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Majorana
13-08-10, 00:58
Lenin fu portato al potere non da una forza, ma dalla liquefazione della società russa

Gli Stati, dice Machiavelli ne «Il Principe», possono essere essenzialmente di due specie: nuovi o ereditari: quindi, ereditaria fu la Russia imperiale di Nicola II Romanov; nuova, nel senso di conquistata con la forza, l’Unione Sovietica di Lenin.
Lenin conquistò lo Stato russo e vi insediò la dittatura bolscevica sull’onda di una forza autentica, popolare; o piuttosto per l’inerzia e la dissoluzione della società nell’estate e nell’autunno del 1917, e soprattutto per la totale insipienza della leadership socialdemocratica, che, pur godendo di un vastissimo seguito popolare, non seppe trasformarsi in classe politica dirigente nei tempi rapidi che sarebbero stati necessari?
Ci eravamo già posti, in più occasioni questo interrogativo, e specialmente in «La Rivoluzione d’Ottobre era inevitabile? Ma, soprattutto, fu una rivoluzione?» (consultabile sul sito di Arianna Editrice e su quello di Arsmilitaris); ed eravamo giunti alla conclusione che l’abilità di Lenin - non diremo dei quadri dirigenti bolscevichi, poiché egli si trovò quasi solo a sostenere la propria linea - fu quella di saper cogliere al volo la straordinaria possibilità offertagli da un vuoto di potere che si era venuto a creare da quando il governo Kerenskij non era riuscito a realizzare una sinergia con la forza poderosa, ma disordinata, dei Soviet e ad assicurarsene la fiducia e la fedeltà, specialmente a causa della sue esitazioni circa la riforma agraria e la fatale decisione di proseguire la guerra contro la Germania e l’Austria-Ungheria, al fianco dell’Intesa.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, non solo se la Rivoluzione d’Ottobre fu una rivoluzione o un colpo di Stato, ma se anche la Rivoluzione di Febbraio fu una rivoluzione: strana rivoluzione, infatti, è quella di chi, ereditato il potere da un sistema politico ferito a morte dai propri stessi errori, primo fra tutti la guerra contro gli Imperi Centrali in una situazione di estrema fragilità economica, politica e sociale, non sa fare di meglio che raccoglierne la bandiera e, con qualche lieve modifica nelle parole d’ordine, prosegue nel solco della medesima politica suicida che ha già condotto al tracollo l’assolutismo zarista.
Ciò dimostra che in Russia non esisteva, nel 1917 - né nel Febbraio, né nell’Ottobre - neppure l’embrione di una classe dirigente capace di accollarsi la guida del Paese; e che, inoltre, la “morte della Patria” (in tutto paragonabile a quella che si sarebbe verificato in Italia l’8 settembre del 1943) si era spinta così lontano, che solo un tribuno parolaio e velleitario sembrava ancora capace di tenere unito, in qualche modo, il poco che restava della vacillante società russa, sia civile sia militare.
Kerenskij come Mussolini, allora? Il paragone può sembrare azzardato, ma non è del tutto privo di una sua logica perfettamente plausibile. Mussolini, il fondatore del fascismo, veniva (anzi, verrà, dato che stiamo parlando del 1917) dall’estrema sinistra del Partito Socialista italiano, mentre Kerenskij veniva dall’estrema destra del Partito Socialista Rivoluzionario russo; ma, a parte questo, entrambi facevano appello a un miscuglio di nazionalismo, arditismo, populismo, spirito antiborghese e pura e semplice demagogia.
