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Visualizza Versione Completa : Berto Ricci - Il Fascismo come trasgressione



Avamposto
19-08-10, 11:45
CONFERENZE


Berto Ricci (Firenze 1905 - Bir Gandula 1941) Professore di matematica a Prato, Palermo e Firenze, da giovane si interessò di occultismo ed ebbe simpatie anarchiche.
Aderì al fascismo nel '27. Collaborò a diverse riviste del regime e nel '31 fondò "L'Universale". Oltre a "Il Rosai" ('30), "Poesie" ('30) e a "Corona ferrea" ('33), pubblicò "Lo scrittore italiano" ('31), "Errori del nazionalismo italico ('31) e diede il suo contributo a "Processo alla borghesia" ('39). Combattè in Etiopia nel '37 e, partito volontario allo scoppio della IIª Guerra Mondiale, fu uno dei primi a cadere.
Gli amici pubblicarono postumi gli "Avvisi" tratti da "L'Universale"




Beppe Niccolai

BERTO RICCI - IL FASCISMO COME TRASGRESSIONE



Quello che segue è il testo della conferenza che Beppe Niccolai tenne a Modugno, per il Centro culturale "La Quercia" il 10 dicembre 1988.

Niccolai venne in Terra dì Bari quando già aveva subito una prima, grave avvisaglia dei male che lo avrebbe stroncato appena undici mesi dopo quel nostro indimenticabile incontro.

Il primo desiderio di Beppe, appena giunto a Bari, fu quello di voler recarsi al Sacrario dei Caduti d'Oltremare, ove sono raccolte le spoglie dei nostri soldati morti nel corso dell'ultimo conflitto. Tra esse, vi sono anche quelle del sottotenente di artiglieria Roberto Ricci, caduto in Libia il 2 febbraio 1940.

Con i camerati di Modugno ed i nostri figli accompagnammo Beppe in quel luogo santo, custodito dalla pace degli eroi.

Davanti al piccolo loculo di Berto Ricci, restammo tutti immobili per un minuto che era un'eternità. Beppe Niccolai fissò intensamente, profondamente, quella lapide che celava i resti di Berto.

Fu quello il loro muto, aristocratico arrivederci. Quel "Dio sereno cantato negli anni più forti, ne' giorni più buoni", supplicato da Berto in una sua incomparabile preghiera, attendeva ora anche Beppe Niccolai. E, vicino a quel Dio, lo attendeva Berto Ricci.



Pino Tosca

Berto Ricci (http://www.beppeniccolai.org/Ricci.htm)

Avamposto
19-08-10, 11:46
BEPPE e BERTO - LA LEZIONE DI DUE "ERETICI"



La figura di Beppe Niccolai, spirito eretico ed inquieto, assume oggi più di ieri, una valenza politica notevole: perchè la nostra è una comunità «eretica», non certo «allineata e coperta», alla stessa maniera in cui si collocava Berto Ricci in seno al fascismo.

Chi è e che cosa ha rappresentato Beppe Niccolai all'interno del nostro mondo umano? È stato senz'altro un esempio, un maestro di vita per noi uomini di questi momenti storici e politici attraversati da basse tensioni e da infime passioni.

Ripensando a quanto Beppe Niccolai ha fatto, viene «di dentro» una sorta d'invidia, di quel sentimento in positivo che pervade i giovani e i giovanissimi che, per evidenti condizioni anagrafiche, non hanno potuto vivere quegli entusiasmi e anche quelle amarezze che Beppe Niccolai ha vissuto.

A diciannove anni, ancora studente universitario, egli s'arruola volontario (siamo in guerra, badate, è il '41), ed è fra i primissimi, uno dei primi tre, a correre a Tarquinia dov'è in formazione la divisione Folgore. Quella che è stata l'epopea della Folgore, quello che è stato l'eroismo dei «ragazzi» di El Alamein, che finanche Churchill non esitò ad appellare «i leoni della Folgore» è consegnato alla storia. E Beppe Niccolai fu uno di loro. Dopo tutte le traversie, le sofferenze, i patimenti di «quelli» dell'Africa Settentrionale.

Come per Berto Ricci, volontario anch'egli in Africa Settentrionale, a combattere contro gli Inglesi «di fuori», e in attesa di cimentarsi contro gli inglesi «di dentro», com'ebbe a scrivere in una delle sue ultime lettere alla moglie Mafalda.

Berto Ricci cade a Bir Gandula colpito dal piombo inglese e Beppe Niccolai finisce prigioniero nel 1° Campo di Hereford in mani americane. A Hereford, nel deserto devastato dai tornados del Texas, furono raccolti tutti quei prigionieri che si erano rifiutati di collaborare con gli Alleati. Con Beppe Niccolai, a Hereford, anche se in campi diversi, finiscono Giuseppe Berto (che il scriverà "Il cielo è rosso"), lo scrittore Dante Troisi, il compianto Roberto Mieville che sarà uno dei primi cinque deputati del MSI.

Per sapere cos'è stato Hereford per uomini come Beppe Niccolai, basta leggere una pagina di "Prigionieri nel Texas" scritto da Gaetano Tumiati, giornalista socialista.

«Dagli ultimi di maggio, dopo la fine della guerra in Europa, gli americani hanno cominciato gradualmente a diminuire le razioni. Prima hanno chiuso lo spaccio, poi hanno abolito le salse, il burro, ogni tipo di carne, fresca, congelata o in scatola. Un'altra nuovissima forma di pressione sono le adunate senza scopo. (...) Hanno cominciato in giugno e hanno proseguito per tutta l'estate, di tanto in tanto, senza preavviso e senza senso. Ci radunano tutti là di primo mattino, chiudono il cancello di filo spinato, ci lasciano due sentinelle di guardia e se ne vanno senza dir niente. Di solito ci lasciano quattro o cinque ore, dalle dieci alle tre dei pomeriggio, sotto un sole «africano» che picchia inesorabile sulla pianura. Una volta siamo rimasti tutta la giornata.

