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Visualizza Versione Completa : Ricordo di Casalegno (1977)



Frescobaldi
29-11-17, 23:47
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“La Stampa”, 30 novembre 1977 (col titolo “L’erede di Burzio e di Salvatorelli”). Poi in G. Spadolini, “L’Italia della ragione. Lotta politica e cultura nel Novecento”, Le Monnier, Firenze 1978, pp. 558-562.


Pochi mesi fa, in uno dei frequenti incontri che avevo con lui, a Roma o a Torino, Carlo Casalegno mi aveva parlato ampiamente del nuovo libro cui stava lavorando da anni, ma che aveva compiuto pochissimi progressi nella stesura, almeno nei tempi recenti, soverchiati dall’impegno giornalistico ogni giorno crescente, quasi in rapporto diretto alla degradazione civile e sociale del nostro paese. Era un volume su Pio IX, il Papa amletico e contraddittorio che questo laico intrepido aveva scelto quasi a simbolo delle antinomie nazionali. Argomento che lo affascinava da molto tempo così come lo affascinava tutta la tematica del Risorgimento, e dell’anti-Risorgimento.
L’origine e la vibrazione quasi gobettiane di Casalegno non lo avevano mai allontanato dai problemi dell’ “altra” Italia, di quella conservatrice o reazionaria, che il riscatto nazionale aveva debellato solo in superficie. Non a caso, più di vent’anni fa, aveva dedicato il suo primo e purtroppo unico libro di storia ad una figura in qualche misura emblematica dell’ “altra Italia”, di quella degli sconfitti, dell’Italia illiberale e clericaleggiante dalla quale pochi uomini come Casalegno erano lontanissimi nello spirito e nell’animazione ideale ma che egualmente compendiava un mondo e una società, la regina Margherita. Piccolo e compiuto libro einaudiano, che affrontava il personaggio con spirito critico e penetrante, lacerando tutte le menzogne dell’agiografia di corte e inquadrando la sovrana bigotta, crispina e intransigente in una prospettiva illuminata dai meschini retroscena delle lotte dinastiche o delle rivalità patrizie. Scrittore di rara eleganza, non senza assidue frequentazioni della storiografia anglosassone, Casalegno era riuscito a rendere l’epoca della regina Margherita con una vena distaccata che sapeva essere dissacrante senza i rigori del manicheismo e nessuna indulgenza alla predicazione.
Storico e giornalista, insieme. Professore e giornalista allo stesso tempo, Carlo Casalegno. Fin dalla Stampa di De Benedetti, tutti lo chiamavano il “professore”, e in un senso non derisorio, non dispregiativo, come talvolta accade nel mondo giornalistico. Piuttosto in un senso che sembrava richiamare il giornalismo di una città che egli ha molto amato, dove ha compiuto una delle sue ultime e più belle missioni giornalistiche, quelle per la sfida degli autonomi e degli extraparlamentari nell’ottobre ’77, Bologna, la Bologna del vecchio Carlino carducciano che in qualche modo aveva popolato l’autunno estremo della regina Margherita, l’ “eterno femminino regale” idealizzato dal poeta già giambico e già repubblicano. Solo al Carlino di una volta si poteva sentir parlare di un “professore-giornalista” come nella Stampa dell’immediato dopoguerra, nei confronti di Casalegno.
In questo senso l’amico e compagno di tante battaglie, che è caduto vittima della follia terrorista, si ricollegava a una tradizione di studi severi che nella Stampa ha sempre avuto rappresentanti eminenti e vorrei dire connaturali, la tradizione dei Burzio e dei Salvatorelli. Più ancora di Salvatorelli che non di Bruzio: per l’assoluta mancanza, in Casalegno come nel più vecchio maestro, di ogni intonazione profetica, per il senso asciutto del reale, per il culto dell’oggettivo, per l’amore del particolare, per la capacità di vivere nel presente la storia, senza enfasi e senza declamazione, con alta e impegnata e quasi discreta e sommessa coscienza, sempre illuminata dalla ragione.
Di Salvatorelli Casalegno conservava veramente qualcosa di inimitabile, la stessa capacità di improvvisare un articolo sui temi più ardui della politica internazionale, con rigore di documentazione e con assoluta, quasi infallibile precisione di giudizio. In un’intervista successiva al ferimento di Carlo, Giovannini ha ricordato come l’allora collega di lavoro della Stampa avesse costruito un intero servizio che egli non aveva potuto dettare, sulla base di pochissime parole strappate a un telefono non funzionante.
