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Visualizza Versione Completa : “Scuola di classe. Perché la scuola funziona solo per chi non ne ha bisogno” di Rober



MaIn
02-12-17, 13:56
https://www.pandorarivista.it/articoli/una-scuola-culturalmente-classista/2/

Detto questo quali sono secondo Contessi i mali della scuola? E da dove scaturiscono? Innanzitutto uno: «il tempo scuola non è quasi mai in grado di colmare le diseguaglianze di partenza e si limita, così, a certificarle» (p.VII). La scuola è in altre parole classista poiché non riesce, alla fine del percorso predisposto, a colmare in qualche modo le differenze di partenza degli alunni. In questo senso più che un ascensore sociale è un nastro trasportatore che si limita ad accompagnare gli alunni nel loro percorso di crescita, non riuscendo ad influire davvero sulle possibilità che questi avranno di riuscire nella vita una volta terminato il ciclo scolastico. Se questo è il punto di partenza, come l’istituzione prova – e riesce – ad aggirare l’evidenza del proprio fallimento? Attraverso quella che dalle pagine del libro di Contessi emerge nei termini di una soluzione tanto perversa, quanto dannosa per la pubblica utilità: «il sistema scolastico tende a fornire diplomi facili a tutti coloro che frequentano, svuotando i titoli di peso reale, così da condannare i meno dotati alla disoccupazione, all’intermittenza professionale, come pure al clientelismo e all’incapacità dirigenziale» (p. VIII). In altre parole, secondo l’Autore, la scuola italiana aggirerebbe l’incapacità di rimediare alle disuguaglianze in entrata tra gli alunni attraverso una perversa forma di classismo, quella che attraverso la concessione indistinta del diploma omologa tutti. Contessi parla di emissione di «titoli di studio fasulli» (IX) che producono la perdita di valore della certificazione e, con essa, la riproduzione di quelle diseguaglianze di partenza che dovrebbero invece essere limitate. Difficile mettere in discussione il dato di partenza da cui muove l’Autore: la scuola di oggi tende a promuovere indistintamente (quasi) tutti e di certo molto più che in passato.
I dati del Miur[1] relativi al 2015-2016 dicono che nella scuola primaria il tasso di bocciature è dello 0,2%, (tanto per dire, all’epoca di don Milani era circa del 16%); nella scuola media (la secondaria di primo grado) è del 3% nei primi due anni, mentre i non ammessi all’esame sono il 2,4%; il tasso relativo ai bocciati all’esame finale è dello 0,2%[2]. Nella secondaria di secondo grado, quella cui si riferisce essenzialmente Contessi, il tasso di bocciati nei quattro anni è del 9,2%, mentre i non ammessi all’esame di Stato sono il 4% del totale degli iscritti e i rimandati all’esame finale lo 0,5% degli ammessi[3]. Pur con tutte le ulteriori precisazioni, ripartizioni, analisi delle differenze, la tesi di Contessi sembra difficilmente discutibile: nella scuola italiana vige un regime di «promozione di massa» (p.IX). È la strategia adottata dalla scuola per gestire ciò che «i sociologi chiamano “scolarizzazione di massa”, cioè quel fenomeno per cui l’istruzione non è più appannaggio solo di un risicato 10%» (p.7) della popolazione – come è fino al secondo conflitto mondiale-, ma riguarda il 90 % della popolazione giovanile italiana. «Il problema è stato essenzialmente quantitativo– osserva Contessi -: quando i tuoi iscritti annuali toccano più di 11 milioni, come nel decennio 1980-1990, devi disincentivare un meccanismo piramidale che utilizza la bocciatura come sistema di selezione, altrimenti finisci per ritrovarti a gestire un’espulsione scolastica di massa» (p.8). Il problema è che a ciò non ha fatto seguito alcuna strategia chiara, piuttosto si è adottato il modello emergenziale secondo cui ogni nuovo ministro ha inaugurato la propria riforma e la propria fase di sperimentazione, destinate a naufragare al successivo cambio di governo.
