanno venire a mente la reclame:" Volete la salute?". Noi non promettiamo agli uomini felicità qui nè al di là, a differenza dei socialisti, che pretenderebbero di mascherare la faccia dei Mediterranei con la maschera russa.

Una volta c'erano i cortigiani che bruciavano incenso davanti ai re e ai papi, e ora, c'è una nuova genia che brucia incenso senza sincerità davanti al proletariato. Dicono: solo chi ha l'Italia nelle mani ha diritto di governare e magari costoro non sanno governare nemmeno la propria famiglia. Noi no. Noi teniamo altro linguaggio, molto più serio e spregiudicato e più degno di uomini liberi. Noi non escludiamo che il proletariato sia capace di sostituire altri valori, ma diciamo al proletariato: prima di pretendere di governare una nazione incomincia col governare te stesso: comincia a rendertene degno, tecnicamente, e prima ancora moralmente, perché governare è cosa tremendamente complessa, difficile e complicata. (Applausi). La nazione ha milioni e milioni di individui i cui interessi contrastano, e non ci sono esseri superiori che possano conciliare tutte queste contrarietà per fare una unità di progressi e di vita.

D'altra parte noi non siamo passatisti assolutamente legati ai sassi e alle macerie. Nelle città moderne tutto deve trasformarsi. Ai trams, alle automobili, ai motori, le vecchie strade delle nostre città non resistono più. Poiché in esse passa il flutto della civiltà. Si può distruggere per ricreare il più bello, grande e nuovo, ma mai distruggere col gusto del selvaggio che spezza una macchina per vedere che cosa c'è dentro. Non ci rifiutiamo a modificazioni anche nella città dello spirito, appunto perché lo spirito è delicato. A me non ripugna nessuna trasformazione sociale necessaria. Così accetto anche questo famoso controllo delle fabbriche ed anche la gestione cooperativa sociale delle fabbriche, ma semplicemente chiedo che si abbia la coscienza morale pulita, la capacità tecnica per mandare avanti le aziende; chiedo che queste aziende producano di più, e se ciò mi è garantito dalle maestranze operaie e non più padronali, non ho difficoltà a dire che gli ultimi hanno il diritto di sostituire i primi.

Quello cui ci opponiamo noi Fascisti è la mascheranza bolscevica del socialismo italiano. E' strano che una razza che ha avuto Pisacane e Mazzini vada a cercare i vangeli prima in Germania e poi in Russia. Bisognerebbe studiare un po' Pisacane e Mazzini e si vedrebbe che alcune delle verità che si pretendono rivelate dalla Russia non sono che verità già consacrate nei libri dei nostri grandi maestri italiani. Ma infine come pensate che il comunismo sia possibile in Italia, il paese più individualista del mondo? Questo è possibile dove ogni uomo è un numero, ma non in Italia, dove ogni uomo è un individuo, anzi una individualità. Ma poi, cari signori, esiste ancora in Russia questo bolscevismo? Non esiste più. Non più consigli di fabbrica, ma dittatori di fabbrica; non 8 ore di lavoro, ma 12; non eguaglianza di salari, ma 35 categorie di salari; non secondo il bisogno, ma secondo i meriti. Non c'è in Russia nemmeno quella libertà che ha l'Italia. C'è una dittatura del proletariato? No! C'è una dittatura dei socialisti? No! C'è una dittatura di pochi uomini intellettuali non operai, appartenenti ad una frazione del partito socialista, combattuta da tutte le altre frazioni.

Questa dittatura di pochi uomini è quella che si chiama bolscevismo. Ora, in Italia noi non ne vogliamo sapere, e gli stessi socialisti, compresi quelli che hanno veduto la Russia, quando voi li interrogate, riconoscono che non si può trapiantare in Italia quello che va male in Russia. Solamente hanno il torto di non dirlo apertamente, hanno il torto di giocare sull'equivoco e di mistificare le masse. Ripetiamo, noi non siamo contrari alle masse operaie, perché esse sono necessarie alla nazione, sono necessarie, sacrosantamente necessarie. I 20 milioni di italiani che lavorano col braccio hanno il diritto di difendere i loro interessi. Quella che noi combattiamo è la mistificazione dei politicanti a danno delle classi operaie; noi combattiamo questi nuovi preti in mala fede che promettono un paradiso nel quale non credono neppure essi. Quelli che a Trieste fanno i bolscevichi più accesi, lo fanno semplicemente per rendersi simpatici alle masse slave che abitano qui vicino. (Applausi fragorosi.)

E se io ho una disistima profonda, un disprezzo profondo di molti capi del movimento bolscevico d'Italia, è perché li conosco bene, perché li ho conosciuti tutti quanti, sono stato con loro a contatto; so benissimo che quando fanno i leoni sono conigli, so benissimo che fanno come quei tali frati di Arrigo Heine, che predicano apertamente l'acqua e bevono nascostamente il vino. Noi vogliamo appunto che questa turpe speculazione finisca, anche perché è antinazionale.

Mi sapete dire per qual caso singolare in tutte le questioni i socialisti italiani sono contro l'Italia? Mi sapete dire perché sono sempre coi popoli che avversano l'Italia? Cogli albanesi, coi croati, coi tedeschi, e con tutti gli altri popoli? Mi sapete spiegare perché si grida viva l'Albania che fa la guerra per avere Valona che è albanese e non si grida viva l'Italia che fa la guerra per avere Trento e Trieste che sono italiane? Ma che criterio è questo di essere sempre contro l'Italia e di gridare sempre stupidissimi "via"?

Quattro arabi si rivoltano in Libia: via dalla Libia ! Seimila albanesi attaccano: via da Valona ! E se domani i croati della Dalmazia ci attaccheranno, i socialisti diranno: via dalla Dalmazia ! E se domani su questi monti arsicci del Carso si sviluppasse un movimento insurrezionale contro Trieste, temo che i socialisti d'Italia direbbero anche: via da Trieste ! (A questo punto tutto il pubblico scatta in piedi gridando "Mai !"). Ma ci sono anche italiani di qui e fuori di qui che affogherebbero loro in bocca il grido fratricida.

Ed è lo stesso della loro opposizione alla guerra. Vedete, la guerra è cosa orribile. Lo sanno coloro che l'hanno fatta. Ma allora bisogna spiegarsi: o la guerra in se e per se, fatta per qualsiasi ragione, sotto qualsiasi latitudine, per qualsiasi pretesto, non deve farsi e allora io rispetto questi umanitari, questi tolstoiani se dicono: io aborro dal sangue per qualsiasi ragione sia versato. Li rispetto e li ammiro, sebbene trovi ciò leggermente inattuabile. Ma i socialisti gridano "abbasso la guerra", quando la fa l'Italia e "viva la guerra" quando la fa la Russia. Voi avete un giornale che era lieto quando i cosiddetti bolscevichi marciavano su Varsavia e usava un stile prettamente militare: "Mentre scriviamo, il cannone, ecc". Lo sappiamo a memoria. Ma allora la guerra non è la stessa cosa. La guerra russa non fa vedove, non fa orfani? Non è fatta coi cannoni, aeroplani, e tutte le armi infine che straziano e uccidono corpi umani? O voi, dunque, siete contrari a tutte le guerre, e allora noi potremo discutere insieme, ma se voi fate distinzione fra guerra e guerra, guerra che si può fare e guerra che non si può fare, allora noi vi diciamo che il vostro umanitarismo ci fa schifo. E se avete ragione di fare la guerra, avevamo ragione noi di farla per i destini della nazione nel 1915.(Applausi).

Quale può essere quindi - e volgo alla fine - il compito dei Fascisti? Il compito dei Fascisti in Italia è questo: tenere testa alla demagogia con coraggio, energia ed impeto. Il Fascio si chiama di combattimento e la parola combattimento non lascia dubbi di sorta. Combattere con armi pacifiche, ma anche con armi guerriere. Del resto tutto ciò è normale in Italia perché tutto il mondo si arma e quindi è assolutamente necessario che noi che siamo italiani, ci armiamo a nostra volta. Ma il compito dei Fascisti di queste terre è più delicato, più sacro, più difficile, più necessario. Qui il Fascismo ha ragione d'essere; qui il Fascismo trova il suo terreno naturale di sviluppo. In questa giornata storica mentre la crisi italiana sembra aggravarsi - non importa, si risolverà - io ho fiducia illimitata nell'avvenire della nazione italiana. Le crisi si succederanno alle crisi, ci saranno pause e parentesi, ma andremo all'assestamento e non si potrà pensare a una storia di domani senza la partecipazione italiana. Perché è bensì vero che nel 1919 l'Italia ha avuto un Nitti e nel 1920 un Giolitti, ma se questa è la faccia nera della situazione, dall'altra parte la faccia splendente di questa situazione è Gabriele D'Annunzio, il quale ha realizzato l'unica rivolta contro la plutocrazia di Versaglia.

Molti ordini del giorno, molti articoli di giornali, molte chiacchiere più o meno insulse, ma l'unico che abbia compiuto un gesto vero e reale di rivolta, l'unico che per dodici o tredici mesi ha tenuto in iscacco tutte le forze del mondo è Gabriele D'Annunzio insieme coi suoi legionari. Contro quest'uomo di pura razza italiana si accaniscono tutti i vigliacchi ed è per questo che noi siamo fierissimi ed orgogliosi di essere con lui, anche se contro di noi si accanisca la vasta tribù degli scemi. Quest'uomo significa anche la possibilità della vittoria e della resurrezione. E questa possibilità esiste, perché abbiamo fatto la guerra e abbiamo vinto ed è ridicolo che coloro che di più hanno beneficiato della guerra, in stipendi, in voti, in onori, siano proprio coloro che sputano oggi su questa guerra e su questa vittoria. Ad ogni modo io penso, e questa vostra adunata me ne fa testimonianza solenne, che l'ora della riscossa del valore nazionale è spuntata. C'è da una parte un vasto mondo che brulica, ma c'è anche un mondo che non è immemore che non è ignorante. (Applausi vivissimi.)

Mentre partivo da Milano, mi giungeva da Cupra Marittima, un piccolo paese dell'Italia centrale, un invito del sindaco che mi chiamava a commemorare i caduti in guerra. Non ho accettato perché i discorsi mi pesano. Ma questo episodio, come il pellegrinaggio dell'Ortigara, il pellegrinaggio sul Grappa, il pellegrinaggio del 24 Ottobre sulle pietraie del Carso, vi dice che i valori ideali e morali non sono ancora tutti perduti e stanno anzi risorgendo. Noi vogliamo aiutare questa rinascita di valori spirituali e morali e vogliamo aiutarla colle opere scritte e fatte.

Ieri ebbi un minuto di viva commozione passando l'Isonzo. Tutte le volte che ho passato quel fiume con lo zaino sulle spalle, mi sono chinato a bere quell'acqua cristallina e limpida. Se non avessimo varcato quel fiume, oggi il tricolore non sarebbe su San Giusto.

Qui è il significato vero e proprio della guerra. Orbene, se il tricolore è issato su San Giusto, vi è issato perché 20 anni fa un triestino fu il precursore di questa gesta; vi è issato anche perché nel 1915 i battaglioni italiani si precipitarono sui reticolati austriaci; ed a questa gesta tutta l'Italia ha preso parte, dagli alpini delle montagne di Piemonte, di Lombardia, del Friuli, alle fanterie magnifiche dell'Abruzzo, delle Puglie, della Sicilia ed ai soldati dell'isola generosa e ferrigna, della Sardegna dimenticata anche troppo dal Governo italiano. E quei generosi figli non si sono ancora levati in rappresaglie contro i demagoghi dell'Italia, perché sono ancora sempre pronti a compiere il loro dovere.

Triestini ! Il tricolore di San Giusto è sacro: il tricolore sul Nevoso è sacro; ancora più sacro è il tricolore sulle Dinariche. Il tricolore sarà protetto dai nostri eroici morti: ma giuriamo insieme che sarà difeso anche dai vivi ! (Calda e lunga ovazione.)


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Discorso di Trieste (http://www.nuovo-ordine-nazionale.org/Discorsi%20di%20Benito%20M/Discorso%20d%20Trieste/Trieste.htm)

Avamposto
29-07-10, 12:39
SECONDO DISCORSO DI TRIESTE



Prefazione

Ancora una volta il Duce sceglieva Trieste redenta per esporre in ampia sintesi la posizione del Fascismo di fronte agli assillanti problemi di politica estera. Questo discorso fu pronunciato al Politeama Rossetti di Trieste, il 6 Febbraio 1921. La citazione che chiude il discorso è presa dall'Eneide, canto I, v. 287.


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Per delineare quali direttive debba seguire la politica estera dell'Italia, nell'immediato e mediato futuro, è opportuno gettare, preliminarmente, uno sguardo d'insieme, sulla situazione mondiale, sulle forze e correnti che vi agiscono e prospettare quali possano esserne gli sbocchi e i risultati. Tutti gli Stati del mondo si trovano fra di loro in un rapporto fatale d'interdipendenza, il periodo della splendide isolation è passato per tutti. Si può ben dire che colla guerra e dalla guerra, la storia del genere umano ha acquistato un ritmo mondiale. Mentre l'Europa dissanguata, stenta a ritrovare il suo equilibrio, economico, politico e spirituale, già si annunciano, oltre i confini del vecchio continente, formidabili antitesi d'interessi. Alludo al conflitto fra Stati Uniti e Giappone i cui episodi recenti, che vanno dalla faccenda del "cavo" al "bill" contro l'immigrazione gialla in California, sono nella cronaca dei giornali. Il Giappone conta oggi 77 milioni di abitanti; gli Stati Uniti 110 milioni. Che la coscienza della inevitabilità di un urto fra questi due Stati esista, può trovarsi in questo particolare significantissimo: il libro che ha avuto ed ha a Tokio la maggiore diffusione in tutte le zone della popolazione, s'intitola: La nostra prossima guerra cogli Stati Uniti. Quella che si profila è la guerra dei continenti per un dominio del Pacifico. L'asse della civiltà mondiale tende a spostarsi. Fu, sino al 1500, nel Mediterraneo; dal 1492 in poi, scoperta dell'America, passò nell'Atlantico: da oggi, si annuncia il suo trapasso al più grande oceano del pianeta.

Dissi altra volta che ci avviciniamo al secolo "asiatico". Il Giappone è destinato a funzionare da fermento di tutto il mondo giallo, mentre non è detto che Isaac Rufus, diventato lord Reading e viceré delle Indie, riuscirà a salvare in quelle terre l'imperialismo britannico.

Spostandosi l'asse della civiltà da Londra a New York (che fa già 7 milioni di abitanti e sarà, fra poco, la più grande agglomerazione umana della terra) e dall'Atlantico al Pacifico, c'è chi prevede un graduale decadimento economico e spirituale della nostra vecchia Europa, del nostro continente piccolo e meraviglioso, che è stato, sino ad ieri, guida e luce per tutte le genti. Assisteremo a questo oscurarsi ed eclissarsi del "ruolo" europeo nella storia del mondo?

A questa domanda inquietante e angosciosa rispondiamo: è possibile. La "vita" dell'Europa, specialmente nelle zone dell'Europa Centrale, è alla mercé degli americani. D'altra parte l'Europa ci presenta un panorama politico ed economico tormentatissimo, un groviglio spinoso di questioni nazionali e di questioni sociali e talvolta accade che il comunismo sia la maschera del nazionalismo e viceversa. Non sembra vicina realtà quella di una "unità" europea. Egoismi ed interessi di nazioni e di classi si accampano in fieri contrasti. La Russia non è più un enigma dal punto di vista economico. In Russia non c'è comunismo e nemmeno socialismo, ma una rivoluzione agraria a tipo democratico, piccolo-borghese. Rimane l'enigma dal punto di vista politico. Quale politica estera persegue in realtà la Russia? E' una politica di pace o di guerra? La varietà dei fatti a nostra conoscenza ci porta ad oscillare perennemente, fra l'una e l'altra ipotesi. In altri termini: sotto l'emblema falce e martello, si nasconde o non si nasconde il vecchio panslavismo, che, oggi sarebbe inoltre dominato da una ferrea necessità "rivoluzionaria" che è quella di allargare la rivoluzione nel resto d'Europa per salvare il Governo dei Soviety in Russia?

Se la Russia farà una politica di guerra la sorte degli Stati baltici (Lituania, Lettonia, Estonia) appare segnata. Incerto anche il destino della Polonia, che potrebbe essere schiacciata al muro ostile tedesco dell'eventuale straripare dei russi. Ci sono in quelle plaghe dell'Europa nord-orientale, punti di dissidio, fra gli Stati. C'è un dissidio polacco-lituano-russo a proposito di Wilna 263.000 polacchi, 118.000 lituani, 8.000 bianco-ruteni, 83.000 israeliti. Le stesse cifre proporzionalmente si hanno per Grodno. Quanto all'Alta Slesia che tiene agitatissimo il mondo tedesco e quello polacco, le statistiche tedesche danno queste cifre: 1.348.000 polacchi; 588.000 tedeschi. L'Alta Slesia è, dunque, polacca, ma il suo destino sarà deciso dal plebiscito convocato pel 15 Marzo.

La grande guerra si è conclusa con sei, finora, trattati di pace: Versailles, S. Germano, Trianon, Neuilly, Sevres, Rapallo. Nessuno di questi trattati, ha accontentato in tutto i vincitori: nessuno di questi trattati, nemmeno quello di Rapallo, che si volle definire un trionfo delle negoziazioni amichevoli e pacifiche, è stato accettato dai vinti. Ognuno di questi trattati ha dei punti controversi o di difficile realizzazione. Per quello che riguarda il "trattatissimo" di Versailles, è in piedi, proprio in questo momento, la grossa questione dell'indennità che la Germania dovrebbe pagare: è una cifra che dà le vertigini. L'ultima parola non è stata ancora detta. Tutto quello che si fa, specie dai diplomatici, è un definitivo che ha sempre un ironico carattere di provvisorio. I tedeschi che hanno realizzato l"union sacrèe" del non pagare, annunciano che faranno delle controproposte e se ne parlerà a Londra, presenti gli stessi tedeschi, fra qualche settimana. La nostra opinione è che se i tedeschi possono pagare, devono, sino al grado della loro possibilità, pagare. I "tecnici" stabiliscano questa loro possibilità. Non bisogna dimenticare, prima di abbandonarsi a compiangere i tedeschi, che se vincevano, la indennità che noi avremmo dovuto pagare, era già stata fissata in 500 miliardi d'oro; che i tedeschi hanno scatenato la guerra e che il primo irredentismo inscenato dai tedeschi è diretto contro l'Italia, per la loro minoranza calata abusivamente nell'Alto Adige.

Dal trattato di S. Germano è uscita l'attuale repubblica austriaca. Può vivere così com'è formata? Generalmente si opina di no. Rimane l'ipotesi di una confederazione danubiana sull'asse Vienna-Budapest ma la "Piccola Intesa", composta dagli eredi, vigila a che non si ritorni, sotto una forma o l'altra, all'antico.

Noi pensiamo che, per forza di cose, a una Confederazione economica danubiana, presto o tardi, ci si arriverà e allora le condizioni dell'Austria e in particolar modo quelle di Vienna, ne verrebbero migliorate sino ad attenuare il movimento annessionistico pro-Germania. Dal punto di vista della giustizia, e quando ci fosse una manifesta e chiara volontà di popolo, l'Austria avrebbe diritto di "alienarsi" alla Germania. Questa ipotesi non ci può lasciare indifferenti, per via del confine al Brennero, questione di vita o di morte, per la sicurezza della valle padana. Un'Austria affamata ed elemosinante, non può scatenare un'irredentismo pericoloso contro di noi; unita alla Germania, la questione dell'Alto Adige si farebbe certissimamente più acuta. Quanto all'Ungheria essa può attendere una ragionevole revisione del Trattato che la mutilava da ogni parte. Bisogna però aggiungere che il capitolo "Fiume" è definitivamente sepolto nella storia ungherese. In tutto il mondo balcanico esistono focolai d'infezione di nuove guerre. Citiamo: Montenegro, Albania. Siamo per la indipendenza del primo e della seconda, se dimostrerà di saperla godere. Macedonia che è bulgara (1.181.000 bulgari, di fronte a 499.000 turchi ed a 228.000 greci). La Bulgaria ha diritto a un porto sull'Egeo. E' questo di un interesse capitale per l'espansione economica italiana in Bulgaria. Il trattato di Sèvres ha massacrato la Turchia per iperbolizzare la Grecia di Venizelos e di Costantino che ha dato alla guerra europea il sacrificio di ben 787 "euzoni". Pensiamo che per ciò che riguarda il Mediterraneo Orientale, l'Italia debba seguire una politica piuttosto turcofila.

A suo tempo, immediatamente dopo la firma del trattato, il Comitato Centrale dei Fasci diede il suo giudizio sul trattato di Rapallo, trovandolo "accettabile per il confine orientale, inaccettabile e deficiente per Fiume, insufficiente e da respingere per Zara e la Dalmazia". A tre mesi di distanza quel giudizio non appare smentito dagli avvenimenti successivi. Il trattato di Rapallo è un compromesso infelice, contro il quale sul Popolo furono elevate pagine di critica che è, ora, inutile riesumare. Si tratta di spiegare come l'Italia vittoriosa sia giunta a Rapallo. E la spiegazione non richiede eccessivi sforzi mentali. Siamo arrivati a Rapallo, come conseguenza logica della politica estera - fatta o impostaci - prima della guerra, durante la guerra e dopo la guerra. Per spiegare Rapallo, bisogna pensare agli alleati, due dei quali, essendo mediterranei per posizione geografica (Francia) o per interessi e colonie (Inghilterra) non possono vedere di buon occhio il sorgere dell'Italia in potenza mediterranea. onde si spiegano, in loro, lo zelo e tutte le manovre più o meno oblique con cui sono riuscite a creare nell'Adriatico Superiore e Inferiore, il contraltare marittimo - jugoslavo e greco - dell'Italia. Rapallo si spiega pensando a Wilson e ai suoi cosiddetti "experts"; alla mancanza assoluta di propaganda italiana all'estero; alla stanchezza mortale e perfettamente comprensibile della popolazione. Rapallo si spiega col convegno delle Nazionalità oppresse tenutosi nell'Aprile del 1918 a Roma e quel convegno si riattacca all'infausta pagina di Caporetto. Tutto si paga nella vita. Il 12 Novembre del 1920 abbiamo pagato a Rapallo la rotta del 24 Ottobre 1917. Senza Caporetto, niente Patto di Roma. In quel congresso i jugoslavi ci vendettero del fumo, poiché in realtà essi nulla, assolutamente nulla, fecero per disintegrare dall'interno la duplice monarchia, della quale furono fedelissimi servitori sino all'ultimo, con lealismo tradizionalmente croato. Non per niente, dopo il suo decesso, la monarchia d'Absburgo tentava regalare ai jugoslavi la sua flotta di guerra. Ma nell'Aprile del 1918 si creava - consenzienti tutte le correnti dell'opinione pubblica italiana, compresa la nostra e la nazionalista - l'irreparabile; si elevavano, cioè, al rango di alleati effettuali e potenziali i nostri peggiori nemici e si capisce, che a vittoria ottenuta, costoro non hanno accettato il ruolo dei vinti, ma hanno insistito sul loro ruolo di collaboratori e hanno rivendicato anche nei nostri confronti la relativa quota-parte del bottino comune. Dopo il Patto di Roma, non si poteva piantare il ginocchio sul petto alla Jugoslavia: questa la verità. Così è accaduto che il popolo italiano, stanco ed impoverito, snervato da due lunghi anni di inutili trattative, demoralizzato dalla politica di Cagoia e dalla tremenda ondata di disfattismo postbellico alla quale solo i Fasci hanno potentemente reagito, ha accettato o subito il trattato di Rapallo, senza manifestazioni di gioia o di rammarico. Pur di finirla, una buona volta, molta gente avrebbe trangugiato anche la linea terribile di Montemaggiore. Tutti i partiti, di tutte le gradazioni di destra o di sinistra, hanno accettato il trattato come un "meno peggio". Noi lo abbiamo subìto considerandolo soprattutto come una cosa effimera e transitoria (c'è mai stato nel mondo e specialmente sulle sabbie mobili della diplomazia qualche cosa di definitivo?) e, nell'intento di preparare tutte le forze affinché la prossima o lontana, ma fatale revisione, migliori il trattato e non lo peggiori; porti il nostro confine alle Dinariche, ma non porti mai più il confine jugoslavo all'Isonzo. La sorte toccata alla Dalmazia ci angoscia profondamente. Ma la colpa della rinuncia non è da attribuirsi tutta ai negoziatori dell'ultima ora: la rinuncia era già stata perpetrata nel Parlamento, nel giornalismo, nell'Università stessa, dove un professore ha stampato libri - naturalmente tradotti a Zagabria - per dimostrare - a modo suo - che la Dalmazia non è italiana !

La tragedia dalmata è in questa ignoranza, malafede e incomprensione, colpe alle quali speriamo di riparare colla nostra opera futura, intesa a far conoscere, amare e difendere la Dalmazia italiana.

Firmato il trattato, si poteva annullarlo con uno o l'altro di questi due mezzi: o la guerra all'esterno o la rivoluzione all'interno. L'una e l'altra assurde ! Non si fa scattare un popolo sulle piazze contro un trattato di pace, dopo cinque anni di calvario sanguinoso. Nessuno è capace di operare tale prodigio !

Si è potuta fare in Italia una rivoluzione per imporre l'intervento, ma nel Novembre 1920 non si poteva pensare a una rivoluzione per annullare un trattato di pace, che, buono o cattivo, era accettato dal 99 percento degli italiani ! Io non tengo, fra tutte le virtù possibili e pensabili, alla coerenza; ma testimoni esistono e documenti stenografici fanno fede, che, dopo Rapallo, io ho sempre dichiarato che due cose mi rifiutavo di fare contro il trattato: la guerra all'esterno e la guerra all'interno. Pensavo anche che era pericoloso imbottigliarsi in un'opposizione armata al trattato, rimanendo in un punto periferico della Nazione, come Fiume.

Due mesi di polemiche e note quotidiane dei mesi di Novembre e Dicembre, stanno a testimoniare trionfalmente la mia opera di solidarietà colla causa di Fiume e la mia aperta e recisa opposizione al Governo di Giolitti. Gran peccato che l'oblio cada così rapidamente sugli scritti di un quotidiano; nè io ho l'abitudine melanconica di riesumare ciò che pubblico. Ma la realtà indistruttibile è che giorno per giorno ho battagliato perché il Governo di Roma riconoscesse quello di Fiume; perché al convegno di Rapallo fossero invitati i rappresentanti della Reggenza; perché da parte del Governo di Roma si evitasse ogni attacco armato contro Fiume. A Tragedia iniziata ho bollato come un enorme delitto l'attacco della vigilia di Natale e ho segnato all'indomani i "titoli d'infamia" del Governo di Giolitti e sempre ho esaltato lo spirito di giustizia, di libertà e di volontà che è lo spirito immortale della legione di Ronchi.

Accade per gli avvenimenti della storia, come talvolta a teatro: ci sono delle platee ringhiose che, avendo pagato il biglietto, pretendono che la rappresentazione, a qualunque costo, vada a termine. Così oggi in Italia incontrate due categorie d'individui: gli uni, tipo Malagodi e Papini, che rimproverano a D'Annunzio di essere sopravvissuto alla tragedia fiumana e altri che rimproverano a Mussolini di non aver fatto quella piccola cosa leggera, facile, graziosa, che si chiama una "rivoluzione". Io ho sempre disdegnato gli alibi vigliacchi, coi quali e pei quali, in Italia - deficienza, impotenza, rancori e miserie - ci si sfoga su teste di turco reali o immaginarie. I Fasci di Combattimento non hanno mai promesso di fare la rivoluzione in Italia, in caso di un attacco a Fiume, e specialmente dopo la defezione di Millo. Io poi, personalmente, non ho mai scritto o fatto sapere a D'Annunzio che la rivoluzione, in Italia, dipendeva dal mio capriccio. Non faccio bluff e non vendo del fumo. La rivoluzione non è una boite à surprise che scatta a piacere. Io non la porto in tasca e non la portano nemmeno coloro che del suo nome si riempiono la bocca rumorosamente e all'atto pratico non vanno oltre al tafferuglio di piazza, dopo la dimostrazioncella inconcludente, magari col provvidenziale arresto che salva da guai peggiori. Conosco la specie e gli uomini. Faccio la politica da vent'anni. A guerra iniziata fra Caviglia e Fiume, o c'era la possibilità di scatenare grandi cose o altrimenti, per un senso di pudore, bisognava evitare l'eccessivo vociare e le sparate fumose, dileguate subito senza traccia e senza sangue.

La storia raccolta di fatti lontani insegna poco agli uomini; ma la cronaca,storia che si fa sotto gli occhi nostri, dovrebbe essere più fortunata. Ora la cronaca ci dice che le rivoluzioni si fanno coll'esercito, non contro l'esercito; colle armi, non senza armi; con movimenti di reparti inquadrati, non con masse amorfe, chiamate a comizi di piazza. Riescono quando le circonda un alone di simpatia da parte della maggioranza; se no, gelano e falliscono. Ora, nella tragedia fiumana, esercito e marina non defezionarono. Certo rivoluzionarismo fiumano dell'ultima ora non si definiva; andava da taluni anarchici a taluni nazionalisti. Secondo taluni "emissari", si poteva mettere insieme il diavolo e l'acqua santa; la nazione e l'anti-nazione; Misiano e Delcroix. Ora io, dichiaro che respingo tutti i bolscevismi, ma qualora dovessi, per forza, sceglierne uno, prenderei quello di Mosca e di Lenin, non fosse altro perché ha proporzioni gigantesche, barbariche, universali. Quale rivoluzione allora? La nazionale o la bolscevica ? Una grande incertezza - complicata da tante cause minori - confondeva gli animi, mentre la nazione più che in un senso di rivolta per ciò che accadeva attorno a Fiume, si raccoglieva in un senso di dolore e una sola cosa auspicava: la localizzazione dell'episodio e la sua rapida, pacifica conclusione.

Delle due l'una, nel caso che ci fosse stata e non c'era assolutamente, dato il contegno delle forze armate di cui disponeva il governo, la possibilità di un moto insurrezionale da parte nostra: o la disfatta o la vittoria. Nel primo caso tutto sarebbe andato perduto irreparabilmente nel baratro di una inutile guerra civile. Facciamo pure per amore di polemica, la seconda ipotesi; l'ipotesi della vittoria colla caduta del governo e del regime. E nel secondo tempo? Dopo la più o meno facile demolizione, quale direzione avrebbe avuto la rivoluzione? Sociale, come volevano taluni bolscevizzanti - quelli della formula "sempre più a sinistra", equivalente della grottesca "corsa al più rosso" - o nazionale e dalmatica e reazionaria come la volevano altri?

Non possibilità di conciliazione fra le due correnti. Per una rivoluzione socialoide, che significato avrebbero potuto avere ancora le questioni territoriali e precisamente dalmatiche? Nell'altro caso di una rivoluzione nazionale, contro il trattato di Rapallo, il tutto si sarebbe limitato ad un annullamento formale del trattato e a una sostituzione di uomini, per poi addivenire a un altro trattato, in un'altra Rapallo qualsiasi, poiché un giorno o l'altro, la nazione avrebbe dovuto finalmente avere la sua pace. Non si sanava un episodio di guerra civile, scatenando più ampia guerra, in un momento come quello che si attraversava, e nessuno è capace di prolungare e di creare artificiosamente situazioni storiche conchiuse e superate. A chi sa elevarsi al disopra delle meschine passioni e sa trarre una sintesi del vario cozzare degli elementi, e scernere il grano puro dal loglio equivoco, è concesso il privilegio dell'anticipazione sul Natale fiumano che può essere chiamato il punto d'incrocio tragico fra la ragione di Stato e la ragione dell'Ideale; il convegno terminale di tutte le nostre deficienze e di tutte le nostre grandezze !

Il primo è quello di Fiume. Non sentiamo il bisogno di accumulare frasi per ripetere la nostra solidarietà colla città olocausta. Abbiamo dato, proprio in questi giorni, le prove più tangibili della nostra solidarietà al Fascio Fiumano di Combattimento, per rimetterlo in condizioni tali da impegnare la lotta contro la croataglia che ritorna a farsi viva. L'azione dei fascisti deve tendere a realizzare, per il momento, l'annessione economica di Fiume all'Italia. Sollecitare governo e privati. Nello stesso tempo mantenere con ogni mezzo la fiamma dell'italianità, in modo che all'annessione economica si passi in breve a quella politica. A ciò si arriverà, malgrado tutto. Tutta la solidarietà fascista, nazionale e governativa dev'essere concentrata su Zara, in modo che la piccola città possa adempiere al suo delicato e grandioso compito storico. Tutela efficace degli italiani rimasti negli altri centri della Dalmazia. Niente collegio separato per gli slavi in Istria o per i tedeschi nell'Alto Adige. Non si può creare un precedente siffatto che ci porterebbe molto lontano. I francesi della Val d'Aosta, che sono, in realtà, ottimi italiani, non hanno collegio speciale o altri privilegi del genere. Questa duplice circoscrizione sarebbe un errore gravissimo. Tocca ai fascisti del Trentino e di Trieste, impedire a qualunque costo che si compia.

Gli orientamenti stabiliti l'anno scorso - nell'adunata del Maggio a Milano - non sono invecchiati o sorpassati.

Il Fascismo gode fama di essere "imperialista".Quest'accusa fa il paio coll'altra di "reazionarismo". Il Fascismo è anti-rinunciatario quando "rinunciare" significa umiliarsi e diminuirsi. A paragrafi:

1°)Il Fascismo non crede alla vitalità e ai principi che ispirano la cosiddetta Società delle Nazioni. In questa Società le Nazioni non sono affatto su un piede di eguaglianza. E' una specie di santa alleanza delle nazioni plutocratiche del gruppo franco-anglo-sassone per garantirsi - malgrado inevitabili urti di interessi - lo sfruttamento della massima parte del mondo.

2°) Il Fascismo non crede alle Internazionali rosse che muoiono, si riproducono, si moltiplicano, tornano a morire. Si tratta di costruzioni artificiali e formalistiche, che raccolgono piccole minoranze, in confronto alle masse di popolazioni che vivendo, movendosi e progredendo o regredendo, finiscono per determinare quegli spostamenti di interesse, davanti ai quali vanno a pezzi le costruzioni internazionalistiche di prima, seconda, terza maniera.

3°) Il Fascismo non crede alla immediata possibilità del disarmo universale.

4°) Il Fascismo pensa che l'Italia debba fare, nell'attuale periodo storico, una politica europea di equilibrio e di conciliazione fra le diverse Potenze.

Da queste premesse generali consegue che i Fasci Italiani di Combattimento chiedono:

a) che i Trattati di pace siano riveduti e modificati in quelle parti che si appalesano inapplicabili o la cui applicazione può essere fonte di odi formidabili e fomite di nuove guerre;

b) l'annessione economica di Fiume all'Italia e la tutela degli italiani residenti nelle terre dalmatiche;

c) lo svincolamento graduale dell'Italia dal gruppo delle nazioni plutocratiche occidentali attraverso lo sviluppo delle nostre forze produttive interne;

d) il riavvicinamento alle nazioni nemiche - Austria, Germania, Bulgaria, Turchia, Ungheria - ma con atteggiamento di dignità, e tenendo fermo alle necessità supreme dei nostri confini settentrionali e orientali;

e) creazione e intensificazione di relazioni amichevoli con tutti i popoli dell'Oriente, non esclusi quelli governati dai "Soviety" e del Sud-Oriente europeo;

f) rivendicazioni, nei riguardi coloniali dei diritti e delle necessità della nazione;

g) svecchiamento e rinnovamento di tutte le nostre rappresentanze diplomatiche con elementi usciti da facoltà speciali universitari;

h) valorizzazione delle colonie italiane del Mediterraneo e di oltre Atlantico con istituzioni economiche e culturali e con rapide comunicazioni.

Ho una fede illimitata nell'avvenire di grandezza del popolo italiano. Il nostro è, fra i popoli europei, il più numeroso e il più omogeneo. E' destino che il Mediterraneo torni nostro. E' destino che Roma torni ad essere la città direttrice della civiltà in tutto l'Occidente d'Europa. Innalziamo la bandiera dell'impero, del nostro imperialismo che non deve essere confuso con quello di marca prussiana o inglese. Commettiamo alle nuove generazioni che sorgono la fiamma di questa passione: fare dell'Italia una delle nazioni senza le quali è impossibile concepire la storia futura dell'Umanità.

Respingiamo tutte le stolide obiezioni dei sedentari che ci parlano di analfabetismo e di pellagra ed altro, quando si vede che mezzo secolo di "piede di casa" non ci ha guariti da questi che non sono nè delitti, nè vergogna. Al disopra dei pessimisti che vedono tutto grande in casa altrui e tutto piccolo in casa propria, dobbiamo avere l'orgoglio della nostra razza e della nostra storia. La guerra ha enormemente aumentato il prestigio morale dell'Italia. Si grida: "Viva l'Italia" nella lontana Lettonia e nella ancora più lontana Georgia. L'Italia è l'ala tricolore di Ferrarin, l'onda magnetica di Marconi, la bacchetta di Toscanini, il ritorno a Dante, nel sesto centenario della sua dipartita. Sogniamo e prepariamo - con l'alacre fatica di ogni giorno - l'Italia di domani, libera e ricca, sonante di cantieri, coi mari e i cieli popolati dalle sue flotte. con la terra ovunque fecondata dai suoi aratri. Possa il cittadino che verrà dire quel che Virgilio diceva di Roma: imperioum oceano, famam qui terminet astris: ponga i termini dell'Impero all'Oceano ma la sua fama elevi alle stelle.


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Secondo discorso di Trieste (http://www.nuovo-ordine-nazionale.org/Discorsi%20di%20Benito%20M/Il%20secondo%20discorso%20di%20Trieste/Trieste2.htm)

Avamposto
29-07-10, 12:39
DISCORSO DI BOLOGNA



Prefazione

Questo discorso fu pronunciato a Bologna, al Teatro Comunale, il 3 Aprile 1921. Anche questo è un discorso sintetico, in cui appaiono le basi essenziali e le idee-forza del Fascismo. Con esso, al 1° Maggio d'infausta memoria socialista si opponeva il 21 Aprile fascista, data del Natale di Roma, consacrato al Lavoro e alla Nazione. Fra le persone citate nel discorso, giovi rammentare che Giulio Giordani fu assassinato in Bologna da un'aggressione rossa nel Palazzo d'Accursio, in pieno consiglio comunale. L'avv. Grandi è il futuro Ministro degli Affari Esteri; i nomi di Bucco, Zanardi e Bentini, note personalità del socialismo, sono presi ad esponente di tutta una categoria di uomini che, pur facendo i politicanti rossi, non avevano neppure il coraggio di una possibile rivoluzione.


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Fascisti dell'Emilia e della Romagna ! Cittadini bolognesi ! Tutte le circostanze, a cominciare dalle accoglienze di ieri sera, dai canti di questa notte, a questo magnifico mareggiare di teste, al saluto che io accettai con trepida venerazione, dalla vedova del nostro indimenticabile Giulio Giordani, (applausi) alla presenza in un palco di due donne eroiche, vedove di eroi grandissimi: parlo di Battisti e di Venezian (applausi); tutto ciò potrebbe trascinarmi sopra un terreno dell'eloquenza che non è la mia. Ma io credo, io sono quasi certo che voi non vi attendete da me un discorso retorico, ma vi attendete da me un discorso duro ed aspro, come è nel mio costume. Ed allora noi ci parleremo schiettamente, fascisticamente.

Io ringrazio l'avv. Grandi che mi ha presentato a voi con parole troppo lusinghiere: io le accetto e credo di non commettere un peccato di orgoglio. Potrei dirvi socraticamente che se ognuno deve conoscere se stesso, anche io conosco e devo conoscere me stesso (applausi). Come è nato questo fascismo, attorno al quale è così vasto strepito di passioni, di simpatie, di odi, di rancori e di incomprensione? Non è nato soltanto dalla mia mente o dal mio cuore: non è nato soltanto da quella riunione che nel 1919 noi tenemmo in una piccola sala di Milano. E' nato da un profondo, perenne bisogno di questa nostra stirpe ariana e mediterranea che ad un dato momento si è sentita minacciata nelle ragioni essenziali della esistenza di una tragica follia e da una favola mitica che oggi crolla a pezzi nel luogo stesso ove è nata (applausi).

Noi sentimmo allora, noi che non eravamo i maddaleni pentiti; noi che avevamo il coraggio di esaltare sempre l'intervento e le ragioni delle giornate del 1915; noi che non ci vergognavamo di avere sbaragliato l'Austria sul Piave e di averla poi mandata in frantumi a Vittorio Veneto; noi che volemmo una pace vittoriosa, noi sentimmo subito, appena cessata l'esaltazione della vittoria, che il nostro compito non era finito. Difatti ad ogni volgere di stagione si dice che il mio compito e il compito delle forze che mi seguono, sia finito. Nel Maggio 1915, quando i fasci di azione rivoluzionaria avevano spazzato da tutte le strade, da tutte le piazze e le vie d'Italia, perfino nei più piccoli borghi d'Italia il neutralismo parecchista, si disse: Mussolini non ha più niente da dire alla nazione. Ma quando vennero le tragiche e tristi giornate di Caporetto, quando Milano era grigia e terrea perché sentiva che se gli austriaci passavano e venivano nella città delle cinque giornate sarebbe stata la fine dell'Italia tutta, allora noi sentimmo di avere ancora una parola di dire. E dopo la vittoria, quando sorse la scuola della rinunzia più o meno democratica, che intendeva amputare la vittoria, noi fascisti avemmo il supremo spregiudicato coraggio di dirci imperialisti ed antirinunciatari.

Fu quella la prima battaglia che demmo nel Teatro della Scala nel Gennaio 1919. Ma come? Avevamo vinto, avevamo vinto noi per tutti, avevamo sacrificato il fior fiore della nostra gioventù, e poi si veniva a noi coi conti degli usurai, degli strozzini. Ci si contendevano i termini sacri della patria, e c'erano in Italia dei democratici, la cui democrazia consiste nel fare l'imperialismo per gli altri e nel rinnegarlo per noi (applausi), che ci lanciavano questa stolta accusa, semplicemente perché intendevamo che il confine d'Italia al nord dovesse essere il Brennero, dove sarà fin che ci sarà il sangue di un italiano in Italia (applausi). Intendevamo che il confine orientale fosse al Nevoso, perché la' sono i naturali, giusti confini della Patria e perché non eravamo sordi alla passione di Fiume e perché portavamo nel cuore lo spasimo del fratelli della Dalmazia, perché infine sentivamo vivi e vitali quei vincoli di razza che non ci lega soltanto agli italiani da Zara a Ragusa ed a Cattaro, ma che ci lega anche agli italiani del Canton Ticino, anche a quegli italiani che non vogliono più esserlo, a quelli di Corsica, a quelli che sono al di la' dell'Oceano, a questa grande famiglia di 50 milioni di uomini che noi vogliamo unificare in uno stesso orgoglio di razza (applausi). Si notavano già le prime avvisaglie della offensiva pussista. Milano il 16 Febbraio assistette, fra lo sgomento e il terrore di una borghesia infiacchita e trepidante, ad una sfilata di 20 mila bolscevichi i quali, dopo aver inneggiato a Lenin dall'alto dei torrioni del castello, dissero che la rivoluzione bolscevica era imminente.

Allora io uscii all'indomani con un articolo che fece una certa impressione anche ad alcuni amici. Era intitolato:"Contro il ritorno della bestia trionfante".Era un articolo in cui si diceva: noi siamo disposti a convertire le piazze delle città d'Italia in tante trincee munite di reticolati per vincere la nostra battaglia, per dare l'ultima battaglia contro questo nemico interno. E la battaglia disfattista iniziatasi con quella parata continuò per tutta l'estate quando fu rimestata fino alla nausea quella inchiesta sul disastro di Caporetto che un ministro infame, infamabile, da infamarsi ( morte a Nitti, morte a Cagoia, viva d'Annunzio, applausi) aveva dato in pasto alla esasperazione ed ai giusti dolori di gran parte del popolo italiano.

Anche allora noi fascisti avemmo il coraggio di difendere certe azioni che col misurino della morale corrente non sono forse difendibili. Ma, o signori, la guerra è come la rivoluzione: si accetta in blocco: non si può scendere al dettaglio: non si può e non si deve.

Ma intanto questa campagna aveva le sue risultanze elettorali. Un milione e 850.000 elettori misero nell'urna la scheda con la falce e il martello: 156 deputati alla Camera. Pareva imminente la catastrofe. Io fui ripescato suicida nelle acque niente affatto limpide del vecchio Naviglio. Ma si dimenticava una cosa: si dimenticava il mio spirito tenacissimo e la mia volontà qualche volta indomabile. Io, tutto orgoglioso del miei quattromila voti, e chi mi ha visto in quei giorni sa con quanta disinvoltura accettassi questo responso elettorale, dissi: la battaglia continua ! Perché io credevo fermamente che giorno sarebbe venuto in cui gli italiani si sarebbero vergognati delle elezioni del 16 Novembre, giorno sarebbe venuto in cui gli italiani non avrebbero più eletto in due città quell'ignobile disertore che io in questo momento non voglio nominare (applausi: morte a Misiano!). Tanto è vero che costui oggi essendo incapace di vivere nel dramma scende nella farsa e dopo avere disprezzato la guardia regia chiede a quella divisa la impunità e la salvezza.

Ma ancora non è finito l'avvento di questo fascismo, di questo movimento straripante, di questo movimento giovane, ardimentoso ed eroico. io solo qualche volta , io che rivendico la paternità di questa mia creatura così traboccante di vita, io posso qualche volta sentire che il movimento ha già straripato dai modesti confini che gli aveva assegnato. Infine noi fascisti abbiamo un programma ben chiaro: noi dobbiamo procedere innanzi preceduti da una colonna di fuoco, perché ci si calunniava e non ci si voleva comprendere. E per quanto si possa deplorare la violenza, è evidente che noi per imporre le nostre idee ai cervelli dovevamo a suon di randellate toccare i crani refrattari.

Ma noi non facciamo della violenza una scuola, un sistema o peggio ancora una estetica. Noi siamo violenti tutte le volte che è necessario esserlo. Ma vi dico subito che bisogna conservare alla violenza necessaria del fascismo una linea, uno stile nettamente aristocratico o se meglio vi piace nettamente chirurgico.

Le nostre spedizioni punitive, tutte quelle violenze che occupano le cronache dei giornali, devono avere sempre il carattere di una giusta ritorsione e di una legittima rappresaglia. Perché noi siamo i primi a riconoscere che è triste dopo avere combattuto contro i nemici di fuori combattere ora contro i nemici di dentro che vogliono o non vogliono sono italiani anch'essi. Ma è necessario, e fin che sarà necessario assolveremo al nostro compito in questa dura ingrata fatica.

Ora i democratici, i repubblicani, i socialisti ci muovono accuse di diverso genere. I socialisti fino a ieri hanno detto che siamo venduti ai pescicani o all'agraria. Non ci sarebbero pescicani sufficienti in Italia per sovvenzionare un movimento come il nostro e d'altra parte vi devo dire che sarebbero pescicani piuttosto stupidi perché fin dal Marzo 1919 noi nei postulati fascisti abbiamo messo dei provvedimenti fiscali assai gravi e che sono in ogni caso antipescecaneschi.

Le altre accuse che ci da la democrazia sono ridicole, le accuse che ci fanno i repubblicani altrettanto. Io non mi spiego come dei repubblicani possano essere contrari ad un movimento che è tendenzialmente repubblicano. Io comprenderei che fossero contrari ad un movimento tendenzialmente monarchico. Ci si dice: voi non avete pregiudiziali. Non ne abbiamo ed è nostro vanto non averne. Ma voi dovete spiegarvi il fenomeno dell'ira e della incomprensione dei socialisti. I socialisti avevano in Italia costituito uno stato nello Stato. Se questo nuovo stato fosse stato più liberale, più moderno, più vicino all'antico, niente in contrario. Ma questo stato, e voi lo sapete per esperienza diretta, era uno stato più tirannico, più illiberale, più camorrista del vecchio, per cui questa che noi compiamo oggi è una rivoluzione che spezza lo stato bolscevico nell'attesa di fare conti con lo stato liberale che rimane. (Applausi).