Come tutti gli uomini di cultura vera, dissipatori del proprio patrimonio intellettuale quasi per un alto e contenuto orgoglio, Casalegno si piegava alle funzioni più modeste, non conosceva nessuna delle jattanze o delle superbie che troppe volte hanno caratterizzato la più recente leva dei giornalisti italiani. Poteva fare tutto, e tutto con lo stesso impegno, con la stessa umiltà, con lo stesso superiore distacco: nella terza pagina ma non solo in quella. Portava sempre, nella missione giornalistica, lo scrupolo dell’uomo di studi, dell’antico professore del torinese D’Azeglio educato ai licei di una volta; portava sempre, nelle analisi culturali cui ogni tanto riusciva a dedicarsi (troppo poco, per uno studioso di questo talento), una volontà di comunicazione col pubblico, un amore della chiarezza che derivavano direttamente dal giornalismo, dal severo e coerente impegno giornalistico, vissuto “in scrinio pectoris” e senza ostentazioni, senza privilegi di sorta.
Perciò amava sempre pagare di persona: nella cultura non meno che nella politica. Figlio di una tradizione culturale tutt’altro che “moderata” (parola che è stata sprecata, con qualche ingiustizia e improprietà, nei giorni successivi all’atroce ferimento, che poi lo ha condotto alla morte), figlio di quella cultura laica autenticamente progressista, dove l’eredità del partito d’azione si fondeva con la coscienza di una continuità del Risorgimento (magari del “Risorgimento senza eroi”, di gobettiana memoria e di casa per un piemontese come lui), Casalegno non è stato mai uomo di mode, mai incline alle improvvisazioni o alle fatuità degli “idola fori”, compresi quelli di una certa contestazione. Che egli seppe giudicare, con chiarezza e quando necessario con forza, dal 1968 in avanti: in una lunga serie di articoli, di corsivi, di interventi che obbediscono a un’intima logica, a un filo sempre coerente, quasi testimonianza di una posizione illuminata e purtroppo precorritrice degli sbocchi funesti cui sarebbe arrivata la miscela esplosiva di certi contrapposti estremismi, riuniti dal comune rifiuto dello Stato democratico e delle regole della tolleranza. Vogliamo rileggere una delle ultime rubriche del “nostro stato”, quella intitolata il 26 ottobre 1977 “rossi neri chiudere i covi”? Ritorno ad un motivo che ci aveva accomunato in battaglie di anni non lontani, il motivo delle “guardie rosse e guardie nere”, la coscienza dei travasi costanti e insondabili fra i due terrorismi, quasi evocanti gli irrazionalismi dei primi del secolo, figli o nipoti di altre allucinazioni e di altri equivoci devastatori.
Pochi uomini hanno avuto come Casalegno, nel giornalismo di questi trent’anni, un culto così alto e geloso della ragione. Illuminista senza illusioni; laico senza manicheismi; democratico senza infatuazioni e senza inclinazioni giacobine. Tanto credente nella ragione da non conoscere neanche il sentimento della paura fisica, da rifiutare, negli ultimi spietati tempi, il consiglio di prudenza degli amici, dei colleghi, del suo direttore.
Preso da una passione giornalistica e politica potente, anche se formalmente rattenuta, Casalegno non ha potuto lasciarci intera la misura delle proprie doti di storico e di umanista. Ma le centinaia di recensioni e di articoli sparsi, e non soltanto sulla Stampa, in tema di storia del Risorgimento e dell’Italia post-unitaria confermano una tempra di storico, una lucidità di analista della realtà sociale e psicologia dell’Italia, che non sfuggì mai ai suoi vecchi compagni di passione civile e di passione storica, i Venturi, i Galante Garrone, prima ancora i Maturi.
Paolo Spriano rievocava quell’attività di Casalegno in un articolo commosso, uscito sull’Unità subito dopo l’attentato. Vorremmo aggiungere, al riconoscimento di Spriano, l’auspicio che qualcuno di noi riesca a raccogliere quegli articoli, a riordinarli in un omaggio allo storico della vita italiana, storico nel vivo della lotta, osservatore disincantato fino alla testimonianza suprema.
Casalegno ha pagato con la vita la fede nella tolleranza. Sempre inseparabile dall’indagine storica, e dal mestiere di storico. Torna in mente quanto scriveva Droysen, nel manuale di Istorica: “soltanto la coscienza è per ciascuno l’assolutamente certo, la sua verità e l’epicentro del suo mondo”. Quasi a parafrasare Fichte: “la coscienza è il raggio, lungo il quale prendiamo le mosse dall’Infinito”.


Giovanni Spadolini