Tra gli effetti della scuola di massa c’è anche un mutamento nella sensibilità comune che ha, lentamente, reso obsoleto e politicamente insostenibile «un sistema scolastico esclusivo» (p.12). A fronte di ciò, però, non sono state varate politiche di lungo respiro in grado di traghettare la scuola da un regime selettivo a uno veramente inclusivo. Le ragioni sono diverse e riguardano la storia politica italiana, fatta di «crisi di governo repentine, con cambi altrettanto frequenti di vertici ministeriali» (p.13), ma anche il patrimonio ideologico dei docenti, nonché l’eredità culturale del sistema educativo in cui sono stati formati. Un ruolo non secondario lo hanno poi elementi antropologici, sociali, culturali che determinano l’immaginario collettivo – non soltanto quello dei docenti – ma anche ragioni di bilancio che hanno considerato il sistema di istruzione nei termini di una spesa dolorosamente necessaria, ma in fondo infruttuosa, piuttosto che un’occasione di investimento in ordine al futuro della nazione. Tutto ciò ha concorso a determinare quella che Contessi definisce «l’istituzione del titolo di studio popolare, ovvero una certificazione di bassa qualità destinata ai ceti meno abbienti o meno colti per facilitare una collocazione scolastica» (p.15).
Insomma, un diploma non si nega più a (quasi) nessuno e così, almeno superficialmente, si è demolita l’idea di una scuola selettiva, elitaria e non inclusiva. Come è ovvio, però, questa è soltanto una pessima strategia adottata in un regime di assenza-di-politica, vale a dire di indicazioni chiare sul futuro, di prospettive e di strumenti attraverso cui raggiungere gli obiettivi prefissati. E anche il fenomeno degli abbandoni scolastici, ampiamente sottostimato, non deve essere considerato come un elemento in contraddizione con questa piega assunta dalla scuola italiana, quanto il suo osceno completamento, andando a certificare una convinzione sempre più diffusa nell’opinione comune e nei giovani: la scuola non serve a niente! Questa situazione determina una forma di classismo culturale perché in questa realtà a fare la differenza sono le famiglie. Da una parte quelle «che sostengono il valore della formazione come possibilità di autonomia nelle scelte di vita» (p.17), dall’altra «quelle secondo cui coltivare stili di vita che conducano all’autodeterminazione non è un valore. I ragazzi fragili – dice Contessi – sono ben spesso figli di famiglie benestanti – quindi il problema non è innanzitutto economico -, cui la formazione non interessa e secondo le quali la scuola non serve a nulla e i ragazzi vanno lasciati crescere a briglia sciolta, senza regole o disciplina». (pp.17-18). In ordine a ciò i ragazzi più fragili sono quindi quelli che non supportati dalla scuola, ma appena tollerati attraverso una politica di rapida uscita che si conclude con un diploma inutile, non hanno chi si prende cura del loro percorso formativo. Al posto del rigore, del metodo e della chiarezza riguardo agli obiettivi da raggiungere, dalla scuola ottengono voti gonfiati e certificati inutili.
Questo «percorso low quality si basa sulla connivenza di tutte le componenti in campo. Esiste un patto del silenzio diffuso tra professori, presidi, alunni e genitori, che concordemente accettano la realtà del “titolo di studio popolare”» (p.20). Un patto rafforzato da politiche che premiano, attraverso la concessione di fondi, le scuole in cui si registra lo scarto minore tra il numero di iscritti e i diplomati (p.25). Ma quali sono le strategie che concretamente concorrono a determinare quello che l’Autore definisce un patto del silenzio diffuso? Innanzitutto l’utilizzo di strumenti di valutazione alterati (p.33) e poi l’interrogazione programmata che «uccide la gradualità sia dell’apprendimento sia della valutazione e, per il modo in cui spesso viene usata, affossa chi è in difficoltà e premia solo chi è già solido e abituato all’applicazione (p.34). Questo per l’ovvia ragione che la logica che tiene in piedi il meccanismo pregiudica «la fase di apprendimento passo dopo passo, lo studio progressivo e l’esperienza del provare/sbagliare/riprovare» (p.34). Non c’è possibilità di consolidare le conoscenze apprese, né un metodo di studio consapevole, ma soprattutto non c’è così possibilità di sviluppare la benché minima passione disciplinare.