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Visualizza Versione Completa : Bobbio: "Sono razzisti gli italiani?" (1992)



Frescobaldi
03-12-17, 19:51
“La Stampa”, 27 dicembre 1992


L’anno finisce con la preoccupazione, tra mille altre, per il moltiplicarsi di atti di razzismo, più o meno violenti, nei riguardi di ebrei e di immigrati. Il prossimo anno, c’è da aspettarselo, sarà peggio. L’afflusso di poveri, provenienti da diverse parti del mondo verso paesi più ricchi sarà un fenomeno che dominerà la scena politica almeno per qualche decennio: aggravato dal fatto che all’emigrazione dai paesi del Terzo Mondo, cui siamo preparati da tempo, si aggiungerà l’afflusso, prevedibilmente sempre più intenso, di poveri o senza lavoro dai paesi dell’Est, che sino a pochi anni fa chiamavamo il Secondo Mondo.
I “mondi” di partenza aumentano, ma di mondi cui sembra possibile arrivare pare che ce ne sia più soltanto uno. Con questa differenza rispetto al passato: che la grande emigrazione del secolo scorso si dirigeva verso terre quasi spopolate; quella di oggi, al contrario, giunge a paesi tra i più popolati della Terra. Di fronte a un’immigrazione di massa i problemi che deve affrontare un paese popoloso come l’Italia sono ben diversi da quelli cui si trova di fronte l’Australia. La necessità del popolo ospitante di convivere improvvisamente e imprevedibilmente con gente di cui si conoscono poco i costumi, per nulla la lingua, coi quali si riesce a comunicare con poche parole e in genere storpiate (“vu’ cumprà?”) genera inevitabilmente (sottolineo, “inevitabilmente”) atteggiamenti di diffidenza che vanno dal dileggio verbale al rifiuto dell’accettazione forzata, con conseguente segregazione, all’aggressione. Serpeggia ormai da anni la domanda, cui cercano di dare risposte sondaggi ed inchieste: “Gli italiani sono razzisti?”. La domanda è retorica. Ci sarebbe da stupire se in queste circostanze non lo fossero. Il razzismo non piove dall’alto e non è un atteggiamento astratto che si manifesti indipendentemente da certe situazioni.
Il razzismo, inteso come diffidenza o avversione rispetto al diverso, ha come presupposto e condizione preliminare forme più o meno gravi, ma immancabili in ogni gruppo etnico, di etnocentrismo, vale a dire, per definirlo come Tzvetan Todovov, autore di un denso libro, Noi e gli altri, tradotto recentemente da Einaudi, quell’atteggiamento di “noi” verso gli “altri” che “consiste nell’elevare in modo indebito i valori caratteristici della società alla quale appartengo a valori universali”, anche quando, aggiungo io, questi valori sono tratti da costumi particolaristici, in base ai quali è scorretto, per non dire ridicolo, giudicare la superiorità di un popolo rispetto a un altro (a tutti è nota la caccia dell’italiano all’estero del caffè espresso o degli spaghetti).
Ogni popolo considera se stesso civile e condanna gli altri come barbari: giudizio talmente comune, che soffre di una circolare reciprocità visto dall’altro, ogni popolo ha i suoi tratti ben visibili di barbarie. È di rito la citazione di un brano di Montaigne: “Ogni nazione ha molti usi e costumi, che per qualsiasi altra nazione non sono soltanto strani ma stupefacenti e barbarici. Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi”. Gli italiani non sono da meno. Sarebbe strano che non lo fossero. Sono gonfi e rigonfi di pregiudizi etnocentrici, anche nei rapporti tra una regione e l’altra del nostro paese. I meridionali che sono venuti a cercare lavoro a Torino ne sanno qualche cosa.
Non c’è nulla di così duro a morire come il pregiudizio, perché il superamento di un pregiudizio razziale importa il mettersi dalla parte dell’altro, ma è proprio lo stesso pregiudizio che lo rende difficile. In una ricerca recente, condotta con serietà e impegno dall’Ires sull’immigrazione in Piemonte, è impressionante vedere che gli stereotipi con cui vengono giudicati gli extra comunitari sono quasi sempre i medesimi che correvano fra i torinesi al momento della grande immigrazione dal Sud: “Invadono il nostro territorio”, “sono scansafatiche”, “sono inferiori e differenti”.
Ma l’etnocentrismo non basta per creare fenomeni di attrito, cui diamo, spesso in modo allarmistico, il nome di “razzismo”, che più correttamente si potrebbe chiamare “xenofobia”. Occorre anche una condizione materiale, che ha a che fare non con sentimenti ma con interessi ben precisi: il venire in rapporto diretto e quotidiano, quindi essere in condizione di osservarsi reciprocamente nelle più diverse circostanze della vita. Domandarsi in generale se un popolo è razzista, non ha senso. Mettetelo alla prova e poi vedrete. Certo, ci sono popoli più o meno razzisti. Ma in determinate circostanze tutti lo sono, se non altro per la difesa dei propri interessi. Ma proprio per questo occorre che si verifichino circostanze tali che questi interessi siano seriamente minacciati.