C'è chi pensa che la crisi socialista sia soltanto una crisi di uomini, di questi piccoli uomini che voi conoscete, i Bucco, i Zanardi, i Bentini (urla di abbasso)e simile tritume umano; ma la crisi è più profonda, cari amici, è un tracollo di tutti i valori. Non è soltanto una fuga più o meno ignobile di uomini perché fra tutte le cose assurde c'è stata questa: di battezzare il socialismo come scientifico. Ora di scientifico non c'è niente al mondo. La scienza ci spiega il come dei fenomeni, ma non ci spiega anche il perché di essi. Ora se non c'è niente di scientifico in quelle che si chiamano le scienze esatte, pensate se non era assurdo, se non era grottesco gabellare per scientifico un movimento vasto, incerto, oscuro, sotterraneo come è stato il movimento socialista il quale ha avuto una funzione utile in un primo tempo, quando si è diretto a queste plebi oppresse e le ha fatte scattare verso nuove forme di vita. Voi converrete con me che non si torna indietro. Non si deve fare del contrabbando stolto, reazionario o conservatore sotto il gagliardetto del fascismo. Non si può pensare a strappare alle masse operaie le conquiste che hanno ottenuto con sacrifici. Noi siamo i primi a riconoscere che una legge dello Stato deve dare le otto ore di lavoro e che ci deve essere una legislazione sociale rispondente alle esigenze dei tempi nuovi. E ciò non perché riconosciamo la maestà di S.M. il proletariato. Noi partiamo da un altro punto di vista. Ed è questo: che non ci può essere una grande nazione capace di grandezza attuale e potenziale se le masse lavoratrici sono costrette ad un regime di abbrutimento. (Applausi) E' necessario quindi che attraverso ad una predicazione e ad una pratica che io chiamerei mazziniana, la quale concilii e debba conciliare il diritto col dovere, è necessario che questa massa enorme di diecine di milioni di gente che lavora, che questa enorme massa sia portata sempre più ad un livello superiore di vita.

E' stolto ed assurdo dipingerci come nemici della classe lavoratrice e laboriosa. Noi ci sentiamo fratelli in ispirito con coloro che lavorano: Ma non facciamo distinzioni assurde, ma non mettiamo al primo piano il callo, specie se è al cervello. Noi non mettiamo sugli altari la nuova divinità del lavoratore manuale. Per noi tutti lavorano: anche l'astronomo che sta nella sua specula a consultare la traiettoria delle stelle lavora, anche il giurista, l'archeologo, lo studioso di religioni, anche l'artista lavora, quando accresce il patrimonio dei beni spirituali che sono a disposizione del genere umano: lavora anche il minatore, il marinaio, il contadino. Noi vogliamo appunto che tutti i lavori si compendino e si integrino a vicenda: vogliamo che tra spirito e materia, fra cervello e braccio si realizzi la comunione, la solidarietà della stirpe. Ed allora questo fascismo è la ventata di tutte le eresie che batte alle porte di tutte le chiese. E dice ai vecchi sacerdoti più o meno piagnoni: Andatevene da questi tempi che minacciano rovina, perché la nostra eresia trionfante è destinata a portare la luce in tutti i cervelli, a tutti gli animi. E diciamo a tutti: piccoli e grandi uomini della scena politica nazionale, diciamo fate largo che passa la giovinezza d'Italia che vuole imporre la sua fede e la sua passione. E se voi non farete spontaneamente largo, voi sarete travolti dalla nostra universale spedizione punitiva che raccoglierà in un fascio gli spiriti liberi della nazione italiana. (Applausi)

Siamo dinanzi ad un fatto che è il fatto elettorale. Essendo la camera vecchia e peggio che vecchia, fradicia ed imputridita, essendo tutti i protagonisti di questa semitragedia degli uomini usati ed abusati, stanchi e peggio ancora stracchi, si impone la nuova consultazione elettorale. Ebbene, non sentite voi che se le elezioni del 1919 furono disfattiste e misianesche, le elezioni del 1921 saranno nettamente fasciste? Non sentite voi che il timone dello Stato non ritornerà più ai vecchi uomini della vecchia Italia: nè a Salandra, nè a Sonnino, nè al lacrimoso Orlando, nè al porcino Nitti? Non sentite voi che il timone passa per un trapasso spontaneo da Giovanni Giolitti, l'uomo del parecchio neutralista, del 1915 a Gabriele D'Annunzio che è un uomo nuovo? (Applausi, ovazioni prolungate: Viva D'Annunzio).

Questi vostri applausi dicono molte cose: e disperdono equivoci che sono già dispersi. Ho ricevuto oggi un messaggio in base al quale posso affermare sinceramente che il dissidio creato più o meno ad arte fra quelli che hanno difeso Fiume - e noi tributeremo sempre loro l'omaggio della nostra riconoscenza - e noi che la difendemmo all'interno, non ha ragione di essere. E Gabriele D'Annunzio porrà fine a questo dissidio che più che da legionari partiva da certi politicanti che forse non erano neppure a Fiume quando a Fiume ci si batteva sul serio. E credo di aver detto a sufficienza perché tutti mi comprendano. (Applausi)

Altro elemento di vita del fascismo è l'orgoglio della nostra italianità. A questo proposito sono lieto di annunziarvi che abbiamo già pensato alla giornata fascista: se i socialisti hanno il 1° Maggio, se i popolari hanno il 15 Maggio, se altri partiti di altro colore hanno altre giornate, noi fascisti ne avremo una: ed è il Natale di Roma. il 21 Aprile. In quel giorno noi, nel segno di Roma Eterna, nel segno di quella città che ha dato due civiltà al mondo e darà la terza, noi ci riconosceremo e le legioni regionali sfileranno col nostro ordine che non è militaresco e nemmeno tedesco, ma semplicemente romano. Noi anche così abbiamo abolito e tendiamo ad abolire il gregge, la processione: noi aboliamo tutto ciò e sostituiamo a queste forme di manifestazione passatiste la nostra marcia che impone un controllo individuale ad ognuno, che impone a tutti un ordine ed una disciplina. Perché noi vogliamo appunto instaurare una solida disciplina nazionale, perché pensiamo che senza questa disciplina l'Italia non può divenire la nazione mediterranea e mondiale che è nei nostri sogni. E quelli che ci rimproverano di marciare alla tedesca, devono pensare che non siamo noi che copiamo i tedeschi, ma sono questi che copiavano e copiano i romani, per cui siamo noi che ritorniamo alle origini, che ritorniamo al nostro stile romano, latino e mediterraneo. E non abbiamo pregiudiziali: non le abbiamo perché non siamo una chiesa: siamo un movimento. Non siamo un partito: siamo una palestra di uomini liberi. Quando uno è stufo di essere fascista ha venti botteghe e venti chiese cui battere alla porta, per domandare ospitalità. Non abbiamo nemmeno istituti: li riteniamo superflui. Il nostro è un esercito che si riconosce dalla sua passione e dalla disciplina volontaria: che si riconosce soprattutto per ritenersi non guardia di un partito o di una fazione, ma soltanto guardia della nazione. Ci riconosciamo soprattutto dall'amore che sentiamo per l'Italia, per l'Italia resa e raffigurata nella sua storia, nella sua civiltà e raffigurata anche nella sua struttura geografica ed umana.

Ieri mentre il treno mi portava a Bologna, io mi sentivo veramente legato con le cose e con gli uomini, mi sentivo legato a questa terra, mi sentivo parte infinitesimale di quel magnifico fiume che corre dalle Alpi all'Adriatico, mi riconoscevo fratello nei contadini, che avevano il gesto sacro e grave di colui che lavora la terra; mi riconoscevo nel cielo azzurro che suscitava la mia inestinguibile passione del volo, mi riconoscevo in tutti gli aspetti della natura e degli uomini. Ed allora una preghiera profonda saliva dal mio cuore. E' la preghiera che tutti gli italiani dovrebbero recitare quando le aurore incendiano il cielo o quando i crepuscoli obnubilano la terra. Noi italiani del secolo XX, noi che abbiamo veduto la grande tragedia del compimento nazionale, noi che portiamo nel profondo nel nostro animo il ricordo di tutti i nostri morti, che sono la nostra religione, noi, o cittadini d'Italia, facciamo un solo giuramento, un solo proposito: vogliamo essere gli artefici modesti, ma tenaci delle sue fortune presenti e avvenire. (Applausi ed ovazioni)


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Il discorso di Bologna (http://www.nuovo-ordine-nazionale.org/Discorsi%20di%20Benito%20M/Discorso%20di%20Bologna/Bologna.html)

Avamposto
29-07-10, 12:40
Discorso alla Camera dei Deputati
(3 Gennaio 1925)



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Nota
Questo è il famoso discorso in cui il cavaliere Benito Mussolini mette in riga il parlamento e il popolo italiano. Impresa non molto difficile in quanto si tratta di una opposizione parlamentare senza idee e di una opposizione popolare del tutto sconclusionata. D'ora in poi il popolo bue seguirà docilmente il suo padrone, fino al mattatoio, sua ultima mèta.


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Signori!
Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere, a rigor di termini, classificato come un discorso parlamentare.
Può darsi che alla fine qualcuno di voi trovi che questo discorso si riallaccia, sia pure attraverso il varco del tempo trascorso, a quello che io pronunciai in questa stessa aula il 16 novembre.
Un discorso di siffatto genere può condurre, ma può anche non condurre ad un voto politico. Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti troppi.
L'articolo 47 dello Statuto dice:
« La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all'Alta corte di giustizia ».
Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c'è qualcuno che si voglia valere dell'articolo 47. [Vivissimi prolungati applausi. Moltissimi deputati sorgono in piedi. Grida di "Viva Mussolini!". Applausi anche dalle tribune].
Il mio discorso sarà quindi chiarissimo e tale da determinare una chiarificazione assoluta.
Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio, ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere ancora percorsa nell'avvenire.
Sono io, o signori, che levo in quest'aula l'accusa contro me stesso.
Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo!
Veramente c'è stata una Ceka in Russia, che ha giustiziato, senza processo, dalle centocinquanta alle centosessantamila persone, secondo statistiche quasi ufficiali. C'è stata una Ceka in Russia, che ha esercitato il terrore sistematicamente su tutta la classe borghese e sui membri singoli della borghesia. Una Ceka che diceva di essere la rossa spada della rivoluzione.
Ma la Ceka italiana non è mai esistita.
Nessuno mi ha negato fino ad oggi queste tre qualità: una discreta intelligenza, molto coraggio e un sovrano disprezzo del vile denaro. [Vivissimi prolungati applausi]
Se io avessi fondato una Ceka l'avrei fondata seguendo i criteri che ho sempre posto a presidio di quella violenza che non può essere espulsa dalla storia. Ho sempre detto, e qui lo ricordano quelli che mi hanno seguito in questi cinque anni di dura battaglia, che la violenza, per essere risolutiva, deve essere chirurgica, intelligente, cavalleresca. [Approvazioni]
Ora i gesti di questa sedicente Ceka sono stati sempre inintelligenti, incomposti, stupidi.
Ma potete proprio pensare che nel giorno successivo a quello del Santo Natale, giorno nel quale tutti gli spiriti sono portati alle immagini pietose e buone, io potessi ordinare un'aggressione alle 10 del mattino in via Francesco Crispi, a Roma, dopo il mio discorso di Monterotondo, che è stato forse il discorso più pacificatore che io abbia pronunziato in due anni di governo? Risparmiatemi di pensarmi così cretino.
E avrei ordito con la stessa intelligenza le aggressioni minori di Misuri e di Forni? Voi ricordate certamente il discorso del 7 giugno. Vi è forse facile ritornare a quella settimana di accese passioni politiche, quando in questa aula la minoranza e la maggioranza si scontravano quotidianamente, tantoché qualcuno disperava di riuscire a stabilire i termini necessari di una convivenza politica e civile fra le due opposte parti della Camera. Discorsi irritanti da una parte e dall'altra. Finalmente, il 6 giugno, l'onorevole Delcroix squarciò, col suo discorso lirico, pieno di vita e forte di passione, l'atmosfera carica, temporalesca.
All'indomani, io pronuncio un discorso che rischiara totalmente l'atmosfera. Dico alle opposizioni: riconosco il vostro diritto ideale ed anche il vostro diritto contingente; voi potete sorpassare il fascismo come esperienza storica; voi potete mettere sul terreno della critica immediata tutti i provvedimenti del Governo fascista.
Ricordo e ho ancora ai miei occhi la visione di questa parte della Camera, dove tutti intenti sentivano che in quel momento avevo detto profonde parole di vita e avevo stabilito i termini di quella necessaria convivenza senza la quale non è possibile assemblea politica di sorta.
E come potevo, dopo un successo, e lasciatemelo dire senza falsi pudori e ridicole modestie, dopo un successo così clamoroso, che tutta la Camera ha ammesso, comprese le opposizioni, per cui la Camera si aperse il mercoledì successivo in un'atmosfera idilliaca, da salotto quasi, come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, non dico solo di far commettere un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell'avversario che io stimavo perché aveva una certa crânerie, un certo coraggio, che rassomigliavano qualche volta al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi?
Che cosa dovevo fare? Dei cervellini di grillo pretendevano da me in quella occasione gesti di cinismo, che io non sentivo di fare perché repugnavano al profondo della mia coscienza. Oppure dei gesti di forza? Di quale forza? Contro chi? Per quale scopo?
Quando io penso a questi signori, mi ricordo degli strateghi che durante la guerra, mentre noi mangiavamo in trincea, facevano la strategia con gli spillini sulla carta geografica. Ma quando poi si tratta di casi al concreto, al posto di comando e di responsabilità si vedono le cose sotto un altro raggio e sotto un aspetto diverso.
Eppure non mi erano mancate occasioni di dare prova della mia energia. Non sono ancora stato inferiore agli eventi. Ho liquidato in dodici ore una rivolta di Guardie Regie, ho liquidato in pochi giorni una insidiosa sedizione, in quarantott'ore ho condotto una divisione di fanteria e mezza flotta a Corfù.
Questi gesti di energia, e quest'ultimo, che stupiva persino uno dei più grandi generali di una nazione amica, stanno a dimostrare che non è l'energia che fa difetto al mio spirito.
Pena di morte? Ma qui si scherza, signori. Prima di tutto, bisognerà introdurla nel Codice penale, la pena di morte; e poi, comunque, la pena di morte non può essere la rappresaglia di un Governo. Deve essere applicata dopo un giudizio regolare, anzi regolarissimo, quando si tratta della vita di un cittadino!
Fu alla fine di quel mese, di quel mese che è segnato profondamente nella mia vita, che io dissi: « Voglio che ci sia la pace per il popolo italiano »; e volevo stabilire la normalità della vita politica.
Ma come si è risposto a questo mio principio? Prima di tutto, con la secessione dell'Aventino, secessione anticostituzionale, nettamente rivoluzionaria. Poi con una campagna giornalistica durata nei mesi di giugno, luglio, agosto, campagna immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali! C'era veramente un accesso di necrofilia! Si facevano inquisizioni anche di quel che succede sotto terra: si inventava, si sapeva di mentire, ma si mentiva.
E io sono stato tranquillo, calmo, in mezzo a questa bufera, che sarà ricordata da coloro che verranno dopo di noi con un senso di intima vergogna.
E intanto c'è un risultato di questa campagna! Il giorno 11 settembre qualcuno vuol vendicare l'ucciso e spara su uno dei migliori, che morì povero. Aveva sessanta lire in tasca.
Tuttavia io continuo nel mio sforzo di normalizzazione e di normalità. Reprimo l'illegalismo.
Non è menzogna. Non è menzogna il fatto che nelle carceri ci sono ancor oggi centinaia di fascisti! Non è menzogna il fatto che si sia riaperto il Parlamento regolarmente alla data fissata e si siano discussi non meno regolarmente tutti i bilanci, non è menzogna il giuramento della Milizia, e non è menzogna la nomina di generali per tutti i comandi di Zona.
Finalmente viene dinanzi a noi una questione che ci appassionava: la domanda di autorizzazione a procedere con le conseguenti dimissioni dell'onorevole Giunta.
La Camera scatta; io comprendo il senso di questa rivolta; pure, dopo quarantott'ore, io piego ancora una volta, giovandomi del mio prestigio, del mio ascendente, piego questa assemblea riottosa e riluttante e dico: siano accettate le dimissioni. Si accettano. Non basta ancora; compio un ultimo gesto normalizzatore: il progetto della riforma elettorale.
A tutto questo, come si risponde? Si risponde con una accentuazione della campagna. Si dice: il fascismo è un'orda di barbari accampati nella nazione; è un movimento di banditi e di predoni! Si inscena la questione morale, e noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia.
Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto.
Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda!
Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa!
Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!
Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi.
In questi ultimi giorni non solo i fascisti, ma molti cittadini si domandavano: c'è un Governo? [Approvazioni] Ci sono degli uomini o ci sono dei fantocci? Questi uomini hanno una dignità come uomini? E ne hanno una anche come Governo? [Approvazioni]
Io ho voluto deliberatamente che le cose giungessero a quel determinato punto estremo, e, ricco della mia esperienza di vita, in questi sei mesi ho saggiato il Partito; e, come per sentire la tempra di certi metalli bisogna battere con un martelletto, così ho sentito la tempra di certi uomini, ho visto che cosa valgono e per quali motivi a un certo momento, quando il vento è infido, scantonano per la tangente. [Vivissimi applausi]
Ho saggiato me stesso, e guardate che io non avrei fatto ricorso a quelle misure se non fossero andati in gioco gli interessi della nazione. Ma un popolo non rispetta un Governo che si lascia vilipendere! [Approvazioni] Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella dignità del Governo, e il popolo, prima ancora che lo dicessi io, ha detto: Basta! La misura è colma!
Ed era colma perché? Perché la sedizione dell'Aventino a sfondo repubblicano, [Vivi applausi. Grida di "Viva il Re!". I ministri e i deputati sono in piedi. Vivissimi generali prolungati applausi, cui si associano le tribune] questa sedizione dell'Aventino ha avuto delle conseguenze.
Perché oggi in Italia, chi è fascista, rischia ancora la vita! E nei soli due mesi di novembre e dicembre undici fascisti sono caduti uccisi, uno dei quali ha avuto la testa spiaccicata fino ad essere ridotta un'ostia sanguinosa, e un altro, un vecchio di 73 anni, è stato ucciso e gettato da un muraglione.
Poi tre incendi si sono avuti in un mese, incendi misteriosi, incendi nelle Ferrovie e negli stessi magazzini a Roma, a Parma e a Firenze.
Poi un risveglio sovversivo su tutta la linea, che vi documento, perché è necessario di documentare, attraverso i giornali, i giornali di ieri e di oggi: un caposquadra della Milizia ferito gravemente da sovversivi a Genzano; un tentativo di assalto alla sede del Fascio a Tarquinia; un fascista ferito da sovversivi a Verona; un milite della Milizia ferito in provincia di Cremona; fascisti feriti da sovversivi a Forlì; imboscata comunista a San Giorgio di Pesaro; sovversivi che cantano Bandiera rossa e aggrediscono i fascisti a Monzambano.
Nei soli tre giorni di questo gennaio 1925, e in una sola zona, sono avvenuti incidenti a Mestre, Pionca, Vallombra: cinquanta sovversivi armati di fucili scorrazzano in paese cantando Bandiera rossa e fanno esplodere petardi; a Venezia, il milite Pascai Mario aggredito e ferito; a Cavaso di Treviso, un altro fascista e ferito; a Crespano, la caserma dei carabinieri invasa da una ventina di donne scalmanate; un capomanipolo aggredito e gettato in acqua a Favara di Venezia; fascisti aggrediti da sovversivi a Mestre; a Padova, altri fascisti aggrediti da sovversivi.
Richiamo su ciò la vostra attenzione, perché questo è un sintomo: il diretto 192 preso a sassate da sovversivi con rotture di vetri; a Moduno di Livenza, un capomanipolo assalito e percosso.
Voi vedete da questa situazione che la sedizione dell'Aventino ha avuto profonde ripercussioni in tutto il paese.
Allora viene il momento in cui si dice basta! Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. [Vive approvazioni. Vivi applausi.]
Non c'è stata mai altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai.
Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il fascismo, Governo e Partito, sono in piena efficienza. Signori! Vi siete fatte delle illusioni!
Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell'energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora ... [Vivissimi applausi]
Non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell'Aventino. [Vivissimi prolungati applausi]
L'Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l'amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. [Vive approvazioni]
Voi state certi che nelle quarantott'ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l'area. [Vivissimi prolungati applausi]
Tutti sappiano che ciò che ho in animo non è capriccio di persona, non è libidine di Governo, non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la patria. [Vivissimi prolungati e reiterati applausi. Grida ripetute di "Viva Mussolini!" Gli onorevoli ministri e moltissimi deputati si congratulano con l'onorevole presidente del consiglio. La seduta è sospesa].


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Benito Mussolini : Discorso alla Camera dei Deputati (1925) (http://www.polyarchy.org/basta/documenti/mussolini.1925.html)

Avamposto
29-07-10, 12:45
IL DISTACCO DAI COMPAGNI CIECHI

Discorso pronunciato al teatro del popolo di Milano la sera del 24 novembre 1914, durante l'assemblea della sezione socialista milanese che decreta l'espulsione di Benito Mussolini dal Partito Socialista Ufficiale. L'espulsione, patrocinata da Costantino Lazzari e da altri per "indegnità politica e morale", è approvata con il seguente ordine del giorno proposto da Ramajoli: "L'assemblea, di fronte alla manifesta violazione della disciplina di partito commessa da Benito Mussolini con la pubblicazione del quotidiano Il Popolo d'Italia e coi suoi scritti in opposizione ai deliberati del partito, ritiene superflua ogni discussione, delibera senz'altro l'espulsione dando mandato al comitato della sezione per l'esecuzione del presente deliberato; ammonisce i seguaci di Benito Mussolini al ripetto della disciplina. Viva il socialismo!"





La mia sorte è decisa e sembra vogliate compiere l'atto con una certa solennità. {Voci: « Forte! Forte! ». L'oratore a questa imperiosa insistenza non può fare a meno di battere nervosamente un bicchiere sul tavolo).
Voi siete più severi dei giudici borghesi, i quali lasciano il diritto alla difesa; alla difesa più ampia, la più esauriente, anche dopo la sentenza, perché accordano dieci giorni di tempo per produrre i motivi di ricorso. Se è deciso, se voi ritenete che io sia indegno di militare fra di voi... (« Sì! Sì! » urlano in coro i più scalmanati} espelletemi pure, ma io ho il diritto di pretendere un atto di accusa in piena regola. Ma in questa assemblea il pubblico ministero non ha ancora fatto ne la questione politica, ne la questione morale. Io dunque sarò ghigliottinato con un ordine del giorno che non dice niente. Qui si doveva dire: Voi siete indegno per questi e questi motivi; ed allora io avrei accettato il mio destino. Questo però non si è detto, e molti di voi, se non tutti, uscirete di qui con la coscienza turbata. {Voci assordanti: « No! No!»).
Per quello che riguarda la questione morale ripeto ancora una volta che son pronto a sottomettermi a qualsiasi commissione che indaghi, inquirisca e riferisca.
Per quanto riguarda la questione disciplinare dirò che questa non è stata prospettata perché vi sono precedenti calzantissimi, precedenti, però, che io non invoco, perché mi sento sicuro, perché ho la coscienza tranquilla. Voi credete di perdermi, ma io vi dico che vi illudete. Voi oggi mi odiate perché mi amate ancora, perché... [applausi e fischi interrompono ancora l'oratore}.
Ma voi non mi perderete: dodici anni della mia vita di partito sono o dovrebbero essere una sufficiente garanzia della mia fede socialista. Il socialismo è qualche cosa che si radica nel sangue. Quello che mi divide ora da voi non è una piccola questione, è una grande questione che divide il socialismo tutto.
Amilcare Cipriani, sul cui nome abbiamo fatta una mirabile lotta al sesto collegio (voi la ricordate quella grande lotta?), Amilcare Cipriani non potrà più essere vostro candidato perché egli ha dichiarato, a voce e per iscritto, che se i suoi settantacinque anni glielo permettessero, egli sarebbe sulle trincee a combattere contro la reazione militarista europea, che soffoca la rivoluzione. Il tempo dirà chi aveva ragione e chi aveva torto in questa formidabile questione che non si era mai presentata al socialismo, semplicemente perché non si era mai presentata nella storia umana una conflagrazione come quella attuale, in cui milioni e milioni di proletari sono gli uni contro gli altri. Non è cosa di tutti i giorni quella di una guerra come Fattuale, che ha qualche rassomiglianza con l'epopea napoleonica. Waterloo fu del 1814; forse nel 1914 qualche altro principio andrà per terra, qualche altra corona andrà in frantumi, forse si salverà la libertà, e si inizierà una nuova era nella storia del mondo. {Mussolini parla con accento rotto dalla commozione e parte dell'assemblea mostra di esserne vivamente compresa. Un caldo applauso, infatti, saluta questo superbo confronto storico}.
Specialmente nella storia del proletariato — continua Mussolini — il quale in tutte le ore critiche mi ha visto qui, in questo stesso posto, come mi ha visto in piazza.
Ma vi dico fin da questo momento che non avrò remissione, non avrò pietà alcuna, per tutti coloro che in questo tragico momento non dicono la loro parola, sia per paura dei fischi, o per paura delle grida di abbasso. (La stoccata, così ben diretta contro gli illustri assenti — e quanti sono! •— è compresa dall'Assemblea dalla quale parte un caldo applauso}.
Non avrò remissione, non avrò pietà — prosegue Mussolini — per tutti i reticenti, per tutti gli ipocriti, per tutti i vili! E voi mi vedrete ancora al vostro fianco. Non dovete credere che la borghesia sia entusiasta del nostro intervenzionismo; essa ringhia, ci accusa di temerarietà e paventa che il proletariato, munito della baionetta, possa servirsene per gli scopi suoi. (Da una parte si applaude, e dall'altra si grida: « No! No! »}.
Non crediate che, strappandomi la tessera, mi interdirete la fede socialista, m'impedirete di lavorare ancora per la causa del socialismo e della rivoluzione.
(Un caldo applauso saluta le ultime parole che Mussolini ha pronunziate con grande energia e con accento della più profonda convinzione. Egli scende dalla tribuna e si apre il varco nell'immensa sala, mentre tutt'intorno gli si stringe la feroce ressa dei giustizieri, amareggiati dalle poche, incisive parole di colui che ha avuto la forza di assistere senza turbamento ad una simile esplosione di odio inverecondo, che ha avuto il coraggio di fare un nuovo atto di fede, più solenne, più bello, appunto perché più contrastato).


Associazione Culturale Apartitica-"IlCovo" :: I discorsi di Mussolini (http://ilcovo.mastertopforum.net/1-vt993.html?start=0)

Avamposto
29-07-10, 12:46
PER LA COSTITUZIONE DEL NUOVO FASCIO DI AZIONE RIVOLUZIONARIA


Discorso pronunciato a Milano nel salone dell'Arte Moderna di via Campo Lodigiano, la sera dell'11 dicembre 1914.



Non è il caso di fare delle discussioni. Noi ci troviamo oggi di fronte a due coalizioni: conservatori e rivoluzionari. Gli uni che hanno tutto da conservare, gli altri che debbono tutto demolire.
Noi non intendiamo di costituire un partito: dobbiamo semplicemente raggiungere un obiettivo. Dopo faremo, se sarà possibile un’altra tappa insieme e ci separeremo.
Ma oggi che cosa significa questo procrastinamento della nostra azione? Che cosa significa questa guerra a primavera? Questa guerra rimandata a quando spunteranno le mammole? Un popolo forte e sano come il nostro e come il nostro leale, non deve aspettare a tergiversare in maniera così sorniona e machiavellica!
Noi riprendiamo la vecchia bandiera! Anche prima del ’70 c’erano dei neutralisti, ma il popolo passò.
Noi siamo un popolo vecchio di cinquanta secoli di storia e giovane di cinquanta anni di vita nazionale e non dobbiamo essere un paese di conigli.
Ora prepariamoci come dobbiamo. Oltre cinquanta fasci sono già costituiti in Italia e altri numerosissimi se ne costituiranno dopo la nostra parola di questa sera che è attesa con ansia solenne e febbrile.
Ora non attardiamoci sulle forme statutarie della nuova organizzazione. Il compagno Bianchi, che sarà eletto a segretario, adunerà le nostre file. Noi aduneremo quelle di tutta Italia. Intanto facciamo il lavoro umile e più necessario. Costituiamo subito il fascio, fra i numerosi qui convenuti questa sera.
E abbiate, amici, la sicurezza che noi non abbiamo rinunziato ad alcun migliore principio, che non siamo diventati dei vani guerrafondai, che non abbiamo rinnegata la nostra fede, che non si mutano dall’oggi al domani i propri ideali come l’assassino non diventa d’un tratto il probo e l’onesto.
Il nostro dovere è oggi di armarci tutti contro il nemico comune.




(Il breve ma vibrato discorso di Mussolini è accolto da una salva di applausi che si prolungano fra l’entusiasmo più vivo).


http://ilcovo.mastertopforum.net/1-vt993.html?start=0

Avamposto
29-07-10, 12:47
Discorso del 13 dicembre 1914 Parma



Cittadini!
È nel vostro interesse ascoltarmi con tolleranza e con tranquillità. Sarò breve, preciso e sincero sino alla violenza.
L'ultima grande guerra continentale è del 1870-1871. La Prussia guidata da Bismarck e da Moltke vinceva la Francia e la mutilava di due provincie popolose e fiorenti. II trattato di Francoforte segnava il trionfo della politica di Bismarck, il quale vagheggiava l'egemonia incontrastata della Prussia nel centro d'Europa e la progressiva slavizzazione balcanica dell'Austria-Ungheria. Questi dati della politica bismarckiana vengono alla memoria quando si vogliano comprendere le crisi internazionali europee dal '70 ad oggi, sino alla odierna che ci sbalordisce e ci angoscia. Dal '70 in poi non ci furono che guerre periferiche, fra i popoli dell'Oriente europeo - turco-russa; serbo-bulgara; greco-turca.... - o guerre coloniali. Si era perciò diffusa la convinzione che una guerra europea e perciò una guerra mondiale, non fosse più possibile. Si avanzano, per sostenere tale asserto, le più disparate ragioni.
Si opinava, ad esempio, che la perfezione degli strumenti di guerra dovesse uccidere la guerra. Ridicolo! La guerra è sempre stata micidiale. La perfezione delle armi è in relazione coi progressi tecnici, meccanici e militari raggiunti dalle collettività umane. Sotto questo rapporto le macchine guerresche degli antichi romani equivalgono ai mortai da «42». Sono create allo scopo di uccidere e uccidono. La perfezione degli strumenti bellici non è niente affatto una remora agli istinti bellicosi. Potrebbe darsi il contrario!
Si era anche fatto assegnamento sulla «bontà» umana, sui sentimenti di «umanità», di fratellanza, di amore che dovrebbero stringere tutti i membri della specie «uomo» al disopra dei monti, al di là degli oceani. Altra illusione! Verissimo che questi sentimenti di «simpatia» e di «simpatetismo» esistono. Il nostro secolo ha visto – invero - moltiplicarsi le opere filantropiche per alleviare le miserie degli uomini e anche quelle degli «animali», ma insieme con questi sentimenti, ne esistono altri più profondi, più alti, più vitali: noi non ci spiegheremmo il fenomeno universale della guerra attribuendolo soltanto al capriccio dei monarchi, all'antagonismo delle stirpi o al conflitto delle economie; si deve tener conto di altri sentimenti che ognun di noi reca nell'animo suo e che inducevano Proudhon a proclamare - con verità perenne sotto la maschera del paradosso - essere la guerra «di origine divina». Si riteneva altresì che l'intensificarsi delle relazioni internazionali, economiche, culturali, artistiche, politiche, sportive, ecc., provocando una maggiore e miglior conoscenza dei popoli fra di loro, avrebbe impedito lo scoppiare di una guerra fra le nazioni civili.
Norman Angell aveva imbastito il suo libro sull'impossibilità della guerra, dimostrando che tutte le nazioni - e vinte e vittoriose - avrebbero avuto l'economia sconvolta e sacrificata dalla guerra. Altra illusione miseramente sfrondata. Difetto di osservazione! L'uomo economico «puro» non esiste. La storia del mondo non è una partita di computisteria e l'interesse materiale non è - per fortuna! - l'unica molla delle azioni umane.
Vero che le relazioni internazionali si sono moltiplicate; vero che gli scambi economici, politici, ecc., ecc., tra popolo e popolo sono o erano infinitamente più frequenti di quel che non fossero un secolo fa, ma accanto a questo fenomeno un altro si delinea: i popoli tendono - colla diffusione della cultura e col costituirsi delle economie a tipo nazionale a rinchiudersi nella loro unità psicologica, morale ....
Accanto al movimento pacifista borghese, che non vale la pena di prendere in esame, fioriva un altro movimento di carattere internazionale: quello operaio. Allo scoppiar della guerra anche questo ha dimostrato tutta la sua insufficienza. I tedeschi che dovevano dare l'esempio, si sono schierati sotto le bandiere del Kaiser, come un sol uomo. Il tradimento dei tedeschi ha costretto i socialisti degli altri paesi a rientrare sul terreno della nazione e della difesa nazionale. L'unanimità nazionale tedesca ha determinato automaticamente l'unanimità nazionale negli altri paesi. Si è detto, e giustamente, che l'internazionale è come l'amore: bisogna farlo in due o altrimenti è onanismo infecondo. L'internazionale è finita: quella di ieri è morta ed è oggi impossibile prevedere quale e come sarà l'internazionale di domani. La realtà non si cancella, non si ignora e la realtà è che milioni e milioni di uomini - nella stragrande maggioranza operai, - stanno oggi gli uni di fronte agli altri sui campi insanguinati di tutta Europa.
I neutrali che si sgolano a gridare «abbasso la guerra» non si accorgono di tutto il grottesco vile che si contiene, oggi, in tal grido. È una atroce ironia gridare «abbasso la guerra» mentre si combatte e si muore sulle trincee.
Fra i due gruppi di Potenze: la Triplice Intesa e il blocco austrotedesco, l'Italia è.... rimasta neutrale. Nella Triplice Intesa v'è la Serbia eroica che ha spezzato il giogo austriaco, v'è il Belgio martire, che non ha voluto vendersi, v'è la Francia repubblicana, aggredita, v'è l'Inghilterra democratica, v'è la Russia autocratica, ma col sottosuolo minato dalla Rivoluzione. Dall'altra parte l'Austria clericale e feudale; la Germania militarista e aggressiva. Allo scoppiar della crisi, l'Italia si proclamò «neutrale». Era contemplata l'«eccezione» nei trattati? Pare di sì, specie dopo le rivelazioni recentissime del Giolitti. Se la neutralità del Governo significava indifferenza, la neutralità dei socialisti e delle organizzazioni economiche aveva tutt'altro carattere e significato. La neutralità socialista aveva due facce. Una benigna, volta ad occidente, verso la Francia, una arcigna, volta ad oriente, verso l'Austria. Sciopero generale insurrezionale nel caso di una guerra «coll'Austria»; niente sciopero generale, niente opposizione di fatto nel caso di una guerra «contro» l'Austria. Si distingueva dunque fra guerra e guerra. V'è di più. Fu consentito il richiamo delle classi. Se il Governo avesse mobilitato, i socialisti tutti avrebbero trovato la cosa naturale e logica. Ammettevano dunque, che una nazione ha il diritto e il dovere di difendersi, armata mano, da eventuali attacchi dall'esterno. La neutralità in tal modo concepita doveva necessariamente condurre - col maturare degli eventi, specie nel Belgio - ad abbracciare la tesi dell'intervento.
E controverso che l'Italia abbia una borghesia nel senso classico della parola. Più che borghesie proletari, ci sono dei ricchi e dei poveri. Ad ogni modo è falso che la borghesia italiana sia in questo momento guerrafondaia. Tutt'altro! È neutralista e disperatamente pacifista. Il mondo della Banca è «neutrale»; la borghesia industriale ha riorganizzato i suoi «affari»; la borghesia agraria piccola e grande è pacifista per tradizione e temperamento; la borghesia politicante e accademica è neutrale. Vedete il Senato! Vi sono nella borghesia forze giovani che non vogliono stagnare nella morta gora della neutralità, ma la borghesia presa nel suo complesso è neutralista e ostile alla guerra.
Prova massima: confrontate il tono odierno della stampa borghese col tono dell'impresa libica e noterete la differenza. Allora si dava fiato nelle trombe belliche: oggi si suona in sordina. Il linguaggio dei giornali borghesi è oscillante, incerto, sibillino, neutrale in una parola e triplicista fra le righe.
Dove sono le fanfare che ci ossessionarono nel settembre del 1911? Il gioco è scoperto e dovrebbe far riflettere i socialisti che non sono imbecilliti: da una parte stanno tutti i conservatori, tutte le forze morte della nazione; dall'altra i rivoluzionari e con questi tutte le forze vive del Paese. Bisogna scegliere! Preti e forcaioli sono per la neutralità assoluta.
I preti non vogliono la guerra contro l'Austria, perché è la nazione cattolica per eccellenza, ove l'imperatore segue a capo scoperto il baldacchino nelle processioni del Corpus Domini ed ove in un congresso, presente l'arciduca ucciso a Serajevo, si facevano voti ufficiosi per il ristabilimento del potere temporale. Se noi restiamo neutrali il papa Benedetto XV, che accoppia alla trinità dei suoi difetti fisici qualità intellettuali e morali inquietanti, troverà modo, direttamente o per interposta persona, di porre nel prossimo congresso per la pace, la questione romana. Torneremo indietro: a discutere un fatto compiuto, irrevocabile e lo dovremo in parte all'atteggiamento conservatore, assolutamente antirivoluzionario e antisocialista dei socialisti italiani.
Noi invece vogliamo la guerra e subito. Non è vero che manchi la preparazione militare. Cos'è questo attendere la primavera? Si vuole forse un ministero Giolitti con Bissolati, Barzilai e magari una puntarella fra il socialismo ufficiale?
Il socialismo non deve e non può essere contrario a tutte le guerre, perché allora si rifiuterebbe di conoscere 50 secoli di storia. Volete giudicare e condannare alla stessa stregua la guerra di Tripoli con quella sorta dalla rivoluzione francese nel 1793? E Garibaldi? Anche lui un guerrafondaio? Bisogna distinguere fra guerra e guerra, come si distingue fra delitto e delitto, fra sangue e sangue. Bovio diceva: «Non basterebbe tutta l'acqua del mare per lavare la macchia di sangue di lady Macbeth, mentre basta un catino per lavare il sangue dalle mani di Garibaldi».
Vediamo, vediamo: Pisacane (Victor Hugo lo disse più grande di Garibaldi) quando andò a sovvertire quel governo borbonico così giustamente qualificato da Gladstone la negazione di Dio, fu dunque un guerrafondaio? Se vi fossero stati i socialisti avrebbero votato un ordine del giorno contro la guerra? E l'altra piccola guerra del '70 che ci spinse, sia pure a pedate, a Roma? Non si condannano tutte le guerre. Tal concetto herveista della prima maniera e quasi tolstoiano della passività assoluta è antisocialista.
Guesde, in un congresso dei socialisti francesi tenutosi appunto poche settimane prima della guerra, affermava che in caso di guerra la nazione più socialista sarebbe vittima della nazione meno socialista.... E del resto, osservate il contegno dei socialisti italiani. Vedeteli in Parlamento. È mancato il forte discorso. Treves si è attardato in sottili distinzioni avvocatesche. A un certo punto ha gridato: «Noi non rinneghiamo la patria!». Infatti, la patria non si può rinnegare. Non si rinnega la madre, anche quando non ci offre tutti i suoi doni, anche quando ci costringe a cercare la fortuna per le strade tentatrici del mondo! (Grande ovazione).
Treves diceva di più: «Non ci opponiamo alla guerra di difesa». Se si ammette questo si ammette la necessità di armarci. Non aprirete già le porte d'Italia all'esercito degli austriaci perché vengano a saccheggiarvi le case e a violarvi le donne. Ah lo so bene: ci sono degli ignobili vermi che rimproverano al Belgio di essersi difeso. Poteva, dicono, intascare l'oro dei tedeschi e lasciar libero il passaggio, mentre resistendo fu sottoposto alla sistematica e scientifica distruzione delle sue città.
Ma il Belgio vive e vivrà perché si è rifiutato all'ignobile mercato. Se lo avesse accettato, il Belgio sarebbe morto per tutti i secoli! (Grande ovazione; tutti gridano: «evviva il Belgio» sventolando i cappelli. La dimostrazione imponente dura parecchi minuti).
Quando vorrete difendervi? Quando avrete il ginocchio del nemico sul petto? O non è meglio anticipare la difesa? Non è meglio intervenire oggi perché ci può costar poco mentre domani potrebbe essere un disastro? Si vuol forse mantenere uno splendido isolamento? Ma allora bisogna armare, armare, e creare un militarismo mastodontico.
I socialisti - e io sono ancor tale, benché sia un socialista esasperato - non posero mai sul tappeto la questione dell'irredentismo che lasciarono ai repubblicani: ma ora no: i rivoluzionari affermano che non vi sarà internazionale se non quando i popoli saranno ai loro confini. Ecco perché siamo favorevoli ad una guerra d'indole nazionale. Ma vi sono anche altre ragioni più socialiste che ci spingono all'intervento.
Tre ipotesi: l'Europa di domani non differirà in nulla da quella di ieri. È l'ipotesi più assurda e più spaventevole. Se la accettate, la vostra neutralità ha un senso anche assoluto. Non val la pena di sacrificarsi per lasciar le cose allo stato di prima. Ma la mente e il cuore si rifiutano di credere che tutto questo sangue versato sulle terre di tre continenti, non darà frutto alcuno. Tutto fa credere invece che l'Europa di domani sarà profondamente trasformata. Più libertà o più reazione? Più militarismo o meno militarismo? Quale dei due gruppi di Potenze ci assicura, colla sua vittoria, condizioni migliori per la liberazione della classe operaia? Il blocco austro-tedesco o la Triplice Intesa? La risposta non è dubbia. E come volete cooperare al trionfo della Triplice Intesa? Forse con gli articoli di giornale e cogli ordini del giorno dei comizi? Bastano queste manifestazioni sentimentali a far risorgere il Belgio? A sollevare la Francia? Questa Francia che si è svenata per l'Europa nelle rivoluzioni e nelle guerre dall'89 al '71 e dal '71 al '14? Alla Francia dei Diritti dell'Uomo offrirete dunque e soltanto delle frasi?
Dite - ed è questa la ragione suprema dell'intervento - dite: è umano, è civile, è socialista stare tranquillamente alla finestra, mentre il sangue corre a torrenti e dire: «io non mi muovo e non m'importa di nulla?» . La formula del «sacro egoismo» escogitata dall'on. Salandra può essere accettata dalla classe operaia? No, mille volte no. La legge della solidarietà non si ferma alle competizioni d'indole economica, ma va oltre; ieri era bello e necessario versare l'obolo per i compagni in lotta; oggi i popoli che lottano vi chiedono la solidarietà del sangue. Essi la implorano. L'intervento abbrevierà l'immane carneficina. Sarà un vantaggio per tutti, anche per i tedeschi contro i quali lotteremo.
Rifiuterete questa prova di solidarietà? Ma con che faccia e con che cuore, o proletari italiani, vi recherete domani all'estero? Non temete che i vostri compagni di Germania vi respingano perché traditori della Triplice; mentre quelli di Francia e del Belgio, indicandovi la terra ancora tormentata dalle trincee e dalle tombe, additandovi orgogliosi le macerie delle città distrutte, vi diranno: dov'eri tu e che cosa facevi o proletario italiano, quando io mi battevo disperatamente contro al militarismo austro-tedesco per liberare l'Europa dall'incubo dell'egemonia del Kaiser? Quel giorno voi non saprete rispondere; quel giorno vi vergognerete di essere italiani; quel giorno voi imprecherete ai preti e ai socialisti, complici miserabili del militarismo tedesco! Ma sarà troppo tardi!
Riprendiamo la tradizione italiana. Il popolo che vuole la guerra, la vuole senza indugio. Fra due mesi potrebbe essere un atto di brigantaggio: oggi è una guerra che si può e si deve combattere con coraggio e con dignità.
Guerra e socialismo sono incompatibili, presi i termini nel loro significato universale; ma ogni epoca, ogni popolo ha le sue guerre. La vita è il relativo; l'assoluto non esiste che nell'astrazione fredda e infeconda. Chi tiene troppo alla sua pelle non andrà a combattere nelle trincee, ma non lo vedrete di certo nemmeno il giorno della battaglia nelle strade. Chi si rifiuta oggi alla guerra è un complice del Kaiser, è un puntello del trono traballante di Francesco Giuseppe, è un socio dei forcaioli e dei preti. Volete che la Germania ubbriacata da Bismarck, la Germania meccanicizzata e americanizzata ritorni la Germania libera e spregiudicata della prima metà del secolo scorso? Desiderate la repubblica tedesca dal Reno alla Vistola? Vi sorride il pensiero del Kaiser prigioniero relegato in qualche lontana isola dell'Oceano? La Germania rinnoverà la sua anima soltanto colla sconfitta. Colla sconfitta della Germania sboccierà la nuova vermiglia primavera europea....
Bisogna agire, muoversi, combattere e, se occorre, morire. I neutrali non hanno mai dominato gli avvenimenti. Li hanno sempre subiti. È il sangue che dà il movimento alla ruota sonante della storia! (Ovazione frenetica).