Entrambi, assai abili con le parole, si ersero a tribuni e salvatori della Patria in pericolo; ma, mentre Mussolini ben vide che il nucleo della sua base politica andava reclutato nella piccola borghesia impoverita e frustrata dalla guerra, rivolgendosi contro gli ex compagni socialisti, imbelli e parolai, Kerenskij, più sentimentale o semplicemente più dilettantesco, non seppe recidere il cordone ombelicale con il socialismo, che, dopo averlo sbalzato al potere, minacciava ormai di travolgerlo; e, dopo essersi ridotto a puntare tutte le sue carte su di un generale cosacco reazionario, Krasnov, per riprendere il controllo del Palazzo d’Inverno, alla fine non vide altra via d’uscita che la fuga all’estero, mentre nei socialdemocratici, che lo avevano sostanzialmente ripudiato, si accentuava il processo di disgregazione interna che sarebbe culminato nello scioglimento dell’Assemblea Costituente - ove erano largamente maggioritari - da parte dei bolscevichi, con la minaccia della forza, il 7 gennaio 1918.
Ha scritto Enzo Bettiza nella sua pregevole monografia «Il mistero di Lenin. Per un’antropologia dell’homo bolscevicus» (Milano, Rizzoli, 1982, 1988, pp. 269-73):

«Il travaglio antropologico che vedrà alla fine l’homo bolscevicus trasformarsi in spettro, ha per matrice il caso, per ostetrico Leni, per sfondo il vuoto. Quanto accade in Russia dopo il febbraio 1917, osserva Besançon, non riproduce che in apparenza “la dérive des Girondins vers les Jacobins”: Certamente si assiste anche a Pietrogrado, per qualche mese, alla riproduzione accelerata e contratta di quella classica deriva verso sinistra che già aveva caratterizzato le rivoluzioni occidentali. Ma il fatto centrale, nello sconvolgimento russo, non è tanto la sua veloce radicalizzazione politica a sinistra. È, soprattutto, la liquidazione completa della società civile. I contadini che regrediscono al’economia naturale, l’inflazione che inghiotte il rublo, la produzione che s’arresta, la classe operaia che torna a imbarbarirsi alla campagna, la nobiltà terriera che sparisce, i soldati che disertano, la borghesia imprenditoriale che precipita nella rovina e nella disoccupazione, le etnie periferiche che si separano dal corpo smembrato dell’impero: è questo vuoto che condiziona il corso anomalo della rivoluzione russa ed è attraverso di esso che l’homo bolscevicus entra nello stadio adulto della sua metamorfosi genetica.
Il processo di dissoluzione sociale che lo circonda, e che per contrasto sembra conferirgli una consistenza fisica superiore a quella che in realtà possiede, , non solo è inarrestabile e continuo. È anche, in rapporto alla sua volontà politica, casuale. La Russia s’inabissa da sé nel vuoto, spintavi da una sorta di collasso biologico che si compie all’esterno di qualsiasi premeditazione rivoluzionaria.» Incominciato dopo il duplice fallimento liberale e conservatore con la grande guerra, accelerato col febbraio 1917, quello straordinario suicidio sociale in massa non s’arresta neanche col putsch d’ottobre. Cesserà appena nella seconda metà del 1918 e negli anni seguenti. Soltanto a partire dal settembre del 1918 potrà realizzarsi nella pratica il modello leninista, il partito monolitico e burocratico, lo stesso che vediamo ancora oggi al vertice della piramide totalitaria sovietica [nel 1982]. […]
Insomma, neppure il colpo di mano leninista riesce a tracciare uno spartiacque netto nello sfacelo che s’era iniziato prima dell’ottobre e che continuerà dopo l’ottobre. Lo schema convenzionale, secondo cui si sarebbero verificate in Russia due rivoluzioni consecutive, quella “borghese” di febbraio e quella “proletaria” d’ottobre, è sostanzialmente fittizio. La bella immagine delle due rivoluzioni che entrano l’una dopo l’altra nell’orbita della storia, “come un missile a due stadi”, è troppo armoniosa per essere vera.