Questa era la civiltà d'oltreoceano, di coloro che ci avevano portato la libertà dell'Occidente, la democrazia, che ci avevano liberato. E continuano a farlo con films di Dallas e Dynasty che Beppe Niccolai riteneva distruttivi per l'identità nazionale e indice di omologazione di questo mondo trasformato in «villaggio globale». L'omologazione, per Niccolai, era appunto la cancellazione della memoria. E quando un popolo perde la memoria. cioè perde il senso del passato, non sa più cos'è. Ed è allora che spuntano i due idoli che oggi sono predominanti: il dio danaro e l'economia come destino.

Questa è una delle tesi che sosteneva Niccolai, sfidando le fustigazioni e i roghi di quanti ancora perseguono tesi «miglioriste» di questo sistema. Tesi sostenute con la stessa determinazione con cui, prima di lui, le sostenne Berto Ricci, insieme a tanti altri che, in pieno regime fascista, sfidarono la protervia e la decadenza culturale di molti federali in orbace e stivaloni, usi a pavoneggiarsi con le 643 divise disegnate da Starace e, dopo, a balzare sul carro del vincitore di turno.

C'è un filo che collega Berlo Ricci con Beppe Niccolai. Ricci, coscienza critica del fascismo, Niccolai, coscienza critica del MSI. Eretico l'uno, eretico l'altro, trasgressivi ambedue.

Trasgressivi in che cosa? Eretici perchè? La risposta potrebbe riassumersi in una frase di Marcello Veneziani: «Il Fascismo fu un fascio di eresie».

Eresie non classificabili «di destra» e «di sinistra»: importantissimo quest'assunto nel momento in cui ci si affanna a definirsi «di destra» aggettivata in variegata maniera.

Zeev Sthernell, professore israelita, docente di Scienze Politiche a Gerusalemme e a Parigi, nel suo "Né destra né sinistra" afferma che il Fascismo nasce dall'incontro di due eresie: un radicalismo «di destra», eretico rispetto alla destra moderata e conservatrice che tassa il macinato, fucila i cafoni, cannoneggia il popolo e decora Bava Beccaris; e un radicalismo «di sinistra», eretico rispetto alla sinistra riformista e progressista, pacifista e codarda, che troverà il suo massimo «orgoglio» in Misiano, disertore e perciò deputato socialista, cacciato dal parlamento dai reduci della Trincea delle Frasche e di Doberdò.

Dall'unione di queste eresie nasce il Fascismo. E Beppe Niccolai cosa sosteneva, a proposito di «destra e sinistra»? Che «sono termini che possono servire nella polemica spicciola ma nella sostanza non hanno più significato. (...) Sul tema dell'ecologia la sinistra intellettuale porta avanti argomenti che sono tipici della destra. In politica internazionale c'è quella che il filosofo Augusto Del Noce chiama l'eterogenesi dei fini, la Russia, la Cina, Cuba stessa che sono partite da una ideologia marxista che negava la patria e la nazione sono diventate espressione di nazionalismo, che è addirittura imperialismo».

E Berto Ricci non credeva alla funzione imperiale dell'Italia e del Fascismo? «Io sono convinto -scriveva nel "Manifesto realista", parlando del Gandhismo e della Rivoluzione bolscevica che riteneva il contraccolpo locale e temporaneo della rapida rovina d'un feudalismo mitigato- che tutte queste energie variamente modificate e incanalate dagli eventi e dalle necessità dovranno far capo all'Italia e alla Rivoluzione fascista, rivoluzione imperiale, centro d'una imminente civiltà non più caratteristica d'un continente o d'una famiglia di popoli, ma universale».

Quello di Berto Ricci era un mondo in crisi di civiltà. Una crisi che attraversava la società in cui era scemato il senso del peccato e s'era ridotto al lumicino il concetto di Trascendenza. Come oggi. Beppe Niccolai, fra i pochi ad essere convinti della bontà di certe tesi, affermava che c'era bisogno di nuovi valori su cui basare la costruzione di un progetto prima culturale e poi politico. Egli li indicava questi valori:

La sacralità della vita, il ritorno al Sacro sul quale bisogna approfondire i discorsi perchè -diceva- «ho l'impressione che con tutti gli sforzi encomiabili che sta facendo, nemmeno Papa Wojtila pare che ce la faccia».

La Patria, che per Niccolai non andava assolutamente confusa con il concetto di sessanta. o settant'anni fa. La patria non è sopraffazione delle patrie altrui, ma è la difesa delle identità minacciate, la Patria è difendere le proprie differenze, cioè i centri storici, le cattedrali, lo stesso fiume, il mare, l'aria.

E non fu Berto Ricci a condannare il Vaticano costretto a «seminare di smorte lampadine elettriche le facciate delle Chiese del bel Rinascimento?»

Eresie d'allora, eresie d'oggi in cui si concepisce da qualche parte del nostro mondo la Nazione e la Patria come qualcosa che sta nell'Occidente. Anche da noi, purtroppo, ci sono gli ammiratori di Rambo, i mallevadori di Bush, coloro i quali si scambiano «amorosi sensi» con quel colonnello North dell'Irangate. In questo «nostro» mondo non s'è compreso il valore delle tesi sostenute da Edgardo Sulis in "Processo alla borghesia" e di Berto Ricci, che tuonavano contro il capitalismo, l'occidente, l'americanismo, anche allora molto in voga. Un anticapitalismo, un anti-occidentalismo, un anti-americanismo «di sinistra» che s'incrociava, con l'anticapitalismo e l'anti-americanismo «di destra» di Evola; autore di "Rivolta contro il mondo moderno". Quell'anti-americanismo che cresceva in Europa e che trovava i vessilliferi in Drieu La Rochelle, ma anche nella reazione cattolica di Bernanos, nell'anarchico «di destra» Jünger, nell'esistenzialismo di Heidegger, nel pensiero liberal-riformista di Ortega. E che, nel momento in cui l'Italia è scaduta a un ruolo di dominio americano, era condiviso da Beppe Niccolai che sosteneva che l'appiattirsi dell'Europa sull'America era un errore. La massificazione della vita italiana (e della vita europea) che si è avuta con il passaggio da una cultura all'altra è la fuga in occidente. Entrare nel protestantesimo americano ha significato lo sradicamento. Cioè siamo cambiati, siamo mutati, anche dal punto di vista antropologico. Non sappiamo più chi siamo. Questo trapasso nella fuga in Occidente è stato operato dal democratismo cristiano il quale, per avere la legittimazione dell'impero che ha vinto la 2ª guerra mondiale a poter governare il paese permanentemente, ha dovuto rendere, per esempio, il paese il meno cristiano d'Europa. Cioè scristianizzarlo e, in cambio, ha fatto passare questa cultura del protestantesimo che è cultura estranea alla vita degli italiani. Abbiamo avuto così una scuola senza educazione, perchè la prima operazione che il potere ha fatto è stata quella di cancellare il concetto di patria.