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Avamposto
29-07-10, 12:47
Discorso del 13 dicembre 1914 Parma



Cittadini!
È nel vostro interesse ascoltarmi con tolleranza e con tranquillità. Sarò breve, preciso e sincero sino alla violenza.
L'ultima grande guerra continentale è del 1870-1871. La Prussia guidata da Bismarck e da Moltke vinceva la Francia e la mutilava di due provincie popolose e fiorenti. II trattato di Francoforte segnava il trionfo della politica di Bismarck, il quale vagheggiava l'egemonia incontrastata della Prussia nel centro d'Europa e la progressiva slavizzazione balcanica dell'Austria-Ungheria. Questi dati della politica bismarckiana vengono alla memoria quando si vogliano comprendere le crisi internazionali europee dal '70 ad oggi, sino alla odierna che ci sbalordisce e ci angoscia. Dal '70 in poi non ci furono che guerre periferiche, fra i popoli dell'Oriente europeo - turco-russa; serbo-bulgara; greco-turca.... - o guerre coloniali. Si era perciò diffusa la convinzione che una guerra europea e perciò una guerra mondiale, non fosse più possibile. Si avanzano, per sostenere tale asserto, le più disparate ragioni.
Si opinava, ad esempio, che la perfezione degli strumenti di guerra dovesse uccidere la guerra. Ridicolo! La guerra è sempre stata micidiale. La perfezione delle armi è in relazione coi progressi tecnici, meccanici e militari raggiunti dalle collettività umane. Sotto questo rapporto le macchine guerresche degli antichi romani equivalgono ai mortai da «42». Sono create allo scopo di uccidere e uccidono. La perfezione degli strumenti bellici non è niente affatto una remora agli istinti bellicosi. Potrebbe darsi il contrario!
Si era anche fatto assegnamento sulla «bontà» umana, sui sentimenti di «umanità», di fratellanza, di amore che dovrebbero stringere tutti i membri della specie «uomo» al disopra dei monti, al di là degli oceani. Altra illusione! Verissimo che questi sentimenti di «simpatia» e di «simpatetismo» esistono. Il nostro secolo ha visto – invero - moltiplicarsi le opere filantropiche per alleviare le miserie degli uomini e anche quelle degli «animali», ma insieme con questi sentimenti, ne esistono altri più profondi, più alti, più vitali: noi non ci spiegheremmo il fenomeno universale della guerra attribuendolo soltanto al capriccio dei monarchi, all'antagonismo delle stirpi o al conflitto delle economie; si deve tener conto di altri sentimenti che ognun di noi reca nell'animo suo e che inducevano Proudhon a proclamare - con verità perenne sotto la maschera del paradosso - essere la guerra «di origine divina». Si riteneva altresì che l'intensificarsi delle relazioni internazionali, economiche, culturali, artistiche, politiche, sportive, ecc., provocando una maggiore e miglior conoscenza dei popoli fra di loro, avrebbe impedito lo scoppiare di una guerra fra le nazioni civili.
Norman Angell aveva imbastito il suo libro sull'impossibilità della guerra, dimostrando che tutte le nazioni - e vinte e vittoriose - avrebbero avuto l'economia sconvolta e sacrificata dalla guerra. Altra illusione miseramente sfrondata. Difetto di osservazione! L'uomo economico «puro» non esiste. La storia del mondo non è una partita di computisteria e l'interesse materiale non è - per fortuna! - l'unica molla delle azioni umane.
Vero che le relazioni internazionali si sono moltiplicate; vero che gli scambi economici, politici, ecc., ecc., tra popolo e popolo sono o erano infinitamente più frequenti di quel che non fossero un secolo fa, ma accanto a questo fenomeno un altro si delinea: i popoli tendono - colla diffusione della cultura e col costituirsi delle economie a tipo nazionale a rinchiudersi nella loro unità psicologica, morale ....
Accanto al movimento pacifista borghese, che non vale la pena di prendere in esame, fioriva un altro movimento di carattere internazionale: quello operaio. Allo scoppiar della guerra anche questo ha dimostrato tutta la sua insufficienza. I tedeschi che dovevano dare l'esempio, si sono schierati sotto le bandiere del Kaiser, come un sol uomo. Il tradimento dei tedeschi ha costretto i socialisti degli altri paesi a rientrare sul terreno della nazione e della difesa nazionale. L'unanimità nazionale tedesca ha determinato automaticamente l'unanimità nazionale negli altri paesi. Si è detto, e giustamente, che l'internazionale è come l'amore: bisogna farlo in due o altrimenti è onanismo infecondo. L'internazionale è finita: quella di ieri è morta ed è oggi impossibile prevedere quale e come sarà l'internazionale di domani. La realtà non si cancella, non si ignora e la realtà è che milioni e milioni di uomini - nella stragrande maggioranza operai, - stanno oggi gli uni di fronte agli altri sui campi insanguinati di tutta Europa.
I neutrali che si sgolano a gridare «abbasso la guerra» non si accorgono di tutto il grottesco vile che si contiene, oggi, in tal grido. È una atroce ironia gridare «abbasso la guerra» mentre si combatte e si muore sulle trincee.
Fra i due gruppi di Potenze: la Triplice Intesa e il blocco austrotedesco, l'Italia è.... rimasta neutrale. Nella Triplice Intesa v'è la Serbia eroica che ha spezzato il giogo austriaco, v'è il Belgio martire, che non ha voluto vendersi, v'è la Francia repubblicana, aggredita, v'è l'Inghilterra democratica, v'è la Russia autocratica, ma col sottosuolo minato dalla Rivoluzione. Dall'altra parte l'Austria clericale e feudale; la Germania militarista e aggressiva. Allo scoppiar della crisi, l'Italia si proclamò «neutrale». Era contemplata l'«eccezione» nei trattati? Pare di sì, specie dopo le rivelazioni recentissime del Giolitti. Se la neutralità del Governo significava indifferenza, la neutralità dei socialisti e delle organizzazioni economiche aveva tutt'altro carattere e significato. La neutralità socialista aveva due facce. Una benigna, volta ad occidente, verso la Francia, una arcigna, volta ad oriente, verso l'Austria. Sciopero generale insurrezionale nel caso di una guerra «coll'Austria»; niente sciopero generale, niente opposizione di fatto nel caso di una guerra «contro» l'Austria. Si distingueva dunque fra guerra e guerra. V'è di più. Fu consentito il richiamo delle classi. Se il Governo avesse mobilitato, i socialisti tutti avrebbero trovato la cosa naturale e logica. Ammettevano dunque, che una nazione ha il diritto e il dovere di difendersi, armata mano, da eventuali attacchi dall'esterno. La neutralità in tal modo concepita doveva necessariamente condurre - col maturare degli eventi, specie nel Belgio - ad abbracciare la tesi dell'intervento.
E controverso che l'Italia abbia una borghesia nel senso classico della parola. Più che borghesie proletari, ci sono dei ricchi e dei poveri. Ad ogni modo è falso che la borghesia italiana sia in questo momento guerrafondaia. Tutt'altro! È neutralista e disperatamente pacifista. Il mondo della Banca è «neutrale»; la borghesia industriale ha riorganizzato i suoi «affari»; la borghesia agraria piccola e grande è pacifista per tradizione e temperamento; la borghesia politicante e accademica è neutrale. Vedete il Senato! Vi sono nella borghesia forze giovani che non vogliono stagnare nella morta gora della neutralità, ma la borghesia presa nel suo complesso è neutralista e ostile alla guerra.
Prova massima: confrontate il tono odierno della stampa borghese col tono dell'impresa libica e noterete la differenza. Allora si dava fiato nelle trombe belliche: oggi si suona in sordina. Il linguaggio dei giornali borghesi è oscillante, incerto, sibillino, neutrale in una parola e triplicista fra le righe.
Dove sono le fanfare che ci ossessionarono nel settembre del 1911? Il gioco è scoperto e dovrebbe far riflettere i socialisti che non sono imbecilliti: da una parte stanno tutti i conservatori, tutte le forze morte della nazione; dall'altra i rivoluzionari e con questi tutte le forze vive del Paese. Bisogna scegliere! Preti e forcaioli sono per la neutralità assoluta.
I preti non vogliono la guerra contro l'Austria, perché è la nazione cattolica per eccellenza, ove l'imperatore segue a capo scoperto il baldacchino nelle processioni del Corpus Domini ed ove in un congresso, presente l'arciduca ucciso a Serajevo, si facevano voti ufficiosi per il ristabilimento del potere temporale. Se noi restiamo neutrali il papa Benedetto XV, che accoppia alla trinità dei suoi difetti fisici qualità intellettuali e morali inquietanti, troverà modo, direttamente o per interposta persona, di porre nel prossimo congresso per la pace, la questione romana. Torneremo indietro: a discutere un fatto compiuto, irrevocabile e lo dovremo in parte all'atteggiamento conservatore, assolutamente antirivoluzionario e antisocialista dei socialisti italiani.
Noi invece vogliamo la guerra e subito. Non è vero che manchi la preparazione militare. Cos'è questo attendere la primavera? Si vuole forse un ministero Giolitti con Bissolati, Barzilai e magari una puntarella fra il socialismo ufficiale?
Il socialismo non deve e non può essere contrario a tutte le guerre, perché allora si rifiuterebbe di conoscere 50 secoli di storia. Volete giudicare e condannare alla stessa stregua la guerra di Tripoli con quella sorta dalla rivoluzione francese nel 1793? E Garibaldi? Anche lui un guerrafondaio? Bisogna distinguere fra guerra e guerra, come si distingue fra delitto e delitto, fra sangue e sangue. Bovio diceva: «Non basterebbe tutta l'acqua del mare per lavare la macchia di sangue di lady Macbeth, mentre basta un catino per lavare il sangue dalle mani di Garibaldi».
Vediamo, vediamo: Pisacane (Victor Hugo lo disse più grande di Garibaldi) quando andò a sovvertire quel governo borbonico così giustamente qualificato da Gladstone la negazione di Dio, fu dunque un guerrafondaio? Se vi fossero stati i socialisti avrebbero votato un ordine del giorno contro la guerra? E l'altra piccola guerra del '70 che ci spinse, sia pure a pedate, a Roma? Non si condannano tutte le guerre. Tal concetto herveista della prima maniera e quasi tolstoiano della passività assoluta è antisocialista.
Guesde, in un congresso dei socialisti francesi tenutosi appunto poche settimane prima della guerra, affermava che in caso di guerra la nazione più socialista sarebbe vittima della nazione meno socialista.... E del resto, osservate il contegno dei socialisti italiani. Vedeteli in Parlamento. È mancato il forte discorso. Treves si è attardato in sottili distinzioni avvocatesche. A un certo punto ha gridato: «Noi non rinneghiamo la patria!». Infatti, la patria non si può rinnegare. Non si rinnega la madre, anche quando non ci offre tutti i suoi doni, anche quando ci costringe a cercare la fortuna per le strade tentatrici del mondo! (Grande ovazione).
Treves diceva di più: «Non ci opponiamo alla guerra di difesa». Se si ammette questo si ammette la necessità di armarci. Non aprirete già le porte d'Italia all'esercito degli austriaci perché vengano a saccheggiarvi le case e a violarvi le donne. Ah lo so bene: ci sono degli ignobili vermi che rimproverano al Belgio di essersi difeso. Poteva, dicono, intascare l'oro dei tedeschi e lasciar libero il passaggio, mentre resistendo fu sottoposto alla sistematica e scientifica distruzione delle sue città.
Ma il Belgio vive e vivrà perché si è rifiutato all'ignobile mercato. Se lo avesse accettato, il Belgio sarebbe morto per tutti i secoli! (Grande ovazione; tutti gridano: «evviva il Belgio» sventolando i cappelli. La dimostrazione imponente dura parecchi minuti).
Quando vorrete difendervi? Quando avrete il ginocchio del nemico sul petto? O non è meglio anticipare la difesa? Non è meglio intervenire oggi perché ci può costar poco mentre domani potrebbe essere un disastro? Si vuol forse mantenere uno splendido isolamento? Ma allora bisogna armare, armare, e creare un militarismo mastodontico.
I socialisti - e io sono ancor tale, benché sia un socialista esasperato - non posero mai sul tappeto la questione dell'irredentismo che lasciarono ai repubblicani: ma ora no: i rivoluzionari affermano che non vi sarà internazionale se non quando i popoli saranno ai loro confini. Ecco perché siamo favorevoli ad una guerra d'indole nazionale. Ma vi sono anche altre ragioni più socialiste che ci spingono all'intervento.
Tre ipotesi: l'Europa di domani non differirà in nulla da quella di ieri. È l'ipotesi più assurda e più spaventevole. Se la accettate, la vostra neutralità ha un senso anche assoluto. Non val la pena di sacrificarsi per lasciar le cose allo stato di prima. Ma la mente e il cuore si rifiutano di credere che tutto questo sangue versato sulle terre di tre continenti, non darà frutto alcuno. Tutto fa credere invece che l'Europa di domani sarà profondamente trasformata. Più libertà o più reazione? Più militarismo o meno militarismo? Quale dei due gruppi di Potenze ci assicura, colla sua vittoria, condizioni migliori per la liberazione della classe operaia? Il blocco austro-tedesco o la Triplice Intesa? La risposta non è dubbia. E come volete cooperare al trionfo della Triplice Intesa? Forse con gli articoli di giornale e cogli ordini del giorno dei comizi? Bastano queste manifestazioni sentimentali a far risorgere il Belgio? A sollevare la Francia? Questa Francia che si è svenata per l'Europa nelle rivoluzioni e nelle guerre dall'89 al '71 e dal '71 al '14? Alla Francia dei Diritti dell'Uomo offrirete dunque e soltanto delle frasi?
Dite - ed è questa la ragione suprema dell'intervento - dite: è umano, è civile, è socialista stare tranquillamente alla finestra, mentre il sangue corre a torrenti e dire: «io non mi muovo e non m'importa di nulla?» . La formula del «sacro egoismo» escogitata dall'on. Salandra può essere accettata dalla classe operaia? No, mille volte no. La legge della solidarietà non si ferma alle competizioni d'indole economica, ma va oltre; ieri era bello e necessario versare l'obolo per i compagni in lotta; oggi i popoli che lottano vi chiedono la solidarietà del sangue. Essi la implorano. L'intervento abbrevierà l'immane carneficina. Sarà un vantaggio per tutti, anche per i tedeschi contro i quali lotteremo.
Rifiuterete questa prova di solidarietà? Ma con che faccia e con che cuore, o proletari italiani, vi recherete domani all'estero? Non temete che i vostri compagni di Germania vi respingano perché traditori della Triplice; mentre quelli di Francia e del Belgio, indicandovi la terra ancora tormentata dalle trincee e dalle tombe, additandovi orgogliosi le macerie delle città distrutte, vi diranno: dov'eri tu e che cosa facevi o proletario italiano, quando io mi battevo disperatamente contro al militarismo austro-tedesco per liberare l'Europa dall'incubo dell'egemonia del Kaiser? Quel giorno voi non saprete rispondere; quel giorno vi vergognerete di essere italiani; quel giorno voi imprecherete ai preti e ai socialisti, complici miserabili del militarismo tedesco! Ma sarà troppo tardi!
Riprendiamo la tradizione italiana. Il popolo che vuole la guerra, la vuole senza indugio. Fra due mesi potrebbe essere un atto di brigantaggio: oggi è una guerra che si può e si deve combattere con coraggio e con dignità.
Guerra e socialismo sono incompatibili, presi i termini nel loro significato universale; ma ogni epoca, ogni popolo ha le sue guerre. La vita è il relativo; l'assoluto non esiste che nell'astrazione fredda e infeconda. Chi tiene troppo alla sua pelle non andrà a combattere nelle trincee, ma non lo vedrete di certo nemmeno il giorno della battaglia nelle strade. Chi si rifiuta oggi alla guerra è un complice del Kaiser, è un puntello del trono traballante di Francesco Giuseppe, è un socio dei forcaioli e dei preti. Volete che la Germania ubbriacata da Bismarck, la Germania meccanicizzata e americanizzata ritorni la Germania libera e spregiudicata della prima metà del secolo scorso? Desiderate la repubblica tedesca dal Reno alla Vistola? Vi sorride il pensiero del Kaiser prigioniero relegato in qualche lontana isola dell'Oceano? La Germania rinnoverà la sua anima soltanto colla sconfitta. Colla sconfitta della Germania sboccierà la nuova vermiglia primavera europea....
Bisogna agire, muoversi, combattere e, se occorre, morire. I neutrali non hanno mai dominato gli avvenimenti. Li hanno sempre subiti. È il sangue che dà il movimento alla ruota sonante della storia! (Ovazione frenetica).



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Avamposto
29-07-10, 12:48
IL DOVERE DELL'ITALIA


Conferenza pronunciata a Genova, nel salone dell'Università Popolare di via Dante, la sera del 28 dicembre 1914




Dichiaro fin dal principio che accetto il contradittorio con chiunque, quindi è nell'interesse di tutti di ascoltarmi.
Io comprendo perfettamente l'agitazione di questa assemblea; d'altra parte vi dichiaro che sono abituato alle assemblee tempestose per cui io ammetto la fischiata, ammetto l'«abbasso», ma dopo, se non si vuol diventare degli inquisitori rossi, dopo avete il dovere di lasciarmi parlare.
E dopo, se oltre al fischio, ci sono degli argomenti e delle idee, qui è la libera tribuna affidata al libero cittadino; qui, dall'urto delle idee liberamente espresse, può vedersi quale sia la verità. Non è col fischio che si combattono le idee, com'era stolto per gli inquisitori del medioevo pretendere di combattere le idee con la ruota, con le carrucole e con le torture della inquisizione.
Io faccio appello non per me, che io resterò qui fino a domani mattina, fino a quando non avrò detto tutto il mio pensiero; ma faccio appello al vostro spirito di tolleranza, o avversari, perché voi dovete dopo venire a contradirmi ed a dimostrarmi che le idee che io sostengo sono errate.
D'altra parte vi dico che l'odio avversario non riuscirà mai ad impedirmi la libera manifestazione del mio pensiero. Voi potete esserne sicuri. Poiché se ad un dato momento della mia vita ho fatto liberamente e deliberatamente gettito di molte cose che possono lusingare l'amor proprio e le legittime ambizioni degli uomini più o meno politicanti, se io ad un certo momento della mia vita ho voluto sfidare l'impopolarità delle masse per annunciare loro quella che io ritenevo la verità nuova, la verità santa, questo è titolo sufficiente per garantirmi la tolleranza di tutti i cittadini che non vogliono rubare il mestiere ai settari ed agli intolleranti di tutte le epoche.
D'altronde, sarò preciso e violento. Non risparmierò nessuno. È finito il periodo dei mezzi termini, delle restrizioni mentali, di tutto ciò che è servilità, di tutto ciò che è equivoco.
Mi sento un po' imbarazzato a svolgere il tema che mi si è assegnato. Il dovere dell'Italia.
Il dovere dell'Italia? Ma, prima di tutto, di quale Italia? Di questa ancora triplicista, che ha nel Senato e nelle Università gli ultimi ruderi del triplicismo? A questa Italia io non so quale dovere è da assegnarsi.
Parlo da socialista a socialisti: da socialista, perché nessuno in questo dinamico e movimentato periodo storico può asseverare di possedere la verità assoluta, può dichiarare di essere l'assertore del vero unico.
Noi tutti siamo incerti, andiamo a tastoni: appunto perché tutto ciò che era il solido, il fisso, quello che noi credevamo il dogma, è andato in frantumi.
In un certo senso si può dire che non vi sono partiti.
Non più, in quanto che, lo dicevo polemizzando otto o nove mesi fa mi pare coll'on. Graziadei, ogni partito ha il suo programma, la sua bandiera, la sua inquisizione, la quale inquisizione necessariamente fa funzionare i roghi. Non si canta più oggi il Kyrie elèison, ma il rogo morale c'è ancora e manca solo il rogo materiale perché viviamo nel secolo XX e sono passati quattro secoli dal martirio di Giordano Bruno.
Ci sono delle mentalità diverse, e difatti ci sono riformisti per la guerra e riformisti contro la guerra, ci sono rivoluzionari per la guerra e rivoluzionari contro la guerra, sindacalisti pro e sindacalisti contro la guerra. Nessun partito ha potuto sottrarsi a questa divisione che ripete le sue origini dalla diversa mentalità con cui gli uomini affrontano i problemi di una determinata epoca storica.
E le mentalità sono queste, sono due: la mentalità dogmatica, fissa, eterna, immobile. Si è detta nel 1848 una verità e quella deve rimanere la verità per tutti i secoli. Questi uomini i quali si aggrappano a questo scoglio della verità e vi rimangono attaccati fino al giorno del naufragio, sanno qualche volta salvarsi per le vie equivoche della ritirata; e sarebbero certamente uomini ammirabili se sentissero questa verità, se non preparassero già fin d'adesso l'alibi prudente ed i tradimenti fin troppo astuti.
E ci sono invece gli altri uomini i quali non possono nascondersi la realtà perché la realtà esiste. Si può fingere di ignorarla, si può imitare lo struzzo che nasconde il capo sotto la sabbia per evitare il pericolo; questo pacifico abitatore del deserto non vede più il pericolo, ma il pericolo incalza.
Ora noi, dopo aver superata la crisi che proveniva dal fatto che volevamo rimanere fedeli a quelle che ci sembravano le verità assolute, ad un dato momento abbiamo visto che la realtà travolgeva queste verità. Allora abbiamo volute vedere, confrontale, sceverare, distinguere, vedere cioè se il vangelo era buono per tutte le età, per tutti i secoli, per tutti gli uomini, o se invece non sia più profondamente vero e umano che ogni generazione deve creare dal suo seno le verità, quando queste verità sono invocate per le generazioni che vogliono venire avanti. E allora ci siamo trovati, in un momento in cui nessuno ci pensava, alla guerra europea.
Giovanni Jaurès il 30 luglio tornando da Bruxelles ottimista, pensava che la guerra non ci sarebbe stata. Si erano scritti dei volumi per dimostrare l'impossibilità della guerra europea; si era detto che gli uomini erano diventati buoni, e si trascurava il fattore psicologico.
Ieri stesso Achille Loria, un uomo dinanzi al quale mi inchino, ha voluto dare spiegazioni puramente economiche di questo fenomeno.
Non basta: c'è l'insopprimibile dissidio delle stirpi, ma anche qualche cosa di più che non possiamo nascondere a noi stessi; ed è che l'uomo è un animale bellicoso, forse l'animale più bellicoso di tutta la zoologia.
Bisogna dunque tener conto di tutti questi diversi fattori ed elementi per spiegarci il fenomeno complesso della guerra, alla quale noi opponevamo la «Internazionale».
Non ho mai avuto fiducia nel partito socialista tedesco. Quattro mesi prima della conflagrazione europea, in una polemica svoltasi sul Giornale d' Italia, all'avversario che mi magnificava la poderosa Sozialdemocratie tedesca, io ricordavo una sentenza di Roberto Michels che diceva: «Il partito socialista tedesco è simile al gigante capace di portare un quintale, e impotente a fecondare una vergine».
La sua forza dunque era fisica sopratutto, ma non era energia fisiologica; per cui questo partito che aveva 92 quotidiani, 111 deputati, 5 milioni di elettori, 3 milioni di organizzati, ad un dato momento è scomparso dalla scena politica dell'impero come può crollare uno scenario invecchiato e Guglielmo II, dall'alto del suo balcone di Potsdam, ha potuto dire: «Cittadini (o meglio sudditi), non ci sono più partiti; ci sono semplicemente dei tedeschi!».
Cosa faceva la Sozialdemocratie? Cresceva, ed io vedevo già in questa sua crescenza la ragione della sua immobilità.
Questo partito cresceva. Ebbene, io dicevo, verrà il giorno in cui questo partito troverà nella sua stessa mole pachidermica la ragione della sua immobilità. Ed è quello che è avvenuto. I socialisti tedeschi che dovevano tener alta la bandiera della «Internazionale socialista» sono stati i primi a buttarla nel fango.
E quando a Bruxelles, Jouhaux, il segretario della Confederazione Generale di Francia, chiese a Legien, deputato socialista al Reichstag, che cosa avrebbero fatto i socialisti tedeschi nel caso di uno sciopero generale francese, il Legien rispose, o meglio non rispose; fece capire che i tedeschi non potevano prendere impegni di questo genere.
Ed il contegno dei socialisti tedeschi ha determinato automaticamente il contegno dei socialisti degli altri paesi.
Hervé era quasi un profeta quando in uno dei tanti congressi internazionali in cui veniva alla superficie l'eterno dissidio fra latini e tedeschi, che fu causa della prima rovina della Internazionale, chiedeva a Bebel: «Cosa farete voi se noi risponderemo alla mobilitazione con l'insurrezione?». E Bebel rispondeva: «Prima di essere socialista, sono un tedesco». E Hervé replicava: «Ebbene, quel giorno in cui passerete il Reno, sappiate che troverete i fucili dei liberi cittadini francesi pronti a respingervi».
Per cui è inutile voler ossigenare un cadavere.
Certi neutralisti muovono questa obbiezione: «Ah! voi rimproverate ai socialisti tedeschi il loro tradimento della Internazionale? E voi, socialisti italiani, vi preparate a fare qualche cosa che rassomiglia molto all'atto dei socialisti tedeschi». Ma c'è una ragione assoluta che smantella questa obbiezione.
Amici, l'amore si fa in due; la Internazionale si fa in molti. Quando uno per il primo, abbia ragione o torto, straccia il contratto, l'altro contraente non ha più il dovere di tener fede a questo patto, anzi non può più tenerla. Un'Internazionale unilaterale è un assurdo in termini.
Se i socialisti tedeschi avessero tenuto fede al loro patto, potevano pretendere qualche cosa di più da noi.
Sorgerà una nuova Internazionale; ma quella che aveva un ufficio a Bruxelles, il quale ufficio pubblicava un soporifero bollettino due o tre volte all'anno in tre lingue, esclusa l'italiana, quella Internazionale è finita. Starei per dire che il suo segretario Camillo Huysmann, quando mi ha mandato l'adesione di simpatia e di solidarietà, mi mandava con quel voto l'atto di decesso di quella Internazionale di cui egli era segretario.
E allora noi socialisti italiani ci troviamo proiettati nell'ambito dei problemi nazionali.
Ieri il Vorwaerts!, pubblicando un articolo sul Natale, prospettava, sia pure vagamente, la possibilità della creazione di un socialismo nazionale, o quasi.
Non dovete dimenticare che nel partito socialista tedesco gli imperialisti ed i pangermanisti sono numerosissimi; non dovete dimenticare che infinito è il numero degli espansionisti che dicono «più terra», ed anche gli operai non sono estranei all'influsso di questa dottrina.
E, del resto, la nazione non è scomparsa. Noi credevamo che fosse annientata; invece la vediamo sorgere vivente, palpitante dinanzi a noi! E si capisce: La realtà nuova non sopprime la verità; la classe non può uccidere la nazione. La classe è una collettività di interessi, ma la nazione è una storia di sentimenti, di tradizioni, di lingua, di cultura, di stirpi. Voi potete innestare la classe sulla nazione, ma l'una non elide l'altra. Ed allora, se questo è vero, molte altre verità saranno prospettate poi, quando questi avvenimenti avranno fatto il loro corso.
Noi dobbiamo esaminare la questione da un punto di vista socialistico e nazionale.
Già l'onorevole Claudio Treves, nella Critica Sociale di agosto, diceva che poiché il patto internazionale non esiste più, ognuno deve pensare ai propri casi, ognuno deve vedere che valore, che senso, che portata può dare alla neutralità.
Ebbene noi ci troviamo al bivio.
Questa neutralità deve durare sempre o deve finire? E se deve finire lo deve perché noi saremo forzati da motivi estranei a volerlo? Socialismo e guerra.
Si dice: «Ma la rottura della neutralità ci mette allo sbaraglio delle guerre!».
La guerra è certamente un fenomeno orribile. Si pensa con un vivo strazio dell'animo a questi milioni di uomini che stanno nelle trincee, nel freddo, nel gelo, nella neve, mentre noi proletari italiani chiacchieriamo.
C'è forse un'antitesi fra socialismo e guerra?
Certamente se il socialismo vuole la fratellanza dei popoli, non può voler la guerra che di quella fratellanza è la violazione brutale, aperta, decisiva, assoluta. Ma ci sono guerre e guerre.
Giorgio Sorel diceva che il socialismo è una cosa terribile, grave, sublime e non un esercizio di politicanti che fanno lo sconcio comodo dei loro mercati quotidiani. Se il socialismo è forza, è sacrificio, è tragedia, noi non possiamo seguire coloro che credono di spaventarci innanzi alla guerra coll'idea delle stragi, del sangue, del sacrificio.
Mi inchino al dolore delle madri, mi inchino a chi soffre; ma ci sono dei doveri supremi e quando uno è un socialista rivoluzionario, sa che anche la rivoluzione sociale sarà sacrificio, sangue, pianto di madri.
Anche Mazzini, quando sospingeva le generazioni italiane alla guerra, ben sapeva che essa era sacrificio, sangue, rovina, distruzione. Ma sapeva pure che ogni generazione ha i suoi ineluttabili doveri da compiere.
Ora le generazioni che ci hanno preceduto hanno fatto il loro dovere; un altro però ne hanno legato a noi e noi dobbiamo compierlo perché le generazioni che verranno, i figli, i nipoti, ci chiederanno: «E voi? Nel 1914-15 quando l'Europa, anzi quando il mondo era in fiamme, che cosa avete fatto?».
È comodo chiudersi nell'egoismo neutrale, nel sacro egoismo di Salandra, che è l'egoismo delle classi abbienti, del Senato triplicista, del papato temporalista, della borghesia contrabbandiera. No, non può essere questo il nostro egoismo. Non abbiamo egoismo nazionale noi; ma dei doveri imprescrittibili da compiere.
Dite un po', o amici: è un quesito che vi pongo. Nel 1791 quando gli operai parigini al rullo dei tamburi, al suono della Marsigliese, si recavano nei quadrivi delle strade, scalzi, laceri, sol di rabbia armati, e dicevano «noi vogliamo combattere» e piantavano le bandiere della rivoluzione sui colli di Walmy, e Goethe diceva: «Oggi da questo luogo comincia una novella istoria»; questi proletari volevano la guerra, andavano ad uccidere degli altri proletari. Ma noi, noi che godiamo dei benefici di quel sangue, troviamo che essi erano i martiri, i precursori della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, documento memorabile del pensiero e della civiltà umana. Nel 1870 a Roma se ci fosse stato un Circolo socialista più o meno neutrale, avrebbe esso gridato abbasso la guerra quando attraverso la breccia si abbatteva il potere temporale dei papi?
Osereste rinnegare Pisacane?
Ma, amici, c'è il suo testamento. Ebbene, Pisacane con trecento idealisti - c'erano ancora degli idealisti - sbarcò a Sapri.
C'erano forse le classi, c'era forse lo sciopero, una questione di contratto, di salari, di tariffe? No. C'era il governo dei Borboni, e Pisacane irredentista, precursore di Garibaldi, quindi più grande di Garibaldi, ha detto Victor Hugo, andava a compiere un'opera di redenzione nazionale.
E chi erano i neutralisti d'allora? Poveri contadini del napoletano sobillati dai preti i quali amavano molto il governo del Borbone come i preti d'ora amano molto il governo di Francesco Giuseppe.
Nel 1897, io ero giovinetto, mi ricordo che molti socialisti italiani s'armarono e corsero a combattere in Grecia. Ma forse che in Grecia c'era un conflitto fra capitale e lavoro? No, c'era un conflitto fra due nazioni. Essi andavano ad aiutare i borghesi greci! Ma che cosa importa questo? Essi vedevano in conflitto due nazioni: la Turchia che sopprimeva le nazionalità, la Grecia che voleva ricongiungere a sé Candia; e non distinguevano, e si battevano e morivano.
Che più? Quando le ceneri di Antonio Fratti ritornarono in Italia, ricordo che una colonna imponente di socialisti romagnoli, quattro o sei mila, muniti del garofano rosso, si recarono a riverire questo martire del diritto delle nazionalità.
È dunque solo adesso che siamo diventati degli egoisti, dei vigliacchi, dei poltroni? Solo adesso?
Guardiamo alle rovine del Belgio e diciamo: poveri belgi, è veramente doloroso il loro calvario.
Eppure ho sentito un socialista domandarsi perché, in fin dei conti, questi belgi hanno resistito; perché non hanno contrattato col Kaiser magari il prezzo del libero transito, offerto il loro pane, i loro alloggi.... fors'anche le loro donne agli ulani. Sarebbero stati risparmiati. Ebbene i belgi, al contrario, hanno avuto questa suprema ingenuità si sono difesi e si sono difesi egregiamente salvando la Francia.
La Francia che non aveva alla frontiera che trentamila uomini da opporre ai tre milioni di baionette prussiane, la Francia che ha dovuto costituirsi un esercito oltre la Marna, la Francia odiata da tutti gli imperatori perché è una nazione repubblicana, perché ha tagliato la testa a un re.
E se voi avete letto Arrigo Heine, ricorderete l'episodio in cui il poeta è entrato nella grotta dove riposa Barbarossa che ha la barba già fluente e gli cresce smisuratamente, Barbarossa che aspetta per scendere, o meglio per salire in armi. E il poeta scomunicato dalla Germania ufficiale, il poeta Heine che era troppo parigino per essere tedesco, si diverte a scherzare col Kaiser che distrusse molte castella dell'Alta Italia, e ad un certo punto gli dice: «Ma, caro imperatore, se non avete dei cavalli, provvedetevi degli asini». E siccome l'imperatore non aveva letto le cronache, domanda al poeta: «Che cosa è successo in questi secoli?».
E il poeta gli risponde: «Sono successe cose sorprendenti: guerre, terremoti, pestilenze, carestie; e poi in Francia, sappiate, o imperatore, in Francia ad un certo momento hanno ghigliottinato Luigi XVI!».
E il vecchio Kaiser: «Ghigliottinato? Che parola è? Ai miei tempi non era nel vocabolario».
E il poeta gli risponde: «È una parola nuova. Si tratta di uno strumento inventato da un medico, il quale strumento taglia la testa dei re ed anche degli imperatori».
E allora il Kaiser trema pensando a quest'epoca in cui non si ha più rispetto per le teste coronate.
La Francia ne ha tagliato una, ma l'Inghilterra due secoli prima aveva tagliato la testa ad un altro re.
Le monarchie sentono che quando si avanza il popolo, i re, i papi, gli imperatori devono retrocedere. È evidente che questa gente prega perché l'Italia si mantenga neutrale; ed i socialisti tedeschi, teneri della sorte dei loro Kaiser e della sorte del loro impero, mandano il messaggero Sudekum in Italia ed in Rumenia a fermare i proletari che volessero aiutare la triplice intesa. La guerra che noi vogliamo, e noi vogliamo la guerra, non ci carica la coscienza di nessun delitto.
Noi guerrafondai? Nel 1911, a Forlì, abbiamo trattenuto i richiamati che stavano per partire per la Libia. Se da per tutto si fosse fatto così forse in Libia non si sarebbe andati.
Guerrafondaio? No. Uomo che lotta in un determinato periodo, in un determinato spazio; lotta colle armi che sono a sua disposizione. Se voi volete abbattere i mortai da 420 e se volete demolire la prepotenza del militarismo prussiano, vorrete dunque portare il ramoscello d'olivo, vorrete portare gli ordini del giorno, i bei discorsi con relative invocazioni pacifiste?
Bethmann-Hollweg ha avuto il coraggio di dire al Reichstag: «Abbiamo violata la neutralità belga? Ebbene, necessità non conosce legge. Abbiamo distrutte le città, abbiamo seminato il terrore? Non importa: daremo un'indennità, oppure ci annetteremo il Belgio per farlo partecipe dei benefici della civiltà tedesca».
E i socialisti neutrali d'Italia, dopo cinque mesi di neutralità, trovano tutto ciò legittimo, giusto, umano!
La mentalità socialista, nei suoi primordi, aveva un chiaro significato. Abbiamo detto cioè: c'è il pericolo di due guerre, una a fianco dell'Austria e un'altra a fianco della Francia. Per la prima noi dichiarammo che ci saremmo opposti collo sciopero generale e colla insurrezione, ma per la seconda avremmo lasciato fare. Si sono chiamate tre classi e i socialisti non hanno protestato. Se il Governo avesse voluto mobilitare avrebbe mobilitato senza proteste da parte dei socialisti perché questi capivano, e ci voleva poco, che quando tutta l'Europa era in fiamme, e tutti armavano, dalla Svizzera degli albergatori (da tenere d'occhio, specie la Svizzera tedesca) all'Olanda dei formaggi, alla Danimarca, era ridicolo, era idiota, era sopratutto criminoso aprire le frontiere e dire: Austriaci venite, le porte sono aperte.
E fin da allora che il socialismo italiano ha distinto tre guerre e per ognuna di queste guerre ha specificato un determinato atteggiamento pratico. E non più tardi di ieri, l'on. Rigola, il quale è un personaggio importante perché è un uomo molto acuto e perché è segretario della Confederazione generale del lavoro la quale dovrebbe fare quel famoso sciopero generale, ha distinto tre guerre e tre ipotesi. Ha detto: «Per la guerra a fianco dell'Austria, faremmo la rivoluzione; una guerra con finalità puramente nazionaliste, la subiremmo; in una guerra di difesa, in caso d'invasione, per indipendenza nazionale, saremmo in prima linea».
Ora è perfettamente assurdo subire una guerra, disinteressarsi di una guerra. Io mi disinteresso di una cosa che non mi riguarda, che avviene nell'altro emisfero, nel mondo della luna; ma una guerra fatta con me, per me, colla mia pelle, non posso subirla non curandomene, bisogna che io dica se la voglio o non la voglio.
E poi voi accettate la guerra di difesa. Ma allora vi faccio una questione pratica che taglia la testa al toro. Si tratta di vedere se deve essere fatta prima o dopo; adesso con minore dispendio di vite umane e di denaro, domani in condizioni difficilissime e con la prospettiva del disastro nazionale.
Perché la triplice intesa non verrà ad aiutarci, specie dopo gli scandalosi esempii che abbiamo dato.
I russi ci danno i prigionieri, ed il Presidente del Consiglio va in biblioteca a sfogliare i volumi del diritto internazionale per sapere se li può accettare. Non solo: l'Inghilterra ci dà il carbone; e noi ne approfittiamo per fare il contrabbando in Germania! Ma tutta questa gente, naturalmente, domani quando ci troverà nell'imbarazzo, dirà: «Signori italiani, fate come potete». Voi mi direte che la Germania e l'Austria non ci aggrediranno subito. Ma ci disonoreranno diplomaticamente e non tarderanno a punirci.
Poiché, non vi dovete fare illusione dello stato d'animo che regna in Germania. In Germania passiamo per dei traditori, dei vigliacchi. C'è una cartolina diffusissima in tutta la Germania nella quale è rappresentato un coniglio colla bandierina tricolore ed il cappello da bersagliere. C'è una lettera di Sassenbach, organizzatore tedesco, cui Rigola ha brillantemente risposto, nella quale dice: «Italiani, operai italiani! Voi ci avete lasciati in asso nel momento buono. Vi perdoniamo; ma guai a voi se osaste, dopo essere rimasti neutrali, di attaccarci, perché sareste odiati da tutte le generazioni tedesche per tutti i secoli, e contro di voi proclameremmo la guerra allo sterminio».
Cose da meditare. Ed ora, se volete fare una politica di isolamento, dovrete armare, armare, armare, poiché dovrete contare sulle sole vostre forze. Il socialismo non potrà opporsi quando il governo chiederà dei miliardi, perché il governo dirà: «Ma socialisti, non avete voluto la guerra; adesso voi dovete almeno tollerare che io mi difenda, che prepari la mia difesa; specie quando abbiamo il Trentino che è un cuneo conficcato fra la Lombardia e il Veneto, il Trentino che è a quattro ore da Verona, Verona che forse è destinata a subire la sorte di Lovanio se i tedeschi si potessero precipitare alla chiusa dell'Adige». Sono cose che impongono un po' di meditazione. Non si può rispondere a queste argomentazioni col grido di «abbasso la guerra».
Abbasso la guerra! Sì, ci sto anch'io, come a gridare abbasso il colera, l'omicidio, tutte le cose orribili, ripugnanti.
Ma adesso la guerra c'è e noi non possiamo ignorare questo incendio che è alle porte d'Italia. Non possiamo non vedere se la guerra debba essere fatta dalla monarchia nel solo interesse della monarchia o se invece il popolo non debba asservire questa ai suoi interessi per fiaccare il militarismo prussiano ed anche per fiaccare quella monarchia degli Absburgo, di Francesco Giuseppe l'impiccatore, che in 66 anni di regno ha non poche decine di impiccati al suo passivo.
Noi dobbiamo veder quale deve essere la nostra condotta, e la nostra condotta pratica è nettamente determinata.
Dire che i borghesi vogliono la guerra è dire una stupidaggine. Più la borghesia è evoluta e più è pacifista. La Vossische Zeitung e la Frankfurter Zeitung, due organi capitalisti tedeschi, prima della guerra erano più pacifondai del Vorwaerts.
Dove sono questi ceti che vorrebbero la guerra? Io non li trovo.
La borghesia italiana, l'ho detto, è luridamente pacifista. Il Senato? È l'asilo dove si raccolgono tutte le vecchie cariatidi. Giuseppe Ferrari ha avuto il torto di finire senatore e così pure Giosuè Carducci. Ma se Enotrio fosse stato presente al discorso austriacante di Barzellotti gli avrebbe scaraventato un calamaio sulla testa.
I senatori che rappresentano l'élite reazionaria sono tutti triplicisti per la pelle, austriacanti.
E i deputati che sono andati in delirio, per l'evviva di De Felice a Trento e Trieste, li credete intervenzionisti? Non bisogna dimenticare che 253 di essi sono deputati gentilonizzati, cioè a dire preti, cioè austriacanti.
La borghesia, infine, fa ottimi affari colla neutralità: lo sapete voi di Genova. Né può essere guerrafondaio il contadino che ha un orizzonte mentale limitatissimo.
E il proletariato delle grandi città, il proletariato di Genova, di Milano, di Roma, di Napoli che può essere per la guerra come lo è stato quello del 1791, come lo è stato quello della gloriosa Comune che chiedeva armi e armi per abbattere il Prussiano.
Come lo fu Blanqui nel suo giornale, che era tutto uno squillo, una diana guerresca ai socialisti di Parigi, autore di quella famosa intimazione al governo nella quale diceva: «Voi, governo, siete andato al potere dicendo che non un pollice di territorio sarebbe caduto in mano ai tedeschi. Ora è tempo di mantenere questa promessa; altrimenti noi vi frantumeremo il potere nelle mani».
Non conoscete la storia della Comune? Non sapete che quello fu un moto patriottico? Farete bene a leggerla, la storia. Il popolo di Parigi si raccoglieva in assemblee. E di che cosa discuteva? Forse della concentrazione del capitale? Ma che! Discuteva sui mille modi per abbattere i prussiani. I comunardi parigini volevano la guerra perché volevano salvare Parigi.
E se Jaurès, l'apostolo, il martire della pace, caduto veramente nell'ora critica, che è stato il Cristo spentosi sul calvario con tutti i suoi sogni, tutte le sue illusioni, tutte le sue bontà, se Jaurès fosse vivo, sarebbe oggi al posto di Guesde e di Sembat, sarebbe al ministero della difesa nazionale, perché ogni nazione ha il diritto di vivere nei suoi confini, perché voi non potete pretendere di fare la «Internazionale» finché ci saranno dei popoli oppressi e dei popoli oppressori, non potete ritornare all'esercizio della lotta di classe finché non sarà finita la guerra fra le nazioni.
Si dice: « Perché non vi agitate per Nizza, per la Corsica, per la Savoia? ».
Ma questa è un'obbiezione buffa. Ve lo dimostro subito. Voi mi dovete fare una statistica: di tutti i disertori nizzardi, corsi e savoiardi che sono venuti in Italia. Non ne è venuto nessuno. E questo vi dimostra che queste popolazioni stanno volentieri sotto la Francia, come i ticinesi sotto la Svizzera.
- Quante migliaia, invece, di irredenti trentini e triestini sono venuti in Italia!
Chi non ricorda l'entusiasmo per l'insurrezione cubana? E per il Transvaal chi non si è entusiasmato? Chi di noi si è entusiasmato per l'insurrezione candiota? Chi di noi per i piccoli giapponesi che abbattendo il colosso russo, provocarono la rivoluzione in Russia? E per la Macedonia! E per l'Armenia!
Noi socialisti italiani abbiamo questo singolare privilegio: ci entusiasmiamo per chi è lontano e quando alle porte d'Italia c'è un Trentino che spasima, che sanguina, ci chiudiamo nel sacro egoismo!
Per noi socialisti non sarebbe ragione sufficiente spingere alla guerra i popoli se la posta del giuoco non fosse che quella delle terre irredente. Noi potremmo dire ai borghesi italiani: Quello è vostro compito; assolvetelo, o altrimenti noi vi destituiremo, vi condanneremo. Non è per voi che le monarchie hanno giuocato la loro esistenza sul tradimento delle nazioni? Napoleone III è caduto perché sconfitto a Sedan.
Ma ci sono altre ragioni più profonde, più socialistiche. Noi ci troviamo dinnanzi a due gruppi di potenze; noi dobbiamo scegliere.
Dobbiamo fare tre ipotesi. Da questo cozzo tremendo voi credete che uscirà un'Europa uguale a quella di ieri? Allora ammetto che siate neutralisti. Ma questa ipotesi è assurda perché sarebbe spaventevole che venti milioni di uomini si fossero scannati per mesi e mesi senza un risultato.
E allora o l'Europa di domani è migliore o è peggiore, o c'è più militarismo o meno, o c'è più libertà o più autorità.
Dei due aggruppamenti di Potenze senza dubbio è la triplice intesa quella che dà maggiori garanzie per un assetto migliore dell'Europa.
Mi fa ridere la Stampa di Torino quando dice che la Francia di domani sarà clericale, reazionaria.
Ma la Francia ha due ministri socialisti, la Francia ha due milioni e mezzo di voti socialisti; la Francia ha la Confederazione generale del lavoro; la Francia è una repubblica che si avvia al cinquantennio di vita, e ciò è già un prodigio. E la Francia di domani sarà più democratica, e per una ragione semplicissima.
Che cosa hanno detto i reazionari, monarchisti, realisti di tutte le specie? Hanno detto: «Vedete la disorganizzazione del regime francese? La democrazia non sa combattere; la democrazia condurrà alla disfatta».
Ebbene, la democrazia sa combattere. È veramente meraviglioso quel soldatino francese! Pensate ad un popolo che si è svegliato per essere un popolo, che ha dato tutto il suo sangue per tutti gli imperi, ovunque, un popolo raffinato, che sta sulle trincee da cinque mesi ed ha spezzato l'urto della barbarie prussiana.
Ebbene, questa Francia democratica, questa Francia repubblicana vi dimostra che quando la causa è giusta, sa combattere anche la repubblica. Del resto c'è una prova anche più evidente. Ma forse che nel '70 la Francia era repubblica? No; era impero, e cadde.
C'era la profezia di Victor Hugo, impressionante. Nel 1871 all'assemblea di Parigi, Victor Hugo diceva: «La Prussia forse ci ha reso un servigio, ci ha mutati, ma ci ha liberati da Napoleone». (A questo punto un giovincello dice: «Parlaci della Russia »). E Mussolini pronto:
Non ho difficoltà ad ammettere che il regime czarista è obbrobrioso. Ma sapete voi chi è stata l'anima dannata della reazione russa? Guglielmo II. Sapete voi quali siano stati i ministri più reazionari di Russia, taluno dei quali giustiziato dalle bombe terroriste? Erano tutti di origine tedesca. La Russia si libera adesso della influenza preponderante dei tedeschi i quali avevano tedeschizzato perfino la capitale.
Lo czarismo russo è detestabile ma il caporalismo prussiano non lo è meno. Con questa differenza: che la Russia è un vasto crogiuolo di energie e di fede. Noi ci intenderemo coi russi. La loro psicologia è la nostra. Essi sono capaci di fare la rivoluzione; in Germania il proletariato non si è mai ribellato.
E, del resto, nell'interesse stesso della causa rivoluzionaria che noi vogliamo la partecipazione dell'Italia al conflitto.
Ma voi pensate sul serio che la Russia potrà restare almeno immune dal contagio democratico quando ci sia una repubblica dalla Vistola al Reno. Mai più. Domani la Russia sarà travolta - intendo la Russia nella sua impalcatura feudale e czarista - e dall'interno e dall'esterno.
Ma coloro che ci agitano lo spauracchio russo per farci dimenticare le forche di Francesco Giuseppe ed il militarismo prussiano, fanno un giuoco polemico che non vale certamente la candela.
Noi abbiamo dimostrato che è nell'interesse appunto delle democrazie occidentali di far sì che all'atto della liquidazione dei conti ci siano molte nazioni democratiche contro le nazioni feudali, perché solo a questo patto l'Europa di domani non sarà una copia di quella di ieri.
Vi dicevo che ci sono le ragioni di classe, le ragioni tipiche del proletariato. Ma il proletariato non può rimanere estraneo a questo conflitto; non lo può perché il proletariato non è già una collettività di straccioni, di elemosinanti; è una collettività di soldati, di combattenti, di gente che quando l'ora suona, accetta il sacrificio.
Ma come? Voi ammettete la rivoluzione per sbarazzarvi di una monarchia o di una aristocrazia all'interno, e non volete la guerra solo perché le aristocrazie o le monarchie da spazzare via sono all'esterno? Ma allora siete degli egoisti!
C'è anche una ragione umana. È ormai dimostrato che coll'intervento dell'Italia e della Rumenia gli austro-tedeschi saranno fiaccati. E allora noi diciamo: O madri che tremate per i figli che dovranno andare sulle trincee, voi combattenti da una parte e dall'altra, è finita. Veniamo a dare il colpo di grazia. Sacrificheremo centomila dei nostri ma salveremo un milione dei vostri. Sarà questa la prova suprema della Internazionale proletaria.
Ed è nelle nostre tradizioni. Io sono per temperamento, per abitudine di studi, un antitradizionalista perché le tradizioni sono dei ruderi; ma qualche volta sono dei ruderi intorno ai quali bisogna andare per ispirarsi. Ebbene, noi riprendiamo le tradizioni italiane.
Oh! erano belli i tempi, quando il socialismo idealista che non si era corrotto, il socialismo italiano teneva nei suoi circoli la veneranda figura di Garibaldi! Il socialismo italiano dunque, riconosceva in Garibaldi un uomo che aveva fatto qualche cosa per noi tutti, per il proletariato mondiale.
Ah! Garibaldi era un guerrafondaio! Sicuro! Quaranta battaglie, dieci guerre in tutti i continenti; ma chi di voi sarebbe così stolto, così pazzo da dire che Garibaldi era un guerrafondaio?
Ma no: qualche volta la spada bisogna sguainarla per sciogliere il nodo gordiano di tutte le tirannie; qualche volta bisogna saper versare fino all'ultima stilla il nostro sangue, perché è il sangue che dà il movimento della storia, perché il sangue - è così - è la tragica necessità di questa specie umana che da 254.000 anni è venuta sul pianeta.
È destino che ogni creazione, che ogni passo in avanti sia segnato da macchie di sangue. Voi non comprenderete la storia se non vi introdurrete l'elemento della violenza.
Qualche volta le cose sono così aggravate che i mercati diplomatici, le trattative mercantili, i compromessi politici non bastano a risolverle. E allora viene dal popolo l'ignoto colla bomba, colla dinamite, o viene il popolo coi suoi fucili e le sue spade. Questo il dovere d'Italia nel momento attuale.
Chi siete voi piccoli, voi che pretendete alzando il dito del cittadino che protesta, di fermare gli avvenimenti che rotolano con fragore di uragano nelle linee della storia? Ma no, voi sarete travolti; voi dovete comprendere questo fenomeno, voi dovete introdurvi la vostra volontà se siete dei socialisti e se siete dei rivoluzionari.
E allora, o per amore o per forza, colla parola prima o con qualche gesto di sangue e di fiamma, noi spingeremo tutta l'Italia a spezzare il nodo che la lega ancora all'impero della forca e la spingeremo là dove il nostro destino ci chiama per l'interesse della nazione, per interesse di classe, per interesse di umanità.
E coloro che in questo momento tragico della storia si rinchiudono nel loro guscio di egoismo che non è sano ma abbietto, che non vogliono sentire il grido dei popoli oppressi, che restano freddi dinanzi allo spettacolo terribile del Belgio, dinanzi alle stragi scatenate dal militarismo prussiano, costoro saranno ancora dei socialisti, se per essere socialisti occorre essere muniti della tessera. Ma io ho concepito il socialismo sempre come una lotta diuturna, instancabile, violenta, contro tutti i tiranni, quei di dentro e quei di fuori; io ho concepito il socialismo come un'aspirazione di giustizia, di umanità, di fratellanza.
Una pagina del vangelo socialista sarà quella in cui si dice, prendendo a prestito il verso di Terenzio: «Io sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è straniero». Ebbene, io sono uomo, uomo di questa Italia e non mi è straniero il sacrificio del Belgio, non mi è straniero il sacrificio della Francia, non mi è straniero il sacrificio della Serbia e vedo dietro alle borghesie il proletariato che sanguina, che soffre, che invoca, che dice: Proletari d'Italia, avanti: ancora uno sforzo, liberateci voi!

