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Visualizza Versione Completa : Reportage. Vite condivise nel kibbutz



MaIn
30-06-17, 21:57
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Viaggio a Neot Semadar nel cuore del Negev dove lavoro e parsimonia creano il dialogo a due passi dalla guerra

NEOT SEMADAR (ISRAELE) Nel buio si sente solo un gallo in lontananza, e i passeri nella grande sala da pranzo che frullano intorno al lampadario da cui pende la sagoma di un pipistrello, ritagliato su carta nera e sapientemente incongruo. Alcuni fissano le evoluzioni del fumo che esce dalle tazze di tè, altri spaziano sui quaranta compagni di silenzio, arrivati al centro del kibbutz a piedi o sulle biciclette fra ulivi, meli e palmizi. Intorno, oltre i cancelli accuratamente chiusi la sera, è il deserto del Negev dove Israele si affila come un’amigdala. Hanno abbandonato Gerusalemme sul finire degli anni 80 gli abitanti di Neot Semadar, attraversato sulle camionette cariche di utensili il giardino agricolo delle pianure costiere, lo spettacolo cangiante del Mar Morto e la roccia marziana del deserto. Allora le lunghe tensioni esplodevano nella Prima Intifada e il breve Novecento si spegneva assieme all’utopia socialista che tanti kibbutz aveva ispirato cento anni prima, quando gli ebrei fuggiti dall’Europa piantavano nelle terre incolte i principi del sionismo. Dopo il rito del silenzio la comunità si disperde per i luoghi di lavoro, l’allevamento, i piccoli stabilimenti per le produzioni biologiche, le coltivazioni irrigate da un complesso sistema di gestione che riduce al minimo l’uso dell’acqua, altrove sottratta ai bacini palestinesi. Agli abitanti si aggiungono pochi salariati e un numero variabile di volontari, giovani occidentali e israeliani in fuga dalle ansie metropolitane e dal lungo servizio militare, università di nazionalismo spartano dove si apprende la koinè binaria di odio e paura, l’io e l’altro separati dal corpo a corpo dei check-point. Alle nove pochi colpi di gong chiamano la comunità per la severa colazione vegetariana. È vietato parlare se non per poche sillabe al passaggio delle cose. Tutti si ritrovano poi nella piccola piazza, seduti all’ombra degli ulivi. «Un giorno è una settimana e una settimana è un giorno. Spezziamo di continuo la linea del tempo col dialogo. Se mi annoio? Le persone sono infinite», dice Galita mentre culla il piccolo Kadim fra le braccia.

Casa della cultura nel kibbutz di Neot Semadar (Luca Foschi)
Casa della cultura nel kibbutz di Neot Semadar (Luca Foschi)


Trent’anni, ex insegnante, per ora si dedica alla maternità. Potrebbe poi avere un ruolo nelle scuole del kibbutz, dove fanno lezione «tutti coloro che sentono l’educazione». Non si ricevono salari a Neot Semadar. Per qualsiasi spesa, un viaggio d’emergenza, un oggetto necessario, bisogna fare domanda e il denaro viene estratto dal fondo comune. Fin dalla nascita il kibbutz vive nella parsimonia, che si manifesta nell’incompiuto delle strutture, nel cimitero del ferro dove si recupera il possibile. «Accettiamo qualsiasi confessione, anche se manteniamo le festività ebraiche. Ma non ci sono filosofie per spiegare Neot Semadar. È una cosa viva e per questo riesce difficile descriverla. Cerchiamo di restare sensibili al reale, alla natura, evitando di dare troppo peso alle nostre opinioni. Siamo un nucleo di persone che sentono il problema del vivere, e questo può essere sciolto nella religione e in altre pratiche spirituali, purché queste mantengano un dialogo costante» spiega Samuel, fra i fondatori e oggi responsabile della cantina. Il mondo è confinato in un televisore e i telefoni rimangono in stanza. Ma la storia preme anche sul deserto, e dal kibbutz si sentono le esplosioni di Shizafon, centro d’esercitazione dell’esercito: «Prima mi addentravo di più nelle cose politiche, destra e sinistra» racconta Samuel. «Ora vedo che alcuni si identificano con conflitto e conquista, altri lottano per eliminarne il desiderio. È stata la guerra del 1967 a creare queste perversioni. Ha cambiato la nazione, l’orrore subito in passato si è trasformato in aggressione verso gli altri». Il gong che richiama al pranzo si allarga insieme al rumore sordo dei carrarmati e rende ancor più bizzarra la solitudine del centro culturale, rosa, azzurro e irrispettoso dell’austerità desertica, kitsch e fiabesco, una gigantesca torta di cemento, plastiche e lamiere portata a termine nel 2010, simbolo della quotidiana fatica collettiva trasfigurata in immagine onirica. I laboratori di tessuti, legno e ceramiche hanno dato vita al piccolo museo dove monili, quadri e oggetti d’uso casalingo raccontano la natura e l’essere in relazione. «Non nascono dalla vanità o dal commercio», dice delle sue sculture il carpentiere Maeil Ganour. Le anime di legno si contorcono in genesi bibliche, in zuffe erotiche e violente o abbandoni nello spazio: «Bisogna pensare a lungo per raggiungere ciò che tutti sanno, illuminare nella forma un’esperienza condivisa». Dopo cena la piazza si accende fioca con le lampade colorate, riprende il rito dell’incontro. «Le persone litigano, i problemi esistono. Non mi sento limitato, non credo che in una metropoli il circuito del conoscere sia molto più ampio, e qui il mondo viene a trovarci» dice Eylat, 33 anni da New York, a Neot Semadar da tre anni. «Il venerdì balliamo il magal. Vestite di bianco le persone si dispongono in cerchio. Una prende il centro e si muove, danza libera. Intorno gli altri la imitano. È un teatro collettivo, il contatto degli occhi e dei corpi, la comunità che s’intreccia e si riconosce», spiega Eylat, mentre la piazza si vuota e dal ventre del deserto sale la cupa lingua delle bombe.



PRODUZIONE E SPIRITUALITA'

Il kibbutz di Neot Semadar si trova nel deserto del Negev a sessanta chilometri dalla città costiera di Eilat. È stato fondato nel 1989 da un gruppo di amici con lo scopo di dare origine a una comunità dedicata alla cooperazione e alla creatività nel vivere quotidiano. Oggi i suoi abitanti sono 230, ai quali si aggiungono 60 giovani volontari e 20 salariati. Il kibbutz è amministrato da una blanda struttura gerarchica che ruota ogni quattro anni. La segreteria è composta da un uomo e una donna. L’organizzatore delle attività economiche coordina insieme ai manager specializzati la produzione nei vari comparti. L’agricoltura e l’allevamento sono accompagnate da stabilimenti per la produzione biologica d’olio, vino, latte, formaggi e conserve. I prodotti entrano nel mercato nazionale e riforniscono la cucina del "Pundak Neot Semadar", ristorante, e punto vendita. L’attività viene discussa quotidianamente in assemblee e nei diversi centri lavorativi. Grazie ai pannelli solari Neot Semadar esporta 10 megawatt di energia l’anno. I 25 bambini frequentano le scuole interne fino ai 13 anni, poi vanno alle statali. Il centro culturale interno utilizza il vento del Negev per la refrigerazione. Poche le regole: silenzio, collaborazione, libera e incessante indagine spirituale sul rapporto fra uomini e natura. (L.F.)