Sono, queste, tesi che si rifanno a quelle sostenute dagli «eretici» del Fascismo. Per dirla ancora con Marcello Veneziani «c'è un tempo per le istanze di destra e uno per quelle di sinistra ma la fine è la sintesi, la, composizione; rifiutando tuttavia la mediazione, ovvero il centro. Ritorna l'essenza del fascismo come incontro di due radicalismi di destra e di sinistra coalizzati contro i moderatismi delle rispettive aree che convergono verso il centro».

A sentire siffatte asserzioni, qualche prudente -il termine piaceva a Beppe Niccolai- si sentirà sconvolgere. Anche questo è un segno dei tempi, questo sì diverso da ciò che accadeva durante il Fascismo quando gli eretici professavano le loro idee non nel chiuso delle catacombe ma all'aperto, sui giornali e sulle riviste.

Nell'Italia di Mussolini, del bieco affossatore di ogni libertà, del nero «fustigatore dei sacri princìpi dell'89», c'era chi apertamente dissentiva e accusava quanti sbarravano, dall'interno, il cammino d'una Rivoluzione che s'era impantanata nelle trappole dell'Ordine Costituito.

E se lo facevano, era perchè potevano farlo. Perchè Mussolini voleva che lo facessero. Perchè Mussolini li amò tutti, gli eretici. Anche il non-fascista Prezzolini, odiato da molti perchè ritenuto transfuga in America.

Chi era in alto, ma proprio in alto, amava gli eretici.

Oggi è un po' diverso. Oggi certi eretici sono amati dal basso, da tutti quelli che pensano a quanto scrisse Berto Ricci:

«Viene, dopo le finte battaglie, il giorno in cui c'è da fare sul serio, e si ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti gli ultimi, i dimenticati, i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non fare carriera, anzi di non volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel frastuono degli elogi mentiti e dei battimano convenzionali. Essi ebbero la fortuna di assaporare amarezze sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi, sacrifici ostinati e senza lacrime, solitudini di pietra, amicizie non sottoposte all'utile e non imperniate sull'intrigo»



Vito Errico







Berto Ricci (http://www.beppeniccolai.org/Ricci.htm)

Avamposto
19-08-10, 11:47
Beppe Niccolai

BERTO RICCI - IL FASCISMO COME TRASGRESSIONE



Berto Ricci fu uomo di cocenti passioni. Chi disprezzava, Berto Ricci? I babbuini (così li chiamava), i fiaschi vuoti, i palloni gonfiati, i «farabutelli», coloro che stanno sempre alla finestra, coloro che, dopo essersi rinchiusi in casa, scendono per la strada a cose fatte e magari dicono che hanno vinto.

Mentre Berto Ricci amava gli inquieti, i liberi, «quelli simili a praterie che inarca il vento alle foglie ambiziose», come egli scrive in una sua poesia.

La toscanità di Berto è tutta qui.

Lo stemma della città di Firenze è una macchia di sangue che si trasforma in giglio. La storia di Firenze comincia, se ci si fa caso, con una imboscata e si incentra nel motto terrorista della famiglia degli Uberti: «Cosa fatta, capo a», che Dante definisce «seme della gente toscana».

I fiorentini (anzi, tutti i toscani) si sono sempre sbudellati fra di loro; per quattrocento anni hanno attaccato briga per tutto e su tutto. E la lotta tra fascisti ed antifascisti in Toscana, negli anni che vanno dal '19 al '25, assunse un immediato aspetto di lotta di parte, come tra guelfi e ghibellini, neri e bianchi, popolo grasso e popolo minuto.

Dopo secoli di servitù e rivoluzioni morali, i Fiorentini ritrovavano proprio nel fascismo e nell'antifascismo il loro antico fronte di lotta. C'è una pagina bellissima di Vasco Pratolini, prima fascista e poi antifascista, scritta sul "Politecnico" (il famoso "Politecnico" poi soppresso da Togliatti) nel dicembre del '47 che voglio citare: «Ma anche quei franchi tiratori che si difesero di tetto in tetto, erano fiorentini. La Repubblica Sociale Italiana salvò la faccia a Firenze. Una faccia che spuntava coi mitra dai comignoli e dagli abbaini. Soltanto a Firenze ci fu tra patrioti e fascisti vera guerra civile,; fu li e solo li vera Spagna. Rossi e neri dietro le barricate, al riparo di una cantonata, nella linea di fuoco sugli argini di un torrente nelle stesse ore dell'agosto '44 in cui anche Parigi lottava per la sua liberazione. I partigiani scesero dalle montagne ed i fascisti li aspettarono. Non era più nazi-fascismo contro nazioni unite. Erano fiorentini di due opposte fazioni che si ritrovavano ad uno dei tanti appuntamenti della loro storia. I tedeschi, fatti saltare i ponti, piegavano in ritirata e lasciavano le bande nere a vendere cara la pelle. Gli alleati avevano segnato il passo davanti alle rovine dei ponti e affidavano ai «volontari della libertà», l'onore di cavare la castagna dal fuoco espugnando la città. Durò otto giorni, e sulla stessa pietra che ricorda il rogo di fra Savonarola venne fucilato Pietro Tesi: trionfatore con distacco di una Milano-S. Remo che fa testo negli annali del ciclismo italiano. Dietro Santa Croce, dove riposano Macchiavelli e Foscolo, fu passato per le armi Alfredo Magnoldi: primo classificato al campionato europeo dei pesi gallo. I partigiani dissero: "Alfredino era una carogna, ma è morto bene". Morirono bene questi sportivi».