(L'oratore è stato frequentemente applaudito).



Associazione Culturale Apartitica-"IlCovo" :: I discorsi di Mussolini (http://ilcovo.mastertopforum.net/1-vt993.html?start=0)

Avamposto
29-07-10, 12:48
IL DOVERE DELL'ITALIA


Conferenza pronunciata a Genova, nel salone dell'Università Popolare di via Dante, la sera del 28 dicembre 1914




Dichiaro fin dal principio che accetto il contradittorio con chiunque, quindi è nell'interesse di tutti di ascoltarmi.
Io comprendo perfettamente l'agitazione di questa assemblea; d'altra parte vi dichiaro che sono abituato alle assemblee tempestose per cui io ammetto la fischiata, ammetto l'«abbasso», ma dopo, se non si vuol diventare degli inquisitori rossi, dopo avete il dovere di lasciarmi parlare.
E dopo, se oltre al fischio, ci sono degli argomenti e delle idee, qui è la libera tribuna affidata al libero cittadino; qui, dall'urto delle idee liberamente espresse, può vedersi quale sia la verità. Non è col fischio che si combattono le idee, com'era stolto per gli inquisitori del medioevo pretendere di combattere le idee con la ruota, con le carrucole e con le torture della inquisizione.
Io faccio appello non per me, che io resterò qui fino a domani mattina, fino a quando non avrò detto tutto il mio pensiero; ma faccio appello al vostro spirito di tolleranza, o avversari, perché voi dovete dopo venire a contradirmi ed a dimostrarmi che le idee che io sostengo sono errate.
D'altra parte vi dico che l'odio avversario non riuscirà mai ad impedirmi la libera manifestazione del mio pensiero. Voi potete esserne sicuri. Poiché se ad un dato momento della mia vita ho fatto liberamente e deliberatamente gettito di molte cose che possono lusingare l'amor proprio e le legittime ambizioni degli uomini più o meno politicanti, se io ad un certo momento della mia vita ho voluto sfidare l'impopolarità delle masse per annunciare loro quella che io ritenevo la verità nuova, la verità santa, questo è titolo sufficiente per garantirmi la tolleranza di tutti i cittadini che non vogliono rubare il mestiere ai settari ed agli intolleranti di tutte le epoche.
D'altronde, sarò preciso e violento. Non risparmierò nessuno. È finito il periodo dei mezzi termini, delle restrizioni mentali, di tutto ciò che è servilità, di tutto ciò che è equivoco.
Mi sento un po' imbarazzato a svolgere il tema che mi si è assegnato. Il dovere dell'Italia.
Il dovere dell'Italia? Ma, prima di tutto, di quale Italia? Di questa ancora triplicista, che ha nel Senato e nelle Università gli ultimi ruderi del triplicismo? A questa Italia io non so quale dovere è da assegnarsi.
Parlo da socialista a socialisti: da socialista, perché nessuno in questo dinamico e movimentato periodo storico può asseverare di possedere la verità assoluta, può dichiarare di essere l'assertore del vero unico.
Noi tutti siamo incerti, andiamo a tastoni: appunto perché tutto ciò che era il solido, il fisso, quello che noi credevamo il dogma, è andato in frantumi.
In un certo senso si può dire che non vi sono partiti.
Non più, in quanto che, lo dicevo polemizzando otto o nove mesi fa mi pare coll'on. Graziadei, ogni partito ha il suo programma, la sua bandiera, la sua inquisizione, la quale inquisizione necessariamente fa funzionare i roghi. Non si canta più oggi il Kyrie elèison, ma il rogo morale c'è ancora e manca solo il rogo materiale perché viviamo nel secolo XX e sono passati quattro secoli dal martirio di Giordano Bruno.
Ci sono delle mentalità diverse, e difatti ci sono riformisti per la guerra e riformisti contro la guerra, ci sono rivoluzionari per la guerra e rivoluzionari contro la guerra, sindacalisti pro e sindacalisti contro la guerra. Nessun partito ha potuto sottrarsi a questa divisione che ripete le sue origini dalla diversa mentalità con cui gli uomini affrontano i problemi di una determinata epoca storica.
E le mentalità sono queste, sono due: la mentalità dogmatica, fissa, eterna, immobile. Si è detta nel 1848 una verità e quella deve rimanere la verità per tutti i secoli. Questi uomini i quali si aggrappano a questo scoglio della verità e vi rimangono attaccati fino al giorno del naufragio, sanno qualche volta salvarsi per le vie equivoche della ritirata; e sarebbero certamente uomini ammirabili se sentissero questa verità, se non preparassero già fin d'adesso l'alibi prudente ed i tradimenti fin troppo astuti.
E ci sono invece gli altri uomini i quali non possono nascondersi la realtà perché la realtà esiste. Si può fingere di ignorarla, si può imitare lo struzzo che nasconde il capo sotto la sabbia per evitare il pericolo; questo pacifico abitatore del deserto non vede più il pericolo, ma il pericolo incalza.
Ora noi, dopo aver superata la crisi che proveniva dal fatto che volevamo rimanere fedeli a quelle che ci sembravano le verità assolute, ad un dato momento abbiamo visto che la realtà travolgeva queste verità. Allora abbiamo volute vedere, confrontale, sceverare, distinguere, vedere cioè se il vangelo era buono per tutte le età, per tutti i secoli, per tutti gli uomini, o se invece non sia più profondamente vero e umano che ogni generazione deve creare dal suo seno le verità, quando queste verità sono invocate per le generazioni che vogliono venire avanti. E allora ci siamo trovati, in un momento in cui nessuno ci pensava, alla guerra europea.
Giovanni Jaurès il 30 luglio tornando da Bruxelles ottimista, pensava che la guerra non ci sarebbe stata. Si erano scritti dei volumi per dimostrare l'impossibilità della guerra europea; si era detto che gli uomini erano diventati buoni, e si trascurava il fattore psicologico.
Ieri stesso Achille Loria, un uomo dinanzi al quale mi inchino, ha voluto dare spiegazioni puramente economiche di questo fenomeno.
Non basta: c'è l'insopprimibile dissidio delle stirpi, ma anche qualche cosa di più che non possiamo nascondere a noi stessi; ed è che l'uomo è un animale bellicoso, forse l'animale più bellicoso di tutta la zoologia.
Bisogna dunque tener conto di tutti questi diversi fattori ed elementi per spiegarci il fenomeno complesso della guerra, alla quale noi opponevamo la «Internazionale».
Non ho mai avuto fiducia nel partito socialista tedesco. Quattro mesi prima della conflagrazione europea, in una polemica svoltasi sul Giornale d' Italia, all'avversario che mi magnificava la poderosa Sozialdemocratie tedesca, io ricordavo una sentenza di Roberto Michels che diceva: «Il partito socialista tedesco è simile al gigante capace di portare un quintale, e impotente a fecondare una vergine».
La sua forza dunque era fisica sopratutto, ma non era energia fisiologica; per cui questo partito che aveva 92 quotidiani, 111 deputati, 5 milioni di elettori, 3 milioni di organizzati, ad un dato momento è scomparso dalla scena politica dell'impero come può crollare uno scenario invecchiato e Guglielmo II, dall'alto del suo balcone di Potsdam, ha potuto dire: «Cittadini (o meglio sudditi), non ci sono più partiti; ci sono semplicemente dei tedeschi!».
Cosa faceva la Sozialdemocratie? Cresceva, ed io vedevo già in questa sua crescenza la ragione della sua immobilità.
Questo partito cresceva. Ebbene, io dicevo, verrà il giorno in cui questo partito troverà nella sua stessa mole pachidermica la ragione della sua immobilità. Ed è quello che è avvenuto. I socialisti tedeschi che dovevano tener alta la bandiera della «Internazionale socialista» sono stati i primi a buttarla nel fango.
E quando a Bruxelles, Jouhaux, il segretario della Confederazione Generale di Francia, chiese a Legien, deputato socialista al Reichstag, che cosa avrebbero fatto i socialisti tedeschi nel caso di uno sciopero generale francese, il Legien rispose, o meglio non rispose; fece capire che i tedeschi non potevano prendere impegni di questo genere.
Ed il contegno dei socialisti tedeschi ha determinato automaticamente il contegno dei socialisti degli altri paesi.
Hervé era quasi un profeta quando in uno dei tanti congressi internazionali in cui veniva alla superficie l'eterno dissidio fra latini e tedeschi, che fu causa della prima rovina della Internazionale, chiedeva a Bebel: «Cosa farete voi se noi risponderemo alla mobilitazione con l'insurrezione?». E Bebel rispondeva: «Prima di essere socialista, sono un tedesco». E Hervé replicava: «Ebbene, quel giorno in cui passerete il Reno, sappiate che troverete i fucili dei liberi cittadini francesi pronti a respingervi».
Per cui è inutile voler ossigenare un cadavere.
Certi neutralisti muovono questa obbiezione: «Ah! voi rimproverate ai socialisti tedeschi il loro tradimento della Internazionale? E voi, socialisti italiani, vi preparate a fare qualche cosa che rassomiglia molto all'atto dei socialisti tedeschi». Ma c'è una ragione assoluta che smantella questa obbiezione.
Amici, l'amore si fa in due; la Internazionale si fa in molti. Quando uno per il primo, abbia ragione o torto, straccia il contratto, l'altro contraente non ha più il dovere di tener fede a questo patto, anzi non può più tenerla. Un'Internazionale unilaterale è un assurdo in termini.
Se i socialisti tedeschi avessero tenuto fede al loro patto, potevano pretendere qualche cosa di più da noi.
Sorgerà una nuova Internazionale; ma quella che aveva un ufficio a Bruxelles, il quale ufficio pubblicava un soporifero bollettino due o tre volte all'anno in tre lingue, esclusa l'italiana, quella Internazionale è finita. Starei per dire che il suo segretario Camillo Huysmann, quando mi ha mandato l'adesione di simpatia e di solidarietà, mi mandava con quel voto l'atto di decesso di quella Internazionale di cui egli era segretario.
E allora noi socialisti italiani ci troviamo proiettati nell'ambito dei problemi nazionali.
Ieri il Vorwaerts!, pubblicando un articolo sul Natale, prospettava, sia pure vagamente, la possibilità della creazione di un socialismo nazionale, o quasi.
Non dovete dimenticare che nel partito socialista tedesco gli imperialisti ed i pangermanisti sono numerosissimi; non dovete dimenticare che infinito è il numero degli espansionisti che dicono «più terra», ed anche gli operai non sono estranei all'influsso di questa dottrina.
E, del resto, la nazione non è scomparsa. Noi credevamo che fosse annientata; invece la vediamo sorgere vivente, palpitante dinanzi a noi! E si capisce: La realtà nuova non sopprime la verità; la classe non può uccidere la nazione. La classe è una collettività di interessi, ma la nazione è una storia di sentimenti, di tradizioni, di lingua, di cultura, di stirpi. Voi potete innestare la classe sulla nazione, ma l'una non elide l'altra. Ed allora, se questo è vero, molte altre verità saranno prospettate poi, quando questi avvenimenti avranno fatto il loro corso.
Noi dobbiamo esaminare la questione da un punto di vista socialistico e nazionale.
Già l'onorevole Claudio Treves, nella Critica Sociale di agosto, diceva che poiché il patto internazionale non esiste più, ognuno deve pensare ai propri casi, ognuno deve vedere che valore, che senso, che portata può dare alla neutralità.
Ebbene noi ci troviamo al bivio.
Questa neutralità deve durare sempre o deve finire? E se deve finire lo deve perché noi saremo forzati da motivi estranei a volerlo? Socialismo e guerra.
Si dice: «Ma la rottura della neutralità ci mette allo sbaraglio delle guerre!».
La guerra è certamente un fenomeno orribile. Si pensa con un vivo strazio dell'animo a questi milioni di uomini che stanno nelle trincee, nel freddo, nel gelo, nella neve, mentre noi proletari italiani chiacchieriamo.
C'è forse un'antitesi fra socialismo e guerra?
Certamente se il socialismo vuole la fratellanza dei popoli, non può voler la guerra che di quella fratellanza è la violazione brutale, aperta, decisiva, assoluta. Ma ci sono guerre e guerre.
Giorgio Sorel diceva che il socialismo è una cosa terribile, grave, sublime e non un esercizio di politicanti che fanno lo sconcio comodo dei loro mercati quotidiani. Se il socialismo è forza, è sacrificio, è tragedia, noi non possiamo seguire coloro che credono di spaventarci innanzi alla guerra coll'idea delle stragi, del sangue, del sacrificio.
Mi inchino al dolore delle madri, mi inchino a chi soffre; ma ci sono dei doveri supremi e quando uno è un socialista rivoluzionario, sa che anche la rivoluzione sociale sarà sacrificio, sangue, pianto di madri.
Anche Mazzini, quando sospingeva le generazioni italiane alla guerra, ben sapeva che essa era sacrificio, sangue, rovina, distruzione. Ma sapeva pure che ogni generazione ha i suoi ineluttabili doveri da compiere.
Ora le generazioni che ci hanno preceduto hanno fatto il loro dovere; un altro però ne hanno legato a noi e noi dobbiamo compierlo perché le generazioni che verranno, i figli, i nipoti, ci chiederanno: «E voi? Nel 1914-15 quando l'Europa, anzi quando il mondo era in fiamme, che cosa avete fatto?».
È comodo chiudersi nell'egoismo neutrale, nel sacro egoismo di Salandra, che è l'egoismo delle classi abbienti, del Senato triplicista, del papato temporalista, della borghesia contrabbandiera. No, non può essere questo il nostro egoismo. Non abbiamo egoismo nazionale noi; ma dei doveri imprescrittibili da compiere.
Dite un po', o amici: è un quesito che vi pongo. Nel 1791 quando gli operai parigini al rullo dei tamburi, al suono della Marsigliese, si recavano nei quadrivi delle strade, scalzi, laceri, sol di rabbia armati, e dicevano «noi vogliamo combattere» e piantavano le bandiere della rivoluzione sui colli di Walmy, e Goethe diceva: «Oggi da questo luogo comincia una novella istoria»; questi proletari volevano la guerra, andavano ad uccidere degli altri proletari. Ma noi, noi che godiamo dei benefici di quel sangue, troviamo che essi erano i martiri, i precursori della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, documento memorabile del pensiero e della civiltà umana. Nel 1870 a Roma se ci fosse stato un Circolo socialista più o meno neutrale, avrebbe esso gridato abbasso la guerra quando attraverso la breccia si abbatteva il potere temporale dei papi?
Osereste rinnegare Pisacane?
Ma, amici, c'è il suo testamento. Ebbene, Pisacane con trecento idealisti - c'erano ancora degli idealisti - sbarcò a Sapri.
C'erano forse le classi, c'era forse lo sciopero, una questione di contratto, di salari, di tariffe? No. C'era il governo dei Borboni, e Pisacane irredentista, precursore di Garibaldi, quindi più grande di Garibaldi, ha detto Victor Hugo, andava a compiere un'opera di redenzione nazionale.
E chi erano i neutralisti d'allora? Poveri contadini del napoletano sobillati dai preti i quali amavano molto il governo del Borbone come i preti d'ora amano molto il governo di Francesco Giuseppe.
Nel 1897, io ero giovinetto, mi ricordo che molti socialisti italiani s'armarono e corsero a combattere in Grecia. Ma forse che in Grecia c'era un conflitto fra capitale e lavoro? No, c'era un conflitto fra due nazioni. Essi andavano ad aiutare i borghesi greci! Ma che cosa importa questo? Essi vedevano in conflitto due nazioni: la Turchia che sopprimeva le nazionalità, la Grecia che voleva ricongiungere a sé Candia; e non distinguevano, e si battevano e morivano.
Che più? Quando le ceneri di Antonio Fratti ritornarono in Italia, ricordo che una colonna imponente di socialisti romagnoli, quattro o sei mila, muniti del garofano rosso, si recarono a riverire questo martire del diritto delle nazionalità.
È dunque solo adesso che siamo diventati degli egoisti, dei vigliacchi, dei poltroni? Solo adesso?
Guardiamo alle rovine del Belgio e diciamo: poveri belgi, è veramente doloroso il loro calvario.
Eppure ho sentito un socialista domandarsi perché, in fin dei conti, questi belgi hanno resistito; perché non hanno contrattato col Kaiser magari il prezzo del libero transito, offerto il loro pane, i loro alloggi.... fors'anche le loro donne agli ulani. Sarebbero stati risparmiati. Ebbene i belgi, al contrario, hanno avuto questa suprema ingenuità si sono difesi e si sono difesi egregiamente salvando la Francia.
La Francia che non aveva alla frontiera che trentamila uomini da opporre ai tre milioni di baionette prussiane, la Francia che ha dovuto costituirsi un esercito oltre la Marna, la Francia odiata da tutti gli imperatori perché è una nazione repubblicana, perché ha tagliato la testa a un re.
E se voi avete letto Arrigo Heine, ricorderete l'episodio in cui il poeta è entrato nella grotta dove riposa Barbarossa che ha la barba già fluente e gli cresce smisuratamente, Barbarossa che aspetta per scendere, o meglio per salire in armi. E il poeta scomunicato dalla Germania ufficiale, il poeta Heine che era troppo parigino per essere tedesco, si diverte a scherzare col Kaiser che distrusse molte castella dell'Alta Italia, e ad un certo punto gli dice: «Ma, caro imperatore, se non avete dei cavalli, provvedetevi degli asini». E siccome l'imperatore non aveva letto le cronache, domanda al poeta: «Che cosa è successo in questi secoli?».
E il poeta gli risponde: «Sono successe cose sorprendenti: guerre, terremoti, pestilenze, carestie; e poi in Francia, sappiate, o imperatore, in Francia ad un certo momento hanno ghigliottinato Luigi XVI!».
E il vecchio Kaiser: «Ghigliottinato? Che parola è? Ai miei tempi non era nel vocabolario».
E il poeta gli risponde: «È una parola nuova. Si tratta di uno strumento inventato da un medico, il quale strumento taglia la testa dei re ed anche degli imperatori».
E allora il Kaiser trema pensando a quest'epoca in cui non si ha più rispetto per le teste coronate.
La Francia ne ha tagliato una, ma l'Inghilterra due secoli prima aveva tagliato la testa ad un altro re.
Le monarchie sentono che quando si avanza il popolo, i re, i papi, gli imperatori devono retrocedere. È evidente che questa gente prega perché l'Italia si mantenga neutrale; ed i socialisti tedeschi, teneri della sorte dei loro Kaiser e della sorte del loro impero, mandano il messaggero Sudekum in Italia ed in Rumenia a fermare i proletari che volessero aiutare la triplice intesa. La guerra che noi vogliamo, e noi vogliamo la guerra, non ci carica la coscienza di nessun delitto.
Noi guerrafondai? Nel 1911, a Forlì, abbiamo trattenuto i richiamati che stavano per partire per la Libia. Se da per tutto si fosse fatto così forse in Libia non si sarebbe andati.
Guerrafondaio? No. Uomo che lotta in un determinato periodo, in un determinato spazio; lotta colle armi che sono a sua disposizione. Se voi volete abbattere i mortai da 420 e se volete demolire la prepotenza del militarismo prussiano, vorrete dunque portare il ramoscello d'olivo, vorrete portare gli ordini del giorno, i bei discorsi con relative invocazioni pacifiste?
Bethmann-Hollweg ha avuto il coraggio di dire al Reichstag: «Abbiamo violata la neutralità belga? Ebbene, necessità non conosce legge. Abbiamo distrutte le città, abbiamo seminato il terrore? Non importa: daremo un'indennità, oppure ci annetteremo il Belgio per farlo partecipe dei benefici della civiltà tedesca».
E i socialisti neutrali d'Italia, dopo cinque mesi di neutralità, trovano tutto ciò legittimo, giusto, umano!
La mentalità socialista, nei suoi primordi, aveva un chiaro significato. Abbiamo detto cioè: c'è il pericolo di due guerre, una a fianco dell'Austria e un'altra a fianco della Francia. Per la prima noi dichiarammo che ci saremmo opposti collo sciopero generale e colla insurrezione, ma per la seconda avremmo lasciato fare. Si sono chiamate tre classi e i socialisti non hanno protestato. Se il Governo avesse voluto mobilitare avrebbe mobilitato senza proteste da parte dei socialisti perché questi capivano, e ci voleva poco, che quando tutta l'Europa era in fiamme, e tutti armavano, dalla Svizzera degli albergatori (da tenere d'occhio, specie la Svizzera tedesca) all'Olanda dei formaggi, alla Danimarca, era ridicolo, era idiota, era sopratutto criminoso aprire le frontiere e dire: Austriaci venite, le porte sono aperte.
E fin da allora che il socialismo italiano ha distinto tre guerre e per ognuna di queste guerre ha specificato un determinato atteggiamento pratico. E non più tardi di ieri, l'on. Rigola, il quale è un personaggio importante perché è un uomo molto acuto e perché è segretario della Confederazione generale del lavoro la quale dovrebbe fare quel famoso sciopero generale, ha distinto tre guerre e tre ipotesi. Ha detto: «Per la guerra a fianco dell'Austria, faremmo la rivoluzione; una guerra con finalità puramente nazionaliste, la subiremmo; in una guerra di difesa, in caso d'invasione, per indipendenza nazionale, saremmo in prima linea».
Ora è perfettamente assurdo subire una guerra, disinteressarsi di una guerra. Io mi disinteresso di una cosa che non mi riguarda, che avviene nell'altro emisfero, nel mondo della luna; ma una guerra fatta con me, per me, colla mia pelle, non posso subirla non curandomene, bisogna che io dica se la voglio o non la voglio.
E poi voi accettate la guerra di difesa. Ma allora vi faccio una questione pratica che taglia la testa al toro. Si tratta di vedere se deve essere fatta prima o dopo; adesso con minore dispendio di vite umane e di denaro, domani in condizioni difficilissime e con la prospettiva del disastro nazionale.
Perché la triplice intesa non verrà ad aiutarci, specie dopo gli scandalosi esempii che abbiamo dato.
I russi ci danno i prigionieri, ed il Presidente del Consiglio va in biblioteca a sfogliare i volumi del diritto internazionale per sapere se li può accettare. Non solo: l'Inghilterra ci dà il carbone; e noi ne approfittiamo per fare il contrabbando in Germania! Ma tutta questa gente, naturalmente, domani quando ci troverà nell'imbarazzo, dirà: «Signori italiani, fate come potete». Voi mi direte che la Germania e l'Austria non ci aggrediranno subito. Ma ci disonoreranno diplomaticamente e non tarderanno a punirci.
Poiché, non vi dovete fare illusione dello stato d'animo che regna in Germania. In Germania passiamo per dei traditori, dei vigliacchi. C'è una cartolina diffusissima in tutta la Germania nella quale è rappresentato un coniglio colla bandierina tricolore ed il cappello da bersagliere. C'è una lettera di Sassenbach, organizzatore tedesco, cui Rigola ha brillantemente risposto, nella quale dice: «Italiani, operai italiani! Voi ci avete lasciati in asso nel momento buono. Vi perdoniamo; ma guai a voi se osaste, dopo essere rimasti neutrali, di attaccarci, perché sareste odiati da tutte le generazioni tedesche per tutti i secoli, e contro di voi proclameremmo la guerra allo sterminio».
Cose da meditare. Ed ora, se volete fare una politica di isolamento, dovrete armare, armare, armare, poiché dovrete contare sulle sole vostre forze. Il socialismo non potrà opporsi quando il governo chiederà dei miliardi, perché il governo dirà: «Ma socialisti, non avete voluto la guerra; adesso voi dovete almeno tollerare che io mi difenda, che prepari la mia difesa; specie quando abbiamo il Trentino che è un cuneo conficcato fra la Lombardia e il Veneto, il Trentino che è a quattro ore da Verona, Verona che forse è destinata a subire la sorte di Lovanio se i tedeschi si potessero precipitare alla chiusa dell'Adige». Sono cose che impongono un po' di meditazione. Non si può rispondere a queste argomentazioni col grido di «abbasso la guerra».
Abbasso la guerra! Sì, ci sto anch'io, come a gridare abbasso il colera, l'omicidio, tutte le cose orribili, ripugnanti.
Ma adesso la guerra c'è e noi non possiamo ignorare questo incendio che è alle porte d'Italia. Non possiamo non vedere se la guerra debba essere fatta dalla monarchia nel solo interesse della monarchia o se invece il popolo non debba asservire questa ai suoi interessi per fiaccare il militarismo prussiano ed anche per fiaccare quella monarchia degli Absburgo, di Francesco Giuseppe l'impiccatore, che in 66 anni di regno ha non poche decine di impiccati al suo passivo.
Noi dobbiamo veder quale deve essere la nostra condotta, e la nostra condotta pratica è nettamente determinata.
Dire che i borghesi vogliono la guerra è dire una stupidaggine. Più la borghesia è evoluta e più è pacifista. La Vossische Zeitung e la Frankfurter Zeitung, due organi capitalisti tedeschi, prima della guerra erano più pacifondai del Vorwaerts.
Dove sono questi ceti che vorrebbero la guerra? Io non li trovo.
La borghesia italiana, l'ho detto, è luridamente pacifista. Il Senato? È l'asilo dove si raccolgono tutte le vecchie cariatidi. Giuseppe Ferrari ha avuto il torto di finire senatore e così pure Giosuè Carducci. Ma se Enotrio fosse stato presente al discorso austriacante di Barzellotti gli avrebbe scaraventato un calamaio sulla testa.
I senatori che rappresentano l'élite reazionaria sono tutti triplicisti per la pelle, austriacanti.
E i deputati che sono andati in delirio, per l'evviva di De Felice a Trento e Trieste, li credete intervenzionisti? Non bisogna dimenticare che 253 di essi sono deputati gentilonizzati, cioè a dire preti, cioè austriacanti.
La borghesia, infine, fa ottimi affari colla neutralità: lo sapete voi di Genova. Né può essere guerrafondaio il contadino che ha un orizzonte mentale limitatissimo.
E il proletariato delle grandi città, il proletariato di Genova, di Milano, di Roma, di Napoli che può essere per la guerra come lo è stato quello del 1791, come lo è stato quello della gloriosa Comune che chiedeva armi e armi per abbattere il Prussiano.
Come lo fu Blanqui nel suo giornale, che era tutto uno squillo, una diana guerresca ai socialisti di Parigi, autore di quella famosa intimazione al governo nella quale diceva: «Voi, governo, siete andato al potere dicendo che non un pollice di territorio sarebbe caduto in mano ai tedeschi. Ora è tempo di mantenere questa promessa; altrimenti noi vi frantumeremo il potere nelle mani».
Non conoscete la storia della Comune? Non sapete che quello fu un moto patriottico? Farete bene a leggerla, la storia. Il popolo di Parigi si raccoglieva in assemblee. E di che cosa discuteva? Forse della concentrazione del capitale? Ma che! Discuteva sui mille modi per abbattere i prussiani. I comunardi parigini volevano la guerra perché volevano salvare Parigi.
E se Jaurès, l'apostolo, il martire della pace, caduto veramente nell'ora critica, che è stato il Cristo spentosi sul calvario con tutti i suoi sogni, tutte le sue illusioni, tutte le sue bontà, se Jaurès fosse vivo, sarebbe oggi al posto di Guesde e di Sembat, sarebbe al ministero della difesa nazionale, perché ogni nazione ha il diritto di vivere nei suoi confini, perché voi non potete pretendere di fare la «Internazionale» finché ci saranno dei popoli oppressi e dei popoli oppressori, non potete ritornare all'esercizio della lotta di classe finché non sarà finita la guerra fra le nazioni.
Si dice: « Perché non vi agitate per Nizza, per la Corsica, per la Savoia? ».
Ma questa è un'obbiezione buffa. Ve lo dimostro subito. Voi mi dovete fare una statistica: di tutti i disertori nizzardi, corsi e savoiardi che sono venuti in Italia. Non ne è venuto nessuno. E questo vi dimostra che queste popolazioni stanno volentieri sotto la Francia, come i ticinesi sotto la Svizzera.
- Quante migliaia, invece, di irredenti trentini e triestini sono venuti in Italia!
Chi non ricorda l'entusiasmo per l'insurrezione cubana? E per il Transvaal chi non si è entusiasmato? Chi di noi si è entusiasmato per l'insurrezione candiota? Chi di noi per i piccoli giapponesi che abbattendo il colosso russo, provocarono la rivoluzione in Russia? E per la Macedonia! E per l'Armenia!
Noi socialisti italiani abbiamo questo singolare privilegio: ci entusiasmiamo per chi è lontano e quando alle porte d'Italia c'è un Trentino che spasima, che sanguina, ci chiudiamo nel sacro egoismo!
Per noi socialisti non sarebbe ragione sufficiente spingere alla guerra i popoli se la posta del giuoco non fosse che quella delle terre irredente. Noi potremmo dire ai borghesi italiani: Quello è vostro compito; assolvetelo, o altrimenti noi vi destituiremo, vi condanneremo. Non è per voi che le monarchie hanno giuocato la loro esistenza sul tradimento delle nazioni? Napoleone III è caduto perché sconfitto a Sedan.
Ma ci sono altre ragioni più profonde, più socialistiche. Noi ci troviamo dinnanzi a due gruppi di potenze; noi dobbiamo scegliere.
Dobbiamo fare tre ipotesi. Da questo cozzo tremendo voi credete che uscirà un'Europa uguale a quella di ieri? Allora ammetto che siate neutralisti. Ma questa ipotesi è assurda perché sarebbe spaventevole che venti milioni di uomini si fossero scannati per mesi e mesi senza un risultato.
E allora o l'Europa di domani è migliore o è peggiore, o c'è più militarismo o meno, o c'è più libertà o più autorità.
Dei due aggruppamenti di Potenze senza dubbio è la triplice intesa quella che dà maggiori garanzie per un assetto migliore dell'Europa.
Mi fa ridere la Stampa di Torino quando dice che la Francia di domani sarà clericale, reazionaria.
Ma la Francia ha due ministri socialisti, la Francia ha due milioni e mezzo di voti socialisti; la Francia ha la Confederazione generale del lavoro; la Francia è una repubblica che si avvia al cinquantennio di vita, e ciò è già un prodigio. E la Francia di domani sarà più democratica, e per una ragione semplicissima.
Che cosa hanno detto i reazionari, monarchisti, realisti di tutte le specie? Hanno detto: «Vedete la disorganizzazione del regime francese? La democrazia non sa combattere; la democrazia condurrà alla disfatta».
Ebbene, la democrazia sa combattere. È veramente meraviglioso quel soldatino francese! Pensate ad un popolo che si è svegliato per essere un popolo, che ha dato tutto il suo sangue per tutti gli imperi, ovunque, un popolo raffinato, che sta sulle trincee da cinque mesi ed ha spezzato l'urto della barbarie prussiana.
Ebbene, questa Francia democratica, questa Francia repubblicana vi dimostra che quando la causa è giusta, sa combattere anche la repubblica. Del resto c'è una prova anche più evidente. Ma forse che nel '70 la Francia era repubblica? No; era impero, e cadde.
C'era la profezia di Victor Hugo, impressionante. Nel 1871 all'assemblea di Parigi, Victor Hugo diceva: «La Prussia forse ci ha reso un servigio, ci ha mutati, ma ci ha liberati da Napoleone». (A questo punto un giovincello dice: «Parlaci della Russia »). E Mussolini pronto:
Non ho difficoltà ad ammettere che il regime czarista è obbrobrioso. Ma sapete voi chi è stata l'anima dannata della reazione russa? Guglielmo II. Sapete voi quali siano stati i ministri più reazionari di Russia, taluno dei quali giustiziato dalle bombe terroriste? Erano tutti di origine tedesca. La Russia si libera adesso della influenza preponderante dei tedeschi i quali avevano tedeschizzato perfino la capitale.
Lo czarismo russo è detestabile ma il caporalismo prussiano non lo è meno. Con questa differenza: che la Russia è un vasto crogiuolo di energie e di fede. Noi ci intenderemo coi russi. La loro psicologia è la nostra. Essi sono capaci di fare la rivoluzione; in Germania il proletariato non si è mai ribellato.
E, del resto, nell'interesse stesso della causa rivoluzionaria che noi vogliamo la partecipazione dell'Italia al conflitto.
Ma voi pensate sul serio che la Russia potrà restare almeno immune dal contagio democratico quando ci sia una repubblica dalla Vistola al Reno. Mai più. Domani la Russia sarà travolta - intendo la Russia nella sua impalcatura feudale e czarista - e dall'interno e dall'esterno.
Ma coloro che ci agitano lo spauracchio russo per farci dimenticare le forche di Francesco Giuseppe ed il militarismo prussiano, fanno un giuoco polemico che non vale certamente la candela.
Noi abbiamo dimostrato che è nell'interesse appunto delle democrazie occidentali di far sì che all'atto della liquidazione dei conti ci siano molte nazioni democratiche contro le nazioni feudali, perché solo a questo patto l'Europa di domani non sarà una copia di quella di ieri.
Vi dicevo che ci sono le ragioni di classe, le ragioni tipiche del proletariato. Ma il proletariato non può rimanere estraneo a questo conflitto; non lo può perché il proletariato non è già una collettività di straccioni, di elemosinanti; è una collettività di soldati, di combattenti, di gente che quando l'ora suona, accetta il sacrificio.
Ma come? Voi ammettete la rivoluzione per sbarazzarvi di una monarchia o di una aristocrazia all'interno, e non volete la guerra solo perché le aristocrazie o le monarchie da spazzare via sono all'esterno? Ma allora siete degli egoisti!
C'è anche una ragione umana. È ormai dimostrato che coll'intervento dell'Italia e della Rumenia gli austro-tedeschi saranno fiaccati. E allora noi diciamo: O madri che tremate per i figli che dovranno andare sulle trincee, voi combattenti da una parte e dall'altra, è finita. Veniamo a dare il colpo di grazia. Sacrificheremo centomila dei nostri ma salveremo un milione dei vostri. Sarà questa la prova suprema della Internazionale proletaria.
Ed è nelle nostre tradizioni. Io sono per temperamento, per abitudine di studi, un antitradizionalista perché le tradizioni sono dei ruderi; ma qualche volta sono dei ruderi intorno ai quali bisogna andare per ispirarsi. Ebbene, noi riprendiamo le tradizioni italiane.
Oh! erano belli i tempi, quando il socialismo idealista che non si era corrotto, il socialismo italiano teneva nei suoi circoli la veneranda figura di Garibaldi! Il socialismo italiano dunque, riconosceva in Garibaldi un uomo che aveva fatto qualche cosa per noi tutti, per il proletariato mondiale.
Ah! Garibaldi era un guerrafondaio! Sicuro! Quaranta battaglie, dieci guerre in tutti i continenti; ma chi di voi sarebbe così stolto, così pazzo da dire che Garibaldi era un guerrafondaio?
Ma no: qualche volta la spada bisogna sguainarla per sciogliere il nodo gordiano di tutte le tirannie; qualche volta bisogna saper versare fino all'ultima stilla il nostro sangue, perché è il sangue che dà il movimento della storia, perché il sangue - è così - è la tragica necessità di questa specie umana che da 254.000 anni è venuta sul pianeta.
È destino che ogni creazione, che ogni passo in avanti sia segnato da macchie di sangue. Voi non comprenderete la storia se non vi introdurrete l'elemento della violenza.
Qualche volta le cose sono così aggravate che i mercati diplomatici, le trattative mercantili, i compromessi politici non bastano a risolverle. E allora viene dal popolo l'ignoto colla bomba, colla dinamite, o viene il popolo coi suoi fucili e le sue spade. Questo il dovere d'Italia nel momento attuale.
Chi siete voi piccoli, voi che pretendete alzando il dito del cittadino che protesta, di fermare gli avvenimenti che rotolano con fragore di uragano nelle linee della storia? Ma no, voi sarete travolti; voi dovete comprendere questo fenomeno, voi dovete introdurvi la vostra volontà se siete dei socialisti e se siete dei rivoluzionari.
E allora, o per amore o per forza, colla parola prima o con qualche gesto di sangue e di fiamma, noi spingeremo tutta l'Italia a spezzare il nodo che la lega ancora all'impero della forca e la spingeremo là dove il nostro destino ci chiama per l'interesse della nazione, per interesse di classe, per interesse di umanità.
E coloro che in questo momento tragico della storia si rinchiudono nel loro guscio di egoismo che non è sano ma abbietto, che non vogliono sentire il grido dei popoli oppressi, che restano freddi dinanzi allo spettacolo terribile del Belgio, dinanzi alle stragi scatenate dal militarismo prussiano, costoro saranno ancora dei socialisti, se per essere socialisti occorre essere muniti della tessera. Ma io ho concepito il socialismo sempre come una lotta diuturna, instancabile, violenta, contro tutti i tiranni, quei di dentro e quei di fuori; io ho concepito il socialismo come un'aspirazione di giustizia, di umanità, di fratellanza.
Una pagina del vangelo socialista sarà quella in cui si dice, prendendo a prestito il verso di Terenzio: «Io sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è straniero». Ebbene, io sono uomo, uomo di questa Italia e non mi è straniero il sacrificio del Belgio, non mi è straniero il sacrificio della Francia, non mi è straniero il sacrificio della Serbia e vedo dietro alle borghesie il proletariato che sanguina, che soffre, che invoca, che dice: Proletari d'Italia, avanti: ancora uno sforzo, liberateci voi!

(L'oratore è stato frequentemente applaudito).



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Avamposto
29-07-10, 12:50
L’ITALIA NEL GENNAIO DEL 1915

Per difendere la causa interventista, Benito Mussolini istituì quei Fasci d'Azione Interventista che precorsero i Fasci di Combattimento creati nel 1919. Alla adunata dei Fasci d'Azione Interventista, in Milano, il 25 gennaio 1915 (n.b., secondo l'Opera Omnia della Hoepli, mentre è il 24 gennaio secondo l'Opera Omnia de La Fenice), egli pronunziò il seguente discorso:



Vi ringrazio di questo saluto, e sono lieto e superbo di assistere a questa adunata che rappresenta forse in questi sei mesi di neutralità mercantile e contrabbandiera, marca socialista e pretina, un fatto nuovo della maggior importanza e della più grande significazione. Già, sentendo le relazioni che sono state fatte qui, io ritornavo col pensiero ai primi congressi dell'Internazionale, quando i rappresentanti delle diverse sezioni dei diversi paesi, preparavano delle relazioni scritte nelle quali davano ampi cenni sulla situazione dei rispettivi paesi. Era questo un mezzo magnifico di affiatamento e di intesa.
E vengo alla relazione sulla situazione internazionale.
Non si può parlare di situazione diplomatica e politica, senza pensare alla situazione militare. La situazione militare è stazionaria. Però al giorno d'oggi essa è, evidentemente, favorevole ai tedeschi, i quali occupano il Belgio tutto, salvo 880 chilometri quadrati; occupano dieci dipartimenti della Francia, ricchi e popolosi, e gran parte della Polonia russa. Inoltre anche le recenti scorrerie di Dunkerque e le altre dei dirigibili e dei sottomarini dimostrano che i tedeschi sono ancora pieni di vigore combattivo, e vogliono veramente condurre la guerra fino all'estremo limite della loro possibilità e della loro resistenza. Quindi l'intervento dell'Italia non è tardivo. Io credo che sarebbe il momento opportuno oggi in cui la situazione militare è in istato di equilibrio. Non si avanza, né si retrocede, né di qua né di là, per cui occorrerebbe decidere la partita, col fatto nuovo dell'intervento italo-romeno.
Avvenimenti notevoli internazionali di queste ultime settimane sono state le dimissioni Berchtold, la possibilità di intervento della Romania, le trattative della Triplice Intesa per regolare le difficoltà finanziarie della Russia. Io credo effettivamente che ci sia stato un momento di stanchezza nei belligeranti e precisamente in Austria e in Russia. Basti accennare ad un breve periodo di un giornale ufficioso russo, il Ruskoie Slopo, per capire che c'è stato un momento in cui la Russia ondeggiava:
« È vero - dice il giornale russo - che il 4 settembre la Russia, la Francia, l'Inghilterra, il Belgio e la Serbia, si obbligarono a non concludere la pace se non in comune, ma questo obbligo si trae dietro quello di sopportare anche le spese in comune, ora soprattutto, dopo che la Turchia è venuta in aiuto alle Potenze centrali. Le nostre fonti sono esauste. Donde prendere il denaro che è più necessario degli uomini? Se l'Inghilterra rifiutasse, saremmo costretti a finire la guerra in modo conveniente per la Russia. »
Parole veramente minacciose, onde gli inglesi hanno capito il latino, perché gli uomini di governo inintelligenti sono una prerogativa della terza Italia, hanno dunque capito che la Russia bussava a denari ed allora hanno subito escogitato il mezzo di ovviare la minaccia, lanciando il prestito dei 15 miliardi, da sottoscriversi nelle capitali della Triplice, pro Russia. Infatti subito dopo l'annuncio del prestito il linguaggio degli organi russi è cambiato ed ora dicono che la Russia non pensa affatto a concludere una pace separata.
Altri sintomi inquietanti in Austria. Evidentemente l'Austria è finora la più sacrificata; essa ha perduta la Galizia, è stata sconfitta dai russi e dai serbi.
Può darsi dunque che le dimissioni di Berchtold siano appunto il sintomo di un nuovo orientamento della politica austriaca. In che senso? Io non credo nel senso pacifista. Ormai l'Austria è legata alla Germania e la Germania preme sull'Austria e sull'Ungheria. Il viaggio di Burian allo stato maggiore tedesco credo abbia lo scopo di ottenere l'aiuto di forze militari tedesche per l'Ungheria. I tedesco-austriaci si premuniscono contro la Rumenia, poiché questa nazione interverrà probabilmente prima dell'Italia.
La Rumenia ha quattro milioni di rumeni nella Transilvania sottoposti all'Austria-Ungheria; è una nazione giovane, con un esercito perfetto di cinquecentomila uomini, e sarà forse costretta a troncare gli indugi dal fatto che i russi sono alle frontiere della Transilvania. Nessun fatto più di questo porrebbe in imbarazzo l'anima rumena la quale ricorda che nel 1878 i russi occuparono e tennero la Bessarabia. Quando dunque i russi saranno in Transilvania, l'intervento rumeno sarà deciso senz'altro.
Un fatto che ha qualche valore nei riguardi dell'Italia, è l'occupazione di Valona, avvenuta in circostanze singolari; l'occupazione di Sasseno con i medicinali e lo sbarco dei marinai prima, dei bersaglieri poi. Occupazione omeopatica. Credo che i ribelli non esistano realmente nell'Albania; e credo che l'Italia si fermerà a Valona. E credo anche che Valona non correrà alcun serio pericolo, perché gli albanesi hanno fucili, ma non hanno cannoni. Non esiste nel vero senso della parola una Albania; gli albanesi sono divisi per ragioni di razza e per ragioni di tribù, per cui un movimento organico contro l'Italia non sarà, io penso, da temere.
Un punto che noi dobbiamo considerare è la Svizzera; punto secondo ma abbastanza oscuro. È vero che possiamo ritenerci un po' rassicurati per il fatto che il presidente della Confederazione è in questo momento un italiano, in ogni modo è certo che lo stato d'animo dei tedeschi della Svizzera è inquietante. La voce della razza parla più forte della voce dell'unità politica; si fondano delle leghe, si diffondono opuscoli che dicono: « Restiamo Svizzeri », si va cercando l'anima svizzera, ma credo sia difficile trovarla.
Ad ogni modo è certo che agli articoli del Popolo d'Italia si fanno dei commenti aciduli. Nel complesso si può dire che nella Svizzera tedesca si è sviluppato un movimento pangermanista che dimostra aperte simpatie per gli imperi centrali.
Così uno scrittore svizzero, lo Zahn, pubblica una ode ed ha inviato denaro per la Croce Rossa germanica.. Una personalità politica di Basilea ha mandato alla Frankfurter Zeitung informazioni sulle truppe e sulle difese svizzere.
Il romanziere Schaffner di Basilea è andato a Berlino a inneggiare alla Germania e a cantare il Deutschland iiber alles in pubblico comizio.
Lo scrittore Schaffner ha pubblicato nel Neues Deutschland che la Svizzera deve uscire dalla sua neutralità per aiutare la Germania ed averne in compenso l'Alta Savoia, la regione di Gex e una parte della Franca Contea, per formare così una punta avanzata della Germania verso il mezzogiorno, preconizzando anche una alleanza coll'Austria onde la Svizzera possa arrotondarsi anche verso l'Italia.
La Neuè Ziircher Nachrichten è giunta fino al punto di insultare alla sventura del Belgio, dicendo. che la neutralità del Belgio sarebbe stata violata dallo stesso governo belga, ed ha chiamato il Belgio traditore della Germania, dicendo che questa aveva quindi pieno diritto di castigarlo.
Sono tutti documenti che val la pena di conoscere perché denotano uno stato d'animo che ci può preparare qualche sorpresa. La Svizzera si compone di 24 cantoni, di cui uno di lingua italiana, ma su quello non credo ci sia da fare molto assegnamento; del resto so che lo stato maggiore si preoccupa abbastanza di questa eventualità, che cioè la Svizzera lasci passare per amore o per forza le truppe del Kaiser, le quali si troverebbero pertanto subito in Lombardia.
In Italia c'è qualche moto di armeggii segreti: Biilow che va a colloquio con Giolitti, e Giolitti che diviene subito neutralista assoluto; il gran giornale torinese che dopo cinque mesi scrive un articolo nel quale conclude con queste parole sintomatiche: che forse tacendo, e non svalutando la preparazione militare saremmo in grado di « risparmiare tutto il sangue e molto denaro ».
Un altro sintomo è la massoneria: essa non è stata all'altezza della situazione in questi sei mesi di neutralità. Ci sono state circolari quasi clandestine; una associazione simile, avrebbe potuto fare qualche cosa di più.
Altra eventualità, eventualità poco lieta, è che Salandra si accorga del giuoco e mobiliti prima della riapertura della Camera che è fissata per il 18 febbraio; e sarebbe la guerra. Ora la guerra che trae le sue origini da una rivalità parlamentare è una guerra che bisogna sorvegliare attentamente perché è una guerra che può essere piena di sorprese.
Secondo me credo che in caso di guerra si debba lasciare la più ampia libertà allo Stato Maggiore. Gli avvocati che fanno della politica dovranno tacere, perché si perdono tutte le guerre durante le quali esiste una rivalità fra l'autorità politica e l'autorità militare. Ma è possibile che Salandra faccia allora una guerra diplomatica, faccia la guerra per evitare il ritorno di Giolitti, per consolidare la sua posizione, e faccia una guerra diplomatica, magari di accordo con la Germania. La Germania, in fin dei conti, è governata da una cricca di cinici, da gente che giustifica tutto; da gente che ha definito i trattati un pezzetto di carta che si possono gettare nel cestino quando faccia comodo. Niente di più probabile dunque che se domani l'Austria si trovasse nella posizione più critica, nella posizione la più disperata, la Germania la abbandoni al suo destino e consenta all'Italia il possesso di Trento e forse dell'Istria.
L'Austria accetterà il fatto compiuto? Non lo credo, ma sarà un'altra guerra a scartamento ridotto. Finalmente c'è l'ultima eventualità: è la nostra, la guerra al blocco austro-tedesco, la guerra alla Germania.
È bene anzi polarizzare il sentimento popolare contro la Germania.
Non spetta a noi dire in che modo la diplomazia o il governo possono trovare il casus belli; noi diciamo solo che non lo si deve trovare per strade oblique. Non è escluso del resto che noi si possa creare un fatto compiuto inesorabile; il fatto compiuto che porrà l'Italia al bivio, o mortificarsi fino all'inverosimile, o scendere in armi.
Guerra alla Germania, perché è nel nostro interesse di socialisti e di rivoluzionari di fiaccare la Germania. Concludendo, questa adunanza deve chiedere la denunzia del trattato della Triplice come primo passo alla mobilitazione ed alla guerra. Altrimenti se il trattato vige ancora, voi avete già visto come lo si può tirare da tutte le parti; prima ci vincolava ad intervenire a fianco dell'Austria e della Germania, e fummo tacciati di traditori quando venne dichiarata la neutralità; oggi esso prova che noi abbiamo il dovere di rimanere neutrali. Dunque i trattati si interpretano secondo la lettera, secondo lo spirito, secondo la convenienza di coloro che debbono interpretarli. Necessita esigere dunque là denuncia esplicita del trattato della Triplice; forse questo può essere il casus belli. Noi non siamo diplomatici, ma è certo che se l'Italia denunciasse il trattato della Triplice, la Germania ci chiederebbe. spiegazioni; e se contemporaneamente a questa denuncia ci fosse la mobilitazione contro l'Austria e la Germania insieme, noi potremmo arrivare a quel punto in cui la soluzione delle armi si imporrebbe. Per noi il casus belli c'era magnifico e solenne: era quello costituito dalla violazione della neutralità del Belgio; l'Italia doveva intervenire allora in nome del diritto delle genti, in nome della sua stessa sicurezza nazionale. Non ha potuto farlo perché era inerme, ma noi siamo sempre in dovere ed in diritto di chiedere conto alla monarchia italiana dei 18 miliardi da essa impiegati per le spese militari dal '61 ad oggi.
Insomma, bisogna decidersi: o la guerra o se no finiamola con la commedia della grande potenza. Facciamo delle bische, degli alberghi, dei postriboli e ingrassiamo. Un popolo può anche avere questo ideale. Ingrassare, è l'ideale della zoologia inferiore; ma se vogliamo veramente finirla con queste miserie, dovremo fare la rivoluzione contro la monarchia imbelle, la quale si alleerà necessariamente coi socialisti. Essa dirà: se ho mantenuta la neutralità lo ho fatto per voi: e li ricatterà.
Ma in quel momento si troverà forse ancora il chilometrico ordine del giorno in cui si cercherà di conciliare l'inconciliabile.
In fondo, la classe operaia tedesca ha sposata la causa del militarismo prussiano; ed allora, o amici, cade questa obbiezione capitale dei neutralisti: voi socialisti italiani vi preparate a commettere quel delitto che rimproverate ai socialisti tedeschi. Noi intanto contestiamo ai socialisti tedeschi di dirsi socialisti ancora: il patto dell'Internazionale ha valore solo quando è sottoscritto e rispettato da tutti i contraenti, ma quando i primi a spezzarlo sono i tedeschi, gli italiani non hanno più l'obbligo di mantenere la fede a un patto che può significare la nostra rovina.
È un fatto però che l'Italia « è ancora legata alla Triplice ». Questo è un governo di pusillanimi, poiché la denunzia del trattato della Triplice non significa la dichiarazione di guerra, e nemmeno la mobilitazione. Ma intanto si dimostrerebbe che il popolo italiano rivendica la sua indipendenza d'azione in questo periodo storico.
Dire che noi faremo la rivoluzione per ottenere la guerra, è dire una cosa che non potremo mantenere. Non ne abbiamo la forza. Noi ci troviamo di fronte a coali zioni formidabili; ma i fasci d'azione hanno appunto questo scopo: creare lo stato d'animo per imporre la guerra. Domani l'Italia non farà la guerra e allora fatalmente si determinerà una situazione rivoluzionaria; i malcontenti sbocceranno dovunque; quelli stessi che oggi sono neutralisti, quando si sentiranno umiliati nella loro qualità di uomini e di italiani, chiederanno conto ai poteri responsabili, ed allora sarà la nostra ora. Allora noi faremo la nostra guerra. Noi allora diremo alle classi dominanti, alla monarchia, neutrale: voi non siete stata capace di adempiere al vostro compito; voi ci avete mistificati nei nostri sentimenti, avete annientate le nostre aspirazioni. Il vostro cómpito primo era quello di integrare l'unità della patria; voi non dovevate ignorarlo, ad ogni modo vi è stato segnalato da tutte le frazioni della democrazia, in particolar modo dal partito repubblicano. Sarà questo un processo che terminerà con la condanna certamente; condanna che non potrà non essere capitale. E forse allora noi usciremo da questo periodo della nostra storia in cui sentiamo di essere angustiati; ogni giorno sentiamo che c'è qualche cosa in questa Italia che non funziona; in questo ingranaggio statale c'è qualche dente che stride, qualche ruota che non cammina; il paese è giovane ma le forme sono vecchie. Ed allora se è lecito citare ancora Carlo Marx, il vecchio pangermanista Carlo Marx, quando si delinea un conflitto tra forze nuove e forme vecchie, ciò significa che il vino nuovo non può più essere contenuto negli otri vecchi e l'inevitabile sarà compiuto.
Le forze vecchie della vita politica e sociale d'Italia andranno in frantumi.