Queste brevi osservazioni servono a rendersi conto realisticamente del fenomeno, e a evitare un falso scandalismo: “Non lo sapevamo, ma gli italiani son razzisti!”. La verità è che si trovano o sono stati messi nelle migliori condizioni per diventarlo. Servono anche a fare una più netta distinzione di quel che si faccia comunemente tra razzismo, xenofobia e antisemitismo. Che in generale un antisemita sia anche xenofobo, non vuol dire che lo xenofobo sia necessariamente antisemita.
L’antisemitismo affonda le radici in tutta la storia dell’Occidente cristiano, ha ben poco a vedere con l’etnocentrismo, è oggi più che mai indipendente da una situazione di difficile convivenza e dalla concorrenza sul mercato del lavoro, giacché gli antisemiti esistono anche là dove di ebrei non ne esistono quasi più. E poi vi sono almeno due figure tipiche dell’antisemitismo tradizionale che non avrebbe alcun senso riferire anche ai problemi sollevati dalla immigrazione di massa, la figura del “capro espiatorio”, che ha tanta parte nella secolare persecuzione degli ebrei, e la figura del complotto ebraico contro i valori universalistici di cui si vanta l’Europa, nel presunto contraddittorio favoreggiamento, da un lato, del capitalismo finanziario universale, dall’altro, dell’esatto suo contrario, il comunismo.
Non meno importante la distinzione fondamentale che di solito manifesta chi corre dietro agli episodi d’intolleranza razziale, tra il razzismo come sentimento spontaneo, come comportamento irriflesso nei riguardi del diverso, come comportamento che ha le sue radici in condizioni obiettive accertabili, e l’ideologia razzista, o il razzismo come ideologia, che pretende in casi estremi di essere addirittura fondato su una teoria scientifica. Tale differenza è da rilevare, perché, se andiamo scoprendo, con una buona dose di ingenuità, che gli italiani sono razzisti, dobbiamo anche prendere atto che nella storia del pensiero razzistico, dove c’è grande posto per studiosi francesi, tedeschi e anche inglesi, l’Italia occupa un piccolissimo spazio.
Per “ideologia razzista” intendo una compiuta visione dell’uomo e della storia che ha dato origine al primo “Stato razziale” della storia, lo Stato nazista, e che si compone di tre princìpi fondamentali: 1) il mondo umano è diviso inesorabilmente in razze diverse, i cui appartenenti si trasmettono biologicamente caratteri essenziali di generazione in generazione senza sostanziali cambiamenti. Di per se stessa, questa tesi può essere innocua. Dal punto di vista pratico la principale conseguenza è lo scoraggiamento, con le buone o con le cattive, del meticciato; 2) non solo vi sono diverse razze ma alcune sono superiori, altre inferiori. Prescindendo dalla difficoltà di stabilire quali siano i criteri di valore che permettano di distinguere che è superiore e chi è inferiore, difficoltà che giunge inevitabilmente al tanto deprecato ma indiscutibile “relativismo etico”, anche questa seconda tesi non ha di per se stessa conseguenze negative. Si può sostenere che, una volta constatato un rapporto tra superiore e inferiore, il primo ha il dovere di proteggere il secondo, di aiutarlo a salire nelle scale dei valori più alti. Sono di questo tipo i rapporti parentali, specie nei confronti di figli minorenni; il rapporto scolastico, e quel rapporto tra governanti e governati che ha dato origine agli Stati, cosiddetti, “paternalistici”; 3) non solo vi sono razze diverse, non solo vi sono razze superiori e inferiori, ma le prime, proprio in quanto superiori, hanno il diritto di dominare le inferiori. Anche se gran parte dell’ideologia colonialistica si è servita del secondo principio, non ha fatto mistero dell’uso costante anche del terzo. Non c’è bisogno di sfogliare il Mein Kampf di Hitler per trovare un bel florilegio di frasi ideologicamente razzistiche. Basta Ernest Renan: “La conquista di un paese di razza inferiore da parte di una razza superiore non ha nulla di sconveniente”.
L’essenza della democrazia è esattamente l’opposto. Nonostante la continua sofferenza di essere costretti a vivere in una democrazia sgangheratissima come la nostra, non ci stancheremo mai di mettere in evidenza i pregi di uno Stato democratico, malgrado le sue magagne, rispetto a tutte le altre forme di governo. Democrazia e razzismo, in tutte le sue manifestazioni, sono incompatibili. Almeno per due ragioni: la democrazia è fondata su valori universali, come la libertà, la giustizia, il rispetto dell’altro, la tolleranza, e soprattutto la non-violenza. Il razzismo è antiliberale, antiegualitario, intollerante, e, nei casi estremi, anche violento. In secondo luogo, la democrazia è inclusiva, nel senso che tende a includere coloro che stanno fuori per allargare anche ad altri i propri benefici.
Il processo di democratizzazione, dal secolo scorso a oggi, è stato un processo graduale d’inclusione dei diversi. Il dispotismo è esclusivo: tende, se mai, a escludere i già inclusi.
Naturalmente non si può includere tutto e tutti, così come non si può tollerare tutto e tutti, ma una democrazia non può essere “esclusiva”, senza rinunciare a essere una “società aperta”.


Norberto Bobbio