C'è libro con un'altra pagina meravigliosa, scritta da Curzio Malaparte, allora inviato speciale de "l'Unità", sotto il nome di Gianni Strozzi, ed è "La Pelle".

Sono due libri molto importanti (quello di Pratolini e quello di Malaparte) che vanno letti per capire l'Italia del Sud e l'Italia che da Firenze va su.

Malaparte così descrive la fucilazione dei ragazzi fascisti davanti a Santa Maria Novella, a Firenze:

«I fascisti seduti sulla gradinata erano ragazzi di 15-16 anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino. C'era anche una ragazza, fra loro, giovanissima, nera d'occhi e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s'incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo. Sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d'estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gessoso e qua e là screpolato, simile ai cieli del Masaccio negli affreschi del Carmine...

Ad un tratto i ragazzi presero a parlar fra loro, ridendo. Parlavano con l'accento popolano di S. Frediano, di Santa Croce, di Palazzolo. "E quei bighelloni che stanno a guardare, non hanno mai visto ammazzare un cristiano? E come si divertono quei mammalucchi, li vorrei vedere al nostro posto e che farebbero quei finocchiacci, scommetto che si butterebbero in ginocchio, li sentiresti strillare come maiali i poverini".

I ragazzi ridevano, pallidissimi, fissando le mani dell'ufficiale partigiano: "Guardalo, bellino, con quel fazzoletto rosso al collo. Oh chi gliè mai? oh chi gli da essere, Garibaldi! Quel che mi dispiace" disse il ragazzo in piedi sullo scalino "è di essere ammazzato da questi bucaioli".

"Un la fa tanto lunga" gridò una dalla folla. "Se lei ha furia, venga al mio pasto" gridò il ragazzo ficcandosi le mani in tasca.

L'ufficiale partigiano alzò la testa e disse: "Fa' presto. Non mi far perdere tempo. Tocca a te".

"Se gli è per non farle perdere tempo" disse il ragazzo con voce di scherno "mi sbrigo subito". E, scavalcati i compagni, andò a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra, accanto al mucchio di cadaveri, proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato della Chiesa. "Bada di non sporcarti le scarpe" gli gridò uno dei suoi compagni. E tutti si misero a ridere. In quell'istante il ragazzo gridò: "Viva Mussolini" e cadde crivellato di colpi».

Ecco, questa è la Firenze di Berto Ricci. Ed ecco perché Berto Ricci ce l'ha con gli agnostici, con gli indifferenti. E dice che sono una vecchia peste di questo Paese dal tranquillo vuoto interiore. Noi per questo vuoto interiore non daremmo un atomo del nostro doloroso cercare, del nostro errare umano. Berto, in definitiva, sta con la gente che discorre, che opera, che disprezza e si rode alla maniera italiana.

Ci sono stati, ed alcuni sono ancora vivi, suoi amici, oggi passati in altri settori politici, che hanno scritto in questi ultimi anni di Berto. C'è Corviè, su "Settimo Giorno" che sotto il titolo «Berto Ricci, poeta per natura e per disciplina letteraria», scrive: «Non gli bastava essere artista, voleva conoscere le ragioni del suo vivere come uomo tra gli uomini; non si accontentava delle parole, voleva cose. Generoso e disinteressato, per sè non chiese che sacrifici, sofferenze e morte. Non i suoi nemici dovevano aver paura di un simile carattere, ma i suoi amici, quelli della sua parte».

«Mai visto» e questo è Luigi Personè, professore di liceo, oggi vecchio, che così ha scritto sulla "Nazione" del 4/31/86 «un uomo che capisse così intensamente i bisogni dell'altro». Ecco, qui si potrebbe fare il paragone tra la politica odierna ed i tempi di allora. Qui c'è, lo sbalzo.

La politica, che cos'è poi in definitiva? Se ci si fa caso, la politica è il sapersi occupare dei problemi degli altri come se fossero propri, fino a morirne. Questa è la politica. No, dovrei dire: questa era la politica. Scrive ancora Personè a proposito di Ricci:

«Sulla vita, sul mondo e sul nostro percorso egli aveva opinioni sicure, incorruttibili ed incorruttibile era soprattutto lui, povero, rifuggiva da qualsiasi vanità. Un'antica sapienza calata nella realtà moderna. La sua camera da letto, che io ho visto, era spartana, (è morto a 35 anni, quest'uomo) e spartana era la sua concezione morale: un letto di ferro, un tavolino ricoperto da un tappetino carico di libri ed al muro uno scaffale qualsiasi con altri libri, non c'era altro». Non può venir fuori un interessante confronto con la vita dei politici d'oggi.

In un'intervista fatta a Gassman ed ad Alberto Sordi sulla "Repubblica" leggo: «Ci troviamo di fronte ad un'Italia brulicante di palazzinari, opportunisti, corrotti, corruttori, inattendibili monsignori, importantissimi falliti, avvocatucoli di pretura, di cassazione, minuscoli fanatici, trionfanti mediocri, prevedibili vigliacchi, improvvisi mascalzoni, detestabili diritti, ...» e potrei continuare.

L'Italia d'oggi è degnamente rappresentata dal cinema con gli italiani di tipo medio illustrati da Alberto Sordi. Il cinematografo è, tra le arti, quella che rende meglio l'immagine che in letteratura non c'è più. Al cinema con Antonioni l'incomunicabilità -cioè l'impossibilità di parlarsi- fra padre e figlio, fra italiani. L'incomunicabilità, la fuga nella fantasia di Fellini e il tipico italiano medio di Alberto Sordi: è il cinema che rende bene questa situazione. Perché, quindi Berto Ricci oggi?

Perché siamo in una fase revisionista.