(Applausi vivissimi e prolungati).




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Avamposto
29-07-10, 12:51
LE FORZE VIVE ROVESCERANNO QUELLE MORTE


La sera del 15 marzo 1915, una colonna di interventisti, reduce da un comizio tenutosi a piazza del Duomo, si reca sotto le finestre de Il popolo d’Italia per acclamare a Benito Mussolini che risponde con le parole qui riportate




Vi ringrazio della manifestazione di simpatia che avete voluto fare al giornale e che sperde l’impressione incerta che io ho avuta assistendo per un’ora alle dimostrazioni avvenute in piazza del Duomo. Non è dunque vero che Milano sia neutrale, come si va dicendo.
Noi dovremmo vergognarci di dimorare nella città che seppe gli eroismi delle Cinque Giornate se oggi non sapessimo opporci ai nemici di ieri e di oggi. Siamo stanchi di attendere. E’ tempo che la diplomazia cessi i suoi intrighi e lasci parlare le baionette colle quali noi vogliamo affermare i nostri ideali di patria e di umanità. Non vogliamo mercati diplomatici, non vogliamo essere umiliati da compromessi o transazioni stipulate nei segreti gabinetti delle diplomazie.
Il ’66 non deve ripetersi!. Non si ripeterà. Noi vogliamo precipitare la soluzione, rompere gli indugi. A Roma,il grosso ragno teutonico, diplomatico 420, sta tessendo la sua tela insidiosa, ma il popolo italiano non gli lascerà compiere l’opera. Noi rinnoviamo il nostro dilemma: o la guerra per la nazione e per la civiltà, contro l’oppressione e la barbarie, o la guerra all’interno. Se le forze del passato, si chiamino esse Monarchia, Papato, Conservazionismo, non ci lasceranno libero il passo, ebbene, le forze vive rovesceranno le forze morte, i giovani si sostituiranno ai vecchi e un grande moto di riscossa necessario e fatale riscatterà l’Italia in faccia al mondo


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Avamposto
29-07-10, 12:51
IL POPOLO DEVE IMPORRE LA GUERRA!


A Milano, la sera del 24 marzo 1915, un migliaio d’interventisti, reduci da una conferenza del deputato belga Destre, si recano in via Paolo da Cannobio, chiedendo con insistenza e con alte grida di “Viva il Popolo d’Italia, che parli Benito Mussolini. Il quale pronuncia il discorso qui riportato



Cittadini di Milano!
Vi ringrazio di questa vostra manifestazione che non va a me, piccolo soldato di una grande causa, ma al giornale che rappresenta la parte migliore del popolo nostro. L’Italia è stufa di una neutralità abbietta e disonorevole; noi assistiamo nauseati alle piccole schermaglie elettorali di tutti i partiti di conservazione, mentre suo Carpazi nevosi si decide forse la sorte di una immane contesa e la regina delle fortezze austriache è smantellata e forzata ad arrendersi.
Saranno dunque i piccoli popoli balcanici che affermeranno con il loro sangue il diritto delle genti? Sarà ancora l’Italia la terra dei morti del Lamartine? (No! No! - grida la folla - vogliamo la guerra!).
L’Italia deve essere e sarà, malgrado tutto, la terra dei volenti e dei violenti anche, se sarà necessario. Occorre dimostrare in modo tangibile la nostra solidarietà con il Belgio, il cui sacrificio ha significato la salvezza della civiltà latina. Se questa piccola nazione avesse accettato di compiere il mercato propostole, le orde teutoniche sarebbero giunte in pochi giorni a Parigi e a quest’ora sarebbero a Milano.
Orbene il popolo deve imporre la guerra per dare un’anima umana all’Italia a costo di qualunque terribile sacrificio:parli la spada, abbasso Bulow, viva il Belgio!
(La folla risponde con un applauso clamoroso e prolungato, gridando “Viva la guerra! Viva Mussolini! Viva il Belgio! Abbasso la Germania!)


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Avamposto
29-07-10, 12:52
L'ESEMPIO DEI GARIBALDINI

Discorso pronunciato a Milano, in largo Cairoli, dinnanzi al monumento a Garibaldi, la sera del 31 marzo 1915, durante una manifestazione interventista organizzata dal Fascio d'Azione Rivoluzionaria e dalla sezione repubblicana milanese.



Noi ci sentiamo indegni, finché l'Italia resterà neutrale, di raccoglierci intorno al monumento consacrato all'Eroe dei Due Mondi. Il tempo delle decisioni non può essere lontano. Troppo abbiamo aspettato. I garibaldini caduti nelle Argonne hanno dimostrato al mondo intero che gli italiani sanno battersi e sanno cadere - come Bruno e Costante garibaldi - cogli occhi e il petto rivolti al nemico.
Cittadini!
Il monito che Milano esprime colla imponente dimostrazione di stasera, dovrà essere finalmente raccolto. Ai piedi di questo monumento noi riaffermiamo, ancora una volta, la nostra volontà di guerra. Abbasso l'Austria e la Germania! Viva la guerra di liberazione!


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Avamposto
29-07-10, 12:52
ABBASSO GIOLITTI

Discorso pronunciato a Milano, in via Paolo da Cannobio, la sera dell’11 maggio 1915, davanti a circa ventimila interventisti.




Cittadini!
Io condivido pienamente la vostra indignazione profonda per le notizie pervenute da Roma. Sembra che, complice Giovanni Giolitti, si mercanteggi nel modo più abbietto, l’avvenire dell’Italia.
Cittadini!
Permetteremo noi che il turpe mercato si compia?
(Coro unanime: No! No!)
Permetteremo che – secondo le notizie che giungono da Roma, si riesca a rovesciare il ministero calandra, ad evitare l’intervento che, solo, può compiere i destini dell’Italia?
(Voce formidabile: No! No!)
Cittadini!
Se l’Italia non avrà la guerra alle frontiere, essa avrà fatalmente inevitabilmente la guerra interna! E guerra interna vuol dire la Rivoluzione che… (interrotto dalla censura sotto forma di un primo squillo di tromba che è accolto da una vera salva di fischi. Un secondo squillo, a brevissima distanza, provoca una violenta reazione della folla. Si grida, si canta l’inno di Mameli si fischiano i poliziotti troppo zelanti).
Cittadini!
Gridiamo ancora una volta qui: evviva la guerra liberatrice! Abbasso Giolitti!
(Gli squilli continuano. I carabinieri caricano la folla verso il corso Romana; ma l’immensa fiumana resiste e soltanto lentamente si allontana, continuando ad applaudire al Popolo d’Italia).


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29-07-10, 12:53
O LA GUERRA O LA RIVOLUZIONE!

Discorso pronunciato a Milano, in piazza del Duomo, il pomeriggio del 13 maggio 1915, durante una imponente manifestazione interventista.




Lo spettacolo che offre oggi l’Italia, se da un lato ci umilia per il mercato ignobile a cui si presta una parte dei suoi pretesi rappresentanti, dall’altro ci conforta per le vibranti e formidabili manifestazioni di sdegno che il complottato tradimento ha suscitato.
Non è dunque ancora tutto putrido, tutto falso, tutto giolittiano!
Ci sono ancora delle forze vive che non rinunziano all’onore, alla dignità, all’avvenire!
Le dimostrazioni di questi giorni costituiscono un monito che non si presta ad equivoci; esso è diretto principalmente al re. Se voi, o monarca, non vi servirete dell’articolo 5 dello Statuto proclamando la guerra contro i nemici della civiltà europea, se voi vi rifiutate, ebbene voi perderete la corona. (Ovazione interminabile).
Non è lecito né possibile tornare indietro, il dado è tratto, la guerra c’è ormai in ogni coscienza, domani sarà affidata alla forza dei fucili.
Proponiamoci a lottare con ogni mezzo fino a che il pericolo del tradimento parlamentare non sarà scomparso. Occupiamo ancora le piazze. E se domani malgrado le cospirazioni dei profeti della vigliaccheria nazionale, i tedeschi marceranno su Milano, giuriamo tutti di trasformarci in franchi tiratori e di massacrare i massacratori del Belgio.
Nessuna esitazione e nessun senso di pietà: il popolo tedesco si riscatterà di fronte al nostro giudizio sol quando avrà cacciato il Kaiser e tutti i suoi innumerevoli successori.
E in quanto all’uomo nefasto che entrò nella vita pubblica come ladro e falsario (grida di “abbasso Giolitti!”) non preoccupiamocene ulteriormente! Egli è un cadavere che non può soffocare la nostra vita, la nostra volontà di vivere. Soffocate il nostro sdegno contro di lui con il duplice grido di :Viva la guerra! Viva la rivoluzione!

(Una interminabile ovazione fa eco alle ultime parole del vibrante discorso di Benito Mussolini)



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29-07-10, 12:53
VIVA LA GUERRA LIBERATRICE!

Discorso pronunciato all’Arena di Milano il pomeriggio del 16 maggio 1915, nel corso di un comizio di centomila persone che invocavano l’intervento dell’Italia.




L’imponenza della folla e il luogo dove questo comizio si svolge mi ricordano una altro comizio che or è un anno noi tenemmo qui. Era la stessa folla, io la riconosco; la stessa folla di questa Milano generosa protestava allora contro un eccidio. Giusta protesta, e quelli che in questo momento stanno vellicando gli istinti egoistici delle masse non pensarono che quella protesta avrebbe portato nuove lotte e nuovi lutti. (A questo punto una squadra di qualche centinaio di giovani molti dei quali garibaldini rientrano trionfanti, cantando ad alta voce l’inno di Mameli. E’ una specie di guardia che ha sgominato la sparuta schiera di neutralisti che prima era comparsa sugli spalti dell’Arena; li accoglie naturalmente un applauso fragorosissimo).
Cittadini! Proletari!
La solidarietà giusta ed umana che noi chiedevamo l’anno scorso per i trucidati di Ancona e quella stessa che noi chiediamo oggi, nel 1915, per tutti i trucidati del Belgio e della Francia. Perché questo internazionalismo cinico, mercantile e cooperativizzato, questo internazionalismo che non vede altro che il circolo vinicolo, che non legge se non un giornale, che ignora che oltre il limite ristretto del villaggio c’è qualcosa che si chiama Italia, che oltre le frontiere d’Italia c’è qualcosa che si chiama Europa, che oltre l’Europa c’è il mondo, questo internazionalismo non ha più posto in Italia, per essere veri internazionalisti bisogna soffrire più per gli spasimi degli altri che per i nostri medesimi.
(Grande ovazione)
L’Internazionale nacque a Londra per un patto di solidarietà nazionale. C’era la Polonia insanguinata da Muraview, ed i socialisti di allora proclamarono che la Polonia doveva essere libera e indipendente, e forse il vaticinio si realizzerà domani; domani il Belgio sarà redento, la Franci a liberata, la Polonia liberata.
O cittadini!
Tutto questo sarà se la Triplice Intesa vincerà; ma avete mai pensato che cosa significherebbe la sconfitta della Triplice Intesa? Avete mai pensato che questa sconfitta significherebbe il trionfo del Kaiser e del militarismo pangermanista?
Si votano gli ordini del giorno di plauso e di simpatia più o meno platonica, ma per contribuire alla vittoria della Triplice Intesa ci vogliono braccia, baionette e cannoni.
Cittadini! Proletari!
Nessuno di noi è favorevole alla guerra per la guerra, nessuno di noi è favorevole all’omicidio per l’omicidio, ma se il più pacifico dei cittadini di Milano si troverà aggredito all’angolo di una strada, si difenderà fino all’estremo. Ebbene, tutto un popolo fu aggredito, e voi italiani assisterete inconsci a che questo delitto si compia? Io mi inchino al dolore delle madri, io rispetto questo dolore, ma dico a queste madri: donne d’Italia, se avete un cuore nel petto dovete pensare non a voi sole: vi sono migliaia e migliaia di madri che hanno avuto i bambini con le mani mozzate; e se voi ritrarrete i vostri uomini da questa guerra liberatrice risparmierete il vostro pianto, ma farete piangere milioni di altre madri in tutta Europa. (Grandi applausi).
Voi dovete sentire che questa non è guerra di conquista, non guerra di rapina, ma semplicemente guerra di liberazione, che, se non la faremo oggi, saremo costretti a farla domani in condizioni terribili perché nessuno ci aiuterà.
Cittadini!
Noi abbiamo vinto una prima battaglia: il ministero Calandra resta al suo posto e quindi si farà la guerra ; ma noi dobbiamo vigilare ugualmente perché non vogliamo una guerra di stato, ma una guerra di popolo; non vogliamo una guerra dinastica, ma una guerra nazionale. E vogliamo che sia guerra condotta a fondo, che ci risparmi le vergogne del ’66. (Applausi vivissimi). E per questo, o cittadini, mentre gli avvenimenti precipitano, noi, io per il primo, soldati d’Italia, andremo alle frontiere a fare il nostro dovere. Il giorno in cui le baionette italiane passeranno per il Ring di Vienna, suoneranno le campane a morto per il Vaticano (Un uragano di applausi e di grida “abbasso il Vaticano”salutano le vibrate parole).
Cittadini!
Con un cuore solo, con una speranza sola questa guerra è destinata a liberarci da tutte le turpitudini all’interno, da tutti i nemici all’estero, e quando avremo vinto ritorneremo a tessere la nostra tela per l’Internazionale futura, a condizione però che non ci siano più popoli oppressi e popoli oppressori. Date il vostro contributo, o cittadini; date i vostri petti, o uomini; date la vostra fede, le vostre speranze, o donne; e voi, o fanciulli, crescete nel più puro amore per ogni causa di verità e di giustizia nell’odio più profondo contro ogni oppressione ed ogni barbarie. Viva la guerra liberatrice!



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Avamposto
29-07-10, 12:54
MORTI SI, MA SCHIAVI NO, SCHIAVI MAI!

Discorso pronunciato a Milano, al teatro della Scala, la sera del 20 novembre 1917, durante una manifestazione patriottica in onore dei soldati francesi e inglesi indetta dall’Associazione nazionale fra mutilati e invalidi di guerra.




l’Associazione nazionale fra mutilati e invalidi di guerra mi ha fatto l’altissimo onore di scegliermi quale delegato a portare il saluto ai fratelli d’armi; altissimo onore – dico – perché a nessuno di noi è ignota l’opera mirabile dei mutilati che, stroncati, feriti, hanno ancora l’energia di accorrere contro l’odiatissimo nemico. (Applausi vivissimi).
Sono lieto di salutare i soldati francesi e la Francia che noi amiamo e che, forse, giudicammo qualche volta male, attraverso uomini che erano solo espressioni di tendenze parlamentari. (Nuovi vigorosi applausi). La Francia ha dimostrato una vitalità possente. Quando la Germania, che premeditava la guerra, l’ha presa alla gola, la Francia tutta è sorta in piedi e ha gridato: “No Kaiser! Tu non arriverai a Parigi!” E a Parigi non arriverà mai! (Vivissime acclamazioni, grida di “Bene! Bravo!”).
E amiamo l’Inghilterra la quale ha operato il miracolo di creare un esercito che non cede, tenace, e non cederà fino alla vittoria completa.
Ma poi permettetemi di salutare il rappresentante del Belgio che noi adoriamo per questo semplice ma grande motivo: ha scelto il martirio piuttosto che il mercato. (Applausi calorosi, replicati).
Ed ora veniamo a noi che viviamo la passione nostra più grande. Oggi abbiamo sofferto, ma non piegato. Se fossimo stati un popolo malato, fradicio, saremmo, a quest’ora, in fondo all’abisso!
Noi avremo il coraggio, non qui, ma in altra occasione, di fare il nostro esame di coscienza, di ficcare lo viso in fondo nella ferita che ci fu inferta. Ebbene, io vi chiedo, ora, con le attenuanti per i nostri soldati perché li ho visti battersi, soffrire in silenzio, morire! Chi ha visto il Carso, chi ha assistito ai mirabili sforzi compiuti su la nostra fronte, non può, non deve disperare del valore dei soldati d’Italia! (Lunghissima ovazione. Grida di “Viva l’Esercito! Viva i mutilati!”).
Non è il caso di indagare le cause di questa nostra crisi perché dovrei andare molto lontano e… molto vicino. (Approvazione). La Russia ci ha danneggiato, non perché i suoi soldati non si battevano più, ma per l’ondata di gas asfissianti pacifisti che da essa si è sprigionata. (Applausi).
I soldati d’Italia si riprendono, (…censura) In nove giorni i tedeschi non hanno passato il fiume e non lo passeranno più! (Applausi vivissimi. Molte voci si levano dal pubblico “Non passeranno!”).
Dal momento ch’è presente un membro del Governo nazionale, gli voglio dire: Siate all’altezza del momento! Bruciate della nostra passione! Non dateci delle frasi, dateci dei fatti… Dite al Governo che il popolo di Milano è disposto agli ultimi sacrifici, a tenere, a resistere, è disposto a rinnovare il giuramento: “Non tregua al Barbarossa”. (Applausi).
Parta da questa assemblea l’espressione della nostra ferma fede. Noi prenderemo l’Italia come nel maggio glorioso del 1915.
Facciamo ora questo giuramento:” Morti sì, ma schiavi no, schiavi mai!”
Lo giuriamo!


(Una vera ovazione corona il vibrante discorso di Benito Mussolini. Il pubblico lancia fiori sul palcoscenico).


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Avamposto
29-07-10, 12:55
L'ITALIA E' IMMORTALE

Discorso pronunciato a Roma, all'Augusteo, la mattina del 24 febbraio 1918, durante una manifestazione patriottica indetta dal comitato nazionale dei mutilati di guerra per invitare la nazione alla resistenza. Prima di Mussolini ave vano parlato i mutilati, tenenti Fulcieri Paulucci di Calboli e Cipriano Facchinetti, il sen. Prospero Colonna, sindaco di Roma, ed il sen. Antonino Di Prampero.





C'é forse, fra di voi, qualcuno che ricorda un comizio interventista che tenemmo tre anni fa in una delle piazze di Roma ? Fummo di-spersi dalla polizia, ma avevamo ragione. Noi passammo, e la storia passó, con noi!
Tre cittá fecero la storia. Non importa. Sono le cittá che fanno la storia ; i villaggi si contentano di subirla.
Noi, dopo tre anni di guerra, nonostante Caporetto, rivendichiamo altamente e solennemente tutto ció che di profondo, di puro, di immortale si ebbe nelle giornate di maggio.
Ricordate ! Fu appunto nel maggio 1915 che l'Italia non ebbe paura 'di saper vivere, perché non ebbe paura di saper morire
Ma allora noi commettemmo un grande errore, che abbiamo poi duramente espiato. Noi, che avevamo voluto la guerra, noi dovevamo impadronirci del potere!
(Applausi scroscianti da tutta l'assemblea).
Il popolo italiano - il quale non é la plebe che si ubriaca nelle cantine, perché non per nulla siamo stati politi e raffinati da venti se-coli di storia, - il popolo italiano ebbe allora l'oscura intuizione dei pericoli che minacciavano la sua missione [.... censura].
Nel maggio 1915 la Nazione tutta offerse un materiale umano meraviglioso. Noi, gente dell' 84, quando varcammo la gola dell'Alto Isonzo, pensammo che essa non.doveva mai, mai piú, essere oltrepassata dai tedeschi. Noi, quando giungemmo oltre, ad una voce gri-dammo: « Viva l'Italia !». (Applausi formidabili da tutta l'assemblea. In piedi, il pubblico fa una lunga ovazione, ripetendo : « Viva l'Italia ! »).
Era un materiale umano meraviglioso quello che noi allora con-segnammo a gente che faceva la guerra come si fa una corvée penosa, piú tediante delle altre.
Noi consegnammo questo materiale per una guerra che dopo venti secoli era la prima guerra del popolo italiano, a gente che non poteva comprenderla. A gente che rappresentava il passato, a burocratici che hanno versato molto, troppo inchiostro sulle piaghe vermiglie del popolo. Abbiamo consegnata questa nostra guerra a dei superficiali, a dei leggeri, a persone che oggi si adagiano nel « fatto nuovo. ».
Ma noi siamo qui a dirvi : « Signori, i tedeschi sono sul Piave ! Signori, i tedeschi hanno abbattuto una porta del Veneto e stanno stringendo l'altra porta! E' tempo di vedere se i nostri cuori sono di acciaio!» (Applausi entusiastici).
Io li ho visti, questi soldati, perché ho vissuto tra loro, soldato semplice, la vita del soldato semplice. Li ho visti in tutte le piú diverse contingenze della vita militare. Li ho visti nelle caserme, nelle tra-dotte mentre si andava alla fronte, nelle trincee,..nelle caverne sotto il bombardamento, quando tutti si chiedono se il rimbombo finirá una buona volta, quando le granate piovono, piovono a morte. Li ho visti quando tutti i cuori sono sospesi, perché si attende che l'uf-ficiale dica: « Fuori dalla trincea ! ». Io li ho visti questi figli d'Italia, e vi dico che non sono stati dei soldati, ma dei santi e dei martiri !(Scoppia un applauso generale, fragoroso. Il pubblico, elio aveva seguito in un silenzio commosso l'oratore, si leva in piedi acclamano).
Come dunque é avvenuto Caporetto ?
Guardiamo nella nostra coscienza, facciamo il nostro esame, il nostro coraggioso esame di coscienza, di grande popolo.
Ah I sl. Ci puó essere stato, in un primo tempo, il fatto militare; ma in un secondo tempo, no ! Nel secondo tempo siamo dinanzi ad una allucinazione gigantesca. (Applausi).
Erano passate delle grandi parole attraverso gli orizzonti. Erano giunte dalla Russia le formule salvatrici e da Roma era partito un giudizio negativo e feroce, quando si disse che la guerra era una « inutile strage ! » (Applausi. Grida : [.... censura]).
Voi non lo immaginate il turbamento profondo che questo giu-dizio deve aver provocato nella coscienza della moltitudine. E, come non bastasse, ecco giungere dal Parlamento, senza che in quel momento nessuno avesse avuto il coraggio di fare giustizie sommarie, un'altra parola sacrilega : « Il prossimo inverno non piú in trincea ». (Applausi. Grida formidabili contro Treves).
Ed ora, infatti, non siamo piú in trincea oltre l'Isonzo, ma al di qua del Piave ! (Applausi. Grida : [.... censura]).
Tutto ció fu il prodotto di una menzogna che era alla base della nostra vita nazionale.
Si era detto : « Libertá politica !». Ah ! libertá di tradire, di assassinare la Patria, di far versare piú sangue, come ha detto un uomo che oggi in Francia esercita le funzioni di grande chirurgo. (Applausi generali, fragorosi. Si grida : « Viva Clemenceau !»).Questa libertá politica é paradossale. É criminoso pensare che si requisiscano, si vestano, si armino, si manclino a farsi uccidere degli uomini, ed a questi uomini si neghi ogni libertá di parola o di protesta e si puniscano terribilmente i soldati ad ogni minimo atto o parola non consona all'ordine avuto; e contemporaneamente, indietro, nelle conventicole segrete, nei circoli degli alcolizzati abbrutiti, nelle sagrestie, si permetta di preparare le azioni e di pronunciare le frasi che assassinano la gúerra ! (Grandi applausi. Approvazioni generali. Il pubblico é tutto in piedi).Si sono fatti sul corpo della Patria dei calcoli demagogici ed elet-torali ! (Grandi applausi).
Ma, dopo il 24 ottobre, non avete sentito voi stessi che c'era qualche cosa di mutato in noi, come collettivitá e come individui ? Non avete sentito che l'avvoltoio vi aveva strappato le carni e conficcato gli artigli nelle ferite vermiglie ? (Applausi). Non avete compreso che si ritornava indietro, al '66 ? Non vi rendete conto del pericolo che il '66 militare sia accompagnato da quella manovra diplomatica che non abbiamo ancora espiato ? (Applausi).
La Patria non si nega. Si conquista ! (Ovazione generale, calorosa). Prendete esempio da quello che succede in Russia. Dicevano i saggi latini che la natura non fa salti. Io non prendo alla lettera questo detto. Credo, anzi, che talvolta la natura faccia qualche salto. Ma in Russia ne hanno voluti fare troppi. hanno abbattuto lo czarismo, per costituire la Repubblica democratica di Rodzianco e di Miljukoff. Era giá un gran passo ; e trascuriamo l'intermezzo del granduca Michele. Ma insoddisfatti di questa Repubblica, hanno vo-luto renderla ancora piú sociale, ed hanno chiamato Kerensky. Kerensky se ne é andato, perché era un dittatore di cartone (si ride); ed ecco nuova gente che vuol fare il salto piú difficile, sempre piú difficile. Ah ! Ma adesso i tedeschi sotto la maschera del futuro pseudo-demo-cratico hanno rivelato i loro ceffi brutali e barbarici di annessionisti.. A Pietrogrado si dice : « Tutti i cittadini debbono costruire trincee, e coloro che saranno trovati in atteggiamenti sospetti di vagabondaggio e di spionaggio, saranno fucilati senz'altro ».
Ma intanto i tedeschi avanzano e credo che obbediscano ad un triplice ordine di motivi
il motivo militare;
il motivo politico;
il motivo dinastico.
Credo che l'Hohenzollern si proponga di riporre sul trono il Romanoff.
Ebbene, io me ne infischio ! (Grande ovazione). Dopo che il popolo russo non ha saputo vivere in libertá, viva pure da schiavo ! (Applausi. Si grida : « Bene 1 ») Ma intanto la defezione russa accresce il nostro compito.
Non é tempo di piangere, di fare la politica dolce. Non é il tempo degli angeli in questa guerra demonica.
Io chiedo uomini feroci. Chiedo un uomo feroce che abbia della energia, l'energia di spezzare, la inflessibilitá di punire, di colpire senza esitazione, e tanto meglio, quanto piú il colpevole é in alto. (Grande ovazione. Tutto il pubblico, comprendendo le allusioni, si alza in piedi, acclamando).
Voi mandate al Tribunale di guerra il soldato semplice, carico di famiglia, pieno di preoccupazioni, ed al quale non avete mai insegnato che cosa fosse la Patria (applausi), perché ha trasgredito qualche ordine. Se voi conducete al muro questo soldato, io approvo, perché sono partigiano di una inflessibile disciplina. Ma voi non dovete fare due pesi e due misure. Se c'é un generale che contravviene al decreto Sacchi, colpitelo ! (Applausi). Se c'é un deputato che dopo l'esperienza di Caporetto torna a dire ancora che la guerra é un inutile macello, io vi dico che quello lo potete, lo dovete arrestare, punire, colpire ! (Ovazione).
Chi é stato al fronte, chi ha vissuto nelle trincee, sa che cosa vuol dire sull'animo dei soldati la lettura di certi discorsi e di certi resoconti. Il povero soldato della trincea si domanda : « Perché io debbo soffrire e debbo morire, se a Roma si discute ancora se la guerra si do-veva o non si doveva fare ? se a Roma, coloro che devono dirigere le cose d'Italia non sanno ancora se si fa bene o male a combattere ? ». Accademia deplorevole e criminosa é quella, o signori!
Ed ora, anche dopo Caporetto, anche dopo la disfatta, si permette ancora a della gente, a degli irresponsabili.... (gli applausi coprono la voce dell'oratore).
Dopo Caporetto sono ríspuntati degli uomini che noi credevamo di avere spazzati via per sempre !
Dopo Caporetto é rispuntato da Dronero (urla generali) l'apportatore di sciagure, e con lui molti altri sono usciti alla luce di questo nostro crepuscolo. Ma noi li abbiamo ricacciati ancora una volta nella terra, perché siamo ancora in piedi.
Si. Molti dei nostri compagni sono rimasti sul Carso e sulle Alpi. Ma noi ne portiamo la memoria sacra nel cuore.
Io penso allo strazio ineffabile di quei soldati della terza Armata
quando dovevano abbandonare il Carso. Penso che essi abbiano pianto, che abbiano domandato: «Per quale motivo, per quale mo-struosa forza, quale inopinata catastrofe ci costringe ad abbandonare questa pietraia?». Perché si finisce per amare il solco, la pietra, il fosso, la caverna dove si vive e si muore. Si ama il Carso, questa pie-traia punteggiata di piccole croci che segnano le tombe di coloro che sono caduti per la libertá della Patria nostra. (Applausi ripetuti). Si ama il Carso da cui si godeva la vista della riviera agognata, della riviera di Trieste nostra. (Ovazione). Noi portiamo ancora la fiaccola dei morti ben viva e splendente, la fiaccola di coloro che sono caduti in faccia al nemico. E noi non siamo mossi da idee di lucro. Vogliamo il riconoscimento esplicito, chiaro, che abbiamo fatto il nostro dovere ! Ed oggi siamo ancora sulla breccia per dire a questo popolo, caso mai lo avesse scordato : « Non si torna indietro ! ».
Non c'é possibilitá di scelta ! Arrovellatevi il cervello finché volete. Non c'é altro da fare ! Non si puó pensare ad altro !
Il giuoco é tale che dobbiamo continuare, perché non é possibile vi sia altra soluzione che questa : o vinti o vincitori ! E la posta é la vita o la morte della Nazione. Anche coloro che erano andati al potere col proposito di fare diversamente, di accomodare, hanno do-vuto ricredersi.
Non si torna indietro. Bisogna vincere !
L'esempio é venuto dalla Russia. I governanti russi hanno cre-duto appunto di tornare indietro, di fare la pace. Hanno discusso dei giorni, delle settimane, dei mesi, e non hanno concluso nulla, perché se il massimalismo aveva mandato degli avvocati piú o meno ele-ganti, la Prussia aveva mandato un generale, con l'elmo a chiodo e lo spadone lucente, che di tanto in tanto faceva battere sul tappeto, per-ché meglio si comprendesse quali erano le ragioni della Germania. Poi hanno accettata la pace. Ma la Prussia assetata di territorio, la Prussia dell'Hohenzollern insaziabile e implacabile, marcia nell'interno della Russia ed occupa territori!
Dunque, se c'é qualcuno che oggi non vuole la pace, che impedisce di parlare di pace, che vuole continuare la guerra, questo qualcuno non dovete ricercarlo tra i popoli, ma a Berlino, nella cricca di Hindenburg e di Ludendorff. Lá sono i nemici del genere umano e contro questi nemici non si sta in ginocchio ! Noi, stirpe latina, siamo in piedi! (Grande ovazione). Noi che volemmo la guerra e ci vantiamo di averla voluta, noi che non andiamo mendicando collegi elettorali, noi non seguiremo la viltá demagogica di chi vuole ingraziarsi la plebe. De-mocrazia non significa scendere al basso. Democrazia significa salire ! Significa elevare quelli del basso, in alto ! E allora per tutto il sangue che é stato versato e che noi non abbiamo dimenticato, sangue puro, giovane, sacro, puro come quello col quale gli antichi cristiani nelle catacombe facevano la comunione dei cuori, quando si incidevano sotto le ascelle e bevevano il sangue comune in un solo vassoio ; per tutto il sangue italiano versato, per-tutto quello che dovrá versarsi ancora, rinnoviamo il patto solenne della nostra fede, della certezza della vittoria.
No ! L'Italia non muore, perché l'Italia é immortale !(Salve di applausi calorosi accolgono la chiusa del discorso. Tutto il pubblico fa a Mussolini una commossa dimostrazione di stima e di metto. Molti si affollano intorno a lui e lo abbracciano).


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Avamposto
29-07-10, 12:55
I MOTIVI DEI PACIFONDAI AD OGNI COSTO

discorso pronunciato a Parma, la mattina del 3 marzo 1918, durante una manifestazione indetta dal comitato di resistenza interna in accordo con l'associazione dei mutilati invalidi e vedove di guerra.



Se Garibaldi poteva dire di non avere fra i suoi volontari dei contadini, Parma puó invece dire di avere dato molti volontari contadini. E questo r presenta socialmente un fatto nuovo e di importanza non trascurabile. Gli umili che combattono nelle trincee fangose sono consci di partecipare ad un'opera grandiosa che dará principio ad una nuova era nella Storia. I contadini sanno di essere gli attori di una grande tragedia che rinnoverá il mondo. E sono fieri dei sacrifici che compiono talché anche il piú umile montanaro, che abita sul piú scosceso declivo dove non arrivano gli occhi delle petulanze cittadine, tornando ferito al suo paese, non dimentica mai di fre-giarsi del distintivo della campagna e di quello della ferita. Questo ha un significato.
I lavoratori che con slancio affrontano oggi la morte, ben a diritto andranno domani fieri dell'opera compiuta ed esigeranno dalla societá borghese altri riconoscimenti verso il trionfo della giustizia sociale e della vera civiltá. Ma chi per gretto egoismo, per ignavia, per malvagio sentire, si apparta dalla vita difficile di cui vive la Patria, o chi, peggio ancora, approfitta indegnamente a solo vantag-gio personale, quello sará dichiarato domani fuori della legge comune e ritenuto indegno di vivere con gli uomini.
Il soldato che sta nelle trincee sa tutto questo perché non é un automa come qualcuno ha voluto far credere. La vita di trincea se puó talvolta infiacchire le energie fisiche, rafforza certamente lo spirito del cittadino. Quando in trincea non si combatte, si medita.
Chi vuole la pace oggi? Tutti - e governanti e popoli dell'Intesa - nel senso che nessuno pensa di prolungare la guerra un solo minuto di piú del tempo necessario per rendere innocua la follia di Pangermania. Ma chi vuole la pace a qualunque costo, la pace di de-dizione, la pace dell'infamia, la pace « umiliante » come abbiamo letto nel radio che Trotzky ha inviato a Berlino ? Mettiamo in prima linea, fra questi pacifondai, nuclei scarsi di umanitari in buona e in mala fede. Si tratta di gente che - o per educazione o per temperamento - aborre dalla violenza, dall'effusione del sangue. Ma questi umani-tari illusi dimenticano che con una pace prematura si risparmia un po' di sangue oggi, ma si corre il pericolo di farne versare molto di piú domani ; si abbrevia la guerra oggi, ma c'é il rischio di vederla ridivampare piú violenta e micidiale domani. Accanto a questi umanitari che colorano di teorie piú o meno iridescenti e captivanti il loro stato d'animo, ci sono i vigliacchi di tutte le specie; quelli che hanno la paura fisica o fisiologica della guerra in quanto pub toccare le loro persone, turbare le loro abitudini di cinico parassitismo, metterli allo sbaraglio, a uno sbaraglio. Questa categoria d'individui diventa molesta e detestabile, quando muove alla ricerca di motivi ideali o dottrinali, per spiegare o giustificare la propria pusillanimitá. Molte volte, levando il velo di tante professioni di fede neutralistica, umanitaria, cristiana, voi scoprite un'anima conigliesca, che respinge la guerra, ma per gli stessi motivi rifugge da qualsiasi sforzo o sacrificio per qualsiasi altra idea. La terza categoria della gente che vuole la pace ad ogni costo, che ha fretta, una fretta spasmodica di veder conclusa la pace, é costituita dai « nuovi ricchi ». Costoro, in modi piú o meno loschi, hanno riempito di carta monetarla i forzieri. Hanno inaugurato - nei limiti imposti dalle circostanze - un regime fastoso di vita. La guerra, prolungandosi e complicandosi e assumendo sempre piú nettamente gli aspetti di un cataclisma delle societá umane, assilla di punti interrogativi inquietanti l'anima dei nuovi ricchi. Essi vorrebbero avere una certezza, la « loro » certezza : la certezza del « pacifico » godimento delle ricchezze accumulate in un tempo favolosamente rapido e invece il mondo é ancora pieno d'incertezze e ancora tutto é in gioco cosí per le nazioni come per gli individui che le compongono.
Quarta categoria di pacifondai : gli imboscati. Cotesti signori che non sono mai stati in guerra, che hanno escogitato tutti i mezzi piú ignobili per non andare in guerra, sono terribilmente stufi della medesima. Il motivo delle loro impazienze pacifondaie é chiaro. Se la guerra continua, la Nazione dovrá rastrellare sino al limite del pos-sibile le sue riserve umane, dovrá dare colpi di scure sempre piú numerosi alla selva e allora sará finita la cuccagna degli imboscati, i quali, in nome della loro « incolumitá personale » salvata sino ad oggi, vorrebbero la pace immediata, che li salverebbe per sempre. Finalmente, i piú tenaci zelatori della pace immediata : sono gli agenti dei boches i complici della Germania, i neri, i rossi, i grigi, i kulturizzati, gli spioni, i contrabbandieri, i quali sanno che la pace, oggi, é inevitabilmente, fatalmente la pace del Kaiser ch'essi riveriscono nel segreto del loro cuore, ripromettendosi di prosternarglisi schiavi dinnanzi, a guerra finita.
Contro questa vasta mandra di disfattisti stanno gli altri, che non vogliono e non possono volere la pace ad ogni costo.
Sono i soldati, i nostri soldati, che non vogliono una pace d'ignominia e di schiavitú. Questo spiega perché, dopo Caporetto, si sono fermati per resistere fra Brenta e Piave. Sono i nostri mutilati, i nostri feriti, ai quali ripugna una pace imposta dal grande predone e assassino di Potsdam, perché sarebbe una pace di iniquitá e di ingiu-stizia. Sono le madri dei caduti che avrebbero amareggiato e avvelenato il loro dolore puro, per tutta la vita, se una pace vergognosa suggellasse l'inutilitá del sacrificio dei loro figli. Contro la pace ad ogni costo stanno, infine, tutti gli uomini liberi e ragionanti, che si rendono conto non solo dell'assurditá, ma anche della impossibilitá di una pace mendicata in ginocchio.
E allora, sentimento, raziocinio, interessi, ci indicano una dire-zione, ci dicono una sola parola : Resistere! Resistere, oggi, é giá vincere!


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Avamposto
29-07-10, 12:56
PER L’INTERVENTO AMERICANO

Discorso pronunziato alla manifestazione popolare milanese dell'8 (secondo l'Opera Omnia della Hoepli, mentre secondo quella de La fenice è il 7) aprile 1918.




Cittadini, il tempo non consente lunghi discorsi. Non parlo del tempo che chiamerò meteorologico, ma del tempo storico che da qualche settimana ha precipitato il suo ritmo. Oggi in tutta Italia si svolgono manifestazioni degne di questa ora unica nella storia del mondo. (Applausi).
A Pontida si reca la gente bergamasca a rinnovare il giuramento che già la Lega dei Comuni lombardi fece sette secoli fa quando scese in campo contro il Barbarossa; a Roma una imponente dimostrazione di popolo va all'ombra delle mura auguste del Colosseo; qui il popolo di Milano esprime con la sua moltitudine e con il suo entusiasmo tutta la simpatia profonda e ardente che sente per la nobile democrazia americana. (Grandi acclamazioni).
Si compie un anno, oggi, dal giorno in cui l'America, dopo aver lealmente atteso che la Germania tornasse alla ragione, snudò la spada e scese in campo. (Applausi).
Seimila leghe di oceano non hanno trattenuto gli Stati Uniti dal compiere il loro preciso dovere. L'importanza dell'intervento americano non sta già solamente nel fatto che l'America ci dà e ci darà munizioni, uomini e provvigioni. Vi è qualche cosa di più profondo che dà un senso di più intima sicurezza alla nostra coscienza di
uomini e popoli civili. L'America non avrebbe mai sposato la nostra causa se non avesse avuto la ferma, assoluta convinzione che si trattava realmente di una causa giusta e santa. (Applausi).
Cittadini, è per noi un orgoglio e una soddisfazione trovarci in buona compagnia, trovarci insieme con 23 popoli che lottano contro il barbaro militarismo prussiano, ma deve essere anche una soddisfazione per gli Stati Uniti trovarsi a fianco di una Inghilterra potente e grande, che non trema per variare di vicende militari, accanto a una Francia che è semplicemente sublime nel suo eroismo (grandi applausi) e anche accanto all'Italia, alla nuova Italia che ha preso decisamente il suo posto nella lotta mondiale. (Applausi fragorosi).
Come l'Italia ha scoperto l'America, così l'America ed il nuovo mondo devono scoprire l'Italia, non solo nelle sue grandi città fervide di vita e sonanti di industrie, ma anche nelle campagne dove la più umile gente attende con rassegnazione tranquilla che l'ora della pace vittoriosa e giusta sorga sull'orizzonte.
Non ci può essere più nessuno in buona fede, nemmeno l'ultimo oscuro cervello che possa ritenere o pensare che non è la Germania che ha voluto la guerra e che non è la Germania che vuol continuare la guerra per ridurre tutto il mondo in una orribile caserma prussiana. (Acclamazioni).
Tutto ciò è nella nostra coscienza e nella coscienza del popolo degli Stati Uniti, di un grande popolo che conta cento milioni di abitanti, dispone di riserve immense e si è già sottoposto ad una magnifica disciplina guerresca.
Un episodio lontano mi torna alla memoria: quando Cristoforo Colombo mosse la prora delle sue tre povere caravelle verso lidi non ancora esplorati e spiaggie lon tane, ci fu chi lo disse pazzo ed esaltato, e certamente durante i tre mesi di navigazione qualche volta il senso della disperazione discese nel cuore degli uomini sperduti in mezzo all'oceano ignoto. Ma un mattino la ciurma che era sopra coperta vide qualche cosa che si profilava all'orizzonte. Era una linea oscura, indefinita. La ciurma gridò: Terra, terra! E tre mesi di miserie, furono dimenticati nell'attimo consolatore.
Verrà giorno in cui dalle nostre trincee insanguinate e gloriose sorgerà un altro grido altissimo: Vittoria! Vittoria! (Acclamazioni).
E sarà la pace giusta per tutti i popoli, la pace del diritto per tutte le genti.
Cittadini, a nome del Comitato d'Azione fra mutilati ed invalidi di guerra, vi ringrazio per la vostra solenne manifestazione e v'invito a gridare: Viva l'America! Viva l'Italia! (Applausi )


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Avamposto
29-07-10, 12:57
LA VITTORIA FATALE

Discorso pronunciato a Bologna, al Teatro Comunale, il pomeriggio del 19 maggio 1918, in occasione della consegna della bandiera ai mutilati bolognesi





Combattenti! Signore! Cittadini!
Voi mi permetterete di sorvolare, senza indugio soverchio, sulle polemiche che hanno preceduto la mia venuta in questa città. Se, come dice il poeta, il nostro grande poeta Giosué Carducci: « non si cercano le farfalle sotto l'arco di Tito », non si cercano nemmeno sotto gli archi di questa nostra magnifica e vecchia Bologna, specialmente quando c'è il caso di non trovare farfalle, ma pipistrelli che sembrano spauriti e confusi davanti a questo trionfante sole di maggio.
Non vi sorprenderà la forma del mio discorso.
Spesso mi accade che prima di parlare al pubblico, io parli a me stesso. Tré anni fa, in questi giorni, tutta l'Italia cosciente e volitiva, l'unica Italia che ha diritto di far assurgere la sua cronaca da rottame caotico di episodi alla grandezza della storia, fiammeggiava di una grande passione, della nostra passione.
Io noto che da qualche tempo vi sono degli opportunisti che cercano di aprire una piccola porticina per le eventuali responsabilità di domani e vanno elencando faticosamente le ragioni per cui l'Italia non poteva rimanere neutrale.
Ebbene, io ammetto che ci sia stata una fatalità, ammetto questa costrizione che proveniva da un complesso di cause sulle quali è inutile insistere, ma io aggiungo che a un dato momento di questa concatenazione di fenomeni noi abbiamo inserito l'impronta della nostra volontà; e oggi, a tré anni di distanza, noi non siamo dei frati pentiti di quello che abbiamo fatto. Noi lasciamo questo basso atteggiamento spirituale a coloro che vanno in cerca di applausi, di collegi e di soddisfazioni personali; ma quando si disprezza, come disprezzo intimamente io, il parlamentarismo e la demagogia, si è ben lontani da tutto ciò.
Quello che Machiavelli dice nel capitolo VI del Prìncipe a proposito di coloro che per propria virtù come Moisè, Ciro, Remolo, Teseo, giunsero al principato, può applicarsi non solo agli individui ma ai popoli.
«Ed esaminando — dice il Segretario fiorentino — le azioni e la vita loro, non si vede che quelli avessero altro della fortuna che l'occasione, la quale dette loro materia da potere introdurvi dentro quella forma che parve loro; e senza quell'occasione la virtù dell'animo loro si sarebbe spenta, e senza quella virtù l'occasione sarebbe venuta invano... Queste occasioni pertanto fecero questi uomini/elici e l'eccellente virtù loro fece quella occasione essere compiuta; donde la loro patria ne fu nobilitata e diventò felicissima».
Riferendoci al popolo italiano nel maggio radioso si può dire che, senza l'occasione della guerra, la virtù del nostro popolo si sarebbe spenta; ma senza questa virtù, l'occasione della guerra sarebbe passata invano.
Ho ritrovato un'eco del pensiero di Machiavelli, nel libro di Maeterlinck, il grande poeta del Belgio, il poeta che, forse più di ogni altro, fra i contemporanei, ha dato un'espressione, una voce a tutti i movimenti più delicati e complessi dell'animo umano. Il Maeterlinck nel suo libro Saggezza e Destino ammette la fatalità meccanica "esterna, ma ammette anche che un individuo possa reagire contro questa fatalità.
« L'avvenimento, in sé — dice Maeterlinck nel capitolo VII del suo: La Sagesse et la Destinée — è l'acqua pura che la fontana versa su di noi e non ha ordinariamente in se stesso ne sapore, ne colore, ne profumo. Diventa bello e triste, dolce e amaro; mortale o vivificatore a seconda delle qualità dell'animo che lo raccoglie.
« Accadono continuamente a coloro che ci circondano mille e mille avventure che sembrano tutte gravide di germi d'eroismo e nulla d'eroico si eleva quando l'avventura è dissipata. Ma Cristo incontra sulla sua strada un gruppo di fanciulli, una donna adultera, o la Samaritana e l'umanità monta tré volte di seguito all'altezza di Dio».
L'avvenimento della guerra mondiale è stato per il nostro popolo un getto d'acqua pura. E stato mortale, ad esempio, per la Spagna; vivificatore, per noi. Noi abbiamo voluto. Abbiamo scelto. Prima di arrivare alla scelta abbiamo polemizzato, abbiamo lottato e qualche volta la lotta ha assunto un aspetto di fiera violenza; abbiamo vinto noi, ed anche oggi siamo orgogliosi di quelle giornate e ci compiaciamo che il ricordo delle moltitudini che occupavano le strade e le piazze delle nostre città, turbi molto coloro che furono sconfitti e quelli che ancora oggi tentano coi mezzi più insidiosi di spegnere la sacra fiamma e la fede del nostro popolo. Questa guerra l'hanno accettata come si accetta una corvée pesante, e il loro duce, inseguito dalle maledizioni di tutto un popolo, si è ritirato come un vecchio feudatario, nel suo remoto paese; e non possiamo fargli che questo augurio: che ci rimanga per sempre.
Ma, come non mi stancherò di ripetere, noi giovani commettemmo allora un errore, un errore che abbiamo duramente scontato: consegnammo questa nostra giovinezza ardente alla più desolante vecchiaia. Quando dico vecchi non stabilisco un rapporto soltanto cronologico. Io penso che si nasce vecchi: che c'è qualcuno a vent'anni, che è già cadente di spirito e di carne, mentre ci sono uomini a settantenni, come il meraviglioso Tigre di Francia, che hanno ancora tutta la vibrazione, la fiamma della virile giovinezza. Parlo dei vecchi che sono vecchi, che sono superati, che sono ingombranti.
Essi non hanno compreso, non hanno realizzato nessuna delle verità fondamentali della guerra.
Che cosa significa questa guerra, nella sua portata storica, nel suo sviluppo, è stato intuito, oltre che dal popolo, da due categorie di persone: dai poeti e dagli industriali. Dai poeti, i quali avendo un'anima squisitamente sensitiva afferrano prima della media comune le verità ancora crepuscolari; dagli industriali che capirono che questa guerra era una guerra di macchine. Tra i due mettiamoci anche i giornalisti, i quali sono sufficentemente poeti per non essere industriali e sono sufficentemente industriali per non essere poeti. E i giornalisti hanno parecchie volte preceduto il Governo. Io parlo dei grandi giornalisti che hanno i padiglioni auricolari sempre aperti e tesi alle vibrazioni del mondo esterno. Il giornalista talvolta ha preveduto quello che il vero responsabile purtroppo vedeva tardivamente.
Questa guerra è stata fino ad oggi « quantitativa ». Ora si è visto che la massa non vince la massa: un esercito non vince un esercito; la quantità non vince la quantità. Bisogna affrontare il problema da un altro punto di vista, quello della qualità. Questa guerra, che è stata agli inizi enormemente democratica, tende a diventare aristocratica. I soldati diventano guerrieri. Si procede a una selezione fra le masse armate. La guerra portata quasi esclusivamente nei cicli è una guerra che ha perduto i caratteri che aveva nel 1914.
Il romanziere che primo ha intuito i problemi della guerra « qualitativa » è stato Wells. Leggete il suo volume: La guerra su tré fronti. E in questo libro ch'egli consiglia di sfruttare le qualità della razza latina e anglo-sassone. Perché mentre i tedeschi agiscono soltanto se inquadrati, danno un alto rendimento soltanto attraverso l'esasperato automatismo della massa, i latini sentono la bellezza dell'audacia personale, il fascino del rischio, hanno il gusto* dell'avventura; gusto che in Germania, dice Wells, è limitato soltanto ai discendenti della nobiltà feudale, mentre da noi lo si trova diffuso anche tra il popolo.
Un'altra verità che i responsabili hanno realizzato tardi è che per vincere gli eserciti, bisogna vincere i popoli. Prendere, cioè, al rovescio, gli eserciti. E difficile questo per la Germania etnicamente, politicamente e moralmente compatta.
Ma noi abbiamo invece di fronte un nemico sul quale si poteva agire sin da principio, in questo senso: dovevamo insinuare la nostra azione nel mosaico dello Stato austriaco.
Io sono molto felice di aver contribuito alla creazione di reggimenti boemi. Sono ancor più contento di sapere che si sono già formati parecchi di questi reggimenti e non mi stupisco di apprendere che si tratta di magnifici soldati che coll'esempio loro giovano anche al morale dei nostri.
Fra i popoli che non si prendono alle spalle, è il nostro. Il mio elogio sincero. Grande è stato il popolo delle trincee e grande l'altro che non ha combattuto. Le deficienze devono ricercarsi altrove, fra il vecchiume di cui parlavo poco fa.
Ho vissuto con questi valorosi nostri soldati nelle trincee, li ho ascoltati quando parlavano nei piccoli crocchi, li ho visti nelle ore della malinconia, nei momenti epici dell'entusiasmo.
E quando dopo il triste 24 ottobre c'era un po' di diffidenza verso i combattenti io sono insorto perché mi pareva impossibile che dei soldati che avevano vinto le battaglie sul terreno più difficile di tutti i teatri della guerra fossero diventati di un colpo dei pusillanimi che si sbandano al semplice crepitio di una mitragliatrice.
Non è così, perché se così fosse, non ci sarebbe stato fiume per fermare l'onda invadente e se ci siamo fermati sul Piave è segno che potevamo resistere anche sul Fisonzo. {Applausi}.
Leggevo ieri sera in treno un libro di poesie scritte in trincea da un capitano: Arturo Marpicati. E l'unica letteratura possibile: la letteratura di guerra, quando però si tratti di scrittori che ci sono realmente stati. In queste strofe io riconosco i miei commilitoni di una volta. Riconoscevo gli umili grandi soldati della nostra guerra. Ecco:
Col vecchio suo magico sguardo,
il dovere, nume d'acciaio
gl'inconsci anche soggioga.
Benché ne balbettino il nome,
ecco, essi, la madre difendono;
ed è madre di tutti;
e son essi la guerra,
e son essi la fronte,
son essi la vittoria;
dai loro elmetti ferrei
spicca il volo la gloria;
essi, martiri e santi,
sono l'eroica Patria,
essi, i fanti!
Ma l'elogio migliore del popolo in armi è consegnato nei mille bollettini del Comando Supremo. Anche l'altro popolo inerme merita di essere esaltato. Quello delle città nervose e irrequiete, fenomeno inevitabile dovuto alla « società » di migliaia di creature al contatto di migliaia di temperamenti e quello delle campagne. Dalla Valle Padana al Tavoliere delle Puglie; dalle colline pampinee del Monferrato ai pianori solatii della Conca d'Oro, le case dei contadini si sono vuotate. E colle case, le stalle. Le donne hanno visto partire il padre e il figlio; il meditativo territoriale più che quarantenne e l'avventuroso adolescente dell'anno secolare. Sangue, denaro, lavoro.
Inutile chiedere all'umile gente proletaria un'alta coscienza nazionale che non può avere, semplicemente perché non abbiamo mai fatto nulla per dargliela. Al popolo che ha lasciato la vanga e impugnato il fucile, chiediamo semplicemente che obbedisca; ed il popolo italiano, il popolo della campagna e quello delle officine, obbedisce.
Un episodio triste e qualche sintomo d'irrequietezza non bastano a guastare la linea del quadro. Ci avevano detto che non avremmo resistito sei mesi, che all'annuncio dei morti le famiglie sarebbero insorte, che i nostri mutilati, agli angoli delle strade, agitando i loro monconi, avrebbero sollevato l'animo popolare. Si compiono in questi giorni i tre anni. Tre lunghissimi anni. Le madri dei caduti hanno l'orgoglio sacro del loro dolore; i mutilati, non ci tengono all'appellativo di gloriosi, ma respingono soprattutto l'aggettivo di « poveri »... Le nostre privazioni alimentari sono foltissime, eppure la gente resiste. Le « tradotte » vanno al fronte, i vagoni infiorati come nel maggio del 1915. Le città e le campagne sono semplicemente meravigliose di dignità e di tranquillità. La crisi nazionale che va dall'agosto all'ottobre 1917 e si compendia in due nomi: Torino-Caporetto, è stata in un certo senso salutare. Era il riflesso della grande crisi che ha gettato nel baratro la Russia.
C'è stata un'idea direttrice nella politica leninista che ha condotto la Russia alla pace « penosa, forzata, disonorante » di Brest? Sì, c'è stata. I massimalisti in buona fede hanno creduto alla possibilità della rivoluzione per « contagio ». Essi speravano di giungere ad « infettare » col virus massimalista la Germania. Non ci sono riusciti. La Germania è refrattaria. Gli stessi « minoritan » sono ben lungi dal proclamarsi bolscevichi. Di più. Questi minoritan che dovrebbero rappresentare, in ogni modo, il lievito fermentatore, perdono continuamente terreno. Tre elezioni, tre disfatte clamorose.
I maggioritari trionfano. Essi sono oggi quali erano nell'agosto 1914, dei complici del pangermanismo: vogliono vincere. Dopo Brest-Litovsk i socialisti non hanno fiatato;
dopo la pace di Bucarest i socialisti non hanno proferito un sol verbo.
Si è visto a quale risultato è andata incontro la Russia con la predicazione leninista; si è visto come i socialisti tedeschi, che accettavano: « Ne annessioni, ne indennità; diritto ai popoli di decidere delle loro sorti », abbiano interpretato questa dottrina.
I tedeschi si sono presi 540 mila chilometri quadrati in Russia con 55 milioni di abitanti; poi sono passati in Romania e l’hanno completamente spogliata.
Se la pace di Brest-Litovsk è stata una vergogna per la Russia, la pace di Bucarest non è disonorante; i romeni sono stati presi alla schiena e non hanno potuto resistere.
Intanto Cicerin, commissario agli Esteri, fa lavorare il telegrafo senza fili. Un freddurista potrebbe osservare che se la Repubblica di Roma in un'ora critica della sua storia ha avuto un Cicerone, la Russia deve avere Cicerin, che, contrariamente al primo, nessuno prende sul serio, perché non si prendono sul serio coloro che non sanno, per la difesa dei propri diritti, impugnare le armi.
L'esperimento russo ci ha enormemente giovato. E sotto l'aspetto socialistico e sotto quello politico. Ha aperto molti occhi che si ostinavano a rimanere chiusi. Se la Germania vince, bisogna mettersi in mente che la rovina certissima e totale ci attende. Il germano non ha modificati i suoi istinti fondamentali. Sono gli stessi, che Tacito descriveva nel suo Germania alla perfezione, con queste parole:
«Vivevano i germani, non in villaggi, ma in case separate, divise da un largo spazio per meglio difenderle dal fuoco. Per ripararsi dal freddo usavano abitare ambienti sotterranei coperti di letame o si vestivano colle pelli del bestiame minuto che possedevano numeroso. Forti in guerra, ma anche bevitori e giocatori ostinati, armati di aste, ben forniti di cavalli, preferivano acquistare quanto loro occorreva colla violenza, anziché col lavoro delle loro terre ».
Nella Vita di Agrìcola lo stesso storico romano stabilisce, fra i britanni e germani, una differenza che ha oggi, come 19 secoli fa, lo stesso valore: mentre i britanni combattevano per la difesa della patria e della famiglia, i germani combattevano per avarizia e per lussuria.
Le stesse tribù, schiacciate un tempo a Legnano, hanno ripreso la loro marcia oltre Reno e si accingono a riprendere l'offensiva contro di noi. Ma la « bramosia » di cui parlò Kiihimann non spingerà gli austro-tedeschi oltre il Pia ve.
Il popolo italiano doveva, nei calcoli tedeschi, dopo Caporetto, precipitare nel caos. E invece in piedi. Tanto in piedi che gli austriaci non hanno ancora « osato ». Quali possano essere le vicissitudini di questa fase estrema della guerra, la Germania, che non ci ha vinti isolatamente, potrà vincere la formidabile società delle nazioni che la fronteggiano?
Siamo in piedi con la Francia, con i suoi soldati che sono stati meravigliosi di eroismo. E quella Francia che noi conoscevamo così male, semplicemente perché la vedevamo soltanto attraverso ai cabarets di Montmartre, i quali non erano frequentati da francesi ma da avventurieri che piovevano da tutte le parti del mondo, ci ha dato oggi le più belle pagine di eroismo. La Francia sa anche sbarazzarsi dei suoi tentacoli insidiosi e colpisce a morte i grandi ed i piccoli artefici del tradimento e fa crepitare i plotoni di esecuzione: il crepitìo di quelle fucilate è per chi ama la Patria più dolce dell'armonia in un grande spartito.
Anche in Italia dobbiamo essere inesorabili contro i traditori per difendere le spalle dei nostri soldati.
Non si deve, non si può esitare un minuto solo a sacrificare un uomo, dieci uomini, cento uomini, quando è in gioco l'esistenza nazionale, l'avvenire di milioni di uomini.
Siamo in piedi cogli inglesi che ripetono la frase di Nelson: « L'Inghilterra attende con fiducia che ogni cittadino compia fino all'ultimo il proprio dovere ». Siamo in piedi cogli Stati Uniti.
Ecco l'Intemazionale. La vera, la profonda, la duratura. Anche se non ha le formule e i dogmi e i crismi del socialismo ufficializzato. Essa è nelle trincee dove i soldati di diverse razze hanno varcato seimila leghe di mare per venire a morire in Europa! Voi mi permetterete di essere ottimista circa l'esito della guerra.
Vinceremo perché gli Stati Uniti non possono perdere, perché l'Inghilterra non può perdere, perché la Francia non può perdere. Gli Stati Uniti hanno centodieci milioni di abitanti; una sola leva può dare un milione di recluto. L'America, come l'Inghilterra, sa che sono in gioco tutti i valori, tutti i più grandi interessi, i beni fondamentali della civiltà.
Finché noi saremo in questa compagnia non c'è pericolo di una pace rovinosa. Non ^ arrivare al traguardo della pace significa essere schiacciati; ma quando saremo arrivati Bid traguardo potremo guardare anche noi in faccia ai nostri nemici e dire che anche noi, piccolo popolo disprezzato, anche noi, esercito di mandolinisti, abbiamo resistito e abbiamo il diritto a una pace giusta e duratura.
Io sono un ottimista e vedo l'Italia di domani sotto una luce rosea. Basta col rappresentare l'Italia col berretto di locandiera, méta di tutti gli sfaccendati, muniti del loro odioso Baedeker; basta collo spolverare vecchi calcinacci: siamo e vogliamo essere un popolo di produttori!
Saremo un popolo che si espanderà, senza propositi di conquista: ci imporremo con le nostre industrie, col nostro lavoro. Sarà il nome augusto di Roma che dirigerà ancora la nostra forza nell'Adriatico, golfo del Mediterraneo e nel Mediterraneo strada di comunicazione fra tré continenti.
Quelli che sono stati feriti sanno che cosa vuoi dire convalescenza. Viene il giorno in cui il medico non prende più dal vassoio i suoi coltelli spieiati, ma pur benedetti; non vi strazia più le carni doloranti, non vi fa più soffrire. Il pericolo d'infezione è scomparso e voi allora vi sentite rinascere. Comincia una seconda giovinezza. Le cose, gli uomini, la voce di una donna, le carezze di un bambino, il fiorire di un albero, tutto vi da la sensazione ineffabile di un ritomo. Le vene s'inturgidano del sangue nuovo e la febbre del lavoro vi afferra.
Anche il popolo italiano avrà la sua convalescenza e sarà una gara per ricostruire dopo aver distrutto.
Questa bandiera dei mutilati è il simbolo di un nuovo orientamento della loro vita morale e spirituale.
Pensate che certi mistificatori credevano di giovarsi dei mutilati per le loro speculazioni infami!
Ed invece i mutilati rispondono: « Non ci prestiamo al turpe gioco, non intendiamo avere dalla vostra simpatia, dalla vostra pietà, un aiuto che ci umilia!
« Noi siamo dei cittadini che sono stati più provati degli altri » !
Essi non imprecano; non si lamentano se sono senza una gamba o un braccio; non imprecano neppure quelli che hanno perduto la divina luce degli occhi. Invano i nemici speravano nello stato d'animo di questa gente per approfittarne; a questa loro speranza rispondono che tutto dettero all'Italia, alla loro Patria, ed oggi non le vogliono essere nemmeno di peso e lavorano e si addestrano in ogni cosa per dare un'altra prova del loro amore alla santa causa.
Non vedo più relegato nelle lontananze dell'avvenire il giorno in cui i gonfaloni dei mutilati precederanno le bandiere lacere e gloriose dei reggimenti. E attorno alle bandiere ci saranno i reduci e il popolo. Ci saranno anche le ombre grandi dei nostri morti, di tutti i nostri morti, da quelli che caddero sulle Alpi a quelli che si immolarono oltre Isonzo, da quelli che espugnarono Gorizia a quelli che furono falciati fra rHermada e il misterioso Timavo o sulle rive del Piave. Tutta questa sacra Falange noi simboleggiamo in tré nomi: Cesare Battisti che volle affrontare deliberatamente il martirio e non fu mai così bello come quando offerse il collo al boia d'Asburgo;
Giacomo Venezian che lasciò le austere aule del vostro Ateneo per correre incontro al suo sogno sulla via di Trieste; Filippo Corridoni, nato dal popolo, combattente col popolo, morto pel popolo sui primi ciglioni della pietraia carsica.
I battaglioni dei ritornanti, avranno il passo grave e cadenzato di coloro che molto hanno vissuto e molto hanno sofferto e videro innumeri altri soffrire e morire. Diranno, diremo:
« Qui nel solco che ritorna alla messe, qui nell'officina che forgia lo strumento di pace; qui nella città sonante, qui nella silenziosa campagna, ora, che il dovere fu compiuto e la méta raggiunta, piantiamo i segni del nostro nuovo diritto. Indietro le larve! Via i cadaveri che si ostinano a non morire ed ammorbano, col lezzo insopportabile della loro decomposizione, l'atmosfera che dev'essere purificata. Noi, i sopravvissuti, noi i ritornati, rivendichiamo il diritto di governare l'Italia, non già per farla precipitare nella dissoluzione e nel disordine, ma per condurla sempre più in alto, sempre più innanzi; per renderla — nei pensieri e nelle opere — degna di stare fra le grandi nazioni che saranno le direttrici della civiltà mondiale di domani ».



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Avamposto
29-07-10, 12:57
« VIVA L'ITALIA! »


A Milano, la sera del 23 giugno 1918, le ultime edizioni di alcuni quotidiani recano il seguente bollettino straordinario del maresciallo Armando Diaz: « Comando Supremo, 23 giugno. - Dal Montello al mare il nemico sconfitto e incalzato dalle nostre valorose truppe, ripassa in disordine il Piave ». La notizia suscita il piú vivo entusiasmo. « Un fitto corteo » si porta sotto gli uffici de Il Popolo d'Italia « chiedendo. a gran voce » il direttore. « Gruppi di dimostranti salgono in redazione e lo inducono a parlare. Salito su una sedia », Mussolini « saluta il popolo plaudente » con le parole qui riportate.



Dopo tre anni, questa via che seppe i clamori e i fremiti delle indimenticabili giornate del maggio nostro, é tornata a raccogliere la voce del popolo milanese. L'esercito nostro, che per undici volte vide le spalle del nemico, ha raggiunto la dodicesima vittoria. Augu-riamoci che sia l'inizio di quella definitiva.
A conclusione delle vostre dimostrazioni di giubilo, siete venuti a questo giornale per riconfermargli simpatia e solidarietá. Ve ne ringrazio, ma ho l'orgoglio di dire che esso ne é degno perché Il Popolo d'Italia, oggi come ieri, come domani, vuole essere l'insopprimibile e impetuosa bandiera agitata in difesa di tutte le lotte della Patria italiana.
Vi saluto e vi ringrazio con il grido augurale e simbolico : Viva l'Italia !

(La folla fa eco aggiungendo acclamazioni al nostro giornale, al no stro Direttore, all'Esercito, all'Intesa. Dopo di che il corteo riprende verso il centro fra canti e evviva).


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Avamposto
29-07-10, 12:58
PER IL TRIONFO DELLA GIUSTIZIA

Discorso pronunciato a Milano, nel salone del « Conservatorio », la sera del 20 ottobre 1918, nel corso dell'adunanza indetta dal Comitato di azione tra mutilati, invalidi e feriti per la costituzione della sezione italiana della lega uni versale per la societá delle nazioni.



Il Comitato m'incarica di illustrare questo ordine del giorno, ed io lo faró succintamente perché il problema non é nuovo ma é giá nella coscienza del paese.
L'iniziativa parte dai mutilati; c'é un simbolo: solo quelli che piú di tutti gli altri hanno sofferto per la guerra, hanno il diritto di dire tutto quello che dev'essere la pace.
Non giá coloro che l'hanno sabotata e ci avrebbero condotto alla disfatta o - non volendo i popoli soggiacere alla disfatta - a una guerra cronica senza fine. É l'ora questa che é particolarmente propizia per porre in discussione questi problemi.
In fondo una Societá delle nazioni si sta realizzando ; nelle trincee i popoli si sono mischiati, confusi. L'ultimo contadino che sogna di ritornare al suo villaggio dopo la dura esperienza della trincea, ha allargato i suoi orizzonti spirituali e respira in un'atmosfera mondiale.
Nelle altre nazioni il problema é giá stato posto e discusso nei giornali, dalla cattedra, nei parlamenti. Si potrebbe dire che l'Italia é in ritardo, ma in un certo senso noi abbiamo preceduto gli altri.
Vi sono epoche della nostra storia nelle quali il pensiero italiano é stato fin troppo universalistico, ma io penso che forse in quei momenti l'universalismo della nostra letteratura, della nostra filosofia, della nostra arte, del nostro spirito, insomma, era il maggiore e piú nobile titolo della nostra grandezza.
Ma senza ritornare al medioevo, due uomini del secolo XIX, Cattaneo e Mazzini, attestano che il pensiero italiano ha preceduto e che gli altri ci seguono nel solco che abbiamo tracciato per primi.
Ci sono due tempi in questa guerra : il primo tempo va dallo scoppio della guerra all'intervento americano ; il secondo tempo va dall'intervento americano ad oggi. Nel primo tempo la guerra ha un carattere nazionale-territoriale. I nomi di Metz, di Strasburgo, di Trento, di Trieste, di Fiume, di Zara si rincorrono spesso in quel primo tempo e racchiudono per noi tutto quello che puó essere il fine della guerra.
Le questioni territoriali precedono le altre. Non si parla ancora di sistemazione giuridica del mondo; la guerra é mondiale nelle sue ripercussioni dirette ed indirette perché l'Inghilterra ha giá utilizzato le sue colonie ; perché ha portato a combattere in Europa gli austra-liani e gli indiani, ma non é ancora mondiale nella sua ampiezza e nei suoi obbiettivi.
Coll'aprile del '17 si inizia il secondo periodo : giá anche nel primo tempo gli uomini politici inglesi erano portati a svalutare i problemi territoriali perché l'Inghilterra non aveva questioni nazionali da ri-solvere; ma questo processus si precisa, si accelera e diventa definitivo coll'intervento dell'America.
Non bisogna peró, a mio modesto avviso, svalutare troppo le questioni nazionali e territoriali per non fare il gioco dei disfattisti e dei tedeschi. Sono questioni di giustizia. Giova ricordare che Wilson in tutti i suoi messaggi ha fatto si una trasposizione di valori, ma non ha mai trascurato di fissare quelle rivendicazioni nazionali senza il cui compimento l'aspetto europeo e mondiale di domani non potrebbe avere carattere definitivo.
Quando si parla di Societá delle nazioni dobbiamo prendere in esame taluni stati d'animo.
Cesare Lombroso soleva dividere gli uomini in due categorie i misoneisti e i filoneisti. I misoneisti che accettano le veritá rivelate, vi si adagiano e vi si addormentano sopra. I filoneisti, spiriti irre-quieti, impazienti, elementi essenziali nel mondo, come nel carro sono elementi essenziali le ruote e il timone. Per i primi il regno dell'im-possibile ha sempre dei confini amplissimi e questa guerra ha limitato enormemente il cosidetto regno dell'impossibile. Ció che pareva ieri utopia nebulosa o fantasia, é diventato realtá di fatto.
I nemici parlano troppo di Societá delle nazioni. Vi sono dei fe-rocissimi wilsoniani dell'ultima ora in America ed in Germania. Ora vi confesso che fa una certa impressione vedere costoro belare come agnelli. L'immagine é di un giornale repubblicano tedesco che si stampa a Berna. Sono gli stessi che hanno incendiato le cittá del Belgio, che hanno affondato o dato l'ordine di affondare senza lasciare traccia; sono gli stessi che deportano uomini e donne mentre si ritirano. Essi gridano : « Societá, Societá delle nazioni ». Ma noi non possiamo essere confusi con loro. In loro evidentemente c'é un pensiero che si nasconde. Saranno smascherati dagli eserciti vittoriosi dell'Intesa. Alcuni altri dicono : « Questa Lega delle nazioni non sarebbe un surrogato della vittoria ? ». No. Essa presuppone - anzi - la vittoria. Wilson ha parlato di vittoria assoluta.
In una rivista socialista é detto che la Lega delle nazioni é impos-sibile se la vittoria militare arriderá all'Intesa, perché il desiderio della rivincita coverebbe nel fondo dell'anima tedesca. Ora tre ipotesi si potevano fare sulla soluzione del conflitto : la vittoria del nemico, e questa ipotesi é giá a terra. Se si fosse realizzata non ci sarebbe stata una Societá delle nazioni, ma un padrone a Berlino e dei servi in tutta Europa, divenuta una colonia tedesca. [Seconda ipotesi :] la guerra con né vinti né vincitori ed é l'ipotesi piú ripugnante ed anti-umana perché avrebbe lasciati insoluti tutti i problemi e avrebbe dato una pace somigliante a una tregua. [Terza ipotesi :] la soluzione che si delinea splendida all'orizzonte : la nostra vittoria. Non vi é pericolo che domani lo spirito di revanche prenda i tedeschi perché noi rimar-remo coalizzati anche durante la pace. La Germania si troverá din-nanzi allo stesso blocco da cui é stata battuta e dovrá rassegnarsi al fatto compiuto. La Lega delle nazioni sorgerá senza la Germania, contro la Germania o colla Germania quando avrá espiato colla di-sfatta il delitto.
Alcuni dicono : non vi pare che ricadere nell'universalismo dopo le esperienze del passato sia molto pericoloso?
Ernesto Renan doveva essersi posto questo problema quando scriveva : « La nazione che agita nel suo seno dei problemi religiosi, o sociali é sempre debole come nazione. Ogni paese che sogna un regno di Dio, che vive per delle idee generali, che mira a un'opera d'interesse universale, sacrifica con ció stesso il suo destino particolare, indebolisce e distrugge il suo compito come patria terrestre. Fu cosí della Giudea, della Grecia, dell'Italia. Sará forse tosi della Francia.... ».
Renan era un grandissimo intelletto, ma la sua previsione é fallita. La Francia durante il secolo XIX ha agitato delle idee universali, ma ha ritrovato allo scoppio della guerra la sua anima nazionale.
Il pericolo dell'universalismo puó esistere quando una sola nazione se ne faccia banditrice, ma oggi sono tutte le nazioni del mondo che si cercano per gettare le basi di una duratura, pacifica convivenza.
Inoltre il senso etnico, storico e morale di ogni nazionalitá si é sviluppato col fatto della guerra. Non é paradosso ma realtá che la guerra mentre ha ritornato noi a noi stessi ed ha esaltato tutte le qualitá dell'anima nazionale, ci ha nello stesso tempo proiettato al di lá di quei confini che abbiamo difesi e conquistati.
Non c'é pericolo di livellamento dell'anima nazionale mettendosi a contatto con gli altri popoli. Occorrono basi solide alla compagine nazionale e per questo bisogna elevare le classi operaie. Non ci puó essere grande nazione lá dove ci siano enormi masse dannate al regime della preistoria umana.
Un altro paradosso di questa guerra é che le nazioni in lotta contro i tedeschi non abbiano ancora costituito l'alleanza di pace. Da Versaglia doveva partire il manifesto ai popoli del mondo e l'annuncio dell'alleanza di pace. Ció poteva contribuire fra l'altro ad acuire la crisi tedesca. Non si é fatto ancora. I popoli avevano intuito questa necessitá. Certe veritá si affermano piú rapidamente con le intuizioni e piú lentamente col raziocinio ed i popoli hanno sentito che quella era la strada da seguire. E quella é la strada sulla quale ci mettiamo oggi. L'altro giorno Clemenceau diceva che la liberazione della Francia deve essere la liberazione dell'Europa.
Certo il funzionamento di una Lega delle nazioni presenterá delle difficoltá specialmente nei primi tempi. Secondo me i problemi che si dovranno affrontare e risolvere sono di indole politica, di indole economica, di indole militare, di indole coloniale.
Fra un mese avrete delle relazioni su questi argomenti ed io non voglio tediarvi con affrettate anticipazioni. Siamo giunti alla svolta decisiva della storia. Mentre siamo qui raccolti infuria la battaglia: sono milioni di uomini che si battono nell'ultima battaglia. Giuriamo che tutto ció non puó essere stato vano, che questi sacrifici debbono segnare una nuova fase nella storia della societá umana. Diciamo a noi stessi che tutto quello che puó essere tentato sará tentato perché dal sangue sbocci il fiore purpureo della libertá, perché la giustizia - verbo fatto carne - si assida sovrana fra tutte le genti del mondo rinnovato.



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Avamposto
29-07-10, 12:59
CELEBRAZIONE DELLA VITTORIA

Discorso pronunciato l'11 novembre 1918 in Milano al Monumento delle Cinque Giornate.



Miei Fratelli delle trincee, Cittadini!
Non ho mai sentito così profonda la mia insufficienza oratoria come ora, davanti alla grandiosità degli eventi ed alla memorabile imponenza della vostra manifestazione. Che cosa vi posso dire se questa imponente manifestazione è più che un discorso, un inno, più che un inno un'epopea?
Giunti a questo giorno superando prove durissime, vedo qui intorno al Monumento delle Cinque Giornate, ch'è l'ara di Milano, i combattenti della prima e dell'ultima ora, quelli delle trincee, superstiti del sacrificio devoto, che segnarono col sangue i destini della Patria, i Mutilati che non si sentono più mutilati da che l'Italia è divenuta più grande. Vedo accanto a loro i profughi che ritorneranno presto a rivedere la terra e il focolare disertato. Ricordo quel che dissi l'anno scorso: bisogna amarli questi nostri fratelli, scaldarli al nostro focolare e più ancora al nostro cuore. E vedo il popolo di Milano, raccolto come tutto il popolo italiano, in un superbo atto d'amore.
Quali fortunose vicende nel corso di un anno! Ricordate l'anno passato di questi giorni? Ricordate l'anno scorso, quando, alla Scala, giurammo che i tedeschi non avrebbero più passato il Piave? E non passarono, e la linea della resistenza di allora divenne poi la linea di partenza verso la vittoria. Anche nell'ora più disperata io non disperai e resi omaggio ai nostri combattenti. Vedemmo in quei giorni i primi « poilus », i primi « tommies » : era l'Intesa che veniva a cementare l'alleanza nelle nostre trincee. Dopo un anno di sacrifizi e di f ede è la vittoria!
Pensate con riconoscenza ai capi illustri che hanno condotto alla vittoria, ma anche e più pensate alla masse anonime di soldati, al popolo nostro meraviglioso che ha fatto argine sul Piave all'invasione, e dal Piave è balzato a travolgere il nemico.
Ricordatelo qui; qui dove tenemmo il primo comizio per la guerra. Qui, con Filippo Corridoni! (La folla prorompe in una lunga, imponente ovazione alla me
moria di Filippo Corridoni). Volemmo la guerra perché eravamo costretti a volerla. La volemmo perché ci era imposta dalle stesse necessità della storia. Oggi abbiamo raggiunto tutti i nostri ideali. Abbiamo raggiunti i nostri obiettivi nazionali; la bandiera italiana sventola oggi dal Brennero a Trieste, a Fiume e a Zara italianissime.
Non sapevamo ancora che ci fossero fanti italiani sull'altra sponda de l'Amarissimo. In tutte le città, in tutti i borghi della riva orientale dell'Adriatico gli italiani hanno inalberato la bandiera della patria, perché quella sponda che è italiana deve restare italiana. Abbiamo raggiunto anche i fini internazionali della nostra guerra. Quando quattro anni fa dicevamo che la bandiera rossa avrebbe sventolato sul Castello di Poisdam, il sogno pareva una follìa. Oggi il Kaiser se ne va, e con gli Hohenzollera trramouta il militarismo.
Il panorama politico più spettacoloso che la storia ricordi si apre dinanzi agli occhi del mondo attonito. Imperi, regni, autocrazie crollano come castelli di carta.
L'Austria non è più; domani non ci sarà nemmeno la Germania imperialista. Noi, col nostro sangue, abbiamo dato la libertà al popolo tedesco, mentre il po
polo tedesco ha fatto olocausto del suo sangue per consegnarci alle catene dell'imperialismo e della schiavitù militare. Sulle rovine del vecchio mondo si delinea il sogno della società delle nazioni.
Bisogna che la vittoria realizzi anche i fini interni di guerra: la redenzione del lavoro. D'ora innanzi il popolo italiano deve essere arbitro dei suoi destini, e il lavoro dev'essere redento dalla speculazione e dalla miseria.
Cittadini !
A Trento Dante aspettava con la mano tesa verso le Alpi. Pareva allora che la rampogna dell'altissimo Poeta
Ahi! serva Italia, di dolore ostello, Nave senza nocchiero in gran tempesta
risuonasse ad ammonimento della Patria. Ma oggi l'Italia non è più serva: è padrona di se stessa e del suo avvenire. Non è più nave senza nocchiero in gran tempesta, ché un orizzonte meraviglioso le si schiude dinanzi con la vittoria. E tutto il popolo è il nocchiero di questa nave, che, protesa superbamente fra tre mari e tre continenti, veleggia serena e sicura verso i porti delle supreme giustizie nell'Umanità redenta di domani.


(Il discorso interrotto ad ogni frase da scroscianti applausi, è salutato alla fine da una ovazione immensa. Molti abbracciano e baciano l'oratore. Tutti acclamano freneticamente all'Italia, alla Vittoria ed a Mussolini).


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Avamposto
29-07-10, 12:59
CELEBRAZIONE DELLA PACE

Discorso pronunciato a Milano, in piazza del Duomo, il pomeriggio del 12 novembre 1918.



Cittadini!
Dopo quattro anni che ci sembrarono quattro secoli, perché vissuti giorno per giorno, ora per ora, siamo giunti finalmente sul culmine della montagna, da cui l'occhio puó spaziare e riposare in una visione consolatrice. Questa di oggi é un'ora divina, un'ora religiosa. E noi sentiamo quanto c'é in lei di profondo e d'immenso, e benediciamo il destino e Iddio che ci ha fatto vivere, e ricordiamo i giovani, il piú bel fiore d'Italia, sbocciati nel magnifico maggio di sole, che sono caduti per quest'ora, che sono morti per noi, e per non vedere tutto il mondo mutato in una caserma prussiana. E noi, oggi, che abbiamo sentito, che abbiamo voluto tutta la responsabilitá della guerra, come volemmo la vittoria, come volemmo la grande audacia, non vogliamo e non vorremmo mai che certa gente, che certi « preti rossi », che certi sciacalli rimasti per quattro anni nel silenzio. e nell'ombra, avvelenino la nostra gioia purissima. Purissima gioia perché viene dal dovere puramente compiuto.
Quando ritornavano a noi i primi feriti, quando per Milano si videro i primi giovani stroncati, c'era della gente che sogghignava e che diceva : ecco la guerra voluta. E quando le madri ebbero negli occhi le prime lacrime di dolore e d'orgoglio, c'era della gente che diceva : tuo figlio é caduto invano. E quando dopo l'oscura rotta di Caporetto, dopo l'epico « non si passa » del Piave, apparvero i primi profughi dolorosi, le miserie erranti, il pianto senza casa, l'angoscia senza focolare, c'era della gente, la gente del « ben vengano » che sorrideva maligna del dolore, della miseria e del pianto. E gli sciacalli ch'erano nell'ombra ecco uscirono tutti in frotte torbide. No. Rimaniamo qui; raccolti come quattro anni fa. La vittoria é nostra. La vittoria é del Popolo. Siamo noi che la volemmo e la sorreggemmo, e che dobbiamo oggi esaltarla. Solo noi abbiamo oggi il diritto di gridare : « Viva la pace !». [Censura].
Cittadini!
Da questa piazza gloriosa oggi lanciamo nuovamente il grido audace del maggio. Oggi che abbiamo raggiunto i nostri confini, salutiamo la Francia, salutiamo il tigre Clemenceau, salutiamo l'Inghilterra tenace e prode, salutiamo tutti i cittadini accorsi sotto le bandiere, salutiamo tutti coloro che hanno dato il sangue, la carne e la vita, per costruire il magnifico edificio della nuova libertá.
Cittadini!
Giurate in questa piazza, storica assemblea di popolo nelle ore piú gravi e piú radiose, che noi faremo tutto il possibile perché i diritti conquistati nelle trincee siano concessi ; perché i diritti conquistati dal grigio-verde siano consacrati nella realtá ; perché i trinceristi abbiano nella vita il loro posto e la loro parte, e non sia dato quello che loro spetta agli imboscati.
E c'é un assente, oggi, cittadini. In mezzo a noi c'é un assente ch'io vedo con gli occhi, come se fosse qui presente. Vivo é in mezzo a noi e con noi. Salutiamolo: Filippo Corridoni. In nome suo rimaniamo qui. [Censura].



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Avamposto
29-07-10, 13:00
Discorso del 23 novembre 1918 Pavia



Nessun nemico interno od esterno può diminuire la vittoria d'Italia, perché luminosa e decisiva, perché già suggellata coi caratteri propri di storia mondiale.
Ma mi permetterete di intessere qui innanzi a voi l'elogio del popolo italiano, non perché io cerchi i vostri applausi, ma perché io penso che sia venuto il momento di dire anche dure verità...
Noi siamo arrivati al culmine della nostra storia di popolo italiano. Noi interventisti della prima ora, noi che nel maggio del 1915 scendemmo in piazza e prendemmo questa Italia che pareva intorpidita nella lusinga del "parecchio" giolittiano, noi prendemmo questa Italia pei capelli e le imponemmo questo grande dovere...
Oggi il popolo italiano è più grande. Se Wilson ci diede l'attributo di "grande popolo italiano" gli è perché ce lo siamo conquistato durante 4 anni di guerra. Il popolo italiano si diceva non avrebbe resistito a 3 mesi di guerra, invece in 4 anni ha dato prova di tenacia e valore ammirabili.
Oggi che la vittoria nostra è decisiva, si sente qualcuno che va mormorando che non è dovuta al sacrificio dei nostri soldati, ma bensì all'Austria stessa. Ciò è falso. Il 24 ottobre avevamo davanti un esercito formidabile, e ben precisò Diaz nel suo ultimo bollettino di guerra, la proporzione delle forze. La nostra vittoria ci è costata del sangue e noi non dobbiamo limitarla al 24 ottobre soltanto, ma ai 4 anni di guerra. Noi al momento buono abbiamo potuto dare il colpo decisivo: non permettiamo a nessuno di menomare la vittoria italiana o di diffamarla.
Siamo ora in un momento delicatissimo della nostra vita nazionale. La nostra guerra aveva obbiettivi sacri. Noi li abbiamo raggiunti: le nostre bandiere sono a Trento, Trieste, Fiume, Zara, e ci rimarranno. Là ci sono italiani che hanno spasimato di amore per noi, ci sono italiani che sono per noi saliti sulla forca. Nazario Sauro è istriano. Dove consacrazione più solenne del diritto italico in questi paesi? L'Adriatico è necessario all'Italia, ora la missione degli italiani è nel Mediterraneo.
Gli obbiettivi nazionali sono adunque raggiunti. Ma noi che volemmo la guerra abbiamo altre ragioni da far valere. Coloro che hanno avute le carni straziate parlano di guerra con venerazione. Se noi scendiamo nel sacrario della nostra coscienza possiamo dire che il nostro sacrificio non fu vano. Sono crollati gli imperi; l'Austria non esiste più, non si sa nemmeno più ove sia Carlo I. La macchina del militarismo tedesco è spezzata. Il Kaiser è in Olanda, ma gli inglesi non gli permettono di darsi alla pazza gioia. I neutrali ci hanno già resi pessimi servigi e ce ne darebbero altri più grandi se tenessero il Kaiser sotto la loro protezione. Intanto negli imperi centrali scoppiano troppo facilmente le repubbliche. Non dobbiamo troppo illuderci sulle trasformazioni politiche che avvengono in Germania. Non vorrei che gli italiani versassero lagrime per gli assassini, perché essi sono ancora quelli del Lusitania, del Belgio, ecc., e non si può facilmente dimenticare ciò che essi hanno fatto anche negli ultimi momenti. Un fatto solo è accertato: dove esisteva la macchina più grande del militarismo umano, si parla ora di repubblica.
Io credo che questo periodo di passaggio tra la guerra e la pace non verrà contrastato da disordini. È necessario essere soprattutto disciplinati e avere il senso della responsabilità. La nostra situazione dal punto di vista politico è buona come una grande Italia lo richiede. Ma si è aperto il Parlamento e il popolo italiano è ancora deluso. Tutte le volte che si apre, un senso di disgusto si spande per tutta l'Italia perché i deputati sono semplicemente preoccupati del loro collegio elettorale.
Le classi lavoratrici hanno contribuito alla vittoria e hanno diritto nella vittoria. L'enorme massa dei soldati è costituita da lavoratori dei campi. Quelli che sono stati in guerra, che hanno vissuto la guerra, che sono andati all'assalto, rappresentano i migliori cittadini, gli eletti, e sono quelli che hanno tutti i diritti di governare l'Italia. Se qualche vile è rimasto e si è arricchito, il soldato che torna dalla guerra lo deve disprezzare e odiare.
Le classi lavoratrici italiane hanno il merito della vittoria, e allora se ne deducano nuovi doveri e nuovi diritti da prendere in considerazione. Non c'è il proletariato, anzi questa parola va sostituita con quella di "produttori". Un conto è combattere un partito e un conto è proletariato sano che lavora. Ci sono produttori borghesi e proletari, come ci sono eroismi collettivi ed individuali.
Tutte le volte che la massa operaia reclama il suo diritto alla vita, ha ragione. Il lavoro sino ad oggi è stato impregnato da questi attributi: fatica e miseria. Chi lavora dieci ore al giorno deve per forza abbrutirsi. Cominciando a diminuire la giornata di lavoro è, secondo alcuni, dare mezzo e occasione per l'operaio di ubriacarsi. Ma se gli darete in mano dei libri, allora non si assisterà al fenomeno dell'abbrutimento. Dove vi sono orari eterni si delinea il fenomeno dell'abbrutimento fisico e morale.
Tutti sono interessati a produrre. Sarebbe pazzesco voler pretendere di raccogliere senza seminare. Il proletariato non deve recidere la pianta per toglierle il frutto. La fama turpissima di fannulloni ormai non esiste più per noi. Quando i nostri meravigliosi italiani sono andati all'estero e hanno fatto cose prodigiose lo hanno dimostrato. Quando avremo prodotto sarà possibile dire alla borghesia di far parte del proletariato. Anche le masse lavoratrici devono partecipare al congresso della pace. Non si tratta soltanto di sistemare e tutelare, si tratta soprattutto di costruire un edificio che non abbia più a crollare e come ho detto, non devono essere esclusi dal congresso i rappresentanti del lavoro. Il lavoro deve essere rappresentato perché quelli che erano in trincea erano lavoratori. Là si discuterà di molte cose, e perché devono essere assenti quelli che hanno dato il più vasto contributo di sangue?
Quattro sono i postulati che la classe operaia deve declamare. La Patria non è una frase poetica: l'Italia è una realtà, è qualche cosa che canta in noi. Non possiamo e non dobbiamo essere antipatrioti. Bisogna amare la Patria, amarla come si ama la madre. Se vi potessi leggere il testamento dei nostri morti, che sono morti gridando: "Viva l'Italia!", essi vi insegnerebbero questo amore. Il nostro popolo non conosce questa grandezza romana. Bisogna elevare la cultura delle masse lavoratrici.
Dell'Italia non si tratta di grandezza morale. I problemi fondamentali della nostra vita nazionale sono dieci o dodici. Bisogna eliminare sopra tutto due nemici: l'alcool e la tubercolosi. Vi deve essere pure un rinnovamento interno. I tre o quattro milioni di uomini che tornano dalle trincee devono vedere l'Italia col suo Parlamento intero. Bisogna loro presentare l'Italia nuova, e tutti quanti hanno sabotato la guerra, devono essere spazzati via come un castello di carte. Bisogna fare in modo che questa trasformazione debba essere fatta con ordine e che l'Italia possa realizzare i frutti della sua vittoria.
Il vostro giornale reca questa frase: "La Patria non si nega, ma si conquista". La Patria è nella lingua, nei costumi, e la Patria bisogna conquistarla col lavoro e colla sobrietà. L'Italia di domani deve essere grande soprattutto pel lavoro. Solo così sarà ricca, forte, in pace col mondo civile.



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Avamposto
29-07-10, 13:01
GUGLIELMO OBERDAN

Discorso pronunciato a Livorno, .al « Politeama », la mattina del 29 dicembre 1918




Cittadini livornesi!
Voi mi avete lungamente e fedelmente atteso. Alla terza occasione non sono mancato. Non so se la mia oratoria vi attrarrà; sappiate in ogni modo che io vi dirò cose lungamente meditate, perché ho la consuetudine prima di portare i problemi al pubblico di porli a me stesso.
Sono lieto di esser venuto per questa cerimonia. Ma non attendetevi un discorso biografico di Guglielmo Oberdan. Voi conoscete il martire, la sua vita vi è nota in tutti i suoi particolari. Quello che io posso fare è di illustrare il simbolo che egli rappresenta e che ha avuto con la vittoria il suo compimento.
A rappresentare al congresso di Berlino l'Italia che voleva vivere, era andato in quei tempi un idiota qualunque. Guglielmo Oberdan viene a Roma all'iindomani di tal congresso e sente tutta l'umiliazione dell'Italia. (Applausi).
Non vi dirò la mia commozione andando a Trieste italiana a visitare il luogo ove Oberdan lasciò la vita sulla forca, istituzione profondamente austriaca.
$ penoso pensare che vi è chi contrasta l'italianità di Trieste mettendoci di fronte un popolo rozzo che non ha quasi storia.
Ove ci venisse contestata, al congresso della pace, balzerebbero in Italia non solo i vivi, ma anche i morti.
Io ripenso al Carso, al nostro Carso, che cingeremo di cipressi e che non rimarrà mai deserto, perché popolato da futti i martiri della civiltà italiana. (Applausi vivissimi).
Non dobbiamo permettere - riprende l'oratore - nessuna adulterazione, nessuna sofisticazione della nostra vittoria conseguita con tanto sangue, con tanto strazio.
V'è chi vorrebbe cancellare per calcoli individuali la gloriosa pagina dell'interventismo. Io mi vanto insieme coi miei amici di aver preso questa Italia impoltronita per le chiome e di averle detto: « Cammina, perché se non camminerai, sosterai per lunghi secoli fra la morte e la vergogna ». (Applausi vivissimi).
Chi ha avuto il privilegio e l'orgoglio di aver vissuto la guerra, come l'ho vissuta io, non può parlare della guerra se non in modo religioso.
Oggi troviamo che eravamo profondamente nel vero quando facevamo la campagna per l'intervento volontario in Italia.
Non si è trovato nella storia l'esempio di un popolo che abbia scelto la propria strada così volontariamente come il nostro. Ci siamo rialzati dopo un rovescio grandissimo. Oggi quale panorama ci offrono la storia e questa vecchia e tormentata Europa 11 nostri fini nazionali sono stati pienamente raggiunti. È tempo di puntare il nostro revolver contro la politica dell'imperialismo italiano; ma quando chiediamo Trento, Trieste, l'Alto Adige, Zara non chiediamo che quel che ci spetta.
Dovrebbe vedere chi ci nega questo diritto le distruzioni operate dal nemico nel Veneto. Invasioni mai più, e per questo bisogna portare il nostro confine alla porta naturale per impedire di tendere alle pingui pianure italiane. Queste tribù sentono il bisogno del nostro cielo e del nostro mare, ma appunto per questo noi abbiamo il dovere di sbarrare le porte di casa nostra, e dopo, se sarà il caso, stringeremo patti di fratellanza con loro.
A Milano ho spiegato chiaramente che cosa s'intendeva per Società delle Nazioni, e dissi che non poteva essere il surrogato della vittoria. Io non escludo che il mondo di domani si comporrà di una libera associazione di genti affratellate. Ma gli uomini che hanno vita limitata, devono persuadersi che è inutile di voler costruire sull'eternità, e tenendo pure nel nostro bagaglio dottrinale l'ideale della Società delle nazioni, dobbiamo garantirci contro i pericoli dell'avvenire e di questi popoli slavi di cui noi abbiamo infrante le catene. (Applausi).
Anche se fosse possibile mettersi d'accordo, non sappiamo che cosa essi vorranno. Forse essi vorrebbero anche Venezia, perché c'è una riva degli Schiavoni (ilarità), o Milano perché c'è stato un re slavo.
A Trieste abbiamo lasciato continuare a pubblicare un giornale sloveno. Questa è la prova del nostro pensiero liberale; ora è tempo di guardare la libertà come si presenta.
Su 50.000 abitanti italiani di Fiume, 45.000 si sono già pronunziati; è il caso tipico di un popolo, che, secondo i criteri di Wilson, può decidere del proprio destino.
Siamo partiti in guerra contro il militarismo prussiano, che oggi è una rovina. Su quello che possa essere la repubblica germanica, bisogna andare molto cauti; non è detto che una repubblica possa essere pacifica. Il bolscevismo è un fenomeno puramente slavo; il clima storico delle nostre civiltà occidentali è assolutamente negato alle mene bolsceviche.
Chi ha provocato il crollo della Germania sono state le armate di Foch, è stato l'esercito italiano che minacciando la Baviera ha determinato il crollo.
Il socialismo in Germania ha segnato il passo dell'oca dietro al Kaiser. (Vivissimi applausi).
Richiamo la vostra attenzione sui fini interni della guerra. Tutti coloro che rappresentano il popolo, più o meno autorevolmente lanciano una parola d'ordine: « rinnovare! »
Il programma del Partito più numeroso, ma più impotente, ha lanciato questo programma: « Dittatura del proletariato! ». Questa dittatura verrebbe esercitata da pochi che non sono stati mai proletari. E voi pensate che noi che abbiamo combattuto tutte le dittature vorremo soggiacere a questa ? Siamo per la libertà contro tutte le dittature, a maggior ragione ci porremo contro quella di coloro che non sono che i parassiti della, classe operaia ! (Vivissimi applausi). E' il tempo di vedere queste verità, e di vedere che cosa hanno di vivo e di vitale certi dottrinarismi e constateremo che ci troviamo di fronte a una triplice o quadruplice menzogna uguale a tutte le menzogne 1 (Vivi applausi).
Hanno diviso il mondo in due compartimenti: da una parte i borghesi, dall'altra il proletariato. La realtà non è così: il mondo non si può fare a spicchi, come un'arancia; vi è un intreccio, una sfumatura di responsabilità che sfugge ad una suddivisione così netta.
Io sono un lavorista, voglio che il lavoro sia redento da due attributi che l'hanno perseguitato: la fatica e la miseria.
Non faccio che una questione di umanità: tutti gli uomini hanno diritto di vivere liberi, di vivere bene, e per questo io dico agli operai: Diffidate di coloro che vi sbandierano questi programmi massimi, perché essi non sono che gli sconfitti della storia ».
Io sto compiendo un lavoro improbo: la lettura di diciotto opuscoli contenenti i discorsi di deputati socialisti. È una lettura noiosissima, specialmente quella dei. discorsi dell'on. Modigliani. (Ilarità ed applausi).
Le verità che erano bandite come assolute e rivelate, sono oggi fallite. Noi che abbiamo macerato la nostra vita nelle trincee, e abbiamo visto i nostri fratelli morire, vi diciamo: « indietro, sciacalli! Se la guerra fu nostra, nostra deve essere anche la pace ». (Applausi vivissimi). Noi che volemmo la guerra, riprenderemo la lotta. La vita è tutta una lotta, solamente nei cimiteri è la pace! Dovremo compiere una vasta opera di rinnovazione. Ma bisogna vedere da dove si parte e come; finché la pace non è firmata bisogna che l'Italia sia tranquilla, concorde! Che cosa è questo assalto alle casse. dello Stato ? Che cosa è lo Stato ? Lo Stato non è né il signor Fera né altri ministri. Lo Stato siamo noi. Quando lo Stato sarà prospero e tranquillo, vi sarà denaro e soddisfazione per tutti. Resta la questione del come. Finché non saranno tornati tutti i nostri fratelli non si può procedere a grandi rinnovazioni. Se allora le classi dirigenti chiudessero le porte in faccia ai combattenti, noi non faremmo altro che convogliare queste masse, far loro eseguire un dietro front all'interno, e allora vi garantisco che tutto quello che resta della vecchia Italia in poco tempo sarà sparito per sempre. Noi abbiamo sanguinato, abbiamo sofferto, mentre alcuni ridevano e s'imboscavano. Per fortuna il popolo italiano non è con loro, è più grande, più nobile, più giusto.
Ho sentito un contadino in una trincea che diceva: « Tutto quello che fo è necessario. Io sono l'artiere di una grande opera!» Questo era il pensiero e l'azione del popolo, mentre vi era qui una turba rimasta a fare cose non sempre pulite e degne!
Noi diremo: « Combattenti che ritornate, l'Italia è vostra, è della nuova aristocrazia delle trincee! Coloro che non sono andati a combattere non erano che dei vigliacchi e non sono degni di governarla! Noi affideremo l'Italia al popolo italiano che in un anno ha avuto la più grande sconfitta e la più grande vittoria ».
Chi è dunque che vuol negare la marcia di questo popolo? Dove sono coloro che vogliono fermare il passo ai battaglioni che vengono dalle trincee ?
Quando l'Italia sarà libera e ferverà di lavoro, allora noi avremo adempiuto al nostro voto, allora potremo commemorare i nostri martiri, i nostri morti, andare incontro alle Madri dolorose, dicendo: Tutto ciò non è stato vano, come dicevano gli sciacalli, come dicevano i preti. C'è un po' più di giustizia nelle masse, c'è un po' più di libertà per il mondo.

(Una grande avazione saluta il fecondo oratore, che ha parlato con sincerità, con fede, con vero amore per la Patria e per il popolo che l'ha fatta grande)


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Avamposto
29-07-10, 13:01
PRO FIUME E DALMAZIA

A Milano, per le ore ventuno del 14 gennaio 1919, era stato indetto alla «Scala» un comizio pro Fiume e Dalmazia. italiana nel corso del quale avrebbero dovuto parlare Benito Mussolini, Massimo Rocca, l'on. Rubin di Traù, l'on. Salvi di Spalato, e l'on. Zanella di Fiume. Verso le diciotto, «quando già tutta Milano si preparava alla grande celebrazione, un decreto prefettizio proibiva la manifestazione ». Alle ventuno, in « Galleria », si forma un comizio di protesta al quale Mussolini, da una finestra del « Biffi », rivolge le parole qui riportate.




Combattenti!
Da cittadini disciplinati e da soldati obbedienti, noi ci inchiniamo e rispettiamo il decreto che ci vieta di parlare alla « Scala ». Ma nessuno ci vieta e ci può vietare però di alzare la nostra voce libera contro i rinunciatari di ogni nostro diritto, che vorrebbero mutilata la vittoria d'Italia.
Ci accusano d'imperialismo. Non è vero. Anzi, è più che falso. Noi vogliamo soltanto quello per il quale migliaia e migliaia di soldati hanno sacrificato la loro giovane vita. Nessun imperialismo. Noi non vogliamo Zagabria ch'è croata, non vogliamo Belgrado ch'è serba, non vogliamo nulla che non sia italiano. Ma Zara è italiana, ma Fiume è italiana, ma Spalato è italiana, e noi non permetteremo che piede croato calpesti il suolo di quelle nostre nobilissime città.
Viva la Dalmazia italiana!

(Un uragano di applausi saluta il discorso di Mussolini)


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Avamposto
29-07-10, 13:02
DISCORSO DI DALMINE

Discorso pronunciato a dalmine il 20 marzo 1919 negli stabilimenti metallurgici "Franchi e Gregorini"




Dopo quattro anni di guerra terribile e vittoriosa, nella quale sono state impegnate le nostre carni ed il nostro spirito, mi sono spesso domandato se le masse sarebbero ritornate a camminare sui vecchi binari o se avrebbero avuto il coraggio di cambiare strada. Dalmine ha risposto. L'ordine del giorno votato da voi lunedì è un documento di valore storico enorme che orienta, che deve orientare il lavoro italiano.
Il significato intrinseco del vostro gesto è chiaro, è limpido, è documentato nell'ordine del giorno. Voi vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto della vostra categoria di metallurgici. Per gli interessi immediati della vostra categoria, voi potevate fare lo sciopero vecchio stile, lo sciopero negativo e distruttivo, ma pensando agli interessi del popolo, voi avete inaugurato lo sciopero creativo, che non interrompe la produzione. Non potevate negare la nazione, dopo che per essa anche voi avete lottato, dopo che per essa 500 mila uomini nostri sono morti. La nazione che ha fatto questo sacrificio non si nega, poiché essa è una gloriosa, una vittoriosa realtà. Non siete voi i poveri, gli umili e i reietti, secondo la vecchia rettorica del socialismo letterario; voi siete i produttori, ed è in questa vostra rivendicata qualità che voi rivendicate il diritto di trattare da pari cogli industriali. Voi insegnate a certi industriali, a quelli specialmente che ignorano tutto ciò che in questi ultimi quattro anni è avvenuto nel mondo, che la figura del vecchio industriale esoso e vampiro deve sostituirsi con quella del capitano della sua industria da cui può chiedere il necessario per sé, non già per imporre la miseria per gli altri creatori della. ricchezza.
Voi non avete potuto provare per la brevità del tempo e le condizioni di fatto createvi dagli industriali la capacità a fare, ma avete provato la vostra volontà, ed io vi dico che siete sulla buona strada perché vi siete liberati dai vostri protettori, vi siete scelti nel vostro seno gli uomini che vi dirigono e che vi rappresentano e ad essi soli avete affidato il vostro diritto.
Il divenire del proletariato è problema di volontà e di capacità, non di sola volontà, non di sola capacità, ma di capacità e di volontà insieme. Vi siete sottratti al gioco delle influenze politiche. (Applausi). I vostri applausi me lo dimostrano. Ma io non appartengo alla genia di quei Maddaleni che ho frustato a sangue. Sono fiero di essere stato interventista. Se fosse necessario, vorrei incidere a caratteri di scatola sulla mia fronte la testimonianza per tutti i vigliacchi, che io sono stato tra quelli che nel maggio splendido del 1915 hanno chiesto a gran voce che la vergogna dell'Italia parecchista cessasse. (Acclamazioni).
Oggi che la guerra è cessata, io che sono stato in trincea, tra il popolo d'Italia, ed ho avuto per lunghi mesi e quotidianamente la rivelazione in tutti i sensi del valore dei figli d'Italia, oggi io dico che bisogna andare incontro al lavoro che torna e a quello che, non imboscato, ha nutrito le officine, non col gesto della tirchieria che non riconosce e umilia, ma collo spirito aperto alle necessità dei tempi nuovi. Coloro che si ostinano a negare le « novità » necessarie o sono degli illusi o sono degli stolti che non vedranno la sera della loro giornata.
Non ho mai chiesto, ed oggi meno che mai, nulla chiedo né a voi né a nessuno. E perciò non ho ansie o preoccupazioni circa l'effetto che faranno queste mie dichiarazioni su di voi. Io vi dico che il vostro gesto è stato nuovo e degno, per i motivi che l'inspirano, di simpatia. Ancora un rilievo: sul pennone dello stabilimento voi avete issato la vostra bandiera che è tricolore ed attorno ad essa ed al suo garrito avete combattuto la vostra battaglia. Bene avete fatto. La bandiera nazionale non è uno straccio anche se per avventura fosse stata trascinata nel fango dalla borghesia o dai suoi rappresentanti politici: essa è il simbolo del sacrificio di migliaia e migliaia di uomini. Per essa, dal 18z1 al 1918, schiere infinite di uomini hanno sofferto privazioni, prigionia e patiboli. Attorno ad essa, quando era il segnale di raccolta, è stato versato nel corso di questi quattro anni di guerra il fiore del sangue dei nostri figli, dei nostri e vostri fratelli.
Mi pare di avere detto abbastanza.
Per i vostri diritti, che sono equi e sacrosanti, sono con voi. Distinguerò sempre la massa che lavora dal Partito che si arroga non si sa perché il diritto di volerla rappresentare. Ho simpatizzato con tutti gli organismi operai non esclusa la Confederazione Generale del Lavoro, ma più da vicino mi sento con l'Unione Italiana del Lavoro. Ma dichiaro che non cesserò la guerra contro il Partito che è stato durante la guerra uno strumento del Kaiser. Parlo del Partito Socialista Ufficiale. Esso vuole tentare sulla vostra pelle il suo esperimento scimmiesco, poiché non è che una contraffazione russa. Voi giungerete, in un tempo che non so se sia vicino o lontano, ad esercitare funzioni essenziali nella società moderna, ma i politicanti borghesi o semiborghesi non debbono farsi sgabello delle vostre aspirazioni per giocare la loro partita.
Di me possono avervi detto quello che si vuole. Non me ne importa. Sono un individualista che non cerca compagni nel suo cammino. Ne trova, ma non li cerca. Mentre infuria l'immonda speculazione politicante degli sciacalli che spogliano i morti, voi, oscuri lavoratori di Dalmine, avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla in voi, non il dogma idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa. E' il lavoro che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande entro e oltre i confini.

(Il discorso di Mussolini è spesso interrotto da applausi generali, ripetuti, spontanei e cordiali).



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Avamposto
29-07-10, 13:03
DISCORSO DEL 23 MARZO 1919 FONDAZIONE DEI FASCI DI COMBATTIMENTO

Discorso pronunciato a Milano, nella sede dell'Alleanza industriale e commerciale sita in piazza San Sepolcro 9, la mattina del 23 marzo 1919, nel corso dell'adunata nazionale degli interventisti italiani. Prima di Benito Mussolini avevano parlato il presidente dell'assemblea, capitano Ferruccio Vecchi, e il tenente Enzo Ferrari, consigliere provinciale di Milano, il quale, a nome del "Fascio milanese di combattimento" aveva riportato il saluto agli interventisti




Prima di tutto alcune parole circa l’ordine dei lavori.
Senza troppe formalità o pedanterie vi leggerò tre dichiarazioni che mi sembrano degne di discussione e di voto. Poi, nel pomeriggio, riprenderemo la discussione sulla nostra dichiarazione programmatica. Vi dico subito che non possiamo scendere ai dettagli. Volendo agire prendiamo la realtà nelle sue grandi linee, senza seguirla minutamente nei suoi particolari.
Prima dichiarazione:
L'adunata del 23 marzo rivolge il suo primo saluto e il suo memore e reverente pensiero ai figli d'Italia che sono caduti per la grandezza della Patria e per la libertà del mondo, ai mutilati e invalidi, a tutti i combattenti, agli ex-prigionieri che compirono il loro dovere, e si dichiara pronta a sostenere energicamente le rivendicazioni d'ordine materiale e morale che saranno propugnate dalle associazioni dei combattenti.
Siccome noi non vogliamo fondare un partito dei combattenti, poiché un qualche cosa di simile si sta già formando in varie città d'Italia, non possiamo precisare il programma di queste rivendicazioni. Lo preciseranno gli interessati. Dichiariamo che lo appoggeremo. Noi non vogliamo separare i morti, né frugare loro nelle tasche per vedere quale tessera portassero: lasciamo questa immonda bisogna ai socialisti ufficiali.
Noi comprenderemo in un unico pensiero di amore tutti i morti, dal generale all'ultimo fante, dall'intelligentissimo a coloro che erano incolti ed ignoranti. Ma voi mi permetterete di ricordare con predilezione, se non con privilegio, i nostri morti, coloro che sono stati con noi nel maggio glorioso: i Corridoni, i Reguzzoni; i Vidali, i Deffenu, il nostro Serrani, questa gioventú meravigliosa che è andata al fronte e che là è rimasta. Certo, quando oggi si parla di grandezza della patria e di libertà del mondo, ci può essere qualcuno che affacci il ghigno e il sorriso ironico, poiché ora è di moda fare il processo alla guerra: ebbene la guerra si accetta in blocco o si respinge in blocco. Se questo processo deve essere eseguito, saremo noi che lo faremo e non gli altri. E volendo del resto esaminare la situazione nei suoi elementi di fatto, noi diciamo subito che l'attivo e il passivo di un'impresa così grandiosa non può essere stabilito con le norme della regolarità contabile: non si può mettere da una parte il quantum di fatto e di non fatto: ma bisogna tener conto dell'elemento "qualitativo". Da questo punto di vista noi possiamo affermare con piena sicurezza che la Patria oggi è píú grande: non solo perché giunge al Brennero - dove giunge Ergisto Bezzi, cui rivolgo il saluto - non solo perché va alla Dalmazia. Ma è più grande l'Italia anche se le piccole anime tentano un loro piccolo giuoco; è più grande perché noi ci sentiamo più grandi in quanto abbiamo l'esperienza di questa guerra, inquantoché noi l'abbiamo voluta, non c'è stata imposta, e potevamo evitarla. Se noi abbiamo scelto questa strada è segno che ci sono nella nostra storia, nel nostro sangue, degli elementi e dei fermenti di grandezza, poiché se ciò non fosse noi oggi saremmo l'ultimo popolo del mondo. La guerra ha dato ciò che noi chiedevamo: ha dato i suoi vantaggi negativi e positivi: negativi in quanto ha impedito alle case degli Hohenzollern, degli Absburgo e degli altri di dominare il mondo, e questo è un risultato che sta davanti agli occhi di tutti e basta a giustificare la guerra. Ha dato anche i suoi risultati positivi poiché in nessuna nazione vittoriosa si vede il trionfo della reazione. In tutte si marcia verso la più grande democrazia politica ed economica. La guerra ha dato, malgrado certi dettagli che possono urtare gli elementi più o meno intelligenti, tutto quello che chiedevamo.
E perché parliamo anche degli ex-prigionieri- È una questione scottante. Evidentemente ci sono stati di quelli che si sono arresi, ma quelli si chiamano disertori: d'altra parte in quella massa c'è la grande maggioranza che è caduta prigioniera dopo aver fatto il suo dovere, dopo aver, combattuto: se così non fosse potremmo cominciare a bollare Cesare Battisti e molti valorosi e brillanti ufficiali e soldati che hanno avuto la disgrazia di cadere nelle mani del nemico.
Seconda dichiarazione:
L'adunata del 23 marzo dichiara di opporsi all'imperialismo degli altri popoli a danno dell'Italia e all'eventuale imperialismo italiano a danno di altri popoli; accetta il postulato supremo della Società delle Nazioni che presuppone l'integrazione di ognuna di esse, integrazione che per quanto riguarda l'Italia deve realizzarsi sulle Alpi e sull'Adriatico con la rivendicazione e annessione di Fiume e della Dalmazia.
Abbiamo quaranta milioni di abitanti su una superficie di 287 mila chilometri quadrati separati dagli Appennini che riducono ancora di più la disponibilità del nostro territorio lavorativo: saremo fra dieci o venti anni sessanta milioni ed abbiamo appena un milione e mezzo di chilometri quadrati di colonia, in gran parte sabbiosi, verso i quali certamente non potremo mai dirigere il più della nostra popolazione. Me se ci guardiamo attorno vediamo l'Inghilterra che con quarantasette milioni di abitanti ha un impero coloniale di 55 milioni di chilometri quadrati e la Francia che con una popolazione di trentotto milioni di abitanti ha un impero coloniale di 15 milioni di chilometri quadrati. E vi potrei dimostrare con le cifre alla mano che tutte le nazioni del mondo, non esclusi il Portogallo, l'Olanda e il Belgio, hanno tutte quante un impero coloniale al quale tengono e che non sono affatto disposte a mollare in base a tutte le ideologie che possono venire da oltre oceano.
Lloyd George parla apertamente di impero inglese. L'imperialismo è il fondamento della vita per ogni popolo che tende ad espandersi economicamente e spiritualmente. Quello che distingue gli imperialismi sono i mezzi. Ora i mezzi che potremo scegliere e sceglieremo non saranno mai mezzi di penetrazione barbarica, come quelli adottati dai tedeschi. E diciamo: o tutti idealisti o nessuno. Si faccia il proprio interesse. Non si comprende che si predichi l'idealismo da parte di coloro che stanno bene a coloro che soffrono, poiché ciò sarebbe molto facile. Noi vogliamo il nostro posto nel mondo poiché ne abbiamo il diritto.
Riaffermo qui in questo ordine del giorno, il "postulato societario della Società delle Nazioni". È nostro in fin dei conti, ma intendiamoci: se la Società delle Nazioni deve essere una solenne "fregata" da parte delle nazioni ricche contro le nazioni proletarie per fissare ed eternare quelle che possono essere le condizioni attuali dell'equilibrio mondiale, guardiamoci bene negli occhi. Io comprendo perfettamente che le nazioni arrivate possano stabilire questi premi d'assicurazione della loro opulenza e posizione attuale di dominio. Ma questo non è idealismo; è tornaconto e interesse.
Terza dichiarazione:
L'adunata del 23 marzo impegna i fascisti a sabotare con tutti i mezzi le candidature dei neutralisti di tutti i Partiti.
Voi vedete che io passo da un punto ad un altro, ma in tutto ciò c'è logica, c'è un filo. Io non sono un entusiasta delle battaglie schedaiole, tanto è vero che da tempo ho abolito le cronache del "Camerone" e nessuno se ne è doluto: anzi il mio esempio aveva consigliato altri giornali a ridurre questa cronaca scandalosa fino ai limiti dello strettamente necessario. In ogni modo è evidente che entro quest'anno ci saranno le elezioni. Non si conosce ancora la data né il sistema che sarà seguito, ma dentro l'anno ci saranno queste battaglie elettorali e cartacee.
Ora, si voglia o non si voglia, in queste elezioni si farà il processo alla guerra, cioè il "fatto guerra" essendo stato il fatto dominante della nostra vita nazionale, è chiaro che non si potrà evitare di parlare di guerra.
Noi accetteremo la battaglia precisamente sul fatto guerra, poiché non solo non siamo pentiti di quello che abbiamo fatto, ma andiamo più in là: e con quel coraggio che è frutto del nostro individualismo, diciamo che se in Italia si ripetesse una condizione di cose simile a quella del 1915, noi ritorneremmo a invocare la guerra come nel 1915.
Ora è molto triste il pensare che ci siano stati degli interventisti che hanno defezionato in questi ultimi tempi. Sono stati pochi e per motivi non sempre politici. C'è stato il trapasso originato da ragioni di indole politica che non voglio discutere, ma c'è stata la defezione originata dalla paura fisica. Per quietare la belva molliamo la Dalmazia, rinunciamo a qualche cosa. Ma il calcolo è pietosamente fallito. Noi, non solo non ci metteremo su quel terreno politico, ma non avremo nemmeno quella paura fisica che è semplicemente grottesca. Ogni vita vale un'altra vita, ogni sangue vale un altro sangue, ogni barricata un'altra barricata. Se ci sarà da lottare impegneremo anche la lotta delle elezioni. Ci sono stati neutralisti fra i socialisti ufficiali e fra i repubblicani. Anche i cosiddetti cattolici del Partito italiano cercano di rimettersi in carreggiata per far dimenticare la loro opera mostruosa che va dal convegno di Udine al grido nefando uscito dal Vaticano. Tutto ciò non è stato soltanto un delitto contro la Patria ma si è tradotto in un di piú di sangue versato, di mutilati e di feriti. Noi andremo a vedere i passaporti di tutta questa gente: tanto dei neutralisti arrabbiati come di coloro che hanno accettato la guerra come una corvée penosa; andremo nei loro comizi, porteremo dei candidati e troveremo tutti i mezzi per sabotarli.

Al discorso di Benito Mussolini seguono quelli di F.T. Marinetti e del capitano Mario Carli. "Dopo di che il presidente Vecchi mette ai voti le tre dichiarazioni proposte e illustrate da Mussolini. Sono approvate all'unanimità tra grandi acclamazioni. Poco dopo le 14 l'adunata riprende i suoi lavori: Celso Morisi presenta un ordine del giorno - approvato per acclamazione - di saluto e di plauso ai lavoratori di Dalmine e di Pavia "che nelle loro legittime battaglie di classe non hanno obliato i doveri verso la Nazione e che la loro italianità hanno rivendicato nelle forme più suggestive e superbe". Malusardi, a nome di un gruppo di amici, propone un saluto per Ergisto Bezzi. L'assemblea approva applaudendo fragorosamente".
Dopo Giovanni Capodivacca "ha la parola Benito Mussolini". Ecco il riassunto del suo discorso:

Quello che ha detto l'amico Capodivacca, mi dispensa dal fare un lungo discorso. Noi non abbiamo bisogno di metterci programmaticamente sul terreno della rivoluzione perché, in senso storico, ci siamo dal 1915. Non è necessario prospettare un programma troppo analitico, ma possiamo affermare che il bolscevismo non ci spaventerebbe se ci dimostrasse che esso garantisce la grandezza di un popolo e che il suo regime sia migliore degli altri.
È ormai dimostrato irrefutabilmente che il bolscevismo ha rovinato la vita economica della Russia. Laggiù, l'attività economica, dall'agricoltura all'industria, è totalmente paralizzata. Regna la carestia e la fame. Non solo, ma il bolscevismo è un fenomeno tipicamente russo. Le nostre civiltà occidentali, a cominciare da quella tedesca, sono refrattarie.
Noi dichiariamo guerra al socialismo, non perché socialista, ma perché è stato contrario alla nazione. Su quello che è il socialismo, il suo programma e la sua tattica, ciascuno può discutere, ma il Partito Socialista Ufficiale Italiano è stato nettamente reazionario, assolutamente conservatore, e se fosse trionfata la sua tesi non vi sarebbe oggi per noi possibilità di vita nel mondo. Non è il Partito Socialista quello che può mettersi alla testa di un'azione di rinnovamento e di ricostruzione. Siamo noi, che facendo il processo alla vita politica di questi ultimi anni, dobbiamo inchiodare alla sua responsabilità il Partito Socialista Ufficiale.
E' fatale che le maggioranze siano statiche, mentre le minoranze sono dinamiche. Noi vogliamo essere una minoranza attiva, vogliamo scindere il Partito Socialista Ufficiale dal proletariato, ma se la borghesia crede di trovare in noi dei parafulmini, s'inganna. Noi dobbiamo andare incontro al lavoro. Già al tempo dell'armistizio io scrissi che bisognava andare incontro al lavoro per chi ritornava dalle trincee, perché sarebbe odioso e bolscevico negare il riconoscimento dei diritti di chi ha fatto la guerra. Bisogna perciò accettare i postulati delle classi lavoratrici: vogliono le otto ore? Domani i minatori e gli operai che lavorano di notte imporranno le sei ore? Le pensioni per l'invalidità e la vecchiaia? Il controllo sulle industrie? Noi appoggeremo queste richieste, anche perché vogliamo abituare le classi operaie alla capacità direttiva delle aziende, anche per convincere gli operai che non è facile mandare avanti un'industria e un commercio.
Questi sono i nostri postulati, nostri per le ragioni che ho detto innanzi e perché nella storia ci sono cicli fatali per cui tutto si rinnova, tutto si trasforma. Se la dottrina sindacalista ritiene che dalle masse si possano trarre gli uomini direttivi necessari e capaci di assumere la direzione del lavoro, noi non potremo metterci di traverso, specie se questo movimento tenga conto di due realtà: la realtà della produzione e quella della nazione.
Per quello che riguarda la democrazia economica, noi ci mettiamo sul terreno del sindacalismo nazionale e contro l'ingerenza dello Stato, quando questo vorrebbe assassinare il processo di creazione della ricchezza.
Combatteremo il retrogradismo tecnico e spirituale. Ci sono industriali che non si rinnovano dal punto di vista tecnico e dal punto di vista morale. Se essi non troveranno la virtù di trasformarsi, saranno travolti, ma noi dobbiamo dire alla classe operaia che altro è demolire, altro è costruire, che la distruzione può essere opera di un'ora, mentre la creazione è opera di anni o di secoli.
Democrazia economica, questa è la nostra divisa. E veniamo alla democrazia politica.
Io ho l'impressione che il regime attuale in Italia abbia aperto la successione. C'è una crisi che balza agli occhi di tutti. Abbiamo sentito tutti durante la guerra l'insufficienza della gente che ci governa e sappiamo che si è vinto per le sole virtù del popolo italiano, non già per l'intelligenza e la capacità dei dirigenti.
Aperta la successione del regime, noi non dobbiamo essere degli imbelli. Dobbiamo correre. Se il regime sarà superato, saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Perciò creiamo i Fasci: questi organi di creazione e agitazione capaci di scendere in piazza a gridare: "Siamo noi che abbiamo diritto alla successione perché fummo noi che spingemmo il paese alla guerra e lo conducemmo alla vittoria!".
Dal punto di vista politico abbiamo nel nostro programma delle riforme: il Senato deve essere abolito. Mentre traccio questo atto di decesso devo però aggiungere che il Senato in questi ultimi tempi si è dimostrato di molto superiore alla Camera.
(Una voce:"Ci voleva poco!")
È vero, ma quel poco è stato fatto. Noi vogliamo dunque che quell'organismo feudale sia abolito; chiediamo il suffragio universale, per uomini e donne; lo scrutinio di lista a base regionale; la rappresentanza proporzionale. Dalle nuove elezioni uscirà un'assemblea nazionale alla quale noi chiediamo, che decida sulla forma di governo dello Stato italiano. Essa dirà: repubblica o monarchia, e noi che siamo stati sempre tendenzialmente repubblicani, diciamo fin da questo momento: repubblica! Noi non andremo a rimuovere i protocolli e a frugare negli archivi, non faremo il processo retrospettivo e storico alla monarchia. L'attuale rappresentanza politica non ci può bastare; vogliamo una rappresentanza diretta dei singoli interessi, poiché io, come cittadino, posso votare secondo le mie idee, come professionista devo poter votare secondo le mie qualità professionali.
Si potrebbe dire contro questo programma che si ritorna verso le corporazioni. Non importa. Si tratta di costituire dei Consigli di categorie che integrino la rappresentanza sinceramente politica.
Ma non possiamo fermarci su dettagli. Fra tutti i problemi, quello che oggi interessa di piú è di creare la classe dirigente e di munirla dei poteri necessari.
E inutile porre delle questioni più o meno urgenti se non si creano i dirigenti capaci di risolverle.
Esaminando il nostro programma vi si potranno trovare delle analogie con altri programmi; vi si troveranno postulati comuni ai socialisti ufficiali, ma non per questo essi saranno identici nello spirito perché noi ci mettiamo sul terreno della guerra e della vittoria ed è mettendoci su questo terreno che noi possiamo avere tutte le audacie. Io vorrei che oggi i socialisti facessero l'esperimento del potere, perché è facile promettere il paradiso, difficile realizzarlo. Nessun Governo domani potrebbe smobilitare tutti i soldati in pochi giorni o aumentare la quantità dei viveri, perché non ce ne sono. Ma noi non possiamo permettere questo esperimento perché i socialisti vorrebbero portare in Italia una contraffazione del fenomeno russo al quale tutte le menti pensanti del socialismo sono contrarie, da Branting e Thomas a Bernstein, perché il fenomeno bolscevico non abolisce le classi, ma è una dittatura esercitata ferocemente.
Noi siamo decisamente contro tutte le forme di dittatura, da quella della sciabola a quella del tricorno, da quella del denaro a quella del numero; noi conosciamo soltanto la dittatura della volontà e dell'intelligenza.
Vorrei perciò che l'assemblea approvasse un ordine del giorno nel quale accettasse le rivendicazioni del sindacalismo nazionale dal punto di vista economico.
Posta questa bussola al nostro viaggio, la nostra attività dovrà darci subito la creazione dei Fasci di combattimento. Domani indirizzeremo la loro azione simultaneamente in tutti i centri d'Italia. Non siamo degli statici; siamo dei dinamici e vogliamo prendere il nostro posto che deve essere sempre all'avanguardia.

(Mussolini, - che ha parlato nervosamente, a scatti, ed è stato seguito con intensa attenzione dall'uditorio ed interrotto spesso da applausi - è salutato alla fine da una imponenete manifestazione di solidarietà).Si inizia quindi una discussione sul programma esposto da Mussolini. Parlano nell'ordine: Regina Teruzzi; Monzini; Franco Maria Fiecchi; Mussolini ("nel programma dell'Unione italiana del lavoro si parla già di confisca di quelle ricchezze malamente accumulate durante la guerra. Noi abbiamo già fatto nostro questo programma del sindacalismo nazionale"); Luigi Razza; Michele Bianchi; Mussolini ("noi abbiamo posto come caposaldo della nostra politica il maximum di produzione"); N. Galassi, Ettore Bortoluzzi; Ferruccio Vecchi; il quale "mette ai voti l'ordine del giorno riflettente il programma dei Fasci. L'assemblea approva all'unanimità fra gli applausi". Seguono brevi discorsi di Del Latte, Canzio Garibaldi; Giovanni Marinelli. Si procede quindi alla nomina della Giunta Esecutiva dei Fasci di combattimento e a quella dei fiduciari di ogni regione. Vengono scelti amici di provata fede, in gran parte combattenti. S'impegna una discussione di dettaglio in cui vari rappresentanti fanno suggerimenti e rilievi vari. Dopo di che il presidente Vecchi, con maschie parole di incitamento, chiude fra gli applausi la vibrante e promettente assemblea.



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Avamposto
29-07-10, 13:04
IL PROGRAMMA POLITICO DEI FASCI

Discorso pronunciato a Milano, nel salone di via San Paolo 10, la sera del 13 aprile 1919, nel corso dell'assemblea del fascio milanese di combattimento.




Il programma che ho pubblicato sul giornale di oggi è il mio programma, ma può non essere il vostro. In questo caso potremo discuterlo e modificarlo. Si rimprovera a noi un atteggiamento puramente negativo. Evidentemente questo atteggiamento negativo non basta alla nostra attività pratica. Contro il bolscevismo sono in gioco molte forze storiche e politiche. La nostra opera, di prevenzione, deve consistere nel presentare un programma di attuazione immediata a scadenza massima di quindici giorni, effettuabile nell'intervallo di tempo che ci separa dal i o maggio. Non perché questa data possa essere l'inizio di una catastrofe; da quanto si legge nei fogli socialisti si ha l'impressione del contrario.
Noi ci mettiamo sul terreno delle realizzazioni immediate per ragioni di ordine politico generale e urgente. I primi tre punti di queste realizzazioni non sono dell'importanza. degli altri, pure quello del progetto di legge che sancisca le otto ore di lavoro per tutti i lavoratori italiani ha importanza ed ha un precedente in Francia, dove il Governo repubblicano ha deposto il progetto di legge di sua iniziativa. La classe proletaria francese perciò non farà nemmeno una giornata di sciopero per ottenere questa rivendicazione.
In Italia gli operai che potrebbero godere delle otto ore sono otto o dieci milioni, mentre quelli che le hanno già ottenute sono appena un milione.
Circa gli emendamenti al progetto Ciuffelli sulle assicurazioni globali, or non è molto ho letto un ordine del giorno favorevole alla Federazione del Lavoro. Questo progetto fissa il minimo della pensione a 65 anni di età, ma gli elementi operai fanno osservare che a questa età si è troppo vecchi e chiedono perciò che il limite sia portato a 55 anni.
Il terzo punto delle realizzazioni immediate da effettuare nell'ordine sociale riguarda il personale delle ferrovie. Bisogna che il Governo sistemi i ferrovieri, i quali sono un elemento essenziale della vita della nazione; e in questo momento è essenziale che il servizio funzioni, e perché funzioni è necessario sistemare il personale.
Della seconda parte del nostro programma di realizzazione abbiamo già parlato e discusso in altre riunioni.
Sulla terza parte, cioè nell'ordine economico finanziario, propongo una misura rivoluzionaria che nessun Partito finora - nemmeno il Partito che vuol monopolizzare la rivoluzione - ha mai affacciato. Si tratta di un'imposta straordinaria progressiva sul capitale. E' una confisca quella che propongo.
Prima di formulare la proposta io non solo ho studiato la questione da tutti i punti di vista, ma ho interrogato dei competenti in materia finanziaria. Tutti concordemente mi hanno dichiarato che se il Governo non ricorre a questa misura radicale, noi non usciremo dal nostro gravissimo imbarazzo finanziario.
I vantaggi di questo provvedimento sarebbero grandiosi e ci permetterebbero di far fronte ai nostri impegni.
Nostra intenzione è di portare questi nostri postulati all'on. Orlando. Egli tornerà, pare, a Roma il 20: la Camera si riaprirà il 23. Noi abbiamo intenzione di convocare in Roma una giunta rappresentante tutti i Fasci d'Italia. Ci recheremo dall'on. Orlando e gli diremo: « Queste riforme sono mature nella coscienza del popolo italiano e rappresentano una indefettibile necessità: se le accogliete senza dilazione determinerete una « détente » anche nello spirito delle classi popolari, ma se voi non vi renderete conto di queste necessità, senza fare i profeti crediamo di potervi dire che voi pregiudicherete le sorti delle istituzioni. Ma lo avrete voluto, perché noi vi proponiamo la via per cui convogliare il movimento verso una trasformazione pacifica ».
Il nostro compito, dunque, non è quello di impedire quello che è già in corso, ma quello di evitare che questa profonda trasformazione rappresenti il dato distruttivo della nostra civiltà.
Se noi potremo' domani stendere in tutta Italia una rete formidabile di Fasci e se raccoglieremo intorno a questi Fasci il consenso sempre più largo delle masse e se creeremo dei nuclei pronti all'azione, allora potremo imporci nel giro di ventiquattro ore.
È necessario dire il nostro parere riguardo all'eventualità di un supplemento di amnistia. Fin da questo momento noi dichiariamo in proposito che non si potrebbe fare uno sfregio più atroce ai nostri morti e ai mutilati di quello di beneficare i disertori in faccia al nemico e i disertori all'interno che si son resi colpevoli di delitti comuni. (Applausi).
Per questa categoria di condannati non potremo chiedere - e nemmeno i socialisti ufficiali in buona fede. possono chiederla - clemenza: per tutti gli altri si.
Queste le linee del nostro programma immediato, programma che combatte il leninismo, che non deve essere confuso col proletariato. Noi intendiamo salvare la nostra rivoluzione dalla loro, che è la rivoluzione distruttiva della vandea.



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Avamposto
29-07-10, 13:04
DISCORSO DEL 22 MAGGIO 1919 A FIUME



La marcia di chi ha spinto il paese alla guerra e l’ha portato alla vittoria non si ferma a Vittorio Veneto e non si arresta al Brennero e al Carnaro. Non basta la vittoria delle armi; è necessaria la vittoria dello spirito se vogliamo rinnovare la nazione per lanciarla sulla via del suo più grande imperiale destino.
E’ il movimento fascista – movimento squisitamente rivoluzionario – fatto di realtà e di verità, di impeto e di fede che farà valere il diritto del popolo italiano e condurrà la nazione ai più alti destini. Non le classi, non i partiti, non i dogmi idioti, ma il lavoro sarà l’animatore e il propulsore della nuova vita italiana.
L’ora dell’Italia non è ancora suonata, ma deve fatalmente venire. L’Italia di Vittorio Veneto sente l’irresistibile attrazione verso il Mediterraneo che apre la via all’Africa. Una tradizione due volte millenaria chiama l’Italia sui lidi del continente nero che nelle reliquie venerande ostenta l’Impero di Roma. E’ la democrazia che ha snaturato la missione e ha falsato la storia d’Italia, alla quale il genio del suo popolo aveva dato il valore di attrice e direttrice della storia europea.
L’Italia, avanzando contro gli uomini del passato e contro le false teorie di marca straniera in piena decadenza, di fronte alle nuove formazioni che vogliono il loro posto al sole, ha obbedito a un comando del destino.


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Avamposto
29-07-10, 13:05
PER L'ESPROPRIAZIONE DEL CAPITALE]

Discorso pronunciato a Milano, nella palestra delle scuole di Corso di Porta Romana 10, la sera del 9 giugno 1919, dopo la conferenza di Alceste De Ambris sul tema: I problemi finanziari del dopoguerra: l'espropriazione parziale del capitale.




Fascisti ! Cittadini !
Io credo di interpretare esattamente il vostro pensiero ringraziando l'amico De Ambris che ci ha intrattenuto su un tema delicato e complesso e di grande attualità. II problema è chiaro. La nazione italiana è come una grande famiglia. Le casse sono vuote. Chi deve riempirle ? Noi, forse ? Noi che non possediamo case, automobili, banche, miniere, terre, fabbriche, banconote ? Chi può « deve » pagare. Chi può deve sborsare. Non si liquida la situazione spaventevole del dopoguerra, dal punto di vista finanziario, se non si ricorre a misure radicali. A mali estremi, rimedi eroici. Nel momento attuale quella che proponiamo è l'espropriazione fiscale; l'altra è opera dei sindacati operai, i quali potranno assumere la gestione delle fabbriche soltanto a condizioni date che oggi esistono ancora ne-la loro necessaria pienezza. Delle due l'una: o i beati possidenti si autoesproprieranno e allora non vi saranno crisi violente, perché noi, per i primi, aborriamo dalla violenza fra gente della stessa razza e che vive sotto lo stesso cielo; o saranno ciechi, sordi, tirchi, cinici e allora noi convoglieremo le masse dei combattenti verso questi ostacoli e li travolgeremo. È l'ora dei sacrifici per tutti. Chi non ha dato il sangue, dia il denaro. Chi ha malamente impinguato i forzieri, li vuoti in nome e nell'interesse superiore della collettività nazionale.
Chi non sente nell'ora che volge questi doveri è un disertore e come tale sarà trattato. Io credo che imitando un esempio venuto dall'alto, una specie di autoespropriazione partita dal Quirinale, anche i più intelligenti dei ricchi comprenderanno che l'ora dei sordidi egoismi è tramontata. Noi fascisti intraprenderemo una propaganda indiavolata e riusciremo a scardinare la porta dei privilegi iniqui che non vogliono morire, per dare posto a più giuste forme di convivenza umana.
Viva i combattenti che si accingeranno all'opera santa nelle trincee dell'interno! Viva il grande popolo italiano degno dei migliori destini!


(Una grande acclamazione accoglie il discorso sintetico di Mussolini, il quale scende dal tavolo e viene baciato e abbracciato dai più vicini).


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Avamposto
29-07-10, 13:06
« NOI SALUTIAMO L'EROE E GLI PROMETTIAMO CHE OBBEDIREMO AD OGNI SUO CENNO »

A Milano, la sera del 13 settembre 1919, i fascisti organizzano una dimostrazione per l'annessione di Fiume all'Italia. In « Galleria », parlano Guido Del Latte ed Edoardo Susmel; in piazza del Duomo, Ferruccio Vecchi, che «I chiude invitando i presenti a recarsi a portare il saluto al Popolo d'Italia. Il corteo si dirige a via Paolo da Cannobio. Grida ed acclamazioni chiamano al balcone il nostro Direttore, il quale non appena appare viene salutato da una triplice salve di applausi ». Indi Mussolini pronuncia il discorso qui riportato.




Questa sera abbiamo incominciato la serie delle dimostrazioni che debbono provare a tutto il mondo come il popolo di Milano sia sempre lo stesso delle gloriose giornate del 1915, nelle quali, duce l'indimenticabile Filippo Corridoni, fu imposta ai vili e ai trepidi la guerra di liberazione.
Gabriele d'Annunzio, che non è soltanto un grande poeta, ma un grande soldato, il primo soldato d'Italia, ha osato compiere l'atto che ha spaventato il nostro pavido Governo.
Noi salutiamo l'Eroe e gli promettiamo che obbediremo ad ogni suo cenno.
L'italianissima città di Fiume, finalmente ridonata alla Patria, dalla fede e dalla volontà eroica, sarà difesa contro tutte le insidie e contro lo stesso Governo indegno del popolo ai destini del quale presiede. Milanesi vigilate !
Ogni offesa a Gabriele d'Annunzio, ogni atto contro di lui, è contro la grande gesta che lui ha compiuto, è un attentato all'Italia. Viva d'Annunzio 1 Viva l'Italia! Viva Fiume!


(Grandi acclamazioni salutano il breve discorso di Mussolini e quindi la manifestazione ha termine).


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Avamposto
29-07-10, 13:06
Discorso del 9 ottobre 1919 Firenze




Compagni Fascisti, non so se riuscirò a farvi un discorso molto ordinato perché non ho avuto modo, secondo la mia abitudine, di prepararlo. Un discorso Fascista io mi ripromettevo di pronunciare domani mattina per una ragione mia personale che vi può anche interessare e che mi dava diritto a chiedervi qualche ora di riposo.
Anche io ho fatto una piccola beffa a Sua Indecenza Nitti (Grida di: Abbasso Nitti! Abbasso Cagoia!). Sono partito da Novi Ligure sopra uno SVA insieme ad un magnifico pilota. Abbiamo attraversato l'Adriatico e siamo discesi a Fiume. D'Annunzio ci ha accolti molto festosamente, perché ha bisogno di aviatori e di apparecchi. Ieri mattina al ritorno siamo stati colti da una bufera di "bora" sull'altipiano istriano. Abbiamo perciò dovuto deviare dalla rotta e siamo atterrati ad Aiello. A Fiume ho vissuto quello che D'Annunzio giustamente chiama:" Un atmosfera di miracolo e di prodigio." Vi porto intanto il suo saluto. Egli si riprometteva di scrivere un messaggio apposta per la nostra adunata. (Applausi e grida di: Viva Fiume).
Il mio arrivo a Fiume ha coinciso con la cattura del piroscafo Persia, per cui tanto si era agitato il capitano Giulietti della Federazione del Mare. La situazione di Fiume è ottima, sotto tutti gli aspetti. Vi sono viveri per tre mesi.
I jugoslavi non hanno nessuna intenzione di muoversi. Non solo, ma i croati riforniscono in parte Fiume, ciò che dimostra come sia sconcia ed insidiosa la manovra nittiana, tendente a sommuovere il popolino, facendo credere che si fosse alla vigilia di una guerra tra noi ed i jugoslavi. Niente di tutto questo esiste! D'Annunzio non ha fatto sparare finora nessun colpo di fucile contro coloro che stanno al di là della linea di armistizio; ha anzi emanato un proclama ai croati che è un magnifico documento, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista umano.
Esso conclude con le parole: "Viva la fratellanza italo-croata! Viva la fratellanza sul mare."
Ora, nei rapporti internazionali la situazione di Fiume è chiarissima. D'Annunzio non si muoverà, perché tutti gli eventi sono favorevoli a lui. Che cosa possono fare le potenze plutocratiche del capitalismo occidentale contro di lui? Nulla. Assolutamente nulla, perché il rimuovere un fatto compiuto sarebbe scatenare un altro più grosso guaio ed a questo nessuno pensa, nè in Francia, nè in Inghilterra. In Francia, lo possiamo dire tranquillamente, c'è un sacro orrore per un nuovo spargimento di sangue. Quanto al popolo dai "cinque pasti", ha fatto la guerra molto bene e brillantemente, ma ora tutto il suo ordine di idee è contrario a qualsiasi impresa guerresca ed a qualsiasi avventura un po' complicata. Domani il fatto compiuto di Fiume sarebbe compiuto per tutti, perché nessuno avrebbe la forza di modificarlo. Se il governo fosse stato meno vile, a quest'ora avrebbe risolto il problema di Fiume e gli alleati avrebbero dovuto accettarlo, magari con una protesta che forse avrebbe servito di argomento a qualche giornale umoristico. (Applausi).
E veniamo alle nostre cose. Noi siamo degli antipregiudizialisti, degli antidottrinari, dei problemisti, dei dinamici; non abbiamo pregiudiziali nè monarchiche, nè repubblicane. Se ora diciamo che la monarchia è assolutamente inferiore al suo compito, non lo diciamo certo in base ai sacri trattati. Noi giudichiamo dai fatti e diciamo: in questi mesi di Settembre e di Ottobre si è fatto in Italia più propaganda repubblicana che non si fosse fatta negli ultimi cinquant'anni, perché quando la monarchia chiama al Quirinale Giovanni Giolitti (Grida assordanti di:"Abbasso Giolitti."); quando la monarchia mantiene al potere quello che ormai passa bollato col marchio di infamia trovato a Fiume; quando essa scioglie la Camera e tollera che Nitti pronunci un discorso in cui si fa un chiaro appello alle forze bolsceviche della Nazione; quando essa tollera al potere un uomo che non è Kerenski, ma Karolyi; quando infine ratifica la pace per decreto reale, allora io vi dico chiaramente che il problema monarchico che ieri non esisteva per noi in linea pregiudiziale, si pone oggi in tutti i suoi termini. La monarchia ha forse compiuto la sua funzione creando ed in parte riuscendo ad unificare l'Italia. Ora dovrebbe essere compito della repubblica di unirla e decentrarla regionalmente e socialmente, di garantire la grandezza che noi vogliamo di tutto il popolo italiano.
Io credo di essermi spiegato e di avere fissato la linea esatta per cui noi siamo assolutamente coerenti nella nostra base iniziale. Ma noi non dobbiamo svalutare i nostri avversari. Il "babau" di una dittatura militare è grottesco. E' stato inventato da Nitti con la complicità dell'alta banca e dei giornali pseudo democratici che sono legati notoriamente all'alta e parassitaria siderurgia italiana. Io penso che domani, nell'attesa della crisi, i difensori delle istituzioni oramai superate non esisterebbero più perché tutti si squaglierebbero. Ma nella falla che si verrebbe ad aprire certo tutte le forze vi precipiterebbero.
Noi dovremmo allora tener presente il movimento pussista. Questa forza pussista consideriamola un po'' da vicino. I pussisti hanno dovuto contarsi ultimamente e intanto su 80.000 iscritti, 14.000 non si sa dove siano andati a finire. Sono gli sbandati. Ben 500 sezioni non sono state rappresentate in quelle che si chiamano le assise del proletariato italiano. Tutto quello che durante il congresso si è detto e fatto è stato molto meschino. Bordiga non è un gran generale. Si eleva un po'' dalla mediocrità. Quello che egli ha riportato alla tribuna è quanto io avevo già dato in pasto alla folla nel 1913. Di veramente importante non c'è stato che il discorso di Turati. Ma gli infiniti discorsi non hanno dato alla fine indicazioni pratiche su quello che i pussisti devono o vogliono fare. Noi siamo molto più precisi di loro e vi diciamo subito che noi dobbiamo porre un "ultimatum" al governo dichiarando che se non abolisce la censura noi fascisti non parteciperemo alle elezioni. Bisogna protestare contro una censura ripristinata in regime elettorale, altrimenti dimostreremo di poter accettare qualunque altro arbitrio. A questa protesta, noi ne possiamo aggiungere un'altra positiva e di azione. In quanto ai socialisti, la grandissima parte si distingue per una fisiologica vigliaccheria. Essi non amano battersi, non vogliono battersi, il ferro e il fuoco li spaventa. D'altra parte, e su questo mi preme di richiamare la vostra attenzione, noi non dobbiamo confondere questa creazione piuttosto artificiosa con un partito del quale i proletari sono un'infima minoranza, mentre abbondano tutti quelli che vogliono un posticino al parlamento, al consiglio comunale e nelle organizzazioni. E' in realtà una cricca politica che vorrebbe sostituirsi alla cricca dominante. Noi non dobbiamo confondere questa cricca di politicanti mediocri con l'immenso movimento del proletariato che ha una sua ragione di vita, di sviluppo e di fratellanza.
Io ripeto qui quanto dissi altra volta. Nessuna demagogia. I calli alle mani non bastano ancora per dimostrare che uno sia capace di reggere uno Stato o una famiglia. Bisogna reagire contro tutti questi cortigiani e questi nuovi semi-idoli per elevare questa gente dalla schiavitù morale e materiale in cui è caduta. Non bisogna andare verso di essa con l'atteggiamento dei partigiani. Noi siamo dei sindacalisti, perché crediamo che attraverso la massa sia possibile di determinare un trapasso dell'economia, ma questo trapasso ha un corso molto lungo e complesso. Una rivoluzione politica si fa in 24 ore, ma in 24 ore non si rovescia l'economia di una Nazione che è parte di un'economia mondiale. Noi non intendiamo con questo di essere considerati una specie di "guardia del corpo" di una borghesia che specialmente nel ceto dei nuovi ricchi è semplicemente indegna e vile. Se questa gente non sa difendersi da se stessa, non speri di essere difesa da noi. Noi difendiamo la Nazione, il popolo nel suo complesso. Vogliamo la fortuna morale e materiale del popolo e questo perché sia ben inteso.
Io credo che con il nostro atteggiamento sia possibile di avvicinarci alla massa. Intanto la Federazione dei Lavoratori del Mare si è staccata dalla Confederazione Generale del Lavoro; i ferrovieri hanno dimostrato nello scioperismo di essere italiani e di voler essere italiani, e mentre l'alta burocrazia delle amministrazioni pubbliche è piuttosto nittiana e giolittiana, il proletariato delle stesse amministrazioni tende a simpatizzare con noi.
Da cinquant'anni si prendono i generali, i diplomati, i burocratici dalle classi dirigenti, da un nucleo chiuso di ceti e di persone. E' tempo di spezzare tutto ciò se si vogliono mettere nuove energie e nuovo sangue nel corpo della nazione.
E veniamo alle elezioni. Dobbiamo occuparci delle elezioni perché qualunque cosa si faccia è sempre buona regola di stringersi insieme, di non bruciare i vascelli dietro di se. Può essere che in questo mese di Ottobre le cose precipitino in un ritmo così frenetico, da rendere quasi superato il fatto elettorale. Può essere, invece, che le elezioni si svolgano. Dobbiamo essere pronti anche a questa seconda eventualità. Ed allora noi Fascisti dobbiamo affermarci da soli, dobbiamo uscire distinti, contati, e, se saremo pochi, bisognerà pensare che siamo al mondo da sei mesi soltanto.Dove una probabilità di affermazione isolata non esista, si potrà costituire il blocco interventista di sinistra che deve avere da un lato la rivendicazione dell'utilità dell'intervento italiano ai fini universali, umani e nazionali, contro tutti coloro, giolittiani, pussisti e clericali, che l'hanno osteggiato. D'altra parte questo programma non può esaurire la nostra azione, e allora bisognerà presentare alla massa i dati fondamentali su cui vogliamo erigere la nuova Italia. Dove la situazione sarà più complicata, si potrà aderire anche ad un blocco interventista in senso più completo e più vasto.
Ma noi vogliamo, soprattutto, consacrare in questa nostra adunata - rivendicandola contro coloro che la negano e che vorrebbero dimenticarla - la immensa vittoria italiana.
Noi abbiamo debellato un impero nemico che era giunto fino al Piave ed i cui dirigenti avevano tentato di assassinare l'Italia. Noi abbiamo ora il Brennero, abbiamo le Alpi Giulie e Fiume e tutti gli italiani della Dalmazia. Noi possiamo dire che tra Piave e Isonzo abbiamo distrutto un impero e determinato il crollo di quattro autocrazie.



(Un'ovazione vivissima accoglie la chiusa de discorso di Mussolini che è stato seguito e sottolineato nei punti più salienti da entusiastiche acclamazioni).

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Avamposto
29-07-10, 13:07
IL FASCISMO E LE AGITAZIONI OPERAIE

Discorso pronunciato a Milano, nella sede dell'Alleanza industriale e commerciale sita in piazza San Sepolcro 9, la sera del 5 febbraio 1920, durante l'assemblea del fascio milanese di combattimento.




Se si potesse praticare il sistema della democrazia diretta ed immediata, noi, prima di votare degli ordini del giorno, avremmo dovuto convocare l'assemblea. Ma quando gli avvenimenti si susseguono con un ritmo un po' vorticoso non è possibile praticare questo sistema di democrazia assoluta. Abbiamo votato degli ordini del giorno ed ora a, voi spetta il compito di ratificarli o condannarli. Ne abbiamo votati tre: li abbiamo votati partendo da un punto di vista nettamente fascista. Io oserei dire che si nasce fascisti, ma che è assai difficile diventarlo. Tutte le altre associazioni, tutti gli altri partiti, ragionano in base a dei dogmi, in base a dei preconcetti assoluti, a degli ideali infallibili, ragionano sotto la specie della eternità per partito preso. Noi, essendo un antipartito, non abbiamo - si passi il bisticcio - partito preso,
Noi non siamo come i socialisti, che danno sempre ragione alle masse operaie e non siamo come i conservatori, che danno sempre torto alla massa operaia. Abbiamo superato questo concetto ed abbiamo il privilegio di circolare sul terreno della obiettività pura. Votando, dopo una discussione molto seria ed elaborata, gli ordini del giorno, abbiamo tenuto presente tre ordini di fattori o di elementi :
1. gli interessi generali della nazione e in particolar modo il momento in cui i recenti
scioperi venivano effettuati;
2. ci siamo tenuti sul terreno produttivista, perché se assassiniamo la produzione, se oggi isteriliamo le fonti prime dell'attività economica, domani sarà la miseria universale;
3. siamo stati guidati, nel votare quegli ordini del giorno, dal nostro amore disinteressato per le classi lavoratrici.
Io sono d'accordo col Contessi quando raccomanda lo spirito di sacrificio anche alle masse operaie. Sono d'accordo perché noi non diciamo soltanto agli operai che devono attendere, lavorando, tempi migliori per spezzare il circolo vizioso in cui si muovono. Noi diciamo anche che il capitale in genere deve essere decimato. A questo propo
sito vi annuncio che fra poco uscirà un manifesto, nel quale sarà sostenuta ancora una volta la necessità, per risolvere il nostro problema finanziario, di ricorrere a questo triplice ordine di misure:
1. confisca parziale di tutti i patrimoni al di sopra di un certo limite;
2. tassazione onerosa delle eredità;
3. confisca dei sopraprofitti di guerra.
Io non sono affatto pessimista circa l'avvenire della nazione italiana: se lo fossi mi ritirerei a vita privata. Ma siccome sono profondamente ottimista, credo che con gli scioperi del gennaio noi abbiamo forse superato il punto critico della nostra crisi sociale.
Mi direte che il febbraio non si annunzia sotto migliori auspici; che abbiamo uno sciopero di 50 mila tessili clericali, che dimostra come il bolscevismo nero abbia lo stesso carattere distruttivo e antisociale dell'altro bolscevismo; ma ho l'impressione che la crisi sociale va stabilizzandosi nell'attesa di decrescere. Certo è che se noi possiamo superare questi sei od otto mesi senza tracolli, se possiamo attivare i nostri traffici con l'Oriente, se le maestranze si metteranno in mente che nell'Oriente non si può portare la nostra moneta ma bisogna inviare le nostre locomotive, le nostre macchine, le nostre automobili, i nostri prodotti manifatturati e che allora solo si avrà la diminuzione del caroviveri, perché solo dall'Oriente ci verranno le materie prime di cui difettiamo, le maestranze industriali ripudieranno l'arma più distruttiva che costruttiva della sciopero e si metteranno a lavorare sul serio.
La nostra posizione di fronte al movimento sindacale non è reazionaria come si dice - appunto - da qualche nostro avversario in malafede. Io ho scritto articoli molto acerbi durante gli scioperi, ma quegli articoli così incriminati mi hanno valso un'approvazione molto significativa. Se c'è un uomo nell'Unione Italiana del Lavoro che ha lavorato sul serio, che ha costituito recentemente quel Sindacato della Cooperazione, che è il contraltare necessario al movimento cooperativo socialista, quell'uomo è il repubblicano Carlo Bazzi. Ora il Bazzi ha scritto a mio fratello una lettera, nella quale è contenuta questa frase: «Sottoscrivo a piene mani l'articolo di Mussolini Sei immortale, Cagoia ». Questo mi basta. E d'altra parte non esigo che tutti la pensino come me e che non ci siano dei dissidenti. Io sono sempre pronto a convincermi del mio torto quando sono in errore. Ma credo che la nostra opera non può essere valutata ora: io dico che fra cinque o sei mesi non saranno fiochi i socialisti che riconosceranno che forse l'unico socialista che ci sia stato da cinque anni a questa parte in Italia sono io, e non enuncio ùn paradosso, pur aggiungendo che il Partito Socialista è, nel suo complesso, detestabile. Credo anche che molti elementi - turatiani, centristi, ecc. - lo riconoscono fin d'ora e credo che fra poco la massa operaia stessa riconoscerà che le giornate del 15 aprile, del 20-21 luglio; con tutta la nostra opposizione violenta, sono state provvidenziali e mi. racolose, perché, avendo buttato il, bastone tra le ruote al carro che precipitava, abbiamo impedito che si verificasse la catastrofe e che in Italia
succedesse quello che è accaduto in Ungheria.
Come volontarista, credo che noi abbiamo la nostra parte di merito nell'avere impedito, con un tentativo di esperimento anticipato, la rovina profonda della classe operaia italiana.
Oggi si dice che non si socializza la miseria, ma noi lo abbiamo detto due anni fa. Oggi si dice che bisogna produrre, come lo abbiamo detto noi due anni fa. E quando si potrà fare la storia, e la si potrà fare fra qualche tempo, allora la nostra opera sarà giudicata in modo molto diverso dagli stessi socialisti e dagli stessi elementi responsabili delle masse operaie.
La discussione di questa sera, secondo me, può concludersi in una dichiarazione su questi quattro punti:
1. L'assemblea ratifica gli ordini del giorno votati dalla commissione esecutiva e dal Comitato centrale.
2. L'assemblea riafferma la sua solidarietà con le richieste giuste dei postelegrafonici, dei ferrovieri e di tutti i dipendenti statali, appunto perché io non mi sono mai stancato di insistere che noi eravamo contro lo sciopero ma non contro le richieste del personale.
3. L'assemblea vota un monito al Governo perché si vogliano realmente rendere attivi i servizi funzionali della vita italiana, sia burocratizzandoli, sia industrializzandoli, ecc.; e io credo che si possano costituire degli enti autonomi delle poste, dei telefoni, delle ferrovie, e nei quali gli agenti avranno una vasta, diretta rappresentanza.
4. L'assemblea vota un plauso e un invito a tutti gli elementi operai
che si agitano nel terreno dell'opposizione contro il Partito Socialista a raccogliersi, a contarsi, a fare un patto di solidarietà perché finalmente, se ieri non è stato sempre possibile, da oggi in poi sia possibile, anche. in Italia, vivere, lavorare e lottare senza essere schiavi delle nuove tirannie, senza essere obbligati a diventare un numero del gregge tesserato.



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29-07-10, 13:08
SULLA SITUAZIONE INTERNA

Discorso pronunciato a Milano, nella sede dell'Alleanza industriale e commerciale sita in piazza San Sepolcro 9, la mattina dell'11 aprile 1920, nel corso dell'assemblea del comitato centrale dei Fasci Italiani di Combattimento. In precedenza, Mussolini aveva proposto di lanciare - a firma dei Fasci - « un manifesto al paese per illustrare le aspirazioni del popolo egiziano ».




Nel voto che dovremo emettere a chiusura di questo convegno, la riaffermazione della nostra ostilità al ministero Nitti deve dominare. su ogni altro pensiero. Si deve soprattutto a quest'uomo se l'Italia ogni giorno di più vede diminuito il suo prestigio all'estero e se all'interno la situazione è sempre più caotica e sconfortante. L'insuccesso dell'ara legale e l'occupazione delle fabbriche (sebbene in definitiva questi gesti siano apparsi inconcludenti ed artificiosi) sono le cause principali dello svalutamento della nostra moneta. Il comunicato di sabato è la prova ultima della spaventevole cecità governativa. Sia, dunque, nei riguardi della politica estera che di quella interna Nitti si può considerare come una vera iattura nazionale. Di fronte poi alle odierne agitazioni di piazza, noi fascisti possiamo oramai prenderci il lusso di rimanere alla finestra, perché il Partito Socialista non ha assolutamente né la voglia né la forza di fare la rivoluzione, perché la Confederazione, diretta da elementi esclusivamente riformisti, non è affatto disposta a far salti nel buio. Oltre questi elementi negativi che ci offre l'avversario, bisogna tener conto anche di quelli propri della situazione nazionale: la refrattarietà delle popolazioni isolane e di quasi tutto il meridionale, il senso di riscossa dei gruppi e partiti nazionali, la resistenza della borghesia industriale, l'unità morale dell'esercito, ecc.
Comunque, se le masse operaie romperanno tutti gli indugi e si svincoleranno da tutti i legami disciplinari, è bene che l'esperimento si compia per intero. Siamo troppo sicuri del suo insuccesso per temerlo.
Per il bene della nazione e per la salute stessa della classe operaia dovremmo augurarci che la sbornia si spingesse fino al limite estremo.... Dopo verrà la nostra ora e il proletariato tornerà a coloro che non l'hanno mai tradito e lusingato.
Attesa, dunque, colle armi al piede, pronti a intervenire solo quando vedremo pregiudicati irrimediabilmente quei valori morali per cui il fascismo in fin dei conti si batte.


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29-07-10, 13:08
DISCORSO INAUGURALE AL SECONDO CONGRESSO DEI FASCI

Inaugurandosi la seconda Adunata Nazionale dei fasci di Combattimento, al Teatro Lirico di Milano, il 24 maggio 1920, quinto anniversario della nostra entrata in guerra, il Duce pronunciava il seguente discorso:





Le parole, in determinati momenti, possono essere dei fatti. Supponiamo dunque e facciamo sì che tutte le parole pronunziate qui oggi siano delle azioni potenziali dell'oggi e reali del domani. Cinque anni fa in questi giorni l'entusiasmo popolare prorompeva in tutte le piazze e le strade d'Italia. Ed in questi giorni, rivedendo i documenti dell'epoca, posso affermare, a tanta distanza di tempo, con sicura e pura coscienza, che la causa dell'intervento, nelle settimane del Maggio, non fu sposata dalla cosiddetta borghesia, ma dalla parte più sana e migliore del popolo italiano. E quando dico popolo intendo parlare anche del proletariato, perché nessuno può pensare che le migliaia di cittadini che nelle giornate di Maggio seguivano Corridoni, fossero tutti dei borghesi. Ricordo che una Camera del lavoro agricola, quella di Parma, a grande maggioranza, si dichiarò favorevole all'intervento dell'Italia.
Anche ammesso che la guerra sia stata un errore, ed io non lo ammetto, di animo spregevole è colui che sputa su questo sacrificio. Se si vuole ritornare ad un esame critico io sono disposto ad affrontare in contraddittorio chiunque ed a dimostrare:
1°) che la guerra fu voluta dagli Imperi centrali come è stato confessato dagli uomini politici della repubblica tedesca e come hanno confermato gli archivi dell'impero;
2°) che l'Italia non poteva rimanere neutrale;
3°) che se fosse rimasta neutrale oggi si troverebbe in una condizione peggiore di quella in cui si trova.
D'altra parte noi interventisti non dobbiamo stupirci se il mare è in tempesta. Sarebbe assurdo pretendere che un popolo uscente da una crisi così grave si rimetta a posto nelle 24 ore successive. E quando voi pensate che a due anni di distanza non abbiamo ancora la nostra pace, quando voi pensate al trattamento fattoci dagli alleati, alla deficienza dei nostri governanti, voi dovete comprendere certe crisi di dubbio. Ma la guerra ha dato quello che doveva dare: la vittoria.
Fischiando poco fa la evocazione della falce e del martello, voi non avete certamente voluto spregiare questi che sono due strumenti del lavoro umano, niente di più bello e di più nobile della falce che ci dà il pane e del martello che forge i metalli. Non dunque spregio al lavoro manuale. Dobbiamo comprendere che questa sopravvalutazione odierna del lavoro manuale è data dal fatto che la umanità soffre della mancanza dei beni materiali ed è naturale che coloro che producono questi elementi necessari abbiano una sopravvalutazione eccessiva. Noi non rappresentiamo un punto di reazione. Diciamo alle masse di non andare troppo oltre e di non pretendere di trasformare la società attraverso un figurino che poi non conoscono. Se trasformazioni devono verificarsi, devono avvenire tenendo conto degli elementi storici e psicologici della nostra civiltà.
Non intendiamo osteggiare il movimento delle masse lavoratrici, ma intendiamo smascherare la ignobile turlupinatura che ai danni delle masse lavoratrici fa una accozzaglia di borghesi, semi borghesi e pseudo borghesi, che per il solo fatto di avere la tessera credono di essere diventati salvatori dell'umanità. Non contro il proletariato, ma contro il partito socialista, fino a quando continuerà ad essere anti-italiano. Il partito socialista ha continuato, dopo la vittoria, a svalutare la guerra, a fare la guerra all'intervento ed agli interventisti, minacciando rappresaglie e scomuniche. Ebbene, io, per mio conto, non credo. Delle scomuniche me ne rido, ma davanti alle rappresaglie risponderemo con le nostre sacrosante rappresaglie. Noi non possiamo però andare contro il popolo, perché il popolo è quello che ha fatto la guerra. I contadini che oggi si agitano per risolvere il problema terriero non possono essere guardati da noi con antipatia. Commetteranno degli eccessi, ma vi prego di considerare che il nerbo delle fanterie era composto di contadini, che chi ha fatto la guerra sono stati i contadini.
Noi non ci illudiamo di riuscire a silurare completamente la ormai naufragante nave bolscevica. Ma io noto già dei segni di resipiscenza. Credo che ad un dato momento la massa operaia, stanca di lasciarsi mistificare, tornerà verso di noi, riconoscendo che non l'abbiamo mai adulata, ma abbiamo sempre detta la parola della brutale verità, facendo realmente il suo interesse. Se oggi l'Italia non è precipitata nel baratro ungherese lo si deve anche a noi che ci siamo nessi di traverso con la nostra azione e con la nostra vita. Un solo dovere abbiamo dunque: comprendere i fenomeni sociali che si svolgono sotto i nostri occhi, combattere i mistificatori del popolo ed avere una fede sicura e assoluta nell'avvenire della nazione.
All'indomani di tutte le grandi crisi storiche c'è sempre stato un periodo di lassitudine. Ma poi a poco a poco i muscoli stanchi riprendono. Tutto ciò che fu ieri trascurato e vilipeso ritorna ad essere onorato ed ammirato.Oggi non si vuole più sentire parlare di guerra ed è naturale. Ma fra qualche tempo la psicologia del popolo sarà mutata e tutto o gran parte del popolo italiano riconoscerà il valore morale e materiale della vittoria; tutto il popolo onorerà i suoi combattenti e combatterà quei governi che non volessero garantire l'avvenire della nazione. Tutto il popolo onorerà gli arditi.
Sono gli arditi che andavano alle trincee cantando e se siamo ritornati dal Piave all'Isonzo è merito degli arditi; se teniamo ancora Fiume è merito degli arditi; se siamo ancora nella Dalmazia lo dobbiamo agli arditi. Tre martiri fra i mille che hanno consacrato la guerra italiana hanno voluto fissare i destini della nazione: Battisti ci dice che il Brennero dev'essere il confine d'Italia; Sauro ci dice che l'Adriatico deve essere un mare italiano e commercialmente italo-slavo; Rismondo ci dice che la Dalmazia è italiana. Ebbene, giuriamo davanti al vessillo che porta le insegne della morte che infutura la vita, e della vita che non teme la morte, di tener fede al sacrifico di questi martiri.






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29-07-10, 13:10
Discorso del 7 settembre 1920 Cremona




Dire che noi siamo contrari agli operai , è dire una stupidità. La classe operaia è un elemento troppo essenziale nella vita della nazione, qualunque sia il suo numero. Io sono pieno di ammirazione per gli operai e i contadini. Sarebbe assurdo che io non amassi chi stampa i miei articoli e il contadino che lavora la terra per dodici e anche quattordici ore al giorno. Io combatto solamente la degenerazione del movimento operaio mistificato dai nuovi preti.
Siamo gli zingari della politica italiana. Zingari, perché abbiamo una lunga via da percorrere, e, pur avendo una meta, essa non è dogmatica; zingari, perché nel nostro accampamento vi è posto per tutte le fedi, purchè abbiano un fondo comune di amore per la nazione.
Siamo imperialisti? Ogni individuo che non sia un agonizzante o un impotente è un imperialista; così pure un popolo che sia giovane e che sia forte è imperialista. Noi non siamo imperialisti alla prussiana, colla smania deell’eterna conquista militare; noi siamo imperialisti alla romana, perché vogliamo suffragare, colle leggi immortali di Roma, una legittima conquista compiuta colle armi.


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29-07-10, 13:11
DISCORSO DI MONFALCONE

Discorso pronunciato davanti agli operai di Monfalcone, il 23 settembre 1920.




Durante tutta la mia vita politica - notate bene - io non ho mai chiesto niente agli operai. Quando ero a capo del socialismo italiano, non mi facevo pagare le conferenze, né ambivo voti, applausi, stipendi. Nessuno dei socialisti, anche di quelli che più mi odiano, può affermare che io abbia speculato sulla classe lavoratrice. E quando m'avvenne di condurla nelle strade, non ero in coda, ma in testa, a prendere la mia parte di legnate.
Voi, operai, avete santi diritti da conquistare, perché siete elemento essenziale della società. Diritti del cervello e diritti del braccio non sono contrari, bensì armonizzanti.
Voi, come classe, avete diritti da difendere e dovete organizzarvi in sindacati di mestiere e fare lotta economica. Potete fare collaborazione di classe, quando trattasi di conquistare un mercato straniero per lo sbocco dei manufatti; potete fare lotta di classe, quando abbiate da condurre un'azienda essendone capaci. Ma in ogni caso dovete sentirvi sempre e soprattutto italiani!
Se vi dicono che Benito Mussolini è venduto ai padroni, sputate in faccia al calunniatore.
Durante la vertenza dei metallurgici, nella quale sono stati impegnati cinquecentomila operai, io mi sono schierato dalla parte dei lavoratori ed ho subito gridato ai padroni: affermate cosa inesatta se dite di non poter aumentare i salari. In conclusione, di sette lire chieste dagli operai, quattro sono state accordate.
Guardatevi da coloro che vi parlano della Russia e del comunismo e rispondete loro: ne abbiamo avuto già abbastanza dei preti neri e non vogliamo sapere di preti rossi!
Operai!
Ora, voi mi avete visto. Io non vi chiedo di difendermi, perché mi difendo da solo. In tutta la mia vita non ho fatto che combattere. Voi potrete apprezzare se quanto dicono contro di me gli avversari è verità o menzogna, perché tutte le volte che la classe operaia ebbe sacri diritti da rivendicare, io fui con essa. Fui invece contro di essa tutte le volte che la vidi strumento di ignobili agitatori politici. E come fui, così le sarò contrario in tali casi; e non mi preoccuperò se nel menar colpi qualcuno. cadrà sulla classe operaia stessa.


(Mussolini è stato vivamente applaudito).


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Avamposto
29-07-10, 13:11
SULLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE

Discorso pronunciato a Milano, nel salone dell'istituto dei ciechi (via Vivaio), la sera del 15 ottobre 1920, durante l'assemblea generale del Fascio Milanese di Combattimento.




Debbo darvi ragione dell'ordine del giorno che presento:
« Il Fascio Milanese di Combattimento dichiara di disinteressarsi delle prossime elezioni amministrative del Comune di Milano e impegna i propri iscritti a preparare animi e mezzi per altre forse non lontane e certamente decisive battaglie ».
Prima di votare questo ordine del giorno, io debbo ricordarvi il carattere del fascismo. Il fascismo non è affatto un movimento politico in senso elettorale. Se vogliamo fare dell'elezionismo a qualunque costo, allora intitoliamo il Fascio « Fascio di Combattimento elettorale », oppure cambiamo nome. Ma quando il fascismo è sorto, esso è sorto come una reazione alla degenerazione bolscevica del Pus. Il fascismo fin qui non si è affermato attraverso le elezioni politiche e amministrative. Le circostanze hanno voluto che noi ci affermassimo attraverso le revolverate, gli incendi e le distruzioni. Ciò può essere triste sotto il punto di vista umano, ma la storia del fascismo, dal marzo 1919 all'incendio del Lavoratore di Trieste, compiutasi ieri, non è che l'espressione di un estremismo basato sui valori morali e nazionali, in opposizione ad un estremismo pussista basato sul sabotaggio della nazione. I fasci fanno anche della politica e delle elezioni quando non vi è nulla di meglio da fare. Ma non è certamente con la politica elettorale che si potrà debellare il Pus. D'altra parte veniamo subito al concreto di questa lotta politica amministrativa di Milano. R un fatto che nessuno se ne interessa. Fra venti giorni vi dovrebbe essere questo grande avvenimento. Non troverete tracce della imminente battaglia elettorale. Seguite la vicenda dei partiti e voi troverete che nessuno si agita. Vi sono forse contatti, manovre, approcci di retroscena, ma la grande agitazione elettorale tuttora non esiste. E perché? Sembra che la gente si disinteressi se domani Schiavello, o Schiavi, od altri sarà sindaco di Milano. Io credo che lo stato d'animo della cittadinanza in genere sia questo: vada Schiavello o Caldara, le cose non cambieranno di molto. Io penso che il Corriere della Sera si prepari ad essere l'organo ufficioso, se non ufficiale dell'amministrazione Schiavello, come è stato finora l'organo dell'amministrazione Caldara : altrimenti un giornale potente come il Corriere della Sera a quest'ora avrebbe già scoperto le sue batterie ed avrebbe incominciato ad agitare l'ambiente, in vista del temuto e minacciato esperimento comunista di palazzo Marino.
Con chi il blocco? Bisogna essere due o tre o quattro per fare il blocco. Con chi? Abbiamo una borghesia degenerata e vile, che domani patteggerà anche coi socialisti pur di vivere. C'è una borghesia che noi apprezziamo altamente: gli ingegneri, i tecnici, i commercianti, gli industriali, la borghesia che produce e trasmette ed aumenta la ricchezza del paese. Finalmente c'è una borghesia politicante, che è quella che fa più schifo delle altre. La borghesia politicante detesta il fascismo e lo ignora nella maniera più scandalosa. Il Corriere della Sera, che ha dato pagine su pagine al convegno di Reggio Emilia, non ha trovato una sola linea per annunciare il Consiglio nazionale dei Fasci. Non parliamo del Secolo, che trasuda da ogni riga il suo livore contro il fascismo. Il Corriere della Sera rappresenta la borghesia liberale; il Secolo la borghesia democratica. Ora è proprio coi frammenti di questa borghesia liberale o democratica che i fascisti dovrebbero fare l'alleanza. L'immagine può magari sembrare arrischiata, ma io ho l'impressione che quando questi elementi cercano appoggi col fascismo, li cercano con l'intenzione di quelli che prendono la cantaride. È gente che si sente esaurita da un lungo sforzo e che vorrebbe, attraverso il nostro impeto giovanile, risollevarsi e tenere ancora il suo posto nella società. Ora se c'è una borghesia che appare veramente finita ed è al crepuscolo, è la borghesia politicante; e se voi vi ponete dinnanzi agli occhi il quadro della politica italiana, da quella di Giolitti a quella del senatore Albertini del Corriere, avrete uno spettacolo di decadenza inenarrabile, di gente che cede sempre il suo terreno. Ora una prima domanda si può fare: questa borghesia politicante, con la quale dovremmo fare il blocco, merita il nostro impeto, la nostra passione, la nostra gioventù? Pensate che se in un programma amministrativo noi siamo. d'accordo fino ad un certo punto con questa borghesia politicante, sopra molti altri problemi siamo divisi. Anzi mi pare di notare, seguendo attentamente le manifestazioni di questi partiti, che infine non ci vedano di buon occhio. Il nostro estremismo li irrita. Hanno l'impressione che se non ci fossimo noi, i socialisti diverrebbero degli agnelli, della brava gente, quasi che il nostro estremismo fosse causale di quello socialista e non viceversa.
Qual'è la situazione del Pus? Voi credete che vi sarà una lista completamente massimalista? Intanto nessuno sa dire dove cominci e dove finisca il massimalismo autentico. Nella lista è già acquisito (vedi dichiarazioni Gennari al congresso di Reggio) che sarà fatto posto anche ai centristi. Quindi è assai probabile che, su sessantaquattro nomi della lista socialista, ve ne saranno dai sedici ai venti di elementi rappresentativi del partito, elementi tecnici che diano affidamento di sapere discretamente amministrare. Per cui la massa, che attraversa un periodo di scetticismo, quando vedrà una lista non completamente massimalista, si infiacchirà. E succederà questo: che se noi interverremo, non vi saranno astensionisti nelle file operaie. Basterà agitare il fascismo, che immediatamente saranno suonate tutte le campane perché tutta la massa operaia accorra compatta alle urne: Non solo, ma gli anarchici, che potrebbero fare propaganda astensionista, la smorzerebbero o non la farebbero affatto. La nostra partecipazione alla lotta non aumenta la probabilità di una disfatta avversaria: aumenta all'infinito la probabilità di vittoria degli avversari, poiché :basterà presentare una lista nella quale siano compresi dei fascisti perché questa gente si precipiti alle urne pur di sconfiggere la lista. Questo è palese, e voi lo sapete benissimo.
Ed in ogni caso chi voterebbe per noi? La massa operaia, no, perché è leninizzata. La media borghesia legge l'Avanti!, lo vedete dovunque, e non voterà mai liste di blocchi cui abbiano dato la loro adesione la classe degli esercenti o dei proprietari di casa o qualche altra categoria di questo genere. Ed allora noi andremmo alla sconfitta. Facciamo il caso che si vinca. Se si vince, si vince per pochissimi voti. Supponiamo che si vinca in modo trionfale. E’ impossibile, ma supponiamolo. Che cosa faremo noi al Comune? Non abbiamo un programma amministrativo. Milano non è un borgo; è uno Stato. Ha un bilancio da centocinquanta a duecento milioni. Voi avete delle idee in materia municipale? Se le avete, mettetele fuori. E voi credete che andando domani a palazzo Marino fareste la forca ai socialisti? Sarebbero i socialisti che la farebbero a noi. Domani, quando avessimo vinto così mediocremente, tutta la folla operaia si divertirebbe enormemente a mettere in continuo imbarazzo l'amministrazione municipale demo-liberale-democratico-fascista che dir si voglia. Se si vincesse, chi saprebbe dire quanti sono i voti dei fascisti? Sarebbe impossibile scegliere i voti dei fascisti dai non fascisti.
Sento una obbiezione : e allora che cosa dobbiamo fare noi? O ci si disinteressa o si fa una lista di minoranza fascista. Vogliamo fare una lista di minoranza? Ma se noi non abbiamo nemmeno la speranza di arrivare ad avere la minoranza, allora vi prego di non sabotare il fascismo. Abbiamo in vista delle grandi battaglie, per cui non credo opportuno perdersi in manovre elettorali.
Se voi ponete mente alla cronaca di ieri, sarete convinti che ormai le schede e le battaglie elettorali non sono più del nostro tempo. Se non si può fare a meno si faccia anche la lotta elettorale, ma una lotta fatta in queste condizioni di tempo, di luogo e di ambiente,. nel Comune di Milano, sarebbe un servigio che renderemmo ai comunisti; i quali, senza la nostra partecipazione al blocco, molto probabilmente andranno al potere con una votazione esigua, mentre partecipandovi noi, vi andrebbero con una votazione trionfale, che ci schiaccerebbe irreparabilmente, perché ci schiaccerebbe in compagnia.


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Avamposto
29-07-10, 13:12
IL TRATTATO DI RAPALLO NON È ETERNO

Discorso pronunciato a Milano, nel salone dell'Automobil Club, il 20 dicembre 1920, durante una manifestazione indetta per celebrare il primo anniversario della fondazione dell'« Associazione nazionale legionaria di Fiume e di Dalmazia ». Prima di Mussolini, la presidente dell'Associazione, Elisa Rizzioli, aveva inaugurato il gagliardetto sociale, di cui era stata madrina la contessa Carla Visconti di Modrone Erba




Io sono alquanto turbato e quasi pentito di avere accettato l'invito rivoltomi con tanta lusinghiera insistenza dalla vostra presidentessa signora Rizzioli. Perché io non sono oratore da cerimonia: ma piuttosto oratore da tempestosi comizi e vi confesso che mi trovo un po' a disagio davanti ad una assemblea come questa. Voi quindi perdonerete se il mio discorso sarà per avventura alquanto disordinato. Anche perché dopo l'eloquente discorso della signora Rizzioli e le belle parole della contessa Visconti non ci sarebbe proprio nulla da dire, in quanto che le cerimonie di battesimo non hanno abitualmente contorno di lunghi discorsi. Ma poiché questa è un'assemblea politica e ha luogo in un momento tipicamente politico della storia del nostro paese, mi consentirete una digressione sulla questione che in questo momento più profondamente appassiona la coscienza nazionale. Prescindo dal fatto elettorale che ci sta dinanzi. Il 15 maggio non è un arrivo: è una tappa; non è la fine di tutto il travaglio di elezione che turba il nostro paese in questo momento: è una fase di questo travaglio. E voi non credete che già io voglia raccomandarmi ai vostri indiretti suffragi. D'altronde voi potete certamente essere utili anche in questa contingenza, se porterete, attraverso gli inevitabili contatti che avete con l'umanità, maschile votante e elettorale, la vostra opera di persuasione.
Ma vi sono altre questioni che ci appassionano e che sono più importanti. Siamo all'indomani di un trattato di pace che non ci ha dato la pace. Intanto dico subito che nessun trattato di pace darà mai la
pace definitiva. La pace perpetua di cui parlò in un celebre opuscolo il filosofo tedesco Kant era l'insegna di una osteria dove c'era un cimitero di croci. Or dunque tutti i trattati di pace non sono definitivi non sono scritti su tavole di bronzo: sono scritti tutti con gli inchiostri
più o meno labili della diplomazia, e il trattato di Rapallo non fa eccezione a questa regola.
Il trattato di Rapallo è una soluzione bastarda di necessità. Avanti di condannarlo, come noi lo condanniamo, bisogna spiegarlo e comprenderlo. Spiegarlo e comprenderlo, prima di tutto con l'ostilità palese e indiretta degli alleati, con la incomprensione del mondo diplomatico americano, con la deficenza delle nostre caste politiche dirigenti. Anche questa deficenza della nostra classe politica dirigente deve essere spiegata. La spiegheremo pensando che appena da cinquant'anni, questo popolo che fu per quindici secoli diviso, ha il lusso di una storia comune e in cinquant'anni di storia non si può pretendere di realizzare quell'alto tipo di coscienza nazionale che è il privilegio di nazioni che da secoli e da secoli tali sono state.
Certamente questo non giustifica la deficenza degli uomini. Certamente vi sono uomini che devono essere portati alla sbarra del pubblico giudizio. Bisogna rifare, e lo rifaremo, il processo a tutta l'attività diplomatica della classe dirigente italiana.
Ma tutto ciò non può portarci a un giudizio meschino di fronte alla complessività degli avvenimenti.
Il trattato di Rapallo sarà revisionato come tutti i trattati usciti dalla grande guerra europea. Il trattato di Versailles - lo voglia o non lo voglia la Francia - è già in pezzi. Il trattato di Trianon, di Sèvres e l'altro di Saint-Germain lo saranno fra poco, ché avendo demolito un'Austria ne hanno costituite due: una al nord, la Cecoslovacchia, dove cinque milioni di boemi intendono dirigere una nazione che conta tredici milioni; e al sud la cosiddetta Jugoslavia; costruzione barocca e balorda, emanante dal Times e da un giornale italiano, essa è il trionfo della tesi panserbista, della tesi di Belgrado, che vuole accentrare in sé tutte le popolazioni slave del sud divise fra di loro da lingua, religione, costumi, storia e civiltà.
Il trattato di Rapallo non ci dà 1'amicízia con la Jugoslavia. Questa era ed è una pietosa illusione. Basterebbe vedere quello che si è stampato a Belgrado dopo Rapallo per comprendere che quella gente non avrà mai per noi amicizia sincera. E la ragione è un formidabile equivoco; per noi il confine naturale, giusto, sacro e sacrosanto è alle Alpi Giulie; per la Jugoslavia il confine sacro, giusto, naturale e sacrosanto è all'Isonzo.
Ora, fra queste due concezioni così nettamente antitetiche, non c'è possibilità di compromesso. Tutta la stampa serba tiene un contegno di eccitazione e di provocazione contro di noi. Appena entrati nella Dalmazia sgombrata e nelle isole i Serbi hanno demolito sistematicamente tutto ciò che ricordava l'Italia.
Voi comprenderete che il problema dei rapporti fra l'Italia e la Jugoslavia rientra nel complesso della politica europea. Non potremo mai affrontare la questione dei rapporti italo-jugoslavi se prima non ci saremo liberati dall'egemonia del mondo anglo-sassone. Bisogna riportare tutte le piccole questioni nel quadro delle grandi. Fin che noi saremo presi alla gola dai nostri alleati per via del carbone, del pane e delle altre materie prime, noi non potremo avere che una relativa autonomia in materia di politica estera. Ma il giorno in cui questa soggezione economica sarà finita, allora noi, popolo di cinquanta milioni di abitanti, popolo in stato di sviluppo, popolo intelligente, laborioso e prolifico, che non abbiamo bisogno di atterrirci di fronte alle statistiche dello stato civile, così come fa la Francia, la quale vede la sua popolazione diminuita di quattro milioni di abitanti, noi potremo dire una parola decisiva in tutto il veniente periodo della storia europea.
Il problema si pone in questi termini: bisogna che gli italiani crescano in forza, civiltà e grandezza, sì che quando nella imminente nuova crisi della politica europea verranno in discussione i trattati noi si possa dettarne le condizioni a nostro favore; e non avvenga mai che siano gli jugoslavi, sostenuti dai loro alleati, a imporre le loro.
Ho detto e scritto che gli italiani della Dalmazia sono i più puri degli italiani, perché sono i più perseguitati, perché veramente ascendono un calvario di sacrificio e di martirio. Noi portiamo questa passione nei nostri cuori, la portiamo profonda e la vogliamo tramandare. Che cosa dovremo fare ora noi perché gli italiani dell'altra sponda non si sentano dimenticati e abbandonati? Molte cose: un'agitazione all'interno; fare conoscere la Dalmazia agli italiani (bisogna che cessi l'enorme ignoranza geografica degli italiani); fare conoscere la Dalmazia con pubblicazioni, con conferenze, con cinematografie, con volantini e manifesti; fare insomma tutto ciò che deve servire a orientare la coscienza italiana verso. quella questione. Poi vengono le altre forme pratiche di italianità: mandare degli aiuti concreti a quei nuclei di italiani che si battono per mantenere acceso il focolare e aperte le scuole e pubblicare i giornali.
E soprattutto agire per liquidare la vecchia casta politica italiana. Può darsi che nel giudizio degli storici futuri la condotta. di questa classe trovi dei giudici disposti ad attenuare la loro colpa. Ma noi che viviamo in questo secolo di passione, noi che sentiamo il bruciore e la vergogna, noi diciamo che questa classe politica dirigente ha fatto ed esaurito il suo compito.
Era la classe politica dirigente che cominciò con Cairoli, che regalò Tunisi ai francesi e finisce con l'uomo del « parecchio »; è una classe politica che non può più tenere il timone dello Stato in una nazione come l'Italia, dove ci sono delle minoranze frenetiche dell'orgoglio di dirsi italiane.
A questa trasformazione voi potete dare vasto contributo. Non è vero che la donna non abbia influenza nella vita politica nazionale. Io ora non voglio lusingarvi citando le donne che hanno saputo dirigere il destino dei popoli in una maniera più brillante degli uomini, ma è evidente che, se le donne vogliono, possono determinare degli stati di coscienza e provocare quel fatto strano e potentissimo che i filosofi chiamano l'imponderabile. Il socialista può asseverare che tutto si spiega col meccanismo dei rapporti di produzione e il positivista può venirci a dire che nell'universo quello che conta è il fatto bruto. Ma oggi le nuove correnti del pensiero hanno fatto tabula rasa di queste concezioni puerili. Nel mondo vi sono altri valori, che non misurano, che non si spiegano col materialismo storico. E’ il dominio della passione, dei sentimenti; di quegli stati d'animo che in un dato momento fanno andare gli individui al martirio e fanno marciare i popoli verso le più grandi epopee. Questi sono gli stati d'animo che voi potete formare con la vostra opera assidua, silenziosa, delicata, che circuisce piuttosto che fronteggiare, che cerca di persuadere, che giuoca, infine, le vostre carte: le carte della gentilezza, della cortesia e del fascino.
Voi, o legionarie di Fiume e Dalmazia, vi siete assunto un compito straordinariamente delicato e difficile. Noi fascisti stiamo realizzando un capovolgimento della coscienza nazionale; ma voi, vivendo in mezzo al popolo, sentite che il popolo teme che quando si parla di questioni nazionali si voglia riagitare ancora lo spettro della guerra. Ora non c'è bisogno di dire che noi non siamo dei guerrafondai, ma nemmeno dei pacifondai.
La vita esula da questi assoluti. E’ criminale volere sempre la guerra, ma qualche volta può essere criminale volere sempre la pace. Tutto ciò dipende da un complesso di circostanze storiche e di situazioni sulle quali è inutile discutere. Vi dicevo dunque che voi vi siete assunto un compito delicato e difficile, che è quello di creare in Italia lo stato d'animo dalmatico e adriatico. E mi spiego. Dal '70 in poi ci fu un particolare stato d'animo in Italia, al quale collaborarono tanti elementi. Chi da studente non ha partecipato nei begli anni della giovinezza alle dimostrazioni pro Trento e Trieste? L'Università, il giornalismo, la Camera, il Senato e il Partito Repubblicano agitavano sempre il binomio Trento e Trieste. Molti non sapevano di preciso se Trento e Trieste fossero vicine o lontane; sapevano che erano due città sottoposte all'Austria. Ma lo stato d'animo, in tutta la nazione, esisteva; cioè una vasta parte della coscienza nazionale era orientata come stato d'animo verso queste due città sorelle. Peccato che anche allora non si sia parlato di Fiume e della Dalmazia i E per quanto riguarda la Dalmazia, noi, pur essendo rispettosi ammiratori di Mazzini, osserviamo che Mazzini non ha mai parlato di una Dalmazia slava; ha parlato di una Dalmazia italo-slava. E d'altra parte resta a domandarci, dopo cinque anni di guerra mondiale, dopo enormi sacrifici dell'Italia, dopo che i battaglioni italiani hanno conquistato Monastir alla Serbia e la Marina italiana ha salvato l'esercito serbo, resta, dicevo, a domandarci se oggi il grande esule riconfermerebbe il suo giudizio. Che cosa importa che nella Dalmazia gli italiani siano minoranza? Prima di tutto bisogna - vedere come si è addivenuti a creare questa situazione di minoranza. Bisogna fare le somme delle diaboliche persecuzioni della politica viennese, che era matricolata nel sistema di dividere i popoli. E se si potesse scrivere la storia della Dalmazia, e si sta scrivendo e si scriverà, si vedrebbe che la snazionalizzazione della Dalmazia è stata opera perfida e criminosa del governo di Vienna. Nel 1880 tutte le città della Dalmazia avevano dei sindaci italiani. Ultimo sindaco di Spalato fu quello chiamato « il mirabile podestà », Antonio Bajamonti, il che vi dice che anche Spalato era trent'anni fa italianissima.
D'altra parte l'elemento qualificativo non conta per nulla? Se noi siamo più civili, è logico che i meno civili siano annessi a noi e non già che gli altri annettano i più civili.
Per l'opera che voi dovete compiere non è necessario che voi facciate della politica di piazza e di violenza. Del resto la donna che vi guida è fine ed equilibrata. Sa bene quello che si deve fare e quello che non si deve fare. E sa stabilire i rapporti di possibilità e di necessità che devono intercedere sempre fra gli interessi del tutto e gli interessi della parte, fra gli interessi della nazione italiana e gli interessi di una piccola parte della nazione italiana. I problemi nazionali non sono ancora risolti; ne abbiamo al nord, a oriente, a occidente; qui mi sia concesso di deplorare che oggi un. grande giornale milanese dica che Napoleone non è nato in terra italiana quando si sa benissimo che la Corsica è terra italiana.
Se voi legionarie manterrete vivo questo stato d'animo avrete assolto al vostro dovere. Io so che i risultati non saranno immediati e appariscenti. So benissimo che incontrerete delle difficoltà. Le difficoltà del misoneismo, dello scetticismo, di quella superficialità che è una caratteristica di qualche elemento maschile italiano. Ma non vi formalizzate di ciò. Quando il problema verrà e il problema della Dalmazia sarà posto di fronte alla coscienza nazionale, voi, avendo tenuta accesa la fiamma, avrete il sovrano privilegio che è quello di dire : oggi tutto il vasto fiume del popolo italiano segue, ma pochi mesi fa noi eravamo il nucleo dell'avanguardia, appartenevamo alla falange dei pionieri, di quelli che tracciano il cammino, che marciano in prima fila, che non chiedono tanto di vincere quanto di combattere. E sarà vostra la grande soddisfazione del dovere compiuto. E davanti al popolo che risolverà il problema dalmatico in senso italiano, voi agiterete il vostro gagliardetto e direte : siamo fiere della nostra opera. Questo è il gagliardetto della laboriosa vigilia; è giusto che sia il gagliardetto della trionfale vittoria.




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