La rivoluzione detta “borghese” non fu che un gioco di fantasmi. Nel momento in cui la monarchia cede il potere alla società civile, questa non è nemmeno in grado di raccattarlo. Non è capace di muovere un dito, anche se s’illude di agitare ambedue le braccia I liberali di febbraio, ottimisti nonostante le mille difficoltà che consiglierebbero almeno qualche serio dubbio, credono che la rivoluzione sia finita prima d’incominciare. Agiscono come se compito precipuo del governo provvisorio emerso dalla dissoluzione della monarchia, sia quello di sia quello di vincere la guerra e persino di collezionare qualche conquista territoriale. Non meno ciechi appaiono i socialisti moderati, che succederanno ai liberali nella guida del governo; pensano che la rivoluzione debba completarsi nella democrazia diretta dei soviet, coinvolgendo le masse, dopo di che la Russia potrà trionfalmente riprendere la marcia interrotta nel 1913 verso il socialismo e la libertà. Non avvertono che quel “maledetto anno quattordici” è qualcosa di più d’un incidente. Non misurano la profondità della scissura, non percepiscono la svolta senza ritorno, non vedono la deviazione fatale, che essi stessi hanno imboccato, dal corso di una normale rivoluzione democratica.
La cecità combinata a tratti con la più spensierata euforia, era generale. Nessuno riusciva a comprendere ciò che realmente accadeva. […]
In quelle circostanze bloccate, forse la sola soluzione possibile sarebbe potuta essere la maturazione d’un processo di “fascistizzazione” , del resto incipiente, anche se inconsapevole, all’interno del partito socialrivoluzionario. Si trattava di un partito acefalo, magmatico, disorganizzato, ma maggioritario sul piano nazionale, che arruolava nelle sue file nomi di grande prestigio popolare come Černov, Savinkov, Avksent’ev, Kamkov, Ekaterina Breško-Breškovskaja, Marija Spiridonova. […]
Andrea caffi, che aveva conosciuto davvicino il composito universo socialrivoluzionario, osservava che “come idee, come composizione, come tattica, era veramente il partito più amorfo che mai si sia veduto. Si era ingigantito per semplice inflazione: si trovò subito impotente dinanzi ai compiti precisi della politica governativa, incapace di disciplinarsi, di stabilire un accordo fattivo nelle proprie file. La sua scomposizione procedete quindi rapida e inesorabile”. Scritte nel 1918, queste acute parole sembravano preannunciare un fenomeno che, incompiuto in Russia, fra qualche anno avrebbe dati vita alla sequela dei partiti fascisti o parafascisiti in Italia, in Polonia, in Germania. Unico appoggio di simili organismi popolari e abnormi, ammoniva caffi, è il beneplacito di moltitudini fideistiche che sciolte da ogni legame drastico e serio con l’organizzazione, “si accontentano di acclamarne all’ingrosso le idee e gli uomini rappresentativi”. Tale contagioso consenso di massa, fluttuante come la febbre, stimolato con le “eccitazioni crescenti” della demagogia, diventa “l’alimento quotidiano la catena da forzato , l’unica ragion d’essere del partito”. Il tribuno, l’agitatore da palcoscenico alla Lamartine, ne è il capo naturale. Per mantenersi a galla, egli dovrà con tutte le sue forze aggrapparsi al favore della piazza, rincarando gli “eccitanti” ogni giorno di più, “finché un supremo delirio non si risolverà in catastrofe”. Attraverso il ritratto do codesto nuovo esemplare di capopopolo esagitato e carismatico sembra d’intravedere in filigrana, al di là del socialista Kerenskij, anche i contorni di qualche altro socialista, o ex socialista, destinato a lasciare un solco nella storia dell’Europa contemporanea […]
La “fascistizzazione” della Russia che era nel novero delle ipotesi, non s’avvera comunque per una serie di motivi. Lo stato di decomposizione della società è così avanzato che nemmeno l’avvento, non del tutto impossibile, di una semidittatura nazionalista e sinistreggiante favorita dagli impulsi plateali di Kerenskij, riesce ad attecchire fra il 1917 e il 1918.»