L'Italia è stato come un pugile messo knock out, nel '45. Questa Italia è andata al tappeto, e c'è rimasta, fino all'8/5/78: quando si trova il cadavere assassinato di Aldo Moro in via Caetani, ad una distanza uguale tra il palazzo delle Botteghe Oscure e la sede di piazza del Gesù della Democrazia Cristiana.

Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che l'Italia fino al '78 è una Italia che è fuggita dalla storia; che ha vissuto della cronaca illustrata da Alberto Sordi. Cioè l'Italietta piccola e vile, l'Italietta utilitaria, l'Italietta che nel benessere è cresciuta enormemente, (infelicità nostra). Ma l'8/5/78 l'Italia cambia: le piazze si svuotano improvvisamente, le famiglie si riprendono i ragazzi in casa, si ha la rivisitazione storica, si ha una ripresa della memoria storica, si ha una ripresa della Nazione, si comincia a riflettere.

E questa Italia era andata al tappeto nel '45 con la tragica rappresentazione di piazzale Loreto.

Piazzale Loreto: cosa rappresenta nella storia d'Italia?

Fateci caso: io so perché vado, ogni tanto, a Predappio. Io ed i miei amici di partito, di comunità, lo sappiamo. Ma perché a Predappio ci vanno tanti italiani che non sono stati mai fascisti e non lo saranno mai? Che ci vanno a fare?

Ci vanno perché Predappio è il muro del pianto del nostro Risorgimento nazionale, è la fine di una concezione, dell'Italia con un ruolo nel mondo: l'Italia grande, un'Italia che faceva sentire il suo cuore, valere le sue grandissime qualità. Insomma è a Predappio che si ha la rivisitazione della storia. Ed ecco perché spunta anche Berto Ricci e spunta perché i Tranfaglia e gli altri antifascisti dichiarati, quando si trovano di fronte alla figura di Berto Ricci, debbono dire: alt, qua c'è qualcosa di veramente diverso.

Perché, vedete, Berto Ricci diceva: «Ci sono Inghilterre che abbiamo dentro di noi che bisogna abbattere. E sono quelle, è quello il male: là dove prevale, là è il nemico. A chi ci rimprovera di volere la perfezione, si risponda finalmente e fieramente di «SI». Si risponda: «non addegna del nome di rivoluzionario chi non la vuole».

Rifare l'uomo. Qui è fallito anche il fascismo, chè l'uomo nuovo non è riuscito a farlo. Il nuovo tipo di italiano doveva essere quello che si ribellava alla legge del mercante: l'antico conflitto dell'oro contro il sangue. Chi non ha capito le ragioni profonde dell'ultima guerra, non capirà mai i polacchi, gli afghani, i palestinesi. Costoro vivono e combattono perché hanno una memoria storica. I popoli ricchi e i popoli poveri, Nord e Sud.

C'è qui da noi, oggi, una concezione dello Stato pensato al Nord, secondo due Italie: l'Italia coloniale e l'Italia ricca, opulenta, quella degli Agnelli. E la situazione è destinata a rimanere così, perché il partito egemone se perde i voti a settentrione li può sempre riavere al Sud, grazie al clientelismo. E allora, riequilibrata la situazione, si eternizza al potere.

Vi è una testimonianza su Berto Ricci di un uomo che è lo scettico per eccellenza, che è un epilettico della morale: Indro Montanelli, uno che in genere non crede nella massima parte delle cose in cui scrive.

Indro Montanelli avrebbe dovuto essere con noi. Non c'è perché gli piacciono i luccichii, gli piace vivere nella culla di quella grassa borghesia lombarda che gli dice «quanto sei bravo». Ho detto: un epilettico della morale. Egli, nel '55, scrive un articolo che andrebbe letto tutto, titolo: "Proibito ai minori di 40 anni". Ecco che cosa scrive:

«Quando dalla cittaduzza andai a conoscere il direttore del periodico "L'Universale", Berto Ricci, col quale avevo scambiato alcune lettere, anche per me il fascismo cominciò a contare qualcosa. Egli fu il solo maestro di carattere che io abbia mai trovato in questo Paese, in cui il carattere è l'unica materia in cui si passa sempre senza esame. E quando di lì ad alcuni anni ebbi deciso di voltare le spalle al fascismo, fu soltanto di lui che mi preoccupai. Infatti, andai apposta a Firenze a parlargliene. Mi stette a sentire, poi disse pacatamente. "Queste sono faccende in cui s'ha da vedersela con la propria coscienza e nessuno può essere d'aiuto a nessuno. Io ti dico soltanto una cosa, non pensare ai vivi, pensa a quelli che, per restare fedeli con le nostre idee, ci sono rimasti. Siamo un gruppetto di dieci-dodici persone, non di più. Per non arrossire di fronte a noi stessi, e l'uno di fronte all'altro, qualche cosa si è fatto e Paolo Cesarini ci ha lasciato una gamba e Carlo Rotolo ci ha lasciato la vita, lui che forse era quello a cui la vita più sorrideva. Pensaci, e pensa anche che se imbocchi quella strada devi batterla sino in fondo, sino al confino, o sino all'esilio. Questo solo ti chiedo: di poter continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico e come alleato"».

Dirà poi Montanelli che strade non ve ne erano più: «Credevo di essere diventati, antifascista, ma non era vero, ero soltanto un fascista strano e stanco, anticipavo di qualche anno l'Italia di oggi, smaliziata e utilitaria, degli Italiani che non credono più. Entrai nella compagnia dei grandi scettici. Mai più mi sentirò come mi sentii allora, accanto a Berto, parte di qualcosa e compagno di qualcuno, voglio dire che mai mi ero sentito e mai mi sentirò giovane come in quegli anni e non solo perché ne avessi 20. Io sono fra i rassegnati, so benissimo che di bandiere non posso averne altre e l'unica che seguiterà a sventolare sulla mia vita è quella che disertai prima che cadesse. Ora che le commissioni di epurazioni non ci sono più, e quindi più non siamo obbligati a mentire per le solite ragioni di famiglia, forse è venuto il momento di rendere giustizia ai nostri venti anni e di riconoscere che essi furono migliori dei 40, e di dare ragione a chi morendo l'ebbe. Fummo giovani soltanto allora, amici miei». Questo è Indro Montanelli davanti a Berto Ricci.

