Avamposto
03-08-10, 00:28
"SUL TERRORISMO ISRAELIANO"
Introduzione
Il terrorismo sionista, nato dal ventre già fecondo...
Serge Thion
Immaginate. Immaginate che verso la fine del XIX secolo una piccola etnia cinese, arricchita attraverso il commercio, abituata alle migrazioni ¬ il caso esiste, penso per esempio agli Hakka, un popolo giunto dalla Cina dei nord e installato da molti secoli nel sud, arricchitosi con il commercio ambulante e l'emigrazione ¬, immaginate, dunque, che un popolo di questo tipo, potremmo chiamarlo degli hokko, con riferimento ai suoi miti di fondazione, che tragga la propria origine da una dea Vacca o da un dio Kabalo, decida di installarsi su una terra promessa dalla dea o dal dio, per esempio in Normandia o in Toscana, intorno alla città di Siena con il suo palio emblematico, celebrazione evidente del dio Kabalo che resta, da millenni, nelle attese dei suoi veri fedeli. Il tempio, il Grande Tempio di Kabalo, è stato distrutto dall'esercito romano duemila anni fa e alcuni sognano di ricostruirlo, per inaugurare una nuova era di prosperità e di successi prodigiosi. Questo sogno, fatto da qualche intellettuale formato a Pechino o a Tokyo, deve molto alle forme del moderno nazionalismo, ma è presentato alle masse lavoratrici come una rivincita storica, come il solo modo per proteggere la piccola comunità, che vive chiusa su se stessa, fatta segno a vari ostracismi e continuamente schernita da parte di gente presso la quale abita, senza veramente coesistere. Essa si è circondata di mura, che ricordano le grandi case collettive, rotonde, degli Hakka. Ma non vorrei mischiare troppo gli ammirevoli Hakka con questa storia, poiché essi si sono accontentati, nei secoli, di lavorare duramente e di preservare le loro tradizioni ancestrali, senza sconfinare nel territorio dei vicini. Veri saggi, induriti dalla fatica e contenti di vivere.
Continuiamo a fantasticare. Approfittando delle circostanze storiche che hanno portato al provvisorio assoggettamento della Francia o dell'Italia, gli inviati dei nostri ipotetici hokko hanno rivendicato la creazione di un «focolare nazionale hokko». Evidentemente, in Normandia o ìn Toscana, queste peripezie lontane sono sconosciute e non si attribuisce loro alcuna importanza. La presenza sul posto di qualche decina di commercianti o artigiani hokko non ha mai turbato nessuno. La questione hokko non si pone, salvo che per certi politici locali che protestano contro l'idea stessa di una sorta di dominazione hokko, che non è veramente all'ordine del giorno. Per motivi di congiuntura internazionale (la desiderabilità di un'alleanza con la Cina), ai quali si aggiunge la propensione di alcuni politicanti locali a intascare bustarelle confortevoli, un ministro qualsiasi ammette la creazione in Normandia o in Toscana di un «focolare nazionale hokko». Nessuno sa bene che cosa vogliano dire queste parole. La loro ambiguità sarà pagata caramente.
Nei decenni successivi, che vedono alcune forti convulsioni dell'ordine internazionale, finanzieri hokko, i quali dispongono di importanti banche nella diaspora hokko, comprano alcune terre in Normandia o in Toscana e come coloni vi collocano disoccupati, giovani senza futuro, soldati smobilitati, in breve tutto il limo di una società che emigra per sfuggire alla miseria. Questi emigranti potrebbero andare in America, verso l'Eldorado, ma scribacchini sempre più impegnati nel nazionalismo hokko li convincono a partire per la Normandia (o per la Toscana), per mischiare l'Eldorado delle terre vergini con il Ritorno alle Origini, pegno di felicità eterna. La dea o il dio Kabalo non sono invocati che come notai divini che avrebbero siglato, trenta secoli prima, una promessa di vendita della Terra Santa agli hokko. Quei giovani credono facilmente di far parte di un popolo senza terra che sta per installarsi in una terra senza popolo. Nessuno prova a disingannarli.
Evidentemente, sul posto, le cose non vanno tanto bene. Gli indigeni normanni vedono di cattivo occhio l'installazione di un numero sempre crescente di stranieri dalla pelle bruna, dagli occhi a mandorla, che parlano una lingua incomprensibile, l'hokkish, e che hanno alimentazione, costumi, copricapo e abitudini bizzarri. Siccome questi stranieri pensano che tutto sia loro permesso, si verificano frizioni e incidenti. In capo a vent'anni, c'è perfino un inizio di insurrezìone degli indigeni, rapidamente represso dalle truppe d'occupazione dei Terzo Impero, che domina in questo momento tutta la regione. Gli hokko cominciano a formare milizie per imporre con la forza ciò che non hanno potuto imporre con il solo peso dell'occupazione straniera. E queste milizie se la prendono ben presto con le forze di occupazione, colpevoli, ai loro occhi, di limitare l'immigrazione hokko.
Quando l'evolversi delle circostanze porta l'Impero a ritirare le sue forze di occupazione, il Concerto delle Nazioni, organismo fantasma sprovvisto di qualsiasi legittimità politica, che non è eletto da nessuno, decreta la spartizione del la Normandia o, sempre nella nostra ipotesi, della Toscana. Grande turbamento in Francia o in Italia. Nessuno riesce a capire e ancor meno ammettere che si tagli con la sega un pezzo di territorio nazionale per darlo a questi originari dell'Asia, con il pretesto che i loro dannati miti originari sarebbero più o meno sovrapponibili alla tale o talaltra regione della vecchia Europa, terra di civiltà millenaria. Che vadano al diavolo!
Ma non si calcola il peso che gli hokko hanno saputo acquistare sulla scena internazionale. Essi hanno appoggi ovunque, si fanno dare armi e al momento giusto danno il via a una guerra di conquista. Cacciano i normanni (o i toscani) dai loro villaggi, che bruciano e radono al suolo, fanno alcuni massacri per costruirsi un'immagine terrificante. La terra è quel che conta innanzitutto. Tutti i crimini sono leciti quando si tratta di prendere e conservare la terra. C'è una curiosa legge in questo paese, che non è simile a nessun'altra: una terra qualsiasi, se è divenuta proprietà di un hokko, non può essere trasmessa o devoluta che a un altro hokko. I nonhokko non potranno mai recuperarla per vie legali.
Con l'artificio di questo breve racconto, vorrei che il lettore si mettesse al posto dei normanni o dei toscani. Che esso comprendesse come un'antica civiltà agraria, come un piccolo cantone, che fa parte di un vasto insieme regionale, possa essere improvvisamente vittima di un uragano di ferro e di fuoco, saccheggiato, bruciato, mutilato, senza che qualcuno abbia provocato la cosa. Che gli invasori e massacratori siano hokko o ebrei, le cose non cambiano. L'epoca in cui le Nazioni Unite decidono di spartire la Palestina è quella in cui il vecchio colonialismo entra in agonia: 1947, l'India e il Pakistan scuotono via la tutela inglese, l'Indocina entra in guerra, il Madagascar si solleva, mentre la «cortina di ferro» cala sull'Europa orientale e, a breve scadenza, sulla Cina.
A Versailles, nel 191820, le grandi potenze si erano giocate alla roulette l'indipendenza o la creazione di Stati. E io ti fabbrico qui una Cecoslovacchia, là una Jugoslavia, faccio a pezzi l'Ungheria, ti assegno un mandato in Africa, tu me ne dai uno nel Pacifico, annullo la Turchia, risputo un emirato qui, una monarchia hascemita là, no, altrove, più lontano, in breve era un casinò e il tappeto verde era il pianeta. I dadi ruzzolavano, le placche passavano di mano, si decideva il destino del mondo. L'americano Wilson conduceva la partita, in tutta fretta, prima di ritirarsi all'improvviso, sconfessato dal suo stesso cortile politico. Versailles è stato un crimine, di ispirazione coloniale, dal quale sono nati, come tutti potevano prevedere, Hitler, la seconda guerra mondiale e molti tra i conflitti successivi.
In Palestina, «concessa» agli avidi inglesi, l'ingiustizia fu palese. Essa è sempre lì, dopo ottant'anni. Le une dopo le altre, le generazioni si sono levate per difendere, come farebbero tutti in qualsiasi parte del mondo, la loro terra e la loro famiglia, la loro casa, i loro campi e la loro patria. Dal punto di vista del diritto più elementare, più universale, la cosa è chiara: i palestinesi hanno il diritto sacrosanto di difendersi, con le armi e con tutti gli altri mezzi, e gli israeliani non hanno alcun diritto su quella terra, come non ce l'avrebbero gli hokko venuti dal loro Oriente lontano se per caso pensassero di rivendicare e occupare la Normandia o la Toscana, o non importa quale luogo del mondo che le loro fantasie mitologiche li porterebbero a designare come una «terra promessa», ma promessa a chi e da chi? Queste elucubrazioni sarebbero ridicole, se non fossero tanto tragiche.
Se si vuole capire qualcosa sull'uso smodato della forza e del terrore da parte dei sionisti, occorre partire di qui: essi sono stati fin dagli inizi e ancora oggi sono stranieri in Palestina. Gli arabi che la popolano da tempi immemorabili applicavano, come tutti i popoli di questa regione, le leggi dell'ospitalità. Uno straniero era ben accolto, perché era uno straniero. In un lontano passato, anche i nostri antenati hanno messo in pratica queste leggi, rileggete l'Odissea. Ma bisogna distinguere: gli stranieri di cui parliamo non erano stranieri come gli altri e non applicavano, di ritorno, le stesse leggi dell'ospitalità: modestia, cortesia, rispetto dell'ospite, ecc. Bisogna metterli piuttosto nella categoria degli invasori. Arrivavano d'altronde contemporaneamente agli inglesi e muovevano le loro pedine con la copertura del regime coloniale. L'episodio sanguinoso delle Crociate non era del tutto dimenticato, viveva sempre nei racconti popolari, come nell'interminabile saga del sultano Baibars, recitata, spesso, nelle lunghe serate invernali. Vi erano sempre stati ebrei in questa regione, sia pure in piccoli gruppi. A leggere il Corano, la loro reputazione non era tra le migliori. Essi avevano cercato di ostacolare la marcia del Profeta ed era stato necessario farli ragionare. In ogni caso, queste società erano mosaici religiosi ed era usuale avere vicini che praticavano riti diversi. I matrimoni intercomunitari erano scarsi, ma si coabitava in modo pacifico.
Gli ebrei che arrivavano erano principalmente russi e polacchi, pieni di ardore per i progetti di una nuova vita, lontano dalle loro steppe ghiacciate. Erano così imbevuti di cultura europea da considerare gli abitanti della Palestina come «indigeni», che erano sottoposti allo statuto di colonizzati e non avevano conseguentemente da dire la loro. Il grande dibattito che animava gli ebrei installati in Palestina in virtù della Dichiarazione Balfour del 1917, che aprì loro il «diritto» alla costituzione di un misterioso «focolare nazionale ebraico», era di sapere se le imprese agricole acquistate con il danaro dei grandi banchieri ebrei dell'Occidente avessero il diritto di impiegare lavoratori arabi o dovessero riservare i posti a lavoratori ebrei. A imporsi fu evidentemente questo secondo punto di vista. E, siccome l'acquisizione o l'appropriazione delle terre procedeva rapidamente, tra i palestinesi cominciò a manifestarsi il malcontento. I coloni ebrei si diedero a formare milizie e gli incidenti si moltiplicarono fino alla grande insurrezione del 1936. Gli inglesi cominciarono allora a rendersi conto di aver compiuto una gigantesca bestialità e, per evitare che i loro affari ne risentissero, decretarono la fine dell'immigrazione ebraica.
Contemporaneamente era arrivato al potere Hitler, che cercava di costringere gli ebrei a emigrare, moltiplicando misure vessatorie e atti di terrore. Il dramma avrebbe potuto essere evitato se gli altri paesi avessero accettato una grande ondata di immigrazione ebraica proveniente dalla Germania e dall'Austria. Ma alla Conferenza di Evian, nel 1938, si realizzò l'unanimità: nessuno voleva questa massa di ebrei. Senza dubbio non erano considerati tanto amabili e desiderabili. Nessuno si aspettava il seguito degli avvenimenti, ma è necessario ammettere l'esistenza di una buona dose di diffidenza, dovuta all'uso della violenza che già si diffondeva in Palestina e anche al fatto che nelle democrazie non erano visti di buon occhio i numerosissimi militanti ebrei presenti nel movimento internazionale legato alla Russia staliniana.
L'uso del terrore, battezzato «autodifesa», era cominciato molto presto, con l'arrivo dei primi coloni sionisti all'alba del ventesimo secolo. La frazione di destra del sionismo, diretta da Vladimir Jabotinsky, ha riservato un posto notevole nel proprio pantheon a un vecchio soldato dell'esercito russo, Yosef Trumpeldor, che organizzava militarmente i coloni e si era fatto uccidere, nel 1920, dai contadini palestinesi stufi delle estorsioni di questi nuovi venuti. Trumpeldor era un esaltato che voleva imporre la presenza dei coloni ebrei con la forza. Era molto popolare nel movimento sionista perché metteva il dito sul problema centrale: per sviluppare la presenza straniera ebraica in Palestina, anche con la complicità delle autorità coloniali britanniche, bisognava ricorrere alla violenza. Comprare terre, trattare con i proprietari fondiari locali, spesso latifondisti assenteisti, era possibile, ma non avrebbe portato alla creazione dello Stato ebraico. Si potevano impiantare fattorie, più o meno collettive, nelle quali convogliare gli sradicati delle classi proletarie ebraiche dell'Europa centrale e orientale, sì potevano sviluppare quartieri urbani per accogliere la piccola borghesia della stessa provenienza, non si poteva controllare lo spazio, lo spazio politico in cui sarebbe stato necessario che si dispiegassero le istituzioni annunciatrici dello Stato che i sionisti avevano in mente.
I sionisti si divisero in due tendenze: gli ipocriti, di sinistra, i quali affermavano che era necessario intendersi con gli arabi, che bastava metterci un po' di buona volontà e che si sarebbe riusciti a ingannare tutti acquistando abbastanza terra per costruire le istituzioni dello Stato ebraico. Era il discorso pubblico, che non è cambiato, dei socialisti, laburisti, sulla linea di Ben Gurion, di Shimon Peres, di Yitzhak Rabin e degli altri: discutere con gli arabi per ingannarli, per condurli, con un sapiente dosaggio di massacri e omicidi, a scegliere di diventare ausiliari dei sionisti, senza terra, senza diritti, ma con qualche onorificenza politica. Un Ben Gurion, che amava coltivare la propria immagine di uomo «di sinistra», sognava, di fatto, di espellere tutti gli arabi, ma non poteva dirlo pubblicamente senza mettere in crisi le proprie alleanze. Durante la guerra del 1948, egli forni copertura ai massacri, senza rivendicarli. Questa linea, a lungo prevalsa nella politica israeliana, ha sempre fatto mostra della più ripugnante ipocrisia. L'uso del terrore è stato alternativamente negato e trasceso attraverso il ricorso a una giuridicità puramente formale.
L'altra tendenza fu inizialmente incarnata da Jabotinsky e dal suo gruppo «revisionista». Bisognava prendere atto, secondo Jabotinsky, del fatto che gli arabi non avrebbero mai accettato l'installazione degli ebrei sulle loro terre. Vi si sarebbero opposti con tutti i mezzi e questo era un punto di vista comprensibile. Di conseguenza, bisognava mettere tra loro e gli ebrei un «muro di ferro», costituito dalle baionette dei fucili che gli ebrei avrebbero impugnato saldamente. Questa tendenza, diretta da Menachem Begin dopo la morte di Jabotinsky nel 1940, non giunse al potere che nel 1977. Essa era favorevole a un terrore aperto, visibile a tutti, che si imponesse agli arabi rendendoli incapaci di resistere. Negli anni Trenta Jabotinsky aveva costituito una milizia (Betar) e alcune filiere di formazione militare. Si era inteso a meraviglia con il regime mussoliniano, che ammirava, e aveva ottenuto da esso di far formare a Civitavecchia i primi marinai di un'eventuale flotta militare. Ovunque, e perfino nella Germama nazista, «campi della gioventù» sul tipo di quelli degli scout avevano prefigurato la militarizzazione del sionismo.
Durante la seconda guerra mondiale, ed è un capitolo che meriterebbe ampi sviluppi, i sionisti, senza distinzione di tendenze, cercarono un'intesa con i nazisti, per parte loro disponibili a trattare, allo scopo di recuperare gli elementi giovani e dinamici delle popolazioni ebraiche incluse nel Terzo Reich, per farli partire per la Palestina, ancora britannica, e disporre della fanteria indispensabile per un futuro esercito ebraico. Contemporaneamente, questi stessi sionisti si davano da fare per creare, tra le truppe inglesi, unità militari e servizi d'informazione, sempre nell'idea della prefigurazione di un esercito ebraico di conquista. Questi elementi sono presenti in tutta la mitologia che circonda la creazione dello Stato ebraico, basta riferirsi alla sua propaganda e alle biografie dei suoi dirigenti. I sionisti non contavano certo di rafforzare l'impero britannico, che volevano allontanare dalla Palestina, ma volevano sfruttare un'occasione per creare il nucleo di un esercito che sarebbe effettivamente servito nel 1948 a prendere infine il controllo dello spazio di cui essi non disponevano dal 1920.
Tutto mostra che i sionisti praticarono, nell'Europa sotto la ferula nazista, una politica di selezione. In cambio della loro buona volontà a lasciare sparire nella gola del Moloch i vecchi, le donne e i deboli, essi chiedevano di salvare e far partire per la Palestina i maschi giovani e forti, nell'intento di un confronto militare con gli occupanti legittimi e allo scopo di costruire uno Stato moderno, all'americana, ideale degli ebrei dell'Europa orientale. Queste considerazioni spiegano certi tratti curiosi della storia degli Judenrat, i gruppi dirigenti delle comunità che dialogavano e servivano da cinghia di trasmissione con le autorità tedesche, in particolare alcuni tentativi di negoziato, a vari livelli, con il regime nazista, pronto a scendere su questo terreno.
Certo, questa politica sionista di selezione non piacque a tutti. Polemiche sorde nate tra le macerie delle comunità ebraiche hanno a volte portato, in seguito, a contrasti violenti. t ancora troppo presto per scrivere la storia del movimento sionista dato che è impossibile che i sionisti riconoscano di aver cercato di trarre vantaggio dalla politica antiebraica, ma sionistizzante, delle autorità naziste. La questione ha avvelenato i primi tempi dello Stato d'Israele, con l'interminabile affare Kastner, principale dirigente dello Judenrat d'Ungheria. Costui si ritrovò in Israele nel 1948 e fu subito accusato da pubblicisti non ben identificati di aver collaborato con i nazisti. Ne seguì un grande processo, i cui atti furono più tardi pubblicati, ma solo in ebraico. L'aspetto interessante è che lo Stato di Israele, rappresentante del sionismo, si fece garante per Kastner. Le cose divennero così imbarazzanti che un provvidenziale assassino procedette all'eliminazione di Kastner. Questa vicenda è come una finestrella che consente di gettare un raggio di luce sulle oscure trattative dei dirigenti sionisti, i quali allora, senza praticare essi stessi il terrore, dimostrarono una notevole capacità di utilizzare a loro vantaggio quello che i nazisti facevano regnare sugli ebrei sottoposti alla loro influenza. Quando alcuni scrittori, in America e in Inghilterra, hanno voluto affrontare l'affare Kastner per chiarire il lato oscuro del sionismo, sono stati vittime di violentissime campagne di stampa e le loro opere sono state messe nel dimenticatoio (si vedano Perfidy di Ben Hecht e Perdition di Jim Allen).
Le Nazioni Unite, creatura degli americani, decisero nel 1947 di spartire la Palestina. Decisione inaudita, di un cinismo senza paragoni. La popolazione non fu evidentemente consultata. Gli inglesi si liberavano di un problema che non erano in grado di risolvere: essi avevano creato il mostro della presenza ebraica organizzata, militarizzata, e non riuscivano più a controllarla. Non esisteva alcuna base giuridica per la spartizione. Se le Nazioni Unite decidessero domani di dividere la Normandia o la Toscana per soddisfare qualche orda asiatica che pretendesse di imporsi con la forza si capirebbe meglio la profonda illegalità di una decisione di questo tipo.
Al momento della proclamazione dello Stato ebraico, che non bisognerebbe chiamare Stato israeliano, poiché ritiene di essere lo Stato di tutti gli ebrei del pianeta, l'esercito ebraico, organizzato con il tacito consenso degli inglesi ed equipaggiato con armi inviate dall'Unione Sovietica, poté iniziare una guerra di conquiste. Lo strumento principale di queste conquiste è stato il terrore impiegato per svuotare i villaggi dai contadini palestinesi. I dettagli sono noti o facili da reperire e verificare. Che pretesi «nuovi storici» israeliani scoprano questi orrori quarant'anni dopo non deve suscitare illusioni; le cose si sapevano fin dagli inizi: la guerra del 1948 è nota dal 1948! È stata soltanto la propaganda sionista che ha cercato, in seguito, di trasformare in eroi i ruffiani che l'hanno fatta e di nascondere o negare i massacri maggiori. L'opinione pubblica israeliana, accuratamente abbrutita da programmi scolastici adeguati e da una stampa pesantemente censurata, ha potuto dimenticare tutto. Non è meno vero che Israele è stato fondato con la forza, a dispetto del diritto, e che sì è conservato successivamente intraprendendo guerre e repressioni di tipo genocida.
Non rifarò la storia dettagliata dei massacri deliberati che hanno accompagnato lo svolgimento della guerra dei 1948. Il ricordo di Deir Yassin ¬ già denunciato all'epoca da alcuni osservatori, come Arnold Toynbee, il grande storico, messo alla gogna per antisionismo («Arnold Toynbee sostiene che l'espulsione degli arabi è un'atrocità più grande di quelle commesse dai nazisti», deplorò un foglio sionista) ¬ è stato conservato dai palestinesi. Altri massacri, come quello di Tantura sono esumati, un po' a caso, da ricercatori meravigliati essi stessi da ciò che scoprono negli archivi. Altri restano celati. Si hanno liste di villaggi rasi al suolo dalle soldatesche sioniste, ma non si sa sempre in dettaglio come siano avvenute le evacuazioni. Oggi i palestinesi hanno forgiato la parola nakba per evocare l'insieme di queste atrocità.
Si potrebbe pensare che questi orrori, generati da una guerra finita più di mezzo secolo fa, abbiano perso importanza, che sarebbe meglio gettarli in quell'abisso senza fondo che gli anglosassoni chiamano memory hole, il buco, senza fondo, della memoria. Non è così facile. I coreani tremano ancora al ricordo dei maltrattamenti inflitti dal Giappone ai loro ascendenti nel 1905 e nel 1945. I cinesi soffrono ancora per lo «stupro di Nanchino» perpetrato negli anni Trenta. Ma in Palestina non si tratta di ricordi, di «costruzione della memoria» come tante ideologie disoneste ci vogliono far credere. Si tratta di un crimine di fondazione, che si perpetua e si ripete tutti i giorni. Che si moltiplica. Che si estende e si ramifica. Ogni giorno gli israeliani inventano nuove forme di umiliazione, per esempio alle centinaia di posti di controllo sulle strade (checkpoint), di tortura nelle prigioni, più o meno segrete. Quella gente è tanto raffinata nell'arte difficile dell'oppressione da permettersi di tenere corsi di formazione per i poveri americani. I babbei della polizia americana credono che per perquisire una casa sia necessario frugare stanza dopo stanza. Errore, dicono i raffinati israeliani: per passare da una stanza all'altra bisogna evitare la porta, che potrebbe nascondere una trappola. Per passare tranquillamente da una stanza all'altra è perciò necessario far saltare i muri con cariche esplosive. Si ammiri la sottigliezza del procedimento. Per la campagna nell'Iraq gli israeliani hanno anche fornito agli americani, che non avevano pensato a procurarseli, gli enormi bulldozer blindati che hanno fatto meraviglie a Jenin, Gaza e altrove. Si tratta solo di uno strumento di «pressione» che può in vari modi tornare utile.
La violenza, il disprezzo assoluto dei diritti dell'uomo palestinese, e, bisogna ben dirlo, dei diritti dell'uomo non-ebreo, il ricorso all'«omicidio mirato», in un paese che si vanta di aver abolito la pena di morte, l'esproprio sistematico delle terre agricole e non agricole, la confisca dell'acqua ¬ con la copertura di una legalità, alle volte derivata dagli ottomani, che ci sapevano fare, altre dagli inglesi che avevano fatto leggi per lo stato d'eccezione e che sono sempre stati usi a girare risolutamente le spalle a tutti quegli arsenali giuridici quando era il caso ¬, tutto ciò appartiene senza ombra di dubbio all'ordine del terrore. Bisogna riconoscere che i nazisti, nella loro zona, o i commissari politici dell'epoca staliniana non arrivavano a tanto. Consideriamoli come fanciulli imberbi che avevano ancora molto da imparare.
La lotta contro gli inglesi fu condotta da piccoli gruppi che si convertirono al terrorismo durante la guerra. Mentre le istituzioni dell'Yshuv (l'insieme degli ebrei residenti in Palestina) collaboravano allo sforzo bellico degli inglesi, e degli Alleati, creando una «Brigata ebraica», che fu portata a combattere in Italia e nell'Europa centrale, gli ebrei oltranzisti si lanciarono in campagne di attentati, che avevano innanzi tutto lo scopo di impedire o aggirare la politica inglese di limitazione del numero degli immigranti ebrei, il cui aumento, Londra ne era consapevole, avrebbe finito per far esplodere la pazienza dei palestinesi. All'epoca i dirigenti politici ebraici mostravano di non saper nulla di questa tendenza clandestina e anche di disapprovarla. Oggi, i più ignobili omicidi di diplomatici e di inviati stranieri sono rivendicati come azioni elevate e gli esecutori sono spesso presentati, nel folklore locale, come coloro che avrebbero «cacciato gli inglesi» e «liberato» il paese. In realtà, c'era una connivenza tra i circoli politici e le teste calde della bomba e del coltello, una connivenza che si è palesata, dopo il '48, nel fatto che gli assassini non sono stati puniti né perseguiti e che alcuni di essi sono diventati, in seguito, primi ministri, capi dell'esercito, ecc. (Begin, Shamir, Sharon e molti altri). È la legge del crimine di fondazione, che dispiega i suoi effetti di generazione in generazione, senza fine. Niente Norimberga.
La situazione nel 1948, dopo la proclamazione dello Stato e la guerra, era la seguente: si erano cacciate molte centinaia di migliaia di palestinesi non oltre i confini (Israele ha sempre rifiutato l'idea di una frontiera accettabile e accettata), ma oltre le linee armistiziali. Le autorità sioniste disponevano dunque di terre, di uno spazio politico che era strategicamente difficile da difendere, ma mancavano di manodopera. Gli ebrei d'Europa, che emergevano dal difficile periodo della guerra, non fornirono molti immigranti. Tra coloro che arrivavano, parecchi ripartivano, disgustati. Gli altri preferivano l'America, il solo paese «ricco» di allora. I sionisti si rivolsero a un serbatoio al quale non avevano pensato fino a quel momento: gli ebrei orientali, quelli dei paesi musulmani. Il servizio d'informazione e i servizi speciali dell'esercito furono dunque incaricati di organizzare l'emigrazione, più o meno clandestina, di questi ebrei che erano, bisogna dirlo, disprezzati dai sionisti dominanti, tutti russi o polacchi, a volte tedeschi o austriaci. Fu un po' la stessa cosa che era successa durante la tratta dei negri. E d'altronde, nel gergo politico israeliano, gli ebrei orientali sono chiamati «neri». Gli sforzi dell'Agenzia ebraica non furono subito coronati da successo. Certo, essa poteva reclutare giovani che scorgevano nella creazione dello Stato d'Israele una sorta di promessa vagamente messianica, che suscitava o confortava un inizio di nazionalismo ebraico. Ma, nell'insieme, queste comunità erano radicate da secoli e vivevano in buona armonia con i loro vicini musulmani o, eventualmente, cristiani. Esse facevano affari, dominavano alcuni settori economici e non erano disposte a rinunciare alla loro agiatezza per emigrare. L'Agenzia ebraica fu costretta a ricorrere ad altri mezzi.
Nello Yemen, un intenso lavoro di propaganda e di menzogna riuscì a persuadere i membri di una delle più antiche comunità ebraiche a credere che i Tempi fossero arrivati, che Dio avesse comandato a grandi uccelli bianchi di venirli a prendere tutti sulle loro ali per condurli verso la Gerusalemme celeste di cui parlavano i Libri... Questa gente lasciò con entusiasmo il suo meraviglioso Medioevo per ritrovarsi in campi miserabili, polverosi, a imparare una lingua ebraica pesantemente germanizzata. I genitori si videro togliere i loro bambini che furono assegnati a ricche mamas nate tedesche. Molti di questi immigrati furono impiegati come manovali... La misura della loro disillusione e del loro malcontento resta da valutare, ma essi furono vittime di un genocidio discreto, che non li uccise, trasformandoli in coolies che presero posto negli strati bassi di quella società neocoloniale chiamata Israele.
In Iraq, andò ben diversamente. Gli ebrei iracheni avevano conosciuto la modernità durante il periodo britannico e non si potevano smerciare tra loro le asinerie pseudo-messianiche che avevano funzionato così bene nello Yemen. Gli ebrei iracheni erano prosperi. A Baghdad formavano un quarto della popolazione. Il sionismo era molto marginale. Il potere era assolutamente devoto all'Occidente. Fu in questo contesto che scoppiarono alcune bombe nei luoghi frequentati dagli ebrei. Vi furono morti e feriti. Servizi speciali organizzati da Tel Aviv soffiarono sulle braci e riuscirono a creare il panico. Erano pronti alcuni aerei. Gli ebrei iracheni e dopo di loro una buona parte di quelli iraniani fuggirono come un gregge di montoni attaccato dai lupi. I lupi, ci se ne rese conto rapidamente, erano i servizi sionisti. Furono arrestate alcune persone, altre fuggirono, furono prodotte prove e si tenne un processo. Il dossier è chiaro: esso è stato riesumato di recente da un testimone dell'epoca, Naeim Giladi, in un libro intitolato Ben Gurion's Scandal. How the Haganah and the Mossad Eliminated Jews. Per poter scrivere e pubblicare questo libro, alcuni estratti del quale si possono leggere più avanti, Giladi ha dovuto rinunciare alla sua cittadinanza israeliana, lasciare il paese e trovare rifugio a New York.
Ci rompono non poco le tasche con un'asineria divenuta classica: che Israele sarebbe l'unica democrazia del Medio Oriente. Il pretesto è che vi si svolgerebbero elezioni. Anche l'Africa del Sud durante l'apartheid era una «democrazia». Per i bianchi. Gli Stati Uniti, nell'epoca ancora recente della «segregazione», erano ¬ più di ogni altro Stato ¬ una democrazia. Per i bianchi. E si potrebbe parlare degli altri regimi che sono, nell'insieme, di fatto, delle oligarchie. In Israele le cose hanno preso un andamento particolare: l'assenza di legittimità, la profonda insicurezza e il crimine originale si sono coniugati dando vita a una società diretta dai militari o da ex militari e da vecchie spie. Le carriere militari sono folgoranti e la pensione viene raggiunta rapidamente.
I generali si riconvertono in politici, legati a cricche militari e gruppi industriali che lavorano per l'esercito. La corruzione marcia a pieno regime. Questi militari hanno in parte fatto carriera nei vari servizi d'informazione, che formano gruppi separati. La democrazia consiste nello scegliere quale gruppo militare avrà una leggera e momentanea preminenza sugli altri. Non si tratta soltanto di una confisca del potere. L'effetto è quello di una militarizzazione degli animi, realizzata a partire dalla scuola primaria. Vi sono pochi paesi nei quali il rimodellamento degli animi in funzione di un'ideologia nazionalista e militarista sia più perfezionato che in Israele.
Trentacinque anni fa, ho trascorso una giornata molto istruttiva sul bordo di una piscina, a Singapore. Vi avevo incontrato, per caso, uno di quei misteriosi personaggi che le voci locali indicavano come «messicani». Di fatto, si trattava di una piccola squadra di «specialisti» israeliani, tutti militari o ex militari, inviati dal loro governo su richiesta di Lee Kwan Yu, capo del governo appena insediato di Singapore. L'isola e la città facevano parte di una federazione malese costituita dagli inglesi in occasione della loro partenza. Le ambizioni, e il successo, di Lee, che guidava un partito cinese populista, avevano inquietato i sultani malesi e costoro avevano espulso Singapore dalla federazione. Lee Kwan Yu, vagamente laburista in origine, ma dittatore nell'animo, si era visto costretto a dar vita a uno Stato su un'isola di 30 chilometri di diametro ' con una popolazione eterogenea e, per tradizione locale, dotata di un acuto senso degli affari. Egli pensò che fosse necessario creare una nazione. A partire dalla mancanza di una precisa identità nazionale. Perciò fece ricorso agli israeliani. A loro chiese gli strumenti per forgiare una nazione a partire da un insieme eterogeneo e disordinato. I militari israeliani, con la loro abituale arroganza, risposero: «Si può fare». E inviarono una squadra, chiamata i «messicani» per non suscitare sospetti.
È molto facile ¬ mi disse il mio interlocutore. Si prendono molti giovani, alla scuola primaria, li si organizza come un movimento scoutistico, li si imbeve di ideologia nazionalista, con una storia di Singapore molto semplice, che rompa con tutte le identità etniche precedenti: si fa come in Israele, con una lingua comune che prima non parlava nessuno: l'ebraico (moderno) da noi, qui l'inglese. Una volta tagliati fuori dal riferimento ai passati familiari, li si rende solidali gli uni con gli altri. L'esercito sa fare bene queste cose. Si organizza una polizia efficiente, che cacci senza pietà i dissidenti o espella gli irriducibili, si crea una mistica della bandiera e si fa dell'egualitarismo sociale, affinché tutti si rendano conto del fatto che qui c'è un avvenire. E il giogo è fatto. In una generazione, si avrà una vera nazione di Singapore. Noi ci sappiamo fare. Nel VietNam gli americani si comportano da stupidi. Siamo andati a vedere sul posto per dar loro qualche consiglio. Smantellare l'apparato comunista non è difficile, bisogna fare come abbiamo fatto noi con i palestinesi: ogni uomo ha un prezzo. Basta mettere sul tavolo una pila di dollari corrispondente al suo prezzo. Poi, occorre reinfiltrarli nell'apparato nemico e lo si fa scoppiare. Il gioco è fatto.
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(continua)
THION : Il terrorismo sionista, nato dal ventre gia fecondo (http://www.vho.org/aaargh/ital/STsulter1.html)
Introduzione
Il terrorismo sionista, nato dal ventre già fecondo...
Serge Thion
Immaginate. Immaginate che verso la fine del XIX secolo una piccola etnia cinese, arricchita attraverso il commercio, abituata alle migrazioni ¬ il caso esiste, penso per esempio agli Hakka, un popolo giunto dalla Cina dei nord e installato da molti secoli nel sud, arricchitosi con il commercio ambulante e l'emigrazione ¬, immaginate, dunque, che un popolo di questo tipo, potremmo chiamarlo degli hokko, con riferimento ai suoi miti di fondazione, che tragga la propria origine da una dea Vacca o da un dio Kabalo, decida di installarsi su una terra promessa dalla dea o dal dio, per esempio in Normandia o in Toscana, intorno alla città di Siena con il suo palio emblematico, celebrazione evidente del dio Kabalo che resta, da millenni, nelle attese dei suoi veri fedeli. Il tempio, il Grande Tempio di Kabalo, è stato distrutto dall'esercito romano duemila anni fa e alcuni sognano di ricostruirlo, per inaugurare una nuova era di prosperità e di successi prodigiosi. Questo sogno, fatto da qualche intellettuale formato a Pechino o a Tokyo, deve molto alle forme del moderno nazionalismo, ma è presentato alle masse lavoratrici come una rivincita storica, come il solo modo per proteggere la piccola comunità, che vive chiusa su se stessa, fatta segno a vari ostracismi e continuamente schernita da parte di gente presso la quale abita, senza veramente coesistere. Essa si è circondata di mura, che ricordano le grandi case collettive, rotonde, degli Hakka. Ma non vorrei mischiare troppo gli ammirevoli Hakka con questa storia, poiché essi si sono accontentati, nei secoli, di lavorare duramente e di preservare le loro tradizioni ancestrali, senza sconfinare nel territorio dei vicini. Veri saggi, induriti dalla fatica e contenti di vivere.
Continuiamo a fantasticare. Approfittando delle circostanze storiche che hanno portato al provvisorio assoggettamento della Francia o dell'Italia, gli inviati dei nostri ipotetici hokko hanno rivendicato la creazione di un «focolare nazionale hokko». Evidentemente, in Normandia o ìn Toscana, queste peripezie lontane sono sconosciute e non si attribuisce loro alcuna importanza. La presenza sul posto di qualche decina di commercianti o artigiani hokko non ha mai turbato nessuno. La questione hokko non si pone, salvo che per certi politici locali che protestano contro l'idea stessa di una sorta di dominazione hokko, che non è veramente all'ordine del giorno. Per motivi di congiuntura internazionale (la desiderabilità di un'alleanza con la Cina), ai quali si aggiunge la propensione di alcuni politicanti locali a intascare bustarelle confortevoli, un ministro qualsiasi ammette la creazione in Normandia o in Toscana di un «focolare nazionale hokko». Nessuno sa bene che cosa vogliano dire queste parole. La loro ambiguità sarà pagata caramente.
Nei decenni successivi, che vedono alcune forti convulsioni dell'ordine internazionale, finanzieri hokko, i quali dispongono di importanti banche nella diaspora hokko, comprano alcune terre in Normandia o in Toscana e come coloni vi collocano disoccupati, giovani senza futuro, soldati smobilitati, in breve tutto il limo di una società che emigra per sfuggire alla miseria. Questi emigranti potrebbero andare in America, verso l'Eldorado, ma scribacchini sempre più impegnati nel nazionalismo hokko li convincono a partire per la Normandia (o per la Toscana), per mischiare l'Eldorado delle terre vergini con il Ritorno alle Origini, pegno di felicità eterna. La dea o il dio Kabalo non sono invocati che come notai divini che avrebbero siglato, trenta secoli prima, una promessa di vendita della Terra Santa agli hokko. Quei giovani credono facilmente di far parte di un popolo senza terra che sta per installarsi in una terra senza popolo. Nessuno prova a disingannarli.
Evidentemente, sul posto, le cose non vanno tanto bene. Gli indigeni normanni vedono di cattivo occhio l'installazione di un numero sempre crescente di stranieri dalla pelle bruna, dagli occhi a mandorla, che parlano una lingua incomprensibile, l'hokkish, e che hanno alimentazione, costumi, copricapo e abitudini bizzarri. Siccome questi stranieri pensano che tutto sia loro permesso, si verificano frizioni e incidenti. In capo a vent'anni, c'è perfino un inizio di insurrezìone degli indigeni, rapidamente represso dalle truppe d'occupazione dei Terzo Impero, che domina in questo momento tutta la regione. Gli hokko cominciano a formare milizie per imporre con la forza ciò che non hanno potuto imporre con il solo peso dell'occupazione straniera. E queste milizie se la prendono ben presto con le forze di occupazione, colpevoli, ai loro occhi, di limitare l'immigrazione hokko.
Quando l'evolversi delle circostanze porta l'Impero a ritirare le sue forze di occupazione, il Concerto delle Nazioni, organismo fantasma sprovvisto di qualsiasi legittimità politica, che non è eletto da nessuno, decreta la spartizione del la Normandia o, sempre nella nostra ipotesi, della Toscana. Grande turbamento in Francia o in Italia. Nessuno riesce a capire e ancor meno ammettere che si tagli con la sega un pezzo di territorio nazionale per darlo a questi originari dell'Asia, con il pretesto che i loro dannati miti originari sarebbero più o meno sovrapponibili alla tale o talaltra regione della vecchia Europa, terra di civiltà millenaria. Che vadano al diavolo!
Ma non si calcola il peso che gli hokko hanno saputo acquistare sulla scena internazionale. Essi hanno appoggi ovunque, si fanno dare armi e al momento giusto danno il via a una guerra di conquista. Cacciano i normanni (o i toscani) dai loro villaggi, che bruciano e radono al suolo, fanno alcuni massacri per costruirsi un'immagine terrificante. La terra è quel che conta innanzitutto. Tutti i crimini sono leciti quando si tratta di prendere e conservare la terra. C'è una curiosa legge in questo paese, che non è simile a nessun'altra: una terra qualsiasi, se è divenuta proprietà di un hokko, non può essere trasmessa o devoluta che a un altro hokko. I nonhokko non potranno mai recuperarla per vie legali.
Con l'artificio di questo breve racconto, vorrei che il lettore si mettesse al posto dei normanni o dei toscani. Che esso comprendesse come un'antica civiltà agraria, come un piccolo cantone, che fa parte di un vasto insieme regionale, possa essere improvvisamente vittima di un uragano di ferro e di fuoco, saccheggiato, bruciato, mutilato, senza che qualcuno abbia provocato la cosa. Che gli invasori e massacratori siano hokko o ebrei, le cose non cambiano. L'epoca in cui le Nazioni Unite decidono di spartire la Palestina è quella in cui il vecchio colonialismo entra in agonia: 1947, l'India e il Pakistan scuotono via la tutela inglese, l'Indocina entra in guerra, il Madagascar si solleva, mentre la «cortina di ferro» cala sull'Europa orientale e, a breve scadenza, sulla Cina.
A Versailles, nel 191820, le grandi potenze si erano giocate alla roulette l'indipendenza o la creazione di Stati. E io ti fabbrico qui una Cecoslovacchia, là una Jugoslavia, faccio a pezzi l'Ungheria, ti assegno un mandato in Africa, tu me ne dai uno nel Pacifico, annullo la Turchia, risputo un emirato qui, una monarchia hascemita là, no, altrove, più lontano, in breve era un casinò e il tappeto verde era il pianeta. I dadi ruzzolavano, le placche passavano di mano, si decideva il destino del mondo. L'americano Wilson conduceva la partita, in tutta fretta, prima di ritirarsi all'improvviso, sconfessato dal suo stesso cortile politico. Versailles è stato un crimine, di ispirazione coloniale, dal quale sono nati, come tutti potevano prevedere, Hitler, la seconda guerra mondiale e molti tra i conflitti successivi.
In Palestina, «concessa» agli avidi inglesi, l'ingiustizia fu palese. Essa è sempre lì, dopo ottant'anni. Le une dopo le altre, le generazioni si sono levate per difendere, come farebbero tutti in qualsiasi parte del mondo, la loro terra e la loro famiglia, la loro casa, i loro campi e la loro patria. Dal punto di vista del diritto più elementare, più universale, la cosa è chiara: i palestinesi hanno il diritto sacrosanto di difendersi, con le armi e con tutti gli altri mezzi, e gli israeliani non hanno alcun diritto su quella terra, come non ce l'avrebbero gli hokko venuti dal loro Oriente lontano se per caso pensassero di rivendicare e occupare la Normandia o la Toscana, o non importa quale luogo del mondo che le loro fantasie mitologiche li porterebbero a designare come una «terra promessa», ma promessa a chi e da chi? Queste elucubrazioni sarebbero ridicole, se non fossero tanto tragiche.
Se si vuole capire qualcosa sull'uso smodato della forza e del terrore da parte dei sionisti, occorre partire di qui: essi sono stati fin dagli inizi e ancora oggi sono stranieri in Palestina. Gli arabi che la popolano da tempi immemorabili applicavano, come tutti i popoli di questa regione, le leggi dell'ospitalità. Uno straniero era ben accolto, perché era uno straniero. In un lontano passato, anche i nostri antenati hanno messo in pratica queste leggi, rileggete l'Odissea. Ma bisogna distinguere: gli stranieri di cui parliamo non erano stranieri come gli altri e non applicavano, di ritorno, le stesse leggi dell'ospitalità: modestia, cortesia, rispetto dell'ospite, ecc. Bisogna metterli piuttosto nella categoria degli invasori. Arrivavano d'altronde contemporaneamente agli inglesi e muovevano le loro pedine con la copertura del regime coloniale. L'episodio sanguinoso delle Crociate non era del tutto dimenticato, viveva sempre nei racconti popolari, come nell'interminabile saga del sultano Baibars, recitata, spesso, nelle lunghe serate invernali. Vi erano sempre stati ebrei in questa regione, sia pure in piccoli gruppi. A leggere il Corano, la loro reputazione non era tra le migliori. Essi avevano cercato di ostacolare la marcia del Profeta ed era stato necessario farli ragionare. In ogni caso, queste società erano mosaici religiosi ed era usuale avere vicini che praticavano riti diversi. I matrimoni intercomunitari erano scarsi, ma si coabitava in modo pacifico.
Gli ebrei che arrivavano erano principalmente russi e polacchi, pieni di ardore per i progetti di una nuova vita, lontano dalle loro steppe ghiacciate. Erano così imbevuti di cultura europea da considerare gli abitanti della Palestina come «indigeni», che erano sottoposti allo statuto di colonizzati e non avevano conseguentemente da dire la loro. Il grande dibattito che animava gli ebrei installati in Palestina in virtù della Dichiarazione Balfour del 1917, che aprì loro il «diritto» alla costituzione di un misterioso «focolare nazionale ebraico», era di sapere se le imprese agricole acquistate con il danaro dei grandi banchieri ebrei dell'Occidente avessero il diritto di impiegare lavoratori arabi o dovessero riservare i posti a lavoratori ebrei. A imporsi fu evidentemente questo secondo punto di vista. E, siccome l'acquisizione o l'appropriazione delle terre procedeva rapidamente, tra i palestinesi cominciò a manifestarsi il malcontento. I coloni ebrei si diedero a formare milizie e gli incidenti si moltiplicarono fino alla grande insurrezione del 1936. Gli inglesi cominciarono allora a rendersi conto di aver compiuto una gigantesca bestialità e, per evitare che i loro affari ne risentissero, decretarono la fine dell'immigrazione ebraica.
Contemporaneamente era arrivato al potere Hitler, che cercava di costringere gli ebrei a emigrare, moltiplicando misure vessatorie e atti di terrore. Il dramma avrebbe potuto essere evitato se gli altri paesi avessero accettato una grande ondata di immigrazione ebraica proveniente dalla Germania e dall'Austria. Ma alla Conferenza di Evian, nel 1938, si realizzò l'unanimità: nessuno voleva questa massa di ebrei. Senza dubbio non erano considerati tanto amabili e desiderabili. Nessuno si aspettava il seguito degli avvenimenti, ma è necessario ammettere l'esistenza di una buona dose di diffidenza, dovuta all'uso della violenza che già si diffondeva in Palestina e anche al fatto che nelle democrazie non erano visti di buon occhio i numerosissimi militanti ebrei presenti nel movimento internazionale legato alla Russia staliniana.
L'uso del terrore, battezzato «autodifesa», era cominciato molto presto, con l'arrivo dei primi coloni sionisti all'alba del ventesimo secolo. La frazione di destra del sionismo, diretta da Vladimir Jabotinsky, ha riservato un posto notevole nel proprio pantheon a un vecchio soldato dell'esercito russo, Yosef Trumpeldor, che organizzava militarmente i coloni e si era fatto uccidere, nel 1920, dai contadini palestinesi stufi delle estorsioni di questi nuovi venuti. Trumpeldor era un esaltato che voleva imporre la presenza dei coloni ebrei con la forza. Era molto popolare nel movimento sionista perché metteva il dito sul problema centrale: per sviluppare la presenza straniera ebraica in Palestina, anche con la complicità delle autorità coloniali britanniche, bisognava ricorrere alla violenza. Comprare terre, trattare con i proprietari fondiari locali, spesso latifondisti assenteisti, era possibile, ma non avrebbe portato alla creazione dello Stato ebraico. Si potevano impiantare fattorie, più o meno collettive, nelle quali convogliare gli sradicati delle classi proletarie ebraiche dell'Europa centrale e orientale, sì potevano sviluppare quartieri urbani per accogliere la piccola borghesia della stessa provenienza, non si poteva controllare lo spazio, lo spazio politico in cui sarebbe stato necessario che si dispiegassero le istituzioni annunciatrici dello Stato che i sionisti avevano in mente.
I sionisti si divisero in due tendenze: gli ipocriti, di sinistra, i quali affermavano che era necessario intendersi con gli arabi, che bastava metterci un po' di buona volontà e che si sarebbe riusciti a ingannare tutti acquistando abbastanza terra per costruire le istituzioni dello Stato ebraico. Era il discorso pubblico, che non è cambiato, dei socialisti, laburisti, sulla linea di Ben Gurion, di Shimon Peres, di Yitzhak Rabin e degli altri: discutere con gli arabi per ingannarli, per condurli, con un sapiente dosaggio di massacri e omicidi, a scegliere di diventare ausiliari dei sionisti, senza terra, senza diritti, ma con qualche onorificenza politica. Un Ben Gurion, che amava coltivare la propria immagine di uomo «di sinistra», sognava, di fatto, di espellere tutti gli arabi, ma non poteva dirlo pubblicamente senza mettere in crisi le proprie alleanze. Durante la guerra del 1948, egli forni copertura ai massacri, senza rivendicarli. Questa linea, a lungo prevalsa nella politica israeliana, ha sempre fatto mostra della più ripugnante ipocrisia. L'uso del terrore è stato alternativamente negato e trasceso attraverso il ricorso a una giuridicità puramente formale.
L'altra tendenza fu inizialmente incarnata da Jabotinsky e dal suo gruppo «revisionista». Bisognava prendere atto, secondo Jabotinsky, del fatto che gli arabi non avrebbero mai accettato l'installazione degli ebrei sulle loro terre. Vi si sarebbero opposti con tutti i mezzi e questo era un punto di vista comprensibile. Di conseguenza, bisognava mettere tra loro e gli ebrei un «muro di ferro», costituito dalle baionette dei fucili che gli ebrei avrebbero impugnato saldamente. Questa tendenza, diretta da Menachem Begin dopo la morte di Jabotinsky nel 1940, non giunse al potere che nel 1977. Essa era favorevole a un terrore aperto, visibile a tutti, che si imponesse agli arabi rendendoli incapaci di resistere. Negli anni Trenta Jabotinsky aveva costituito una milizia (Betar) e alcune filiere di formazione militare. Si era inteso a meraviglia con il regime mussoliniano, che ammirava, e aveva ottenuto da esso di far formare a Civitavecchia i primi marinai di un'eventuale flotta militare. Ovunque, e perfino nella Germama nazista, «campi della gioventù» sul tipo di quelli degli scout avevano prefigurato la militarizzazione del sionismo.
Durante la seconda guerra mondiale, ed è un capitolo che meriterebbe ampi sviluppi, i sionisti, senza distinzione di tendenze, cercarono un'intesa con i nazisti, per parte loro disponibili a trattare, allo scopo di recuperare gli elementi giovani e dinamici delle popolazioni ebraiche incluse nel Terzo Reich, per farli partire per la Palestina, ancora britannica, e disporre della fanteria indispensabile per un futuro esercito ebraico. Contemporaneamente, questi stessi sionisti si davano da fare per creare, tra le truppe inglesi, unità militari e servizi d'informazione, sempre nell'idea della prefigurazione di un esercito ebraico di conquista. Questi elementi sono presenti in tutta la mitologia che circonda la creazione dello Stato ebraico, basta riferirsi alla sua propaganda e alle biografie dei suoi dirigenti. I sionisti non contavano certo di rafforzare l'impero britannico, che volevano allontanare dalla Palestina, ma volevano sfruttare un'occasione per creare il nucleo di un esercito che sarebbe effettivamente servito nel 1948 a prendere infine il controllo dello spazio di cui essi non disponevano dal 1920.
Tutto mostra che i sionisti praticarono, nell'Europa sotto la ferula nazista, una politica di selezione. In cambio della loro buona volontà a lasciare sparire nella gola del Moloch i vecchi, le donne e i deboli, essi chiedevano di salvare e far partire per la Palestina i maschi giovani e forti, nell'intento di un confronto militare con gli occupanti legittimi e allo scopo di costruire uno Stato moderno, all'americana, ideale degli ebrei dell'Europa orientale. Queste considerazioni spiegano certi tratti curiosi della storia degli Judenrat, i gruppi dirigenti delle comunità che dialogavano e servivano da cinghia di trasmissione con le autorità tedesche, in particolare alcuni tentativi di negoziato, a vari livelli, con il regime nazista, pronto a scendere su questo terreno.
Certo, questa politica sionista di selezione non piacque a tutti. Polemiche sorde nate tra le macerie delle comunità ebraiche hanno a volte portato, in seguito, a contrasti violenti. t ancora troppo presto per scrivere la storia del movimento sionista dato che è impossibile che i sionisti riconoscano di aver cercato di trarre vantaggio dalla politica antiebraica, ma sionistizzante, delle autorità naziste. La questione ha avvelenato i primi tempi dello Stato d'Israele, con l'interminabile affare Kastner, principale dirigente dello Judenrat d'Ungheria. Costui si ritrovò in Israele nel 1948 e fu subito accusato da pubblicisti non ben identificati di aver collaborato con i nazisti. Ne seguì un grande processo, i cui atti furono più tardi pubblicati, ma solo in ebraico. L'aspetto interessante è che lo Stato di Israele, rappresentante del sionismo, si fece garante per Kastner. Le cose divennero così imbarazzanti che un provvidenziale assassino procedette all'eliminazione di Kastner. Questa vicenda è come una finestrella che consente di gettare un raggio di luce sulle oscure trattative dei dirigenti sionisti, i quali allora, senza praticare essi stessi il terrore, dimostrarono una notevole capacità di utilizzare a loro vantaggio quello che i nazisti facevano regnare sugli ebrei sottoposti alla loro influenza. Quando alcuni scrittori, in America e in Inghilterra, hanno voluto affrontare l'affare Kastner per chiarire il lato oscuro del sionismo, sono stati vittime di violentissime campagne di stampa e le loro opere sono state messe nel dimenticatoio (si vedano Perfidy di Ben Hecht e Perdition di Jim Allen).
Le Nazioni Unite, creatura degli americani, decisero nel 1947 di spartire la Palestina. Decisione inaudita, di un cinismo senza paragoni. La popolazione non fu evidentemente consultata. Gli inglesi si liberavano di un problema che non erano in grado di risolvere: essi avevano creato il mostro della presenza ebraica organizzata, militarizzata, e non riuscivano più a controllarla. Non esisteva alcuna base giuridica per la spartizione. Se le Nazioni Unite decidessero domani di dividere la Normandia o la Toscana per soddisfare qualche orda asiatica che pretendesse di imporsi con la forza si capirebbe meglio la profonda illegalità di una decisione di questo tipo.
Al momento della proclamazione dello Stato ebraico, che non bisognerebbe chiamare Stato israeliano, poiché ritiene di essere lo Stato di tutti gli ebrei del pianeta, l'esercito ebraico, organizzato con il tacito consenso degli inglesi ed equipaggiato con armi inviate dall'Unione Sovietica, poté iniziare una guerra di conquiste. Lo strumento principale di queste conquiste è stato il terrore impiegato per svuotare i villaggi dai contadini palestinesi. I dettagli sono noti o facili da reperire e verificare. Che pretesi «nuovi storici» israeliani scoprano questi orrori quarant'anni dopo non deve suscitare illusioni; le cose si sapevano fin dagli inizi: la guerra del 1948 è nota dal 1948! È stata soltanto la propaganda sionista che ha cercato, in seguito, di trasformare in eroi i ruffiani che l'hanno fatta e di nascondere o negare i massacri maggiori. L'opinione pubblica israeliana, accuratamente abbrutita da programmi scolastici adeguati e da una stampa pesantemente censurata, ha potuto dimenticare tutto. Non è meno vero che Israele è stato fondato con la forza, a dispetto del diritto, e che sì è conservato successivamente intraprendendo guerre e repressioni di tipo genocida.
Non rifarò la storia dettagliata dei massacri deliberati che hanno accompagnato lo svolgimento della guerra dei 1948. Il ricordo di Deir Yassin ¬ già denunciato all'epoca da alcuni osservatori, come Arnold Toynbee, il grande storico, messo alla gogna per antisionismo («Arnold Toynbee sostiene che l'espulsione degli arabi è un'atrocità più grande di quelle commesse dai nazisti», deplorò un foglio sionista) ¬ è stato conservato dai palestinesi. Altri massacri, come quello di Tantura sono esumati, un po' a caso, da ricercatori meravigliati essi stessi da ciò che scoprono negli archivi. Altri restano celati. Si hanno liste di villaggi rasi al suolo dalle soldatesche sioniste, ma non si sa sempre in dettaglio come siano avvenute le evacuazioni. Oggi i palestinesi hanno forgiato la parola nakba per evocare l'insieme di queste atrocità.
Si potrebbe pensare che questi orrori, generati da una guerra finita più di mezzo secolo fa, abbiano perso importanza, che sarebbe meglio gettarli in quell'abisso senza fondo che gli anglosassoni chiamano memory hole, il buco, senza fondo, della memoria. Non è così facile. I coreani tremano ancora al ricordo dei maltrattamenti inflitti dal Giappone ai loro ascendenti nel 1905 e nel 1945. I cinesi soffrono ancora per lo «stupro di Nanchino» perpetrato negli anni Trenta. Ma in Palestina non si tratta di ricordi, di «costruzione della memoria» come tante ideologie disoneste ci vogliono far credere. Si tratta di un crimine di fondazione, che si perpetua e si ripete tutti i giorni. Che si moltiplica. Che si estende e si ramifica. Ogni giorno gli israeliani inventano nuove forme di umiliazione, per esempio alle centinaia di posti di controllo sulle strade (checkpoint), di tortura nelle prigioni, più o meno segrete. Quella gente è tanto raffinata nell'arte difficile dell'oppressione da permettersi di tenere corsi di formazione per i poveri americani. I babbei della polizia americana credono che per perquisire una casa sia necessario frugare stanza dopo stanza. Errore, dicono i raffinati israeliani: per passare da una stanza all'altra bisogna evitare la porta, che potrebbe nascondere una trappola. Per passare tranquillamente da una stanza all'altra è perciò necessario far saltare i muri con cariche esplosive. Si ammiri la sottigliezza del procedimento. Per la campagna nell'Iraq gli israeliani hanno anche fornito agli americani, che non avevano pensato a procurarseli, gli enormi bulldozer blindati che hanno fatto meraviglie a Jenin, Gaza e altrove. Si tratta solo di uno strumento di «pressione» che può in vari modi tornare utile.
La violenza, il disprezzo assoluto dei diritti dell'uomo palestinese, e, bisogna ben dirlo, dei diritti dell'uomo non-ebreo, il ricorso all'«omicidio mirato», in un paese che si vanta di aver abolito la pena di morte, l'esproprio sistematico delle terre agricole e non agricole, la confisca dell'acqua ¬ con la copertura di una legalità, alle volte derivata dagli ottomani, che ci sapevano fare, altre dagli inglesi che avevano fatto leggi per lo stato d'eccezione e che sono sempre stati usi a girare risolutamente le spalle a tutti quegli arsenali giuridici quando era il caso ¬, tutto ciò appartiene senza ombra di dubbio all'ordine del terrore. Bisogna riconoscere che i nazisti, nella loro zona, o i commissari politici dell'epoca staliniana non arrivavano a tanto. Consideriamoli come fanciulli imberbi che avevano ancora molto da imparare.
La lotta contro gli inglesi fu condotta da piccoli gruppi che si convertirono al terrorismo durante la guerra. Mentre le istituzioni dell'Yshuv (l'insieme degli ebrei residenti in Palestina) collaboravano allo sforzo bellico degli inglesi, e degli Alleati, creando una «Brigata ebraica», che fu portata a combattere in Italia e nell'Europa centrale, gli ebrei oltranzisti si lanciarono in campagne di attentati, che avevano innanzi tutto lo scopo di impedire o aggirare la politica inglese di limitazione del numero degli immigranti ebrei, il cui aumento, Londra ne era consapevole, avrebbe finito per far esplodere la pazienza dei palestinesi. All'epoca i dirigenti politici ebraici mostravano di non saper nulla di questa tendenza clandestina e anche di disapprovarla. Oggi, i più ignobili omicidi di diplomatici e di inviati stranieri sono rivendicati come azioni elevate e gli esecutori sono spesso presentati, nel folklore locale, come coloro che avrebbero «cacciato gli inglesi» e «liberato» il paese. In realtà, c'era una connivenza tra i circoli politici e le teste calde della bomba e del coltello, una connivenza che si è palesata, dopo il '48, nel fatto che gli assassini non sono stati puniti né perseguiti e che alcuni di essi sono diventati, in seguito, primi ministri, capi dell'esercito, ecc. (Begin, Shamir, Sharon e molti altri). È la legge del crimine di fondazione, che dispiega i suoi effetti di generazione in generazione, senza fine. Niente Norimberga.
La situazione nel 1948, dopo la proclamazione dello Stato e la guerra, era la seguente: si erano cacciate molte centinaia di migliaia di palestinesi non oltre i confini (Israele ha sempre rifiutato l'idea di una frontiera accettabile e accettata), ma oltre le linee armistiziali. Le autorità sioniste disponevano dunque di terre, di uno spazio politico che era strategicamente difficile da difendere, ma mancavano di manodopera. Gli ebrei d'Europa, che emergevano dal difficile periodo della guerra, non fornirono molti immigranti. Tra coloro che arrivavano, parecchi ripartivano, disgustati. Gli altri preferivano l'America, il solo paese «ricco» di allora. I sionisti si rivolsero a un serbatoio al quale non avevano pensato fino a quel momento: gli ebrei orientali, quelli dei paesi musulmani. Il servizio d'informazione e i servizi speciali dell'esercito furono dunque incaricati di organizzare l'emigrazione, più o meno clandestina, di questi ebrei che erano, bisogna dirlo, disprezzati dai sionisti dominanti, tutti russi o polacchi, a volte tedeschi o austriaci. Fu un po' la stessa cosa che era successa durante la tratta dei negri. E d'altronde, nel gergo politico israeliano, gli ebrei orientali sono chiamati «neri». Gli sforzi dell'Agenzia ebraica non furono subito coronati da successo. Certo, essa poteva reclutare giovani che scorgevano nella creazione dello Stato d'Israele una sorta di promessa vagamente messianica, che suscitava o confortava un inizio di nazionalismo ebraico. Ma, nell'insieme, queste comunità erano radicate da secoli e vivevano in buona armonia con i loro vicini musulmani o, eventualmente, cristiani. Esse facevano affari, dominavano alcuni settori economici e non erano disposte a rinunciare alla loro agiatezza per emigrare. L'Agenzia ebraica fu costretta a ricorrere ad altri mezzi.
Nello Yemen, un intenso lavoro di propaganda e di menzogna riuscì a persuadere i membri di una delle più antiche comunità ebraiche a credere che i Tempi fossero arrivati, che Dio avesse comandato a grandi uccelli bianchi di venirli a prendere tutti sulle loro ali per condurli verso la Gerusalemme celeste di cui parlavano i Libri... Questa gente lasciò con entusiasmo il suo meraviglioso Medioevo per ritrovarsi in campi miserabili, polverosi, a imparare una lingua ebraica pesantemente germanizzata. I genitori si videro togliere i loro bambini che furono assegnati a ricche mamas nate tedesche. Molti di questi immigrati furono impiegati come manovali... La misura della loro disillusione e del loro malcontento resta da valutare, ma essi furono vittime di un genocidio discreto, che non li uccise, trasformandoli in coolies che presero posto negli strati bassi di quella società neocoloniale chiamata Israele.
In Iraq, andò ben diversamente. Gli ebrei iracheni avevano conosciuto la modernità durante il periodo britannico e non si potevano smerciare tra loro le asinerie pseudo-messianiche che avevano funzionato così bene nello Yemen. Gli ebrei iracheni erano prosperi. A Baghdad formavano un quarto della popolazione. Il sionismo era molto marginale. Il potere era assolutamente devoto all'Occidente. Fu in questo contesto che scoppiarono alcune bombe nei luoghi frequentati dagli ebrei. Vi furono morti e feriti. Servizi speciali organizzati da Tel Aviv soffiarono sulle braci e riuscirono a creare il panico. Erano pronti alcuni aerei. Gli ebrei iracheni e dopo di loro una buona parte di quelli iraniani fuggirono come un gregge di montoni attaccato dai lupi. I lupi, ci se ne rese conto rapidamente, erano i servizi sionisti. Furono arrestate alcune persone, altre fuggirono, furono prodotte prove e si tenne un processo. Il dossier è chiaro: esso è stato riesumato di recente da un testimone dell'epoca, Naeim Giladi, in un libro intitolato Ben Gurion's Scandal. How the Haganah and the Mossad Eliminated Jews. Per poter scrivere e pubblicare questo libro, alcuni estratti del quale si possono leggere più avanti, Giladi ha dovuto rinunciare alla sua cittadinanza israeliana, lasciare il paese e trovare rifugio a New York.
Ci rompono non poco le tasche con un'asineria divenuta classica: che Israele sarebbe l'unica democrazia del Medio Oriente. Il pretesto è che vi si svolgerebbero elezioni. Anche l'Africa del Sud durante l'apartheid era una «democrazia». Per i bianchi. Gli Stati Uniti, nell'epoca ancora recente della «segregazione», erano ¬ più di ogni altro Stato ¬ una democrazia. Per i bianchi. E si potrebbe parlare degli altri regimi che sono, nell'insieme, di fatto, delle oligarchie. In Israele le cose hanno preso un andamento particolare: l'assenza di legittimità, la profonda insicurezza e il crimine originale si sono coniugati dando vita a una società diretta dai militari o da ex militari e da vecchie spie. Le carriere militari sono folgoranti e la pensione viene raggiunta rapidamente.
I generali si riconvertono in politici, legati a cricche militari e gruppi industriali che lavorano per l'esercito. La corruzione marcia a pieno regime. Questi militari hanno in parte fatto carriera nei vari servizi d'informazione, che formano gruppi separati. La democrazia consiste nello scegliere quale gruppo militare avrà una leggera e momentanea preminenza sugli altri. Non si tratta soltanto di una confisca del potere. L'effetto è quello di una militarizzazione degli animi, realizzata a partire dalla scuola primaria. Vi sono pochi paesi nei quali il rimodellamento degli animi in funzione di un'ideologia nazionalista e militarista sia più perfezionato che in Israele.
Trentacinque anni fa, ho trascorso una giornata molto istruttiva sul bordo di una piscina, a Singapore. Vi avevo incontrato, per caso, uno di quei misteriosi personaggi che le voci locali indicavano come «messicani». Di fatto, si trattava di una piccola squadra di «specialisti» israeliani, tutti militari o ex militari, inviati dal loro governo su richiesta di Lee Kwan Yu, capo del governo appena insediato di Singapore. L'isola e la città facevano parte di una federazione malese costituita dagli inglesi in occasione della loro partenza. Le ambizioni, e il successo, di Lee, che guidava un partito cinese populista, avevano inquietato i sultani malesi e costoro avevano espulso Singapore dalla federazione. Lee Kwan Yu, vagamente laburista in origine, ma dittatore nell'animo, si era visto costretto a dar vita a uno Stato su un'isola di 30 chilometri di diametro ' con una popolazione eterogenea e, per tradizione locale, dotata di un acuto senso degli affari. Egli pensò che fosse necessario creare una nazione. A partire dalla mancanza di una precisa identità nazionale. Perciò fece ricorso agli israeliani. A loro chiese gli strumenti per forgiare una nazione a partire da un insieme eterogeneo e disordinato. I militari israeliani, con la loro abituale arroganza, risposero: «Si può fare». E inviarono una squadra, chiamata i «messicani» per non suscitare sospetti.
È molto facile ¬ mi disse il mio interlocutore. Si prendono molti giovani, alla scuola primaria, li si organizza come un movimento scoutistico, li si imbeve di ideologia nazionalista, con una storia di Singapore molto semplice, che rompa con tutte le identità etniche precedenti: si fa come in Israele, con una lingua comune che prima non parlava nessuno: l'ebraico (moderno) da noi, qui l'inglese. Una volta tagliati fuori dal riferimento ai passati familiari, li si rende solidali gli uni con gli altri. L'esercito sa fare bene queste cose. Si organizza una polizia efficiente, che cacci senza pietà i dissidenti o espella gli irriducibili, si crea una mistica della bandiera e si fa dell'egualitarismo sociale, affinché tutti si rendano conto del fatto che qui c'è un avvenire. E il giogo è fatto. In una generazione, si avrà una vera nazione di Singapore. Noi ci sappiamo fare. Nel VietNam gli americani si comportano da stupidi. Siamo andati a vedere sul posto per dar loro qualche consiglio. Smantellare l'apparato comunista non è difficile, bisogna fare come abbiamo fatto noi con i palestinesi: ogni uomo ha un prezzo. Basta mettere sul tavolo una pila di dollari corrispondente al suo prezzo. Poi, occorre reinfiltrarli nell'apparato nemico e lo si fa scoppiare. Il gioco è fatto.
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(continua)
THION : Il terrorismo sionista, nato dal ventre gia fecondo (http://www.vho.org/aaargh/ital/STsulter1.html)