Si capisce che agli storici di tendenza marxista, hegeliani di stretta osservanza, sia sempre piaciuto presentare la Rivoluzione d’Ottobre come un esempio classico di “necessità storica”, secondo il vecchio motto idealista: «tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale»; un po’ meno si capisce come mai gran parte degli storici di diversa formazione culturale abbiano supinamente accettato o avallato questa ricostruzione tendenziosa dei fatti.
O forse non è nemmeno tanto strano: fino agli anni Settanta e perfino agli anni Ottanta, con Gorbaciov, sembrava che il Progresso avesse un nome soltanto: marxismo; e che fosse cosa logica e saggia abituarsi all’idea che, prima o poi, il Verbo marxista si sarebbe incarnato ovunque, mettendo fuori dalla storia («nell’immondezzaio della storia», per usare la gentile espressione di Trotzkij) quanti non fossero stati sufficientemente svelti a riconoscerne l’incontrovertibile verità e l’immancabile vittoria finale.
Con ciò non vogliamo dire che tutti o quasi tutti gli storici non marxisti fossero servilmente preoccupati di prenotarsi una nicchia di sopravvivenza nella futura società comunista, compiendo verso di essa un atto di omaggio formale, sin che erano in tempo; ma che essi abbiano subito il ricatto e, perché no, anche il fascino, di una ideologia che sembrava diversa da tutte le altre, perché l’unica destinata inverarsi, mostrando la falsità e la caducità di ciascuna. A nessun intellettuale piace l’idea di trovarsi del tutto isolato a difendere l’ultima trincea di un paradigma morente; il fascino dell’idea di progresso, almeno a partire dalla Rivoluzione scientifica del XVII secolo, esercita un richiamo potente, con la sua apparente autoevidenza.
A nessuno piace l’idea di restare indietro, in un mondo che si muove sempre più in fretta; a nessuno piace l’idea di passare per un ottuso aristotelico, quando tutti gli astronomi sono diventati copernicani. Lo storico non fa eccezione alla regola; anzi, egli appartiene ad una categoria d’intellettuali particolarmente sensibile all’idea di progresso come valore evidente in se stesso, quasi quanto lo è lo scienziato.
E poi, si sa, quando un paradigma vince, avviene esattamente ciò che avviene quando uno Stato, o una coalizione di Stati, vince un conflitto militare: tutte le colpe vengono addossate alla parte sconfitta, tutti i meriti vengono rivendicati da quella vittoriosa. Chi si ricorda, ad esempio, che, nella astiosa disputa sulla natura delle comete, portata avanti da Galilei con «Il Saggiatore» contro la «Libra» del gesuita Orazio Grassi, era quest’ultimo ad avere ragione, mentre il campione della scienza moderna aveva torto marcio? Nel mondo della storiografia succede esattamente la stessa cosa. Tutti ricordano, e giustamente, la morte di cinque o sei milioni Ebrei nei lager tedeschi durante la seconda guerra mondiale; ma quanti ricordano la morte per fame di nove milioni di Tedeschi, fra militari e civili, voluta e pianificata dai governi alleati dopo la fine del conflitto, giungendo a proibire la spedizione in Germania dei pacchi della Croce Rossa internazionale e di altre organizzazioni umanitarie?
Ma torniamo a Bettiza e alla Rivoluzione d’Ottobre.
Sì: l’homo bolscevicus è stato veramente un nuovo tipo antropologico: l’ultimo, per fortuna, almeno in Occidente, che abbia preteso di portare il Paradiso in Terra agli uomini, volenti o nolenti, con dei metodi che nemmeno lo zarismo più reazionario avrebbe mai osato immaginare, non che tentare di attuarli.
Se il suo folle progetto ha potuto realizzarsi in un grande Paese come la Russia, e svolgere la funzione di richiamo ideologico per i lavoratori di mezzo mondo, nel corso di oltre mezzo secolo, ciò è stato reso possibile non dalla forza delle sue idee, ma, al contrario, dalla loro estrema rozzezza e povertà: un Vangelo per teste desiderose di non pensare, per occhi desiderosi di non vedere, per orecchi desiderosi di non udire; in beve: una grande, collettiva, gigantesca fuga dalla libertà (come avrebbe detto Erich Fromm).