Berto Ricci ci lascia due volumetti molto esili e introvabili: uno di poesie e l'altro di pezzi poetici. E sono tutta l'eredità che lui lascia. È sempre Montanelli che dice: «sulla prosa poetica mi pare di poter dire che la letteratura giornalistica italiana non ne abbia avuta più una di così stringente, dura e, qua e là, spavalda».

Il mio incontro con Berto Ricci avvenne proprio ritornando dalla prigionia, sui mercatini del libro usato, quando 40 anni fa si andava noi alla ricerca di libri che non si trovavano più nelle librerie. Libri che giustificassero la nostra rabbiosa fedeltà ad un regime vissuto in pantaloni corti. Ed è lì che mi incontrai con un libro intitolato "Avvisi" costituito da stringatissimi editoriali, con una prosa minuta, paragonata alla pittura del Rosai, semplice e grande.

Poi riuscii ad avvicinare la sua famiglia. La moglie, un giorno, apri un vecchio baule e tirò fuori i quaderni di Berto, che sono i quaderni di un Gramsci del fascismo; e allora capii che dietro a quei stringatissimi "Avvisi" c'era una cultura formidabile, filtrata, non mai esibita. Una cultura che andava dalla letteratura giapponese a quella americana, a tutto il Quattrocento e tutto il Cinquecento.

Erano, Berto e i suoi amici, uomini, veramente diversi.

Il fratello di Rosai, Bruno, scriveva: «Senza una meta precisa prendevamo ad andare lungo le strade che sfociavano nella campagna, esaltandoci ogni volta nel sentirci dentro il fermo paesaggio notturno. Le nostre conversazioni quotidiane, spesso accese come liti, avevano la tendenza a non trovare mai fine. Qualche volta si continuava a passeggiare tutta la notte, sempre accaniti intorno agli stessi argomenti e si rincasava all'alba, per ricominciare il giorno dopo».

Qualche volta si continuava a passeggiare tutta la notte... sempre accaniti... Ma l'amicizia era questa: ci si parlava, non c'era quell'incomunicabilità che oggi ci è stata instillata, da un grande uomo politico, ma non positivo, come è stato Aldo Moro; il quale, per trasformare la Democrazia Cristiana da partito cristiano-sociale in partito diverso, ha dovuto inventare un linguaggio nuovo, un linguaggio oscuro. Leggete i comunicati della Democrazia Cristiana: non li potete interpretare se non avete il vocabolario o il traduttore per capire. Perché in quei comunicato, tutto vi sembra inutile. Ma c'entrano quattro fasi che sono l'essenziale, e che le capiscono solo gli intenditori. È un linguaggio torvo, che copre ogni operazione alle spalle dei popolo.

L'incomunicabilità: perché oggi, anche tra amici più cari, siamo frettolosi, ci si saluta e via, arrivederci e la vita scorre così, grigia. Allora no, allora discutevano fino a tarda notte, fino all'alba, scherzavano il giorno dopo...

Ecco alcune definizioni sulla destra politica di Berto Ricci: «Bisogna diffidare delle destre nazionaliste, antisemitiche, antibolsceviche, antiparlamentari che si mettono in divisa fascista, arrembano il potere e danno elegantemente lo sgambetto a chi ce le ha portate col proprio sangue: camicie verdi o guardie di ferro». 0 quest'altra definizione del militarismo: «Le confusioni ideologiche ed i facili innamoramenti per i quali un qualsiasi generale a riposo che si mette a parlare di governo forte ed a mobilitare un po' di ceti medi può passare per un banditore del verbo di Mussolini. Ebbene questa gente ci ha già fatto più male della grandine». Tutte queste cose le scriveva quando era vivo Mussolini, vivo sua Maestà Vittorio Emanuele III.

Nel '33, si badi bene , egli scriveva inoltre: «Venga presto per il bene della cristianità, un Papa gagliardo, rivoluzionario, che sprotestantizzi la Chiesa, spenga la politica e ravvivi la religione. Lasci alle donnucole le polemichette puntigliose, riporti nel mondo l'alito del Vangelo. Riceva, si, i pellegrini d'America, ma si mescoli anche alla plebe di Trastevere ed entri, Vicario di Cristo, nelle case popolari di S. Frediano».

E così continuava: «Diciamolo francamente, noi non ci spaventeremmo tanto di un clero macchiato di lussuria, di simonia e di ferocia, quanto ci preoccupa questo esercito di impiegati in tonaca, irrimediabilmente malati di mal borghese. È nel peccato una grandezza, un principio, forse, di santità. Nell'inerzia dei borghesi mediocri non c'è che buio; una volta immersi selvaggiamente nella vita terrena, estranei all'essenza di questo e di quello, affacendati a radunar tessere e a parare altari».

E scriveva, vivo Mussolini, sulla Spagna repubblicana, quella dell'altra parte: «I ribelli spagnoli hanno saputo guardare in faccia con abbastanza tranquillità i plotoni di esecuzione. E una idea capace di preparare gli uomini alla morte merita vittoria e merita rispetto nell'Italia del Comandante Umberto Maddalena» (Umberto Maddalena era il comandante che aveva scoperto per primo la terra rossa di fronte al Polo; grande aviatore).

Si battè sempre, Berto Ricci, per la libertà; e nei suoi scritti, pubblicati in una rivista ultra-fascista, si ritrovano tutte le critiche di costume che sono poi state fatte al fascismo, ma a babbo morto, dagli antifascisti tipo Brancati. Le sue ironie sul goffo fascismo delle parate, Berto le farà da fascista. Gli bastavano tre righe:

«Un'adunata non è Austerlitz, un treno festivo non è la marcia su Roma: chiediamo alla stampa italiana buon senso e misura... Discorsi che si aprono con alacri invocazioni, sedute inaugurali che si chiudono con la consegna di artistiche pergamene, assemblee che scattano con un solo uomo, ma fino a quanto mio Dio?» Ciò scriveva, vivo Mussolini. Non è vero che non c'era libertà durante quel tempo. Berto Ricci tutte queste cose le ha scritte allora. Non ha aspettato che Mussolini fosse appeso ai ganci di piazzale Loreto per scriverle.

«Benone, noi facciamo questo foglio assai più per mannai e macellai che per i colletti duri e proseguiremo con quella schiettezza toscana che dà noia a tanti galantuomini e forestieri e seguiteremo a dir bene e male di quel che ci piace e non ci piace; troppa gente c'è oggi in Italia che batte le mani a tutto e a tutti e approva ogni cosa. Qui si tratta di deboli schiene italiane».

Questi ragazzi de "L'Universale" avevano allora diciannove, venti anni, non di più; ventitrè, al massimo; e avevano delle mete ambiziose. Se si apre il primo "Avviso", ci si accorge di come si proponevano delle mete spropositate. Dicevano: «Fondiamo questo foglio con volontà di agire nella storia italiana, contro la filosofia regnante... abbiamo l'ambizione incredibile di portare la letteratura e l'arte all'altezza del primato».

Avevano ambizioni forti, però non erano solo degli «intellettuali», perché l'ultimo "Avviso", quando scoppia la guerra di Abissinia, dice: «Si chiude il giornale». E vanno tutti volontari in guerra. Il volontariato italiano finisce con loro, con la Repubblica Sociale Italiana e con la «Resistenza». Dopo una tradizione che si rifà al Risorgimento italiano: al repubblicano Frati che muore in Grecia trovano una pallottola in un libretto che teneva nella sacchetta, forato, dove c'era scritto: «Tu idea sei il mio ideale». Era un repubblicano del Novecento che andava come volontario, così come gli italiani andati volontari a combattere nella Spagna.

IL volontariato è una tradizione terminata col '45. Nel Vietnam non ci è stato un volontario, in Algeria non è partito nemmeno un italiano.

Questi ragazzi de "L'Universale", invece, alle parole scritte facevano seguire i fatti.

Libri autorevoli di antifascisti (uno dei quali e: "Il lungo viaggio attraverso il fascismo") riportano che Berto Ricci non ci credeva più nel fascismo, e che, andando in guerra, si era volontariamente suicidato.

Ha scritto Michele Giancarli: «La volta successiva, io che andai a trovarlo, lo trovai solo con la moglie: i gerarchi avevano accolto senza indugio la domanda di volontariato di Ricci, lo avevano soddisfatto in pieno, spedendolo in prima linea come camicia nera. Poche settimane dopo, i giornali recarono la notizia che Berto Ricci era caduto da eroe e specularono, come è facile intuire, sul suo olocausto: si trattò di un consapevole suicidio».

Sono bugie, sono menzogne. Leggo due delle 12 lettere che Berto scrive al potente Pavolini, per andare al fronte.

«Caro Pavolini, vi chiedo un favore ... mi sentirei pochissimo a posto dinnanzi a me stesso e all'Italia se restassi a casa mentre si combatte. Aspettavo una cartolina che non viene, voi siete uomo da capire uno stato d'animo che mi dà giornate bruttine. Ho fatto domanda al distretto per essere assegnato ad un reparto combattente, ma ho paura che la domanda resti là a dormire. Non so come andranno le cose dopo la capitolazione francese, ma credo che la partita con gli inglesi non sarà nè brevissima, nè vana. Insomma, vi chiedo, caro Pavolini, di appoggiare questa domanda che ho fatto; tanto se resto a casa sono un uomo inutile, non son più buono nè a scrivere un rigo, nè a dire una parola e come me ce ne è tanti. Almeno ai giornalisti dovrebbe essere concesso di combattere. Aspetto da voi una parola e vi ringrazio perché so che farete quel che potrete. Il vostro B.R.»

E ritorna alla carica: «Caro Pavolini, è destino che questa guerra mi faccia patire e far patire molto. Io sono sottotenente di artiglieria di Corpo d'Armata ed avevo chiesto di essere assegnato all'Unità combattente. Un telegramma del Ministero della Guerra al distretto di Firenze mi ha assegnato al Settimo Reggimento Artiglieria, Divisione Fanteria Pisa. Avrebbero dovuto mandarmi invece al Settimo Artiglieria di Corpo d'Armata di Livorno; e il Reggimento mi ha schiaffato alle Batterie costiere di Marina di Pisa: una bella Unità combattente ed una solenne fregatura per me. Così son servito, e se non mi levano di qua, mi sentirò tanto umiliato da considerarmi finito come scrittore politico. A te mi rivolgo, ancora, mio caro Pavolini, dolente per tutte queste seccature, ma con l'affetto e la fiducia di sempre. Fiducia nella tua pazienza e nella tua stima».

Questo è un uomo che voleva andare a combattere. Pochi giorni prima di morire, in una lettera alla moglie, (perché con i genitori aveva dei rapporti molto duri; i suoi genitori era affettuosissimi con lui, ma non condividevano la sua passione politica) scriveva:

«Dì ai miei genitori di non mandarmi pacchi, ora. Non sono stato e non sto con le mani in mano, ma seguito a chiedere di andare ad un fronte qualsiasi (ed era in Cirenaica) e potrebbe darsi, Dio lo volesse, che partissi da un momento all'altro. Tanto, ormai la Tripolitania l'ho vista anche quella, e sarebbe ora di cambiare paesaggio».

Sempre alla moglie dice: «Ai ragazzi penso sempre con orgoglio ed entusiasmo, siamo qui anche per loro, perché questi piccini vivano in un mondo meno ladro e perché la sia finita con gli Inglesi e con i loro degni fratelli di oltremare, ma anche con qualche Inglese d'Italia. Vi abbraccio affettuosamente. Il tuo 8erto»

Questo non è lo scettico che non crede più e che, depotenziato e demoralizzato, va a morire. Questo sa per che cosa combatte, sa perché è là.



Berto Ricci era fatto per diventare comunista?

Alcuni, che gli furono vicini e che sopravvissero a "L'Universale" e alla guerra, sono diventati comunisti. Romano Bilenchi diventa comunista.

È pur vero che Bilenchi ed altri cresciuti con Berto non si spogliano mai del grande amore per l'Italia, anche da comunisti. Amore che marca tutta la loro prima esperienza culturale. Dunque Berto Ricci come loro?

Nel suo ultimo e impegnativo scritto per la ripresa de "L'Universale", l'elemento antagonista con cui simpatizza sono indubbiamente le cellule comuniste: «0 facciamo noi queste cose o le fanno loro» diceva.

L'ipotesi di un Berto Ricci comunista è allora possibile? Poniamoci la domanda: Berto Ricci come Davide Laiolo (detto Ulisse, federale di Ancona, scrittore, combattente, volontario in Spagna con Franco; che si ritrova poi direttore de "l'Unità" di Milano e deputato del partito comunista italiano)? Ecco quale tipo di prosa usciva dalle mani di Davide Laiolo, quando costui era fascista: «Un attenti urlato nel silenzio di Palazzo Venezia ci fa irrigidire. È nella sala, la sala è piena di lui, noi non esistiamo che in lui, Legionari di Spagna. Passa davanti ad ognuno lentamente, ma quei suoi occhi paiono più grandi della sala stessa, profondi, lontani, vicini, buoni e terribili, gli occhi del Duce. L'orgoglio di fissarsi in quelle pupille di entusiasmo mi accende, ecco, il Duce è davanti a me, guarda me. Voglio allora urlare il suo nome, forte come una cannonata, ma un'onda di commozione mi assale e mi serra la gola. Bisogna guardarlo estasiato; si sente ancora l'attenti, non ci si può contenere. "Duce, Duce". L'urlo tremendo scuote tutta la sale e ripete gli echi di tutto il Palazzo su Roma-...

Ma Berto Ricci di fronte a Mussolini che cosa scriveva?

«Compito del futuro immediato, di educazione alla libertà è fare vedere che non si può proseguire all'infinito sulla via del saluto romano, rompete le righe e zitti. Che il fascismo si decida: o con Dio o con il diavolo, o sistema invariabile delle nomine dall'alto o partecipazione del popolo allo Stato, e non semplice atto di presenza alle adunate e versamento dei contributi sindacali. Affogare nel ridicolo chi crede nella discussione e nel dialogo, chi non capisce le funzioni dell'eresia, chi confonde Unità e difformità. Far capire che, se non si fa questo, hanno ragione i fondatori di cerchie comuniste e finiranno per averla davvero. Finirla con l'asfissiante frasario a base di ordini e basta. Libertà da conquistare e da guadagnare, da sudare. Libertà come valore eterno incancellabile e fondamentale. Mostrare come la civiltà, la moralità fascista, non possa consistere nei soli ingredienti di fede e polizia. Che anche la libertà di manifestare opinioni, di fare un giornale che dica queste cose è secondaria dinnanzi a quella che l'ultimo italiano deve esercitare: di controllo dei pubblici poteri, di denuncia aperta dell'ingiustizia, di prevaricazioni, da chiunque commessi».

Come accettare, per «ragioni di partito», di chiudere gli occhi su ciò che accadeva dentro il comunismo di Stalin? Come avrebbe potuto, lui che non sopportava i federali, inchinarsi agli ordini di un Togliatti, di un Alcata, di un Ingrao, di un Natta, o di un Occhetto? Provatevi a proiettare nel futuro il personaggio che ho cercato malamente di descrivervi, questo grande fiorentino, e domandatevi: Berto comunista?

Il cuore ci dice di aver rispetto per Berto, un uomo che con la propria vita ha provato la profondità delle proprie convinzioni.

Scrive Giovanni Gentile nel sommario della pedagogia "Un Uomo vero è vero uomo se è martire delle sue idee e non solo le confessa, ma le attesta, le prova, le realizza fino alla morte».

La sua fierezza di cuore e la dedizione di tutte le ore al fascismo gli vietarono di dare quello che avrebbe potuto dare alla letteratura italiana.

Abbiamo perduto qualche splendido libro, ma si è avuto sottomano il libro aperto di una umanità fatta uomo senza pari, che operò, sofferse, ebbe e dette, dalla forza, la fede. E del resto, piaccia o no (per dirla con lui) ai babbuini, ai fiaschi vuoti, ai palloni gonfiati, agli agnostici, ai cinici, resta uomo di viventi e cocenti passioni. Fu una coscienza senza sonno, innamorata di quella: «Italia dura, taciturna, sdegnosa che portava la, sua anima in salvo soffrendo delle contraddizioni dei ciarlatani, dei buffoni, dei letterati e dei commendatori, l'Italia che ci fa spesso bestemmiare, perché la vorremmo più rigida, più attenta, più macra, vicina alla perfezione dei Santi».



Beppe Niccolai




Berto Ricci (http://www.beppeniccolai.org/Ricci.htm)

Avamposto
19-08-10, 11:48
PREGHIERA

(Berto Ricci)



O Dio sereno cantato negli anni
Più forti, ne' giorni più buoni,
Quand'ero bambino
E pensieroso di te;
Dio ch'eri grande in croce sul tu' altare
E più grande nel canto stellato
D'un maggio toscano:
Io non ti chiedo pietà del mio male,
Perché pietà di me sento anch'io
E so che questa compassione è tua
Nata per me nel tuo cuore
Come già al sangue ti còsse l'ardore
De' palmi trafitti.
Io non ti chiedo pietà del mio male
Dio di pietà, Signore
Di morte e di resurrezione.
Ben venga a me tempestosa vittoria
Bella di lagrime, bella di spine
E di troppo sudore.
Ma si rammenti il cuore di cantare
Sempre, in tramonti in aurore
E in notturne paure:
Questo ti chiedo Signore,
Ti domando questo in preghiera.
Un po' di voce e un campo spