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Visualizza Versione Completa : Bobbio: una linea di frontiera (di G. Spadolini)



Frescobaldi
02-03-17, 16:42
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Da G. Spadolini, “Cultura e politica nel Novecento italiano”, Cassa di Risparmio, Firenze 1994, pp. 374-387.



1. L’influenza di Benedetto Croce

Ottant’anni: la biografia intellettuale e civile di Norberto Bobbio attraversa quasi l’intero corso del Novecento. Testimone ed esploratore – il grande studioso torinese cui si rivolge il nostro pensiero augurale – dei travagli, dei drammi, delle contraddizioni, delle dilacerazioni e anche delle tensioni insolute di questo secolo, del secolo che ormai si avvia verso il proprio epilogo.

Non a caso, fra le opere fondamentali di Bobbio, al di là del numero delle pagine, c’è proprio quel Profilo ideologico del Novecento (1) che resta ancora oggi, tanti anni dopo la pubblicazione, un prezioso punto di riferimento per chi intenda ripercorrere la storia d’Italia anche e soprattutto come storia delle idee. Nell’intreccio e nella contrapposizione fra i filoni culturali che maggiormente hanno condizionato la realtà del nostro paese.

Davanti a quella pluralità di filoni ideali, Bobbio scelse, già negli anni della prima decisiva formazione culturale (e dopo un’iniziale inclinazione gentiliana, sul piano speculativo) la propria linea direttrice: quella segnata da Benedetto Croce.

“Sì, Croce per noi ha avuto un’importanza fondamentale; è stato davvero il nostro maestro, la nostra guida spirituale”. Così ricorda il filosofo in recenti note autobiografiche, destinate a riaprire il capitolo dei rapporti col crocianesimo. Dopo che nel saggio su Politica e cultura (2) (quello dedicato in larga parte alla polemica con Togliatti negli anni Cinquanta), Bobbio aveva espresso non poche riserve proprio sulla filosofia politica di Benedetto Croce.

Eppure, rileva oggi il filosofo, resta il debito di un’intera generazione con Croce. Perché il rigoroso promotore della “religione della libertà” è stato in primis un grande educatore di coscienze. L’ineguagliabile maestro capace di fondare una vera e propria scuola di vita: infatti, “con la sua serietà, con il suo rigore – sono sempre parole di Bobbio – ci ha educati a non essere mai dei dilettanti, prima di tutto culturalmente”. Così “eravamo crociani, perché per noi il crocianesimo costituiva, intimamente, una indispensabile lezione di metodo”.

Il filosofo ricorda le “poche parole ma infallibili” cui Piero Gobetti era ricorso per definire Croce: “il più perfetto tipo europeo della nostra cultura”.
E “solo più tardi – aggiunge Bobbio, che è stato esponente coraggioso e coerente della resistenza azionista, fra Veneto e Piemonte – almeno per noi giovani intellettuali non comunisti, che avremmo aderito al movimento di Giustizia e Libertà o al liberalsocialismo o al Partito d’Azione, l’iniziazione a Croce è stata anche la via maestra dell’antifascismo”. Ma solo dopo: “perché prioritaria, per ciascuno di noi, è stata la lezione di metodo di Croce, che in un ambiente come quello torinese ha avuto un influsso enorme, e duraturo”.


2. L’incontro con Gobetti

Fu Leone Ginzburg a introdurre Gobetti per la prima volta nella vita di Norberto Bobbio. Ma come? Bisogna risalire ancora alla Torino degli anni 1925-26, quella Torino che fu un po’ la capitale della nuova cultura democratica proiettata nel dopo-fascismo: la città dove la Rivoluzione liberale riuscirà a sopravvivere di quasi un anno e mezzo al delitto Matteotti (censurata, bruciata, mutilata, interdetta, ma operante fino all’8 novembre 1925: l’ultimo numero tirato in poche decine di esemplari, oggi una rarità archeologica), la città dove Luigi Salvatorelli protrarrà fino all’estremo limite la resistenza democratico-liberale nella direzione politica della Stampa, la città dove Francesco Ruffini non interromperà neanche per un attimo il suo magistero prolibertà religiosa all’Ateneo, quasi presago degli imminenti ammiccamenti concordatari.

Quella Torino: crocevia di culture, “laboratorio” singolare di esperienze politiche e intellettuali (“cultura e politica”, direbbe ancora Bobbio). La città dove l’esperienza critica del comunismo di Gramsci vivrà oltre le chiusure della terza internazionale, dove il liberalismo “alpigiano” di Luigi Einaudi non si dissolverà nel trasformismo collaborazionista del partito, dove il revisionismo di Giuseppe Saragat terrà vivo il filone socialista riformista, la pianta turatiana.

Una Torino inconfondibile anche nel paesaggio culturale: la città dove Carlo Levi si accingerà a trasfondere il messaggio gobettiano nella letteratura e nell’arte e il Baretti resisterà per due anni alla morte del suo fondatore, prolungherà miti e speranze del Risorgimento senza eroi.

Lo confessa ancora Bobbio: fino al giorno della sua morte, in quel livido febbraio del 1926, “non sapevo chi fosse Gobetti, forse non l’avevo mai sentito nominare”. Fu un professore del liceo “D’Azeglio” legato a Gobetti e a tutti i filoni dell’antifascismo piemontese, Umberto Cosmo.

Cosmo è stato addetto culturale all’ambasciata a Berlino, con Frasatti, ha mantenuto ferme le idee di democrazia liberale anche in presenza di codarde capitolazioni alla dittatura: (quei professori di liceo, post-carducciani, che valevano tanto più di molti universitari di adesso). Fu lui – racconta sempre Bobbio – “a dirci in classe con voce accorata di aver appreso la notizia della morte di uno dei suoi migliori allievi, Piero Gobetti: un’impressione che non mi si è più cancellata dalla memoria”. E l’aggiunta rivelatrice: “Solo Ginzburg sapeva chi era Gobetti e alla fine della lezione ce ne parlò”.

1926. Sia Ginzburg sia Bobbio erano nati nel 1909. Fra i sedici e i diciassette anni (coetaneo era pure Eugenio Colorni). Una classe di liceo dove era emerso, fra gli studenti, un “maestro” instancabile nei suggerimenti inesauribile nelle iniziative, riconosciuto come tale un po’ da tutti, appunto Leone Ginzburg. Lo stesso fenomeno di Gobetti, otto anni prima, uno studente stimato e perfino temuto dai professori (“Sentivamo in lui quasi un esaminatore”: era il giudizio dei più). Sezione A del liceo “D’Azeglio”. Cosmo si affianca a Zino Zini, un gramsciano che è rimasto tale con candida coerenza, con inflessibile animo. Quasi a riunire ancora Gramsci e Gobetti. Dominante, nella sezione B, Augusto Monti, altro gobettiano fedelissimo, altro insegnante che conterà molto per quella generazione.

Lo studente di liceo Bobbio si abbona al Baretti: è l’ultimo periodico che sopravviva del grande albero gobettiano, mercé il suo carattere umanistico e antologico. Subisce l’influenza, fortissima, di Leone Ginzburg, un coetaneo che sa molto più di lui, che obbedisce a una vocazione tanto precoce quanto prepotente negli studi (e in ogni tipo di studi): sospeso fra Croce e Gobetti, ma intrinsecamente e radicalmente crociano.

Comincia a partecipare alla discussione di un cenacolo di giovani in cui emergono Mila, Antonicelli, Levi, Pavese. Decidono di riunirsi ogni settimana in un caffè (“squallido”) di via Rattazzi, dove dibattono tutti i temi, si pongono interrogativi o dubbi cui era difficile rispondere in quel clima; in quella cornice di isolamento culturale. È la Torino che rivivrà in tre libri autobiografici fondamentali: Italia civile, Maestri e compagni, l’Italia fedele (fedele a Gobetti) (3) .

L’università, dove studierà Bobbio, è la stessa dove aveva studiato Gobetti: laureatosi su Vittorio Alfieri, quasi una scelta di campo. Il maestro di Bobbio è lo stesso maestro con cui Gobetti aveva scelto la tesi, è Gioele Solari: uno di quegli uomini in cui la vastità della cultura era pari all’arco indulgente della propria tolleranza. E la tesi scelta da Bobbio era una tesi giuridica, come giuridici saranno i suoi primi studi: fino a quella che potremmo definire la sua definitiva impostazione di “filosofia politica” e anche di scienza della politica. Quella che – per riprendere uno dei grandi amori di Bobbio (e di Gobetti) – sarà una “filosofia militante”, la filosofia di Carlo Cattaneo.

Interrogandosi una volta sui maestri del suo itinerario politico e culturale egli separò gli antichi dai moderni, o meglio i moderni dai contemporanei. Scelse cinque nomi per i primi, cinque per i secondi, Hobbes, Locke, Rousseau, Kant e Hegel. E per i cinque contemporanei: Croce, Cattaneo, Kelsen, Pareto, Weber. Da Croce a Cattaneo: è lo stesso itinerario di Gobetti.


3. L’illuminista Bobbio

“Cattaneo – ha ricordato il filosofo in una recente intervista a Nuova Antologia – è stato uno dei pochissimi, forse il solo intellettuale del Risorgimento che non sia mai stato ‘utilizzato’ dai fascisti”: per un motivo che Bobbio, fedele alla regola fondamentale della chiarezza del pensiero filosofico, considera “semplicissimo”. Infatti, “uno come Cattaneo, che definisce lo Stato con l’immagine della ‘grande transazione’, rappresenta l’antitesi della dottrina dello Stato etico, magari interprete dello Spirito quello con la esse maiuscola, depositario di chissà quali verità eterne”.

Così, aggiunge Bobbio, “fra chi teorizza lo Stato etico e chi parla di Grande transazione, in un senso ancora oggi attualissimo, non c’è, non può esserci affinità né convergenza”. E quel fossato si approfondisce a proposito dell’idea di nazione e dell’idea d’Europa.

“Il fascismo – sono sempre parole del filosofo – è stato nazionalista e autarchico, pronto a riempirsi la bocca con l’idea del primato e la mania di grandezza. Cattaneo no; Cattaneo insegna a confrontarsi con gli altri, e ancor prima di andarsene a Castagnola, in Canton Ticino, fa un’opera di sprovincializzazione, che rimane esemplare”.

Ecco perché Norberto Bobbio si è dedicato agli studi cattaneani, raccolti in quel volume indimenticabile ed esemplare che, non a caso, identifica il pensiero del grande democratico risorgimentale tout court con una “filosofia militante”. E ricordando coloro che maggiormente hanno approfondito le pagine cattaneane – Luigi Salvatorelli, Luigi Einaudi, Cesare Spellanzon, Mario Fubini, Giacomo Perticone – il filosofo torinese sottolinea che “non ce n’è uno, nemmeno uno, sospetto anche soltanto di filofascismo”. Cattaneo segna il trait d’union fra primo e secondo Risorgimento.

“Vi sono due categorie di persone: i soddisfatti di sé e i malcontenti. Io appartengo senza ombra di dubbio ai secondi”. Sono parole di Bobbio nella prefazione a un recente volume di studi in suo onore. E sono parole che ci riportano al suo lontano e mai dimenticato maestro – nonostante tutto – Benedetto Croce: i “taccuini” anticipati da Gennaro Sasso (4) dimostrano quanto fosse profonda, nel filosofo giudicato da tutti olimpico e rasserenato, la scontentezza del proprio pensiero, l’ansia di correggere e di rivedere, unita all’angoscia esistenziale, talvolta alla suggestione della morte.

L’illuminista Bobbio. Dovendo riassumere il complesso travaglio di questo grande maestro in una parola sola, forse questa sarebbe la caratterizzazione meno impropria. Illuminismo: si chiamava non a caso il fondo di apertura del Baretti la fede nella ragione, la tolleranza sopra ogni altro valore, il senso del confronto, del dialogo, l’antologia delle varie culture, mai come eclettismo, sempre come sperimentazione.

Avverso a ogni forma di dogmatismo o di monolitismo della cultura. Dominante: il senso di una storia perennemente incompiuta. Costante: il rifiuto di ogni formula totalizzante, nessun ripiegamento sulle “città del sole” o sulle terre di utopia (nonostante i primi studi in materia). Portato a comprendere le ragioni degli altri, favorevole al colloquio sempre: la tavola rotonda, come il suo amico Ginzburg avrebbe voluto intitolare la sua prima rivista intorno agli anni Trenta.

E quindi eguale sulla cattedra e nel giornale, in Senato o nel più piccolo consiglio di comunità locale: educatore sempre, educatore intero. Incline a semplificare, a chiarire con una forza cui la lunga collaborazione alla Stampa – in questi ultimi quindici anni – ha conferito valore di testimonianza nazionale. E per lui vale la stessa regole di Jemolo: il grande pubblico lo ha conosciuto attraverso la terza pagina. Omaggio, una volta tanto, al giornalismo italiano.


4. Il travaglio dello Stato moderno

Probabilmente il “mestiere” dell’elzeviro, innestandosi su un meccanismo mentale “naturaliter” razionale e semplificatore, ha finito per incidere sullo stile universitario di Bobbio, accentuandone quelle doti di esemplare, perfino sconcertante chiarezza che lo hanno sempre accompagnato (ricordo, ragazzo o poco più, la lettura della “filosofia del decadentismo” o della prefazione ai cattaneani Stati uniti d’Italia (5) , primo suo scritto dopo la sofferta e travagliata liberazione). Chiarezza esemplare confermata dal piccolo volume einaudiano, dal titolo dimesso e quasi allontanante (per il pubblico di massa), Studi hegeliani (6) , con un sottotitolo già più penetrante e incalzante: “Diritto, società civile, Stato”.

Ed è un test fondamentale della chiarezza di Bobbio non meno che della sua assoluta indipendenza intellettuale. Primo libro, se non ci sbagliamo, che porta nel titolo Hegel; altre, e belle, pagine hegeliane erano uscite nel volume di Morano, tanti anni fa, Da Hobbes a Marx (7) e fin da allora era affiorata la tesi, sui cui spesso il nostro amico è tornato, di Hegel come continuatore del giusnaturalismo moderno, quasi momento di compimento e di dissoluzione dello stesso.

Ma qui il panorama si allarga. Sono tutti, o quasi, scritti successivi al 1966, a quando l’autore fu invitato, dalla “Hegel-Gesellschaft”, a tenere la relazione introduttiva al congresso di Praga dedicato a un tema che coincideva con la sua stessa disciplina accademica, Hegel e la filosofia del diritto (e un’altra relazione importante è quella sulla Costituzione in Hegel, tenuta al congresso di Heidelberg del 1970). Ma il rattenuto autobiografismo intellettuale, che sempre percorre la pagina di Bobbio e tanto spesso la riscalda, riporta questi saggi molto più indietro sul filo della memoria storica, agli stessi primissimi anni Trenta decisivi per la cultura torinese, per le sue fratture, per le sue successive ricomposizioni.

L’ombra di Gioele Solari (8) si proietta anche sugli studi hegeliani in quello che è forse il capitolo più stimolante e aggressivo dell’operetta Sulla nozione di società civile. Ancora l’Università di Torino, ancora l’Accademia delle scienze (come in Italia civile). Il primo centenario della morte di Hegel, nel 1931, come momento di provocazione o meglio di pretesto; un numero speciale della Rivista di filosofia quasi contrapposto al discorso sul concetto hegeliano di Stato (Der Hegelsche Staatsbegriff) che Giovanni Gentile avrebbe pronunciato a Berlino nell’ottobre, tutto incentrato sulla divinizzazione dello Stato etico; la rivendicazione avanzata dal Solari in quelle pagine, della società civile come concetto autonomo dallo Stato, come qualcosa che non poteva essere immedesimato con la statualità, che giustificava “le basi di una filosofia sociale”, che autorizzava a parlare – allora il termine non era di moda – di pluralismo non meno sociale che istituzionale. “Società civile” che non si identificava affatto col marxista “sistema dei bisogni”, riflesso di una riduzione economicistica rifiutata da Solari non meno che da Bobbio.

Intendiamoci: Bobbio non annette Hegel a nessuna delle filosofie oggi dominanti, di destra o di sinistra, impegnate da decenni nella “singolare tenzone” di strapparne l’eredità da una parte o dall’altra. Hegel è Hegel: maestoso nella sua solitudine e talvolta nella sua impenetrabilità. Politicamente vicino a una concezione della monarchia costituzionale che escludeva una Camera fondata sui partiti ma ammetteva soltanto una dieta rappresentativa di interessi, accanto a una dieta ereditaria. Con tutte le sue fobie: a cominciare da quella contro il sistema britannico di governo.

Ma la forza di Bobbio è di vivere intero e senza illusioni il dramma del mondo moderno, della delegittimazione del potere tradizionale, della difficoltà crescente del nuovo potere democratico a rispondere a tutte le istanze che salgono dal turbinio della società civile (chi ha dimenticato le pagine dedicate, sotto questo profilo, da Bobbio a Gramsci?). La democrazia vissuta come problema e non solo come idea compiutamente realizzata.


(...)


(1) N. BOBBIO, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino, 1986.

(2) N. BOBBIO, Politica e cultura, Torino, 1955. Ried. 1974.

(3) Cfr. N. BOBBIO, Italia civile. Ritratti e testimonianze, Firenze, 1986; ID., Maestri e compagni, Firenze, 1984 e ID., Italia fedele. Il mondo di Gobetti, Firenze, 1986.

(4) G. SASSO, Per invigilare me stesso. I taccuini d lavoro di Benedetto Croce, Bologna, 1989.

(5) C. CATTANEO, Stati Uniti d’Italia, a cura di Norberto Bobbio, Torino, 1945.

(6) Gli studi hegeliani di Bobbio sono ora raccolti in N. BOBBIO, Studi hegeliani, Torino, 1981.

(7) N. BOBBIO, Da Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia, Napoli, 1965.

(8) Cfr. la commemorazione di N. BOBBIO, Gioele Solari, Alessandria, 1955.

Frescobaldi
04-03-17, 00:11
Seconda e ultima parte qui:

https://www.facebook.com/notes/giovanni-spadolini/bobbio-una-linea-di-frontiera/1285621421529460