E anche perché la società russa, in quel momento, era talmente esausta e liquefatta, che il potere era a portata di mano di qualunque avventuriero avesse avuto l’audacia di allungare la mano per afferrarlo; non fu cosa da avventuriero il rientro di Lenin in Russia su di un treno tedesco, con denaro tedesco, per provocare la sconfitta e la resa della sua nazione? Ah, certo, stavamo dimenticando: i “veri” comunisti non hanno nazione, non hanno patria.
Anche il mondo della tarda modernità ha conosciuto un processo di destrutturazione spirituale e di liquefazione dei valori fondanti: solo così si spiega il fascino sinistro, al limite dell’incantamento, esercitato dal marxismo, già vistosamente fallimentare in Unione Sovietica, su centinaia di milioni di Cinesi, Indonesiani, Indocinesi, Europei, Africani e Latino-americani; solo così si spiega l’assurdo mito di Marx, Lenin, Stalin, Mao, visti addirittura come simboli di libertà ed emancipazione: proprio loro, i teorici e i realizzatori dei gulag, delle purghe, delle “rivoluzioni culturali” che sono costate milioni di morti, dei genocidi sistematici (come nel caso dei Khmer rossi in Cambogia).
Di quel processo di destrutturazione, la responsabilità maggiore ricade sulla classe borghese, che, da quando ha fatto la sua comparsa in Europa - nella persona dei mercanti e dei banchieri dei comuni italiani e fiamminghi, nel basso Medioevo - non ha fatto altro che distruggere il bisogno di trascendenza, proprio dell’uomo, per sostituirlo con la smania del guadagno, del denaro, delle cose. Lo spirito del capitalismo ha trionfato, ma ha generato, per reazione, orribili mostri; ed altri ne sorgeranno, fino a quando non si tornerà ad una concezione più umana dell’uomo.
Una concezione che non veda in lui soltanto l’animale da preda, il rapace pronto a piombare sull’altro uomo, su tutti i viventi, sulle risorse della terra, come un nemico e un padrone assoluto (concezione che capitalismo e marxismo condividono in pieno); ma che sappia inserirsi umilmente, armoniosamente, amorevolmente, nella complessa trama del reale, riconoscendo in se stesso l’autenticità della propria vocazione alla pace e allo splendore dell’Essere.


Lenin fu portato al potere non da una forza, ma dalla liquefazione della società russa, Francesco Lamendola (http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=31807)

Legionario
06-02-11, 20:48
Assolutamente d'accordo con l'autore (peraltro molto preparato) sul ruolo di agente di forze oscure molto piu' potenti - che agiranno prima, durante e dopo l'avvento della rivoluzione giudeo-bolscevica nella Russia zarista - che saranno le principali alleate del fondatore dell'URSS e dei despoti, mezzi ebrei, che continueranno per 70 anni a spargere il terrore in nome di quell'ideologia perversa e criminale chiamata comunismo: la Massoneria, la Finanza internazionale, molti borghesi e conservatori dell'Occidente e soprattutto la massa di diseredati e paria che anelavano a sovvertire l'ordinamento sociale per arrivare al vertice della piramide del potere.
La rivoluzione comunista in Russia fu uno dei piu' drammatici esperimenti , quasi un laboratorio sociale, compiuti da una casta di eletti ai danni del popolo russo.

Freezer
06-02-11, 21:28
La rivoluzione comunista in Russia fu uno dei piu' drammatici esperimenti , quasi un laboratorio sociale, compiuti da una casta di eletti ai danni del popolo russo.

Direi un fornello alchemico, visto e considerato che questi son impregnati d'esoterismo nel loro modo di fare ed agire da quel che mi consta :giagia: .E da quel che esce dai fornelli alchemici non mi aspetto mai nulla di buono :paura: .