PDA

Visualizza Versione Completa : Marcello Gallian - Scrittore, fascista, libero e libertario



Avamposto
03-08-10, 17:45
MARCELLO GALLIAN, SCRITTORE, FASCISTA, LIBERO E LIBERTARIO

Per Marcello Gallian, (Roma 1902 – 1968) è stato amore a prima vista.
Me ne parlò per primo, facendomi leggere alcune sue pagine, Angiolo Bandinelli, poeta e saggista, oltre che appassionato militante radicale.
Infiammato da quelle prime letture, decisi nel 1989 di iniziare la serie, ormai divenuta mitica, dei Millelire, proprio con un racconto di Marcello Gallian: America, tratto dalla rivista Quadrivio, illustrandolo con alcuni disegni a china del padre di Angiolo, pittore della scuola romana.
Non fu possibile proseguire il percorso di riscoperta di Gallian con Bandinelli, pur rimanendo amici sinceri; ma non abbandonai il proposito di rompere la cortina di silenzio che ha avvolto vigliaccamente Marcello Gallian nel dopoguerra, per riconsegnarlo alla fruizione e al giudizio popolare, unico metro per valutare la grandezza di uno scrittore.
Poi, recentemente, lo stesso colpo di fulmine che colpì Bandinelli ha colpito Ettore Bianciardi, il quale, molto più efficacemente di quello che ero riuscito a fare io, s’è messo sulle piste di Marcello Gallian, frugando assiduamente le biblioteche d’Italia, leggendo, fotografando, scannerizzando quasi tutte le riviste letterarie dell’Italia fascista, fino a mettere in salvo un tesoro di centinaia di racconti, romanzi a puntate inediti, opere teatrali, saggi e altri scritti di Marcello Gallian, ma anche di altri scrittori dell’epoca, anche loro seppelliti sotto una colpevole coltre di silenzio e di omertà.
Ci è apparsa allora, in tutta evidenza, la straordinarietà dell’opera di Gallian, di quello che riteniamo uno dei più grandi (forse il più grande) scrittori italiano del '900.
Forse proprio per la sua grandezza, unitamente al fatto di non aver egli mai abiurato la sua fede per la rivoluzione fascista (non per il regime fascista, si badi bene), Gallian è stato sistematicamente espulso da tutti i repertori di critica letteraria, dalla Liberazione fino ai giorni nostri, per esempio dalla “bibbia” di Asor Rosa.
Questo tesoro di letteratura italiana, per quantità e qualità, ci ha convinto che fosse giunta l’ora di far conoscere ad un pubblico il più vasto possibile Marcello Gallian, con lo strumento a noi più caro: i bianciardini, libri ispirati a Luciano Bianciardi, ognuno di 16, 32 o 64 pagine, dal prezzo di copertina di un centesimo di euro, un centesimo almeno. Libri che, per il prezzo e per il fatto di non avere codice a barre, non si trovano e non si troveranno mai nel circuito delle librerie, ma si trovano nel circuito di distribuzione che io e Ettore chiamiamo della passione e della solidarietà culturale.
I primi quattro bianciardini, ognuno con un racconto di Gallian, sono in stampa e potranno tra qualche giorno essere letti e scaricati dal nostro sito www.riaprireilfuoco.org; sullo stesso sito potranno essere ordinati i bianciardini di carta, per poi poi riceverli per posta, in copie singole, o magari in quantità per essere distribuiti tra amici e conoscenti.
Questi “magnifici quattro” di Marcello Gallian saranno presentati da me e da Ettore, insieme all’Assessore alla Cultura del Comune di Roma Luigi Croppi, la persona che per il momento ci ha dato la maggiore disponibilità, martedì 30 Giugno alle ore 12 alla Stazione Termini di Roma, proprio nel luogo dove Gallian, ridotto alla miseria dal regime culturale cattocomunista, fu costretto a passare gli ultimi anni della sua vita, vendendo sigarette di contrabbando.

Marcello Baraghini






MARCELLO GALLIAN, SCRITTORE, FASCISTA, LIBERO E LIBERTARIO (http://www.stampalternativa.it/lettera22.php?categoria=13&id=1307)

Avamposto
03-08-10, 17:50
La furibonda anarchia di Marcello Gallian

«Non sono adatto a conversioni io, ho creato un Cristo per me, ho creato un Mussolini per me, ho creato un mondo rivoluzionario tutto per me, secondo i miei punti di vista necessari e sinistri».

Con quest’affermazione dello scrittore Marcello Gallian [nel ritratto sotto a destra] otteniamo la chiave interpretativa per comprendere come, appartenenti a schieramenti opposti al fascismo, avessero aderito al movimento di Mussolini. Partendo dall’anarchismo individualista, Gallian approda al fascismo secondo la parabola tipica del ribellismo italiano primo novecentesco. A 17 anni si aggrega ai rivoltosi di Fiume. Il 23 marzo del 19 insieme ad altri anarchici del calibro di Libero Tancredi, partecipa all’adunata dei Fasci di Combattimento, per far “fronte contro due pericoli: quello misoneista di destra e quello distruttivo di sinistra“. Sarà squadrista e parteciperà alla marcia su Roma.

Marcello Gallian vede nella Rivoluzione fascista, l’assalto antiborghese portato alle sue ultime conseguenze. Se dalle sponde marxiste, la critica antiborghese si esaurisce in un concetto puramente classista, l’azione di Gallian va oltre, soffermandosi sull’aspetto “spirituale” e “stilistico” della conduzione esistenziale. Nel romanzo Colpo alla borghesia, scrive: «i più, ad orecchio, intendono per borghese l’impiegato con i gomiti sdruciti e la papa*lina, l’orologio pronto a mezzogiorno e la camomilla la sera. Sono pochi quelli che sanno l’impiegato essere il primo gradino d’una lunga scala, non importa sé pulita o imbrattata, che ha sulla cima un Rochfeller o un Gillette. Rari, alla fine, sono coloro che credo*no “borghesia” essere uno stato d’animo, nel quale gli uomini, tutti, sogliono cadere: si può essere leoni durante cent’anni e bor*ghesi durante un’ora sola, ma terribile ora, catastrofica, letale. La borghesia è anche il popolo, il popolo tutto [...]». Per Gallian non ci sono distinzioni, tutti possono essere colpiti dal germe borghese, dall’industriale al proletario. Ma è proprio quest’ultimo a dimostrarsi più incline all’infezione. Non può essere altrimenti, il proletario cerca sempre d’imitare in modi e costumi il benestante, il borghese, simbolo e incarnazione suprema dello spirito a cui la penna dissacrante di Gallian non da tregua. La borghesia, questa parvenue che a sua volta fa il verso alle ridicole quanto insensate convenzioni nobiliari. Tomasi di Lampedusa con il suo Gattopardo, delineerà perfettamente questi pruriti sociali. Il borghese si è arricchito alle spalle di un’aristocrazia che non ha saputo evolversi adagiandosi su allori che non erano meno borghesi degli altri. E anche loro, gli aristocratici, cosa erano, se non i discendenti di uno, che all’inizio, aveva le pezze al sedere come gli altri! Almeno, questo diceva Totò, uno che alle suggestioni araldiche non era immune.

Marcello Gallian sempre in Colpo alla borghesia scrive: «grattali un poco questi borghesi, e ti riappaiono quel che sono: con una fede di tipo corrente, ottimisti, di facile conten*tatura, miopi quello che basta, transigenti con la comodità la con*venzione la mediocrità, insomma amanti di un quieto vivere di va*ga ispirazione filosofica ma confinante con la più caratteristica ed autentica vigliaccheria [...]. La borghesia più che una classe era, è un clima, è il colossale chilo delle conquiste del terzo stato tran*quillamente ruminate e digerite da alcune generazioni». Vigliaccheria appunto, pietismo, servilismo piagnone, erano le stesse scorie a cui Mussolini aveva mosso guerra in tempi non sospetti. Lo storico Renzo De Felice dirà che, secondo Mussolini, ciò che andava combattuto e trasformato nella borghesia non era il suo peso sociale, era il suo temperamento, la sua morale e cioè la sua grettezza, il suo pessimismo, la sua visione meschina e limitata, il suo pacifismo, il suo pietismo, il suo com*plesso d’inferiorità rispetto agli altri popoli, la sua mancanza di passione per le grandi mete. La rivoluzione delle camicie nere, per Gallian, avrebbe dovuto fare piazza pulita delle monde coscienze borghesi attraverso l’eliminazione fisica dei suoi esponenti.

Nel romanzo Combatteva un uomo scrive: «Si trattava di fare una carneficina enorme e aberrata davvero, tutti i signori scannati per le strade o nelle alcove assieme alle mo*gli loro e alle loro concubine. La ricchezza suddivisa e eguagliata. Gli sperperi finiti. La borghesia distrutta per sempre. L’operaio e il contadino regnerebbero su tutto l’orbe delle terre espropriate ai padroni aguzzini e vanesi di diritti lasciati per eredità».

Nell’opera Rivoluzione (inizialmente intitolata “I tre atti” ) , pubblicata su «Quadrivio» nell’aprile del 1935, Gallian descrive il suo sconforto per l’esito della rivoluzione fascista.

Mario, il protagonista è un rampollo della borghesia bene nella Roma dei primi anni venti. Il ragazzo prende presto coscienza della condizione di miseria e di fame nella quale Antioco, grosso proprietario terriero, costringe i contadini alle sue dipendenze. Comprende così che il suo compito di rivoluzionario e di fascista è quello di porre fine ai soprusi e alle vessazioni. A conclusione di uno scontro verbale con Antioco in un gesto istintivo dettato da autentica rabbia, spara un colpo di pistola contro l’affamatore del popolo. Datosi alla macchia, per lungo tempo vivrà come un vagabondo, poi decisosi a rientrare a casa, scoprirà che non solo la rivoluzione era stata tradita ma anche istituzionalizzata a sue spese.

Mario è accolto dalla madre e dal borghesume rionale,come un eroe in quanto il suo antico gesto (la revolverata contro il signorotto) aveva dato il via alla «rivoluzione fa*scista» nella borgata. La madre ha adibito a museo la vecchia stanza del figlio, quella in cui avvenne lo scontro. Come se non bastasse il suo nemico, Antioco, era vivo e probabilmente aveva fatto pure carriera tra le fila del partito. Ecco come gli si rivolge Mario: “Che vivo a fare io se voi vive*te, voi? Se voi respirate ancora quest’aria, se la gola ancora vi bat*te? Perché c’è l’aria ancora per me e perché il mio cuore batte co*me il vostro? Antioco: «Dovevate immaginarlo, non è sempre rivoluzione, non è possibile sem*pre la guerra: voi eravate un’eccezione, un anormale, io sono la regola, la normalità, l’orologio che segna le ore … ma perché vo*lete che io sia un eroe, Mario, quando non lo sono, quando non ci tengo?» Mario: «Io non sono un eroe, voi sì, eroe qualunque cosa facciate. Voi risparmiate, tirchio e vi si dice eroe della vita piccola di ogni gior*no: io sono un vorace, un avido maledetto; voi prendete moglie e ve la spassate, perché è umano, di sotterfugio con le donnette co*me prima e siete onesto, io prendo una donna libera e sono diso*nesto, voi bello e io brutto, voi vestito con decoro ed io sembro un poveraccio, voi siete felice e io infelice, io puzzo voi savio; è l’eter*na lotta e vincete sempre voi, non esistono cento razze cento popo*li, no; esistono due razze sole, due popoli, voi borghese e io anti*borghese: noi duemila e voi miliardi, sempre; noi facciamo l’inondazione voi ci andate in barchetta, noi buttiamo le città in aria e voi le ricostruite guadagnandoci l’affitto, noi rinunciamo al padre e alla madre, voi li truffate e siete figli esemplari, noi esuli e voi nell’orto”. Antioco, l’archetipo del borghese divenuto fascista soltanto per ragioni di comodo per vantaggi personali, aveva preso il sopravvento.

Qualche barlume di speranza per il futuro, Mario, la trova in un balilla che vedendolo gli si avvicina e timidamente gli chiede delle sue gesta da squadrista, da rivoluzionario.

Purtroppo la Storia ci insegna che come sempre, le colpe dei padri saranno espiate dai figli, quei balilla che decideranno di andare a combattere a Salò, divenendo carne da macello per i vari “ex Antioco”.

Il suo ostinato rifiuto della realtà borghese avrà ragione di lui e della sua furibonda anarchia. Emarginato dalla critica, censurato dalle guardie bianche del capitale, Gallian si troverà ben presto isolato. Ridotto sul lastrico, nel dopo guerra verrà tacciato di connivenze con il fascismo dai puristi resistenziali, nonostante non avesse aderito alla RSI. A loro volta i postfascisti lo accuseranno di filocomunismo. Potenza sublime che accomuna gli imbecilli di tutti gli schieramenti. Pochi avranno il coraggio di pubblicare i suoi scritti, il più vicino allo scrittore sarà Stanis Ruinas. Il “fascista di Botteghe Oscure”, alla cui rivista, “Il pensiero nazionale”, continuò a collaborare fino alla morte, sopraggiunta nel 1968. L’anno in cui i figli dei traditori del ‘22, si prodigheranno per continuare l’opera dei padri, con il loro imprinting borghese, come ebbe a sottolineare Pasolini.

Molti dei suoi romanzi rimangono tutt’ora inediti, sempre in attesa di editori coraggiosi, come Marcello Baraghini che nel 2006 per le edizioni stampa alternativa ha pubblicato “L’America” di Gallian, quella del “capitalismo fradicio e del dollaro usuraio”.

Nell’attesa di una rivalutazione letteraria di Gallian non si può che dedicargli i versi che Claudio Lolli scrisse un centinaio di anni fa.

“Vecchia piccola borghesia, (…) il vento un giorno ti spazzerà via.”

Romano Guatta Cal




Fondo Magazine|Tributo a Marcello Gallian (http://www.mirorenzaglia.org/?p=5225)

Avamposto
03-08-10, 17:52
MARCELLO GALLIAN
(1902-1968)
Uno scrittore anarco-fascista, antiborghese, espressionista
e grottesco


Un denso profilo critico del narratore, pittore e drammaturgo romano, partecipe del Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, avanguardista irruento ed eterodosso col suo insolito mix ‘di anarchismo apocalittico e furioso e di fascismo indeflettibile, di utopismo sociale di marca cristiana colorito di un primitivismo francescano, con punte di inequivocabile comunismo e sogni di un mitico stato di natura istintivo e fuori dalle regole’. Rileggendo il suo romanzo “Bassofondo” (1936) emerge la sua turgida vena ‘selvaggia’, sensuale e anticonformista, resa attraverso un linguaggio rigonfio, estremizzato, lutulento che cozza violentemente col perbenismo del regime mussoliniano.



--------------------------------------------------------------------------------



di Silvana Cirillo





L’espressionismo tragicomico di Gallian.*

In fondo al quartiere





Vorrei portar soccorso, sprofondare il pavimento, far rovinare le pareti, mi sembra ad un tratto che la creatura umana, che grida al soccorso, sia enorme, tutta di carne, e poggi i piedi sulla strada, in portineria e arrivi con la testa fin quasi al tetto.

(Nascita di un figlio)



Quando telefonai alla madre, sentii un urlo rauco, che mi fece attribuire al microfono nero tenuto in mano alcune virtù di strumento musicale. L’urlo si propagò fulmineamente sui fili dei pali telegrafici; le rondini fuggirono; l’urlo si disperse ai limiti della campagna.

(La madonna dei mercati)



Perdeva tutto, il mondo e una casa, una donna e un fanale, ad ogni passo: non aveva lasciato un segno. Sentì per la prima volta qualche cosa nascosta, segreta, misteriosa nel mondo, che aveva bisogno di essere rivelata: egli era una semplice comparsa. Niente altro.

(Vita di uno sconosciuto)



La forma non vale la sostanza. Questa è la nostra idea contro la teoria dei calligrafi…io scrivo come in guerra. Letteratura fascista è questa, sincera immediata violenta nuova. Molte idee, troppe sensazioni e qualche errore di vocabolario.

(Prefazione a Umberto Nobile)





Le innumerevoli dichiarazioni di impegno politico-culturale di Marcello Gallian, le polemiche, gli attacchi e le alzate di testa, i pamphlet e le dichiarazioni di poetica, le digressioni all’interno dei romanzi, le introduzioni agli stessi spesso scontano l’ipoteca della retorica, esibiscono una certa enfasi oratoria, adottano una sintassi complessa, parole profetiche e altisonanti, toni studiati da «prosa d’arte». Quando cioè l’artista imbocca e teorizza quella sua contortissima strada, piena di ingenuità e contraddizioni, con cui aspira a raggiungere la vera rivoluzione artistica e culturale, antifilistea e antiborghese, anarchica e filopopolare e pretende di appiccicarci sopra a tutti i costi l’etichetta politica di squadrismo fascista, bene allora poco lo distingue dai tanti altri scrittori coevi altrettanto appassionatamente filofascisti e velleitari.

Ma quando passa al racconto vero e proprio e la prosa si fa narrativa, è lì che le cose cambiano, è lì che si compie la sua rivoluzione: allora davvero Gallian cambia penna, colori e tono a conferma della definizione che ne diede Falqui di “enfant terrible”: “il più ribelle ed emancipato degli scrittori contemporanei”. La penna si fa incisiva e penetrante come uno stiletto; i colori diventano forti, le pennellate materiche, i profili marcati; il tono si stracarica di pathos: la cifra stilistica è senza dubbio quella barocca e tesa dell’espressionismo e il tocco è quello di un verace scrittore d’avanguardia. Aveva ragione Massimo Bontempelli a considerarlo un «novecentista Doc», ma non basta: Gallian, per certi versi va oltre e supera i limiti del pur sperimentale, ma comunque controllato, novecentismo, supera “lo scrivere senza aggettivi e a pareti lisce” nostrano (gli aggettivi, anzi, li riversa “sulla pagina a due a due” come diceva Bontempelli) e finisce per collegarsi con quel barocco e quel grottesco che fra urli e smorfie la cultura espressionista europea sta partorendo (e che troverà spazio poi anche nella sua pittura): tanto che lo stesso artista futurista Mario Carli, invece di inserirlo nella sua Antologia degli scrittori fascisti del 1931, lo citava piuttosto “tra gli scrittori d’avanguardia che al contenuto fascista delle loro concezioni… hanno applicato uno stile adeguato, vale a dire moderno e italiano… con violenta impronta passionale e polemica, e spiccate facoltà artistiche”.(1)

Fu assieme agli Immaginisti, invece, che Gallian condivise la feroce avversione per i conformismi, il filisteismo, i miti e la pochezza dello “spirito borghese” e prese gusto al genere grottesco-onirico con cui essi detto spirito mettevano in berlina (la commedia La donna della domenica, i racconti di Quasi a metà della vita ne sono tangibili esempi), fu proprio con loro che comparve tra gli autori scelti dal giovane editore di Atlas, Ghelardini per lanciare la nuova collana d’avanguardia “Sintesi”, che si inaugurò con i suoi racconti de La Nascita di un figlio. Ancora con gli Immaginisti Gallian partecipò alla splendida avventura che fu il Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, in cui confluì, come sappiamo, il fior fiore dei giovani talenti della drammaturgia italiana più trasgressiva e alla ricerca, assieme al loro “mefistofelico capociurma”, di un teatro rigorosamente “antimimetico”. Indiscutibilmente d’avanguardia fu la posizione che Gallian assunse nei confronti del teatro e a livello teorico e a livello operativo, fondando anche una “Compagnia del Teatro dei giovani” con cui mise in scena al Teatro Manzoni di Milano il suo La scoperta della terra. Le sue prime opere drammaturgiche, Il dramma nella latteria (1929), La casa di Lazzaro (’29) e La scoperta della terra (’30), pubblicate prima in rivista e poi messe in scena, colpirono favorevolmente per il coraggio delle scelte tematiche, per il primitivismo tutto corporale dei protagonisti, per il linguaggio immaginifico e insieme materialistico, “grasso e lucido” come lo definì Bontempelli. Altrettanto entusiasta per Gallian fu la scoperta della nuova arte, il cinema, come quello che l’immaginista Umberto Barbaro teorizzava e Alessandro Blasetti dalle pagine de “Lo spettacolo d’Italia” incoraggiava.






Marcello Gallian, Due donne, seconda metà anni Cinquanta,
olio su tavola, cm 61x47, Roma - coll. privata




Certo Gallian ha assunto subito una posizione scomoda nei confronti della cultura ortodossa contemporanea, pur professando sempre la sua assoluta fedeltà al regime e un cocciuto attaccamento alla rivoluzione squadrista e selvaggia; questo però non bastava a garantirlo: a chiunque sarebbe balzato agli occhi, a lungo andare, che la sua letteratura era una mina vagante che poteva colpire perfino i compagni di strada. Ma poi, in realtà e aldilà delle professioni e dei proclami, chi si poteva riconoscere a pieno in quel misto così inusuale di anarchismo apocalittico e furioso e di fascismo indeflettibile, di utopismo sociale di marca cristiana colorito di un primitivismo francescano, con punte di inequivocabile comunismo e sogni di un mitico stato di natura istintivo e fuori dalle regole, a cui l’artista dava ostinato la paternità fascista? La sua unicità Gallian l’ha pagata cara allora e l’ha pagata in seguito. Quando ha pesato più l’ipoteca ideologica fascista, che non la sua sostanziale trasgressività e sperimentazione linguistica. Certo non gli si è mai perdonata l’ingenuità di identificare con il fascismo il vagheggiato stato di natura, primitivo, vitale, irregolare, anticonformista e anticonsumista, sostanzialmente puro e utopistico, che fu il cuore pulsante di tutta la sua narrativa; né, d’altro canto, l’amore sviscerato per una sorta di proletariato offeso e indifeso, per il vagabondo straccione, esiliato e pre-industriale, protagonista di molti suoi racconti onirici; né la scabrosità di certe situazioni ritenute solitamente censurabili o patologiche soprattutto in quel ventennio moralista e filisteo, che sono un vero attentato al concetto tradizionale e rispettabile di famiglia: i rapporti tra vecchie e giovani (La donna fatale, Una vecchia perduta, In fondo al quartiere) o allusioni incestuose, atteggiamenti sadici, nevrosi, manie e sdoppiamenti (non per niente Comando di Tappa fu da qualcuno apostrofato Comando di teppa), riabilitazione della prostituzione, enfatizzazione dei bisogni e desideri corporali, sfrontatezza erotica: “Ma voi le avete le coscie? – chiede Giovanni a Lisa – che ho detto di male?… Allora è vero che voi siete vecchia, vecchia sul serio. / Tutte le donne hanno le coscie – fa lei, sottovoce. Dunque anch’io… / Complete?… Sono buone ancora? Eguali alle altre? Dai piedi piccoli salgono, si ingrossano, si fanno dure e larghe. Sode, ma con quella tinta, quella tinta, voi mi capite…”. (2)

Le coscie sono quelle della matura Lisa Matrona, merciaia in stoffe e accessori, che diverrà la donna del men che ventenne Giovanni Battista Timorato Dio (già nel nome inizia la parodia del personaggio), da lei mantenuto, e che, attraverso l’amore ringiovanita e rinvigorita, diverrà l’idolo di un popolarissimo e malfamato quartiere romano nel romanzo Bassofondo (ovvero bordello), ambientato nel ’18. Il romanzo prendeva nome dal contesto in cui erano inseriti gli ultimi quattro capitoli (che saranno immediatamente censurati), ma dovette cambiare il titolo in In fondo al quartiere, per smorzare l’impressione immediata di miseria e malcostume cui il libro rimandava e che non si confaceva certo al modello della Roma imperiale e mitica diffuso dal fascismo. Fu quindi alleggerito della parte dedicata al mondo delle prostitute, in verità alquanto spuria rispetto alla trama del romanzo..



Uscito nel ’35 e immediatamente respinto dalla revisione stampa di Milano e ritirato, fu ristampato – pare – per intercessione della madre con un titolo nuovo, scelto personalmente da Mussolini. Scritto a Fregene, segue di poco un altro testo dal titolo La vecchia perduta, in cui lo stesso o un diverso Giovanni, giovanissimo, irruente, appassionato si accoppia con una matura ma ancora feconda Caterina e la mette quasi miracolosamente incinta. Lei vorrebbe abortire, lui difende il nuovo, rappresentato dal figlio della rivoluzione, e la segrega finché non nasce, causando la morte della donna. Giovanni col figlio in braccio va… La gioventù selvaggia, dunque, finisce qui per vincere sulla mentalità dei benpensanti pantofolai.

Al contrario, in Bassofondo si capovolge la situazione. Giovanni Timorato Dio, che entra prepotente e brutale nella vita della donna e del vicolo, “violento come una rivoluzione”, e le si piazza nella bottega assieme al pappagallo e a mille cianfrusaglie Kitsch – come kitsch è tutto il vicolo con i suoi abitanti – bizzoso rissoso sanguigno vitalistico, viene incarcerato dopo una rissa in un’osteria e rieducato e snaturato a suon di botte e sadiche punizioni (cfr. capitolo XIII).

Proprio lui che arrivando aveva gridato: “Io non rimango qui, è una tappa, per chi mi avete preso?”. Poi resta lì per sempre: il carcere lo imbastardisce, cioè lo educa; lo castra psicologicamente e cioè lo spegne; il quartiere lo ingloba, la rivoluzione, di cui era portatore e di cui Gallian continuerà a farsi vessillo, fallisce e lui che “ha avuto tutti gli schiaffi di una generazione che la guerra ha cercato di mutare”… si “addormenta sulle ciabatte puntuali” di Lisa Matrona. “Maledetta, proprio a me doveva capitare, a me ormai vecchia: è la rivoluzione… altri tempi, a noi non ci rimane che morire( 3), aveva sospirato la donna. E invece a morire – metaforicamente – sarà lui, il giovane ardito, fagocitato delle miseriucce quotidiane e degli arrampicamenti sociali della vita di quartiere. Altro morire è quello che sogna per sé Gallian, ma l’origine è la stessa: non poter più essere attivi e rivoluzionari.



“Sono stanco e avvilito: finito un certo lavoro vorrei morire, un bel giorno, mentre mangio. Che ci sto a fare in questo mondo? Io ho bisogno di fare alle bastonate: lo capisco il mio destino. Ci sono uomini nati per la strada: che non si rassegnano. E perdonaci, tu che hai alla fine spalle sode e il braccio malagevole”(4) scriveva all’amico Enrico Falqui Gallian nel ’32.

Si perde poco, comunque, e bisogna dirlo subito, della forza eversiva del rapporto equivoco e provocatorio fra i due, nonostante l’allegoria della sconfitta generazionale, che inevitabilmente la lettura induce a intravvedere: “C’era chi sporcava i pavimenti e lui li pulisse; chi imbrattava i muri a che lui li strofinasse con lo straccio bagnato, dopo averli raschiati con un coltellaccio sparuto di cucina. Divenne un simbolo. E cadde nel dormiveglia trionfale dei simboli comodi, denarosi, ben protetti, che dovevano servire a tutti i casi e a tutte le misure” (5).



Lo ritroviamo altrove, dunque,Giovanni dopo molto tempo: grasso, bolso, imborghesito, in stato di perenne sonnolenza e malinconia a metabolizzare il chilo (parola chiave nel linguaggio gallianiano per rappresentare la borghesia grassa e mangiona, che digerisce in pantofole quel che ha ruminato con piacere), “stravaccato sulla branda del bordello che gli era stata concessa” a fare il mantenuto di Enrichetta, la gestora del bordello del quartiere.

Spuria questa parte, completamente staccata dal resto, se non fosse per quell’incipit che si porta dietro ancora la presenza di Giovanni come trait d’union; più realistica, ma non meno ridondante di dettagli e particolari, meno sensuale e più esplicita, meno turgida e barocca, ma indispensabile a Gallian per infrangere ancora una volta un tabù e porsi completamente dalla parte della donna. La donna malfamata, per l’appunto, che lui racconta dal didentro: fatti, pensieri, percezioni,vizi, paure e debolezze; e sentimenti, capelli, bigodini, trucchi. Cerette, monili, particolari scabrosi, chiacchiere, pettegolezzi, tutto mischiato. Cervelli scoperchiati, direbbe Debenedetti, ma anche corpi grandi e accoglienti, forme esibite, fisicità espressa e ostentata, che si agitano fino all’arrivo della prostituta vagabonda e internazionale Marga Lupino, presenza pretestuosa che gli serve per infierire – attraverso il suo sguardo e ribaltando le prospettive e le immagini stereotipe che il regime divulgava – sul corpo materico volgare e sporco della odio-amata Roma (scrive Gallian ancora a Falqui da Viterbo in quegli anni: “Appena posso verrò sebbene Roma mi faccia ribrezzo. Questione di punti di vista.”)… e riscattare ancora una volta gli italiani proletari puri e offesi: “Agli italiani s’era sempre negata, con un pudore insoffribile, con una pena smisurata, con un’arte sopraffina, che le permettevano ogni imprudenza. Italiani rari, portati qualche volta al bordello straniero per dimenticare, affamati di terra, maledetti dalla mancanza di terra, le sembravano fratelli in miseria. Fatidici per quella loro miseria, stranamente esotici per quella fame inveterata e antica: quasi i proletari stessi del pianeta, i veri proletari… simili molto… a quei segretari bravi che scrivono i discorsi per gli altri, che firmano le cambiali per i padroni, che scoprono una legge fisica o chimica e poi ne vengono derubati” (6).




(continua)




MARCELLO GALLIAN (1902-1968) (http://www.retididedalus.it/Archivi/2009/estate/SPAZIO_LIBERO/2_gallian.htm)

Avamposto
03-08-10, 17:52
Compare dunque – come dicevamo – la figura della prostituta generosa, umana, profonda, tutta corpo e cuore, che condizionerà il suo immaginario e diventerà la protagonista indiscussa della sua pittura. La prostituta, che nelle vesti di Elisabetta, passionale e generosissima eroina, provocatoriamente guidava ne La scoperta della terra, una rivolta di minatori e operai di tutte le razze scoppiata in Transvaal. Dopo tre rappresentazioni al Teatro Nazionale di Milano ovviamente fu censurata e il giornale “Oggi e domani”, su cui ne era uscita una prima parte, non pubblicherà più le altre due già annunciate. Proprio la prostituta, come sappiamo, fu tra i personaggi più amati e proposti dagli espressionisti (da Grosz a Kokoschka a Ecschmidt…) e da Lorenzo Viani (alla cui narrativa, a Parigi in particolare, rimanda non poco il nostro autore) e divenne il simbolo di una umanità incompresa e sfruttata, che vive fuori dalle regole e perciò emarginata, che dà più di quanto chiede, un po’ come il pagliaccio del Circo, anch’esso beniamino di decadenti e avanguardie, come è arcinoto (varie rubriche teneva Gallian in quegli anni su “Italia letteraria” intitolate a circo e luna park), cui l’artista si sente idealmente vicino e in dovere di restituire peso e dignità: “Una prostituta non viene più ritratta acconciata e pitturata come il suo mestiere richiede: comparirà senza profumi, senza belletto, senza borsetta, senza gamba che dondoli, ma la natura del suo carattere dovrà risaltare così viva nella semplicità della forma, da riuscire satura di tutti i vizi, le passioni, le bassezze e le tragedie di cui sono fatti il suo cuore e il suo mestiere” ( Kasimir Edschmid, 1917).

È esattamente questo il taglio, la prospettiva da cui Marcello Gallian guarda le ragazze del bordello: dal di dentro, con una familiarità e sensibilità davvero sorprendenti nei confronti del femminile, visti anche i tempi e l’impostazione moralistica e intransigente del regime. Tutto si svolge in un vicolo, misto tra la fiera, il circo e il bazar, con qualche uscita e digressione, necessarie e perfette per l’andamento della storia, tipo l’evento della visita al cimitero fuori porta fatta dalla strana coppia tutta imbellettata, come si recasse a una festa (e qui il rimando alla Fiera dei morti di Palazzeschi è inevitabile), a trovare il marito morto di lei con successiva sosta all’osteria e relativa rissa. O la mitica e sconvolgente andata all’ospedale per le analisi di Lisa, che è una vera farsa giocata tra patetico e comico, con momenti di ilarità paradossale, quando la lettura dei risultati con nomi strani e sconosciuti, diventa un momento di complicità e sospiri fra i due (stigmatizzati dagli astanti in attesa) e a Giovanni sembra di entrare nel corpo di lei attraverso quelle nuove strade; o il capitolo dedicato ai ricchi ricoverati in clinica come fossero in un hotel a 5 stelle, che, pur nella ridondanza affastellante di dettagli e nomi, raggiunge delle punte non trascurabili di esilarante e teatralissima comicità..



Il vicolo è uno spazio teatrale circonchiuso, dunque, con le sue botteghe, gli abitanti, le chiacchiere, le attese: si respira sempre un’aria di rissa, indotta forse dalla presenza di Giovanni, vitale e promettente, e insieme un senso barocco di morte sospesa, di decadenza, di horror vacui, che, (come il baule celebrato da Paola Masino in Nascita e morte di una massaia), si riempie con un’ossessività feticistica di cose oggetti nomi aggeggi cartoline, creme, profumi “animali suppellettili abiti” ovvero di “tutta la mercanzia della borghesia domenicale”. Ognuno esibisce quello che ha: il macellaio sulle carni costruisce a suo modo un macabro poema.

“Preso da una voglia macabra, trasformava la bottega in una specie di tomba di marmo, alla quale non mancavano il lumino acceso, la saracinesca di ferro e il cancello in ferro battuto sulla soglia. Quest’uomo amava gli animali assai più per quel che li vendeva: latineggiante, virgiliano era amator delle campagne e dei pascoli, frequentatore assiduo nello steso tempo del mattatoio e del macello” (7); la moglie bella e giovane nella casa kitsch e attorniata da personaggi adoranti, si autocelebra attraverso il pennello di un pittore paziente che ripete all’infinito e in pose diverse sempre la sua immagine, ritratta “come negli arazzi fra grosse pere e mele, meloni gialli e fette di cocomero” (8), comicamente inanellata, inghirlandata, con qualche pezzo di carne nuda sempre; la moglie grassa e incontentabile del profumiere, che consuma godendo la mercanzia del marito, profumi, cosmetici, tinte, matite, saponette, spruzzi, carboncini, acque di Colonia a cascate come i cibi che ingurgita senza posa (anche lei fa il chilo!) e le invettive di cui, sempre insoddisfatta, ricopre il marito, spostando su di lui le colpe delle proprie immobilità e insufficienze. Ognuno incasellato, pur nell’apparente vivacità del vicolo, in un ruolo e tutti aspiranti a salire di un gradino!

Anche gli oggetti fanno parte del nuovo teatro del grottesco, sono proiezioni interiori, materializzazione di paure, angosce, delusioni e desideri, esteriorizzazione dell’alienazione interiore strisciante prolungata in gesto o oggetto. Ci vengono illuminanti del loro ruolo e funzioni le parole di Ionesco a proposito del teatro dell’assurdo e del grottesco: “La parola può essere trasformata in materiale teatrale portandola al parossismo…, il linguaggio deve quasi esplodere o distruggersi nell’impossibilità di contenere i significati. (…) Ho tentato di esteriorizzare negli oggetti l’angoscia dei miei personaggi, di far parlare la scena, di visualizzare la scena, di dare immagini concrete della paura, o del rimpianto, del rimorso dell’alienazione, di giocare con le parole”. (9)



Laddove è indiscussa su questo palcoscenico di evidente matrice bragagliana la centralità rispetto all’intreccio dei personaggi con i loro ruminanti soliloqui, da cui vien fuori non la realtà, ma la percezione che essi ne hanno e la visione distorta e proiettiva, che spesso cresce e si deforma dalle loro ubbie, paranoie o desideri. Soliloqui e dialoghi si intersecano fitti e spesso senza segni d’interpunzione a separarli: l’anima si esprime in rimuginamenti interiori e passaggi senza soluzione di continuità tra essere e voler essere, ove il lettore disorientato sovente confonde sequenze di vissuto e farneticazioni su quanto è accaduto o sta per accadere. La vita interiore si prolunga spesso in gesto, oggetto, abbigliamento, suppellettile.

Il grottesco puro estremizza, scava, esibisce aspetti incongrui; spampana e scardina l’effigie armonica, convenzionale e canonica. Fa di un ritratto una caricatura: non ritrae un carattere, emblema di individualità finita, riconoscibile – “Quando Giovanni la vide scendere dalla scaletta, s’accorse subito d’un nuovo mutamento nel viso e nel portamento della donna: aveva un’aria vanesia, ridicola e quasi melliflua, parlava, tutta mossette e grazie. Sbagliava perfino nei termini che usava a vanvera, parole strampalate diceva, gerghi rifatti e nuove desinenze. Dondolandosi, mise carezze sulle guance, dette baci sulla bocca” (10) –, ma accentua gesti, posture, punti deboli, difetti e magagne, che, quando visti come espressione di un’ingenuità improbabile e patetica, portano il romanzo ai confini del populismo: “Giovanni li intende tutti, per quella speciale dimestichezza che ha il cuore sin dalla nascita con i disgraziati”, dirà a un certo punto e continuamente nelle righe mette le distanze e i distinguo fra ricchi e poveri, i potenti e i sottomessi… Non per niente fu apprezzato enormemente da Pratolini. Un populismo tanto fragile quanto utopico quello di Gallian, che non gli illuminava però i nessi reali esistenti tra fascismo e borghesia.







Giovanni non lavora, non guadagna, non si allinea coi costumi sociali, col buonsenso comune, col modello dell’uomo corrente, si accompagna a una donna di trent’anni più giovane come fosse la norma, senza imbarazzi o pudori; Lisa pomposa, libera, sensuale, spregiudicata (maschile e femminile assieme), non si allinea col modello femminile di compagna e madre devota; e se ne va in giro a testa alta sottobraccio a uno scapestrato più giovane del figlio… Ambedue i protagonisti sono assolutamente e coraggiosamente incongrui rispetto ai miti e ai topoi cultural-antropologici e sociologici fascisti. Quantomeno per quel che riguarda il primo Giovanni, mentre Lisa, al dunque, finisce per accordarsi col profumiere vicino di bottega, ne acquista il locale, si ingrandisce, addirittura mantiene un vagabondo negro, il quale chiama con deferenza tutti professori, e lo mette fuori dal negozio in livrea… Si uniforma, dunque, alle aspirazioni di affermazione piccolo-borghesi. L’espressionismo si nutre di sproporzioni, elefantiasi del particolare, gusto dell’ossimoreità: vecchie-giovani, sante-prostitute, suoni-oggetto (Lisa, ad esempio, è forte e fragile nel gestire la schiavizzazione da parte del maschio; coraggiosa e patetica nella scoperta del mondo), di parole turgide, crasse, di aggettivi tangibili, di tanti chiaroscuri segnati col neretto, di bocche sguaiate, di abiti vistosi, di acconciature esagerate, di disperazione e risata smodati: in queste pagine di Gallian non manca proprio niente, anzi. Ce ne è che rischia di sconfinare nell’opposto, nel manierato, se non fosse per la turpitudine, la ribellione interiori, la durezza di molti passaggi che stemperano certe scelte stilistiche da vera prosa d’arte.

Il grottesco come categoria narrativo/teatrale si nutre di esagerazioni e reinventa la vita “spingendo tutto al parossismo, cioè alle fonti del tragico” aldilà della pallida ironia delle ingegnose “commedie da salotto” (ancora Ionesco ), come qui, ove Gallian con uno sguardo impietoso talvolta ironico del narratore verso la stupidità e l’insulsaggine piccolo-borghese che macina e livella ogni cosa. “Nell’ardore della scoperta di quei fatti intimi che gli sapevano di modernità, di lusso, di sapienza, quasi quasi di ingiuria nobile, alta... Giovanni alzava la voce, si entusiasmava perfino, accalorandosi. Ogni nome sembrava chiamasse: gli rispondevano di lontano, dal fondo dei corpi, altre voci, suoni nascosti, scorrere di acque… A poco a poco lontane da ogni romanticheria gli si scoprivano le parti intime delle quali era composta la donna con un fascino persino, del quale era notizia ancora nelle carte del medico”. (11)

Paradossalmente, ma senza ombra di dubbio, dunque il fascista Gallian va inserito nel gruppo di intellettuali anarco-espressionisti – apparentabili a Toller e al denudamento del suo povero “uomo-massa”, a Grosz e ai suoi borghesi caricaturati, a Wedekind, a Brecht come a delle voci insostituibili del dissenso del primo novecento.







_____________________________________



Note

* Relazione letta al Convegno L’avanguardia radicale di Marcello Gallian. Università degli studi di Pavia. 17-18 dicembre

1) In “Oggi e domani”, 23, 6, 1930

2) Tutte le citazioni sono tratte da Bassofondo, Milano, Panorama,1936. Da ora in avanti: BF. Pag. 68

3) BF pag. 41

4) Lettera inedita, 22 giugno 1922, Archivio del ’900, la Sapienza, Roma).

5) BF pag. 179

6) BF pag. 303

7) BF pag. 214

8) BF pag. 216

9) Eugene Ionesco, Note e contronote,Torino, Einaudi 1963, pagg. 184, 126

10) BF pag. 195

11) BF pag. 209.





MARCELLO GALLIAN (1902-1968) (http://www.retididedalus.it/Archivi/2009/estate/SPAZIO_LIBERO/2_gallian.htm)

Avamposto
03-08-10, 18:05
Recensioni -

Gli eretici del fascio. Da Ricci a Gallian

«Libero» , 16/07/2008


Recensione di Mario Bernardi Guardi

Lo storico Paolo Buchignani racconta vita e opere delle camicie nere anarcoidi. Rifiutate dal regime

Dopo la Liberazione, furono tanti gli intellettuali che andarono a bussare alla casa di Berto Ricci.Cosa volevano? Piangere insieme alla vedova il loro grande amico, il fascista volontario di guerra morto sul fronte africano nel febbraio 1941? Ricordare gli anni delle battaglie rivoluzionarie, che avevano visto Berto e quelli della sua banda farsi alfiere di un fascismo intransigente, anticapitalista e antiborghese, impegnato a lottare per la rivoluzione sociale e per l’impero? O magari volevano dirle: «Si faccia coraggio, signora, Berto non c’è più ma noi le siamo vicini»?.
LETTERE SPARITE
No. «Le lettere, le lettere, volevano le lettere – ha raccontato la vedova allo storico Paolo Buchignani –: quelle che nel Ventennio avevano scritto a mio marito».Roba che scottava, roba compromettente. E Berto che si era compromesso fino al punto di immolarsi alle ragioni della bella morte nella guerra fascista? Povero illuso peggio per lui!Nell’ultimo libro di Paolo Buchignani (Solleone di guerra. Racconti, prefazione di Carlo Lizzani, Mauro Pagliai Editore, pp. 271, euro14), il profilo del fondatore dell’Universale viene ridisegnato in poche, intense pagine. Lo storico lucchese torna infatti a una figura che gli è cara, protagonista di un suo saggio del ‘94 (Un fascismo impossibile.L’eresia di Berto Ricci nella cultura del Ventennio, Il Mulino). Stavolta, l’approccio scientifico, perché Buchignani sceglie la narrativa, decide di respirare umori ed emozioni, entrare nella mente e nel cuore del matematico-poeta fiorentino: un idealista, anarchico fino al ‘24, che si convertì alla rivoluzione in camicia nera, fondando una rivista (tra i collaboratori Montanelli e Bilenchi) che faceva paura a benpensanti e forcaioli.Mussolini la chiuse, ma volle che Berto diventasse una firma del “Popolo d’Italia”. E lui restò fedele al Duce. Tanto che nel ‘40 fece fuoco e fiamme per tornare in Africa da volontario. E qui morì, mitragliato da un aereo inglese.
GALLIAN AL BANDO
In Bir Gandula, Buchignani condensa questa vita emozionante. Un’altra ne racconta nel Quaderno di Fra Tesauro. Stavolta l’eroe è Marcello Gallian: uno scrittore romano (e un altro eretico in camicia nera) che si fece riconoscere e ammirare per il suo genio visionario e fu salutato come uno tra gli intellettuali più promettenti della nuove leva “littoria”. Salvo poi cadere in disgrazia per la temerarietà con cui buttava in faccia a tutti le sue idee di fascista e sovversivo.Galliani finì con l’essere emarginato dal Regime e, nel dopoguerra, dai neo-antifascisti che, appena lo vedevano, svicolavano (l’ex fascistone Ungaretti in testa) quasi avessero scorto un gatto rognoso: e patì la fame, insieme alla famiglia, acconciandosi a mille mestieri pur di sopravvivere.Buchignani, che su Gallian e il sovversivismo intellettuale nero (con sfumature rosso fuoco) ha scritto in più occasioni (Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista anarchico, Bonacci, 1984; Fascisti rossi, Mondadori, 1998; La rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943, Mondadori, 2006), torna sull’argomento con un taglio narrativo tra il lirico, l’epico e l’iperrealistico: quel che ci vuole per evocare un maledetto di valore, escluso dalle patrie lettere con accordo bipartisan. Perché Gallian è davvero un “cannibale”, e la sua prosa allucinata e rovente sgomenta le anime candide.
GLI ESTREMISTI
Onore a Buchignani che lo restituisce nudo e crudo, camicia nera inclusa. Tanto più che il nostro storico è tutt’altro che un nostalgico.Anzi, il suo archivio delle memorie ha un contrassegno antifascista e tante delle storie qui raccolte hanno protagonisti familiari, parenti, amici, una Lucchesia contadina ostile al Duce, che se la vide brutta la tempo della Marcia su Roma con in “neri” vittoriosi e scatenati e poi, dopo il ‘43, con gli imperversanti , spietati nazi.
Buchignani spesso è stato un militante del Pci negli anni del “mantra” ossessivo “Fascisti carogne | Tornate nelle fogne!” (si legga Nel sole di Budapest). Comunque, con gli estremisti ha fatto i conti e allora, senza atteggiamenti da maestrino, ma rovistando nella storia per trarne dolorosa materia umana, ammonisce: attenti le passioni politiche totali bruciano, le furie ideologiche sono distruttive, il sogno del mondo nuovo può trasformarsi in un incubo. Che inghiotte puri e impuri.
Resta, però, l’impura, inopportuna domanda: vale la pena vivere senza sogni?

Pubblicazioni correlate:
Paolo Buchignani.
Solleone di guerra. Racconti.
© Mauro Pagliai 2008,
cm 12x21, pp. 276, ill., br., € 14,00





Mauro Pagliai Editore - Gli eretici del fascio. Da Ricci a Gallian (http://www.mauropagliai.it/asp/so.asp?id=12233)

Avamposto
03-08-10, 18:54
Cantore della rivolta, o forse sarebbe meglio dire di un “ribellismo” che incarnava, in primis, il rigetto del mondo “borghese” e dei suoi falsi miti, Marcello Gallian fu, tuttavia, anche e soprattutto, uno degli artisti più originali degli anni ’20 e ’30. Lo fu, come abbiamo già avuto occasione di vedere, nel teatro, esponente di primo piano di quell’espressionismo italiano, che vide proprio con lui, Massimo Bontempelli e Pier Maria Rosso di San Secondo, incarnarsi un gruppo di giovani artisti capaci di continuare la grande opera di Pirandello, senza tuttavia cadere in un’impossibile tentativo di imitazione. Pirandelliani ed originali, dunque. Capaci di aprirsi alle istanze ed alle suggestioni delle maggiori Avanguardie europee del periodo, rielaborandole, però, secondo percorsi personalissimi ed originali. Così anche nella prosa. In quell’”Immaginismo” di cui ancora Gallian fu uno dei massimi esponenti, dettandone, in certa misura, le coordinate stilistiche. E, soprattutto, sintetizzandone l’animus. Non a caso definì questo “Immaginismo” romano, sorto agli inizi degli anni ’30, un movimento di giovani scrittori che sentivano “il bisogno atroce e urgente di lasciare le vecchie strade della stampa solita e accademica e della solita arte commerciale, per tuffarsi in un’arte necessaria, forte, che convenga a tutti, che frutti: l’arte del viaggiatore… c’è tutto un mondo da rivelare all’Italia e un’Italia da affermare a tutto il mondo… è necessario che il mondo ci sia aperto con tutti i suoi pericoli e le sue improvvisate…”. Ed è in quest’ottica, in questa specifica ottica artistica, che va inteso e compreso il “fascismo” di Marcello Gallian. Ché il suo fu essenzialmente un “fascismo sociale” – o se si vuole addirittura un “anarco-fascismo” – nutrito da un lato dal pensiero dei più radicali tra gli esponenti del sindacalismo rivoluzionario del primo ‘900, dall’altro da una sorta di utopia francescana, da un pauperismo cristiano non scevro di echi danteschi… Che lo portava a concepire l’impegno – politico, artistico… - nel senso di una lotta senza quartiere, una vera e propria crociata contro il “demone Mammona”, la sete di denaro, ricchezze, lussi che aveva corrotto la società, erodendo e sovvertendo gli autentici rapporti umani. L’arte, dunque, doveva essere posta, per Gallian, al servizio della “rivoluzione”. Doveva, anzi, “fare la rivoluzione”, ricordando al fascismo ed ai fascisti ciò per cui essi erano sorti. Quale fosse il loro destino, il loro senso di essere. Arte come messaggio; arte come apologo etico e politico insieme. E tuttavia senza che tale scelta comportasse una qualsiasi forma di corrività stilistica. Un abbandono, un disinteresse per la qualità della scrittura. Ché, anzi, è difficile trovare uno scrittore più di lui attento, in quegli anni, allo stile, alla forma della prosa. Una ricerca che trova la sua dimensione più compiuta nei racconti brevi, sospesi tra il bozzetto appena accennato, al prosa lirica, il disegno – incisivo e tagliente – di una situazione, di un personaggio. Fu questa, indiscutibilmente, la dimensione narrativa che Gallian sentì più vicina, più sua. E dove seppe dare il meglio di se stesso. Più discussa - come dicevamo, dagli stessi contemporanei – la qualità della produzione romanzesca. In effetti i romanzi di Gallian lasciano sempre una qualche sensazione di trovarsi di fronte ad un’incompiuta. Inevitabile, ché i suoi furono, essenzialmente, sempre “romanzi a tesi”, proiettati più nell’affermare una visione del mondo, che nel disegnare una storia in sé e per sé. Lo erano già i romanzi di “vagabondaggio”, come “Pugilatore di paese”; lo divennero ancor di più i cosiddetti “romanzi della Marcia”. In effetti, negli anni ’30 Gallian si allontanò dalle esperienze prettamente letterarie del decennio precedente. Convinto che non si potesse più pensare – come avevano fatto Bontempelli ed novecentisti, come aveva fatto lui stesso in precedenza – che il problema fosse sprovincializzare l’arte italiana, per dare nuova linfa alla cultura dopo la rivoluzione fascista. Il problema, ormai, gli appariva essere ben altro. Palesemente la rivoluzione fascista in cui lui,- come tanti altri – aveva fermamente creduto, era fallita. O, per lo meno, si era impelagata nella politica di tutti i giorni, nell’amministrazione degli affari correnti… divenendo regime, burocrazia… divenendo un ennesimo strumento nelle mani del potere (e della mentalità) borghese. Non arrivò, certo, mai a sostenere che Mussolini avesse “tradito”; ma più volte affermò, senza reticenze o mezze misure, che il Duce era in qualche modo “prigioniero” della borghesia capitalistica… Di qui non più la ricerca di un’”arte per il fascismo”, bensì quella di un’arte capace di ridestare lo spirito originario del movimento fascista. O meglio, quello che Gallian riteneva esserne lo spirito originario. In questa fase la sua scrittura si fece via via più densa, scabra, drammatica. L’esperienza espressionista e surrealista, lasciava il posto – o meglio conduceva ad una sorta di “realismo magico”, che non vela la realtà, non la trasfigura. All’opposto la esalta attraverso un linguaggio tesissimo, di straordinaria forza espressiva, capace di mettere in un rilievo tutto particolare le situazioni, i personaggi, gli oggetti… Una scrittura in cui il piano della soggettività, il delirio della coscienza, il flusso dei pensieri e delle immagini, di continuo si sovrappone, fonde con quello dell’oggettività, con i fatti, gli accadimenti, gli eventi… Per questo i romanzi della Marcia su Roma e la produzione coeva e successiva segnano, davvero, il punto più alto della prosa di Gallian. E quello che, ancor oggi, meriterebbe d’essere giustamente apprezzato, nonché studiato con maggiore attenzione. Romanzi che, però, per il loro contenuto – l’esaltazione dello squadrismo, della violenza rivoluzionaria ecc…- hanno segnato l’emarginazione progressiva di Marcello Gallian dai circuiti della cultura italiana. Emarginazione già durante il ventennio, ché troppi colsero la veemente critica della “involuzione del Regime” dietro l’apparenza dell’esaltazione delle squadre e della loro energia “rivoluzionaria”. Ostracismo, anzi autentica “damnatio memoriae” dopo la caduta del fascismo, quando di tali opere si volle vedere soltanto l’aspetto più superficiale e meramente politico. Perdendo completamente di vista sia la qualità (straordinaria) della scrittura, sia il fatto ch’esse costituiscono un documento drammatico ed appassionato delle illusioni e delusioni di un’intera generazione. Illusioni che Gallian aveva perso già nel corso degli anni ’30, isolato, sempre più emarginato dal Regime. Delle cui prebende - a differenza di tanti altri che godettero di ben maggiori fortune con la stagione dell’antifascismo – mai approfittò. Sempre più chiuso in se stesso e nel sogno di una rivoluzione sociale che sapeva ormai impossibile, si estraniò dal partito e dal regime. E non aderì, dopo il 25 Luglio, alla RSI. Tuttavia si rifiutò sempre, dopo la fine della guerra e la Liberazione, di ripudiare i suoi scritti ed i suoi romanzi “fascisti”. Erano troppo parte di lui. Ed erano, soprattutto, autentiche opere d’arte, non il prodotto di piaggeria o servilismo. Gli ultimi anni furono trascorsi da Marcello Gallian nella solitudine e nella miseria. Ridotto, in certo qual modo, come uno dei suoi personaggi, disperati, asociali ribelli. Pochi amici si ricordarono di lui, Fausto Coen, direttore del comunista “Paese Sera”, Ruggero Jacobbi antico sodale degli anni ’30…Stanis Ruinas, il “fascista rosso” alla cui rivista, “Il pensiero nazionale” Gallian continuò a collaborare fino alla morte. Per il resto, solo silenzio. E l’impossibilità di pubblicare i suoi ultimi scritti, romanzi, drammi che restano tuttora inediti. Un parte della nostra memoria culturale indebitamente rimossa, negata dalla nostra (pigra e cattiva) “coscienza nazionale”. Un rimorso di cui si dovrebbe, finalmente, prendere atto.

Andrea Marcigliano

msdfli
03-08-10, 21:59
www.pedro.it/webs/millelireonline.it/e-book/gallian-america.rtf

Ottobre Nero
12-10-10, 15:43
Molto interessanti tutti gli articoli e il link allegato.

Di Gallian si continua a sapere relativamente poco.

Johann von Leers
16-01-11, 18:34
Io una volta ho letto grazie ad una rivista di studi politici,tutta la sua storia fino al crollo del regime,ho potuto così conoscere tutto su di lui e sulla sua ideologia,è un tipo troppo poco conosciuto,questo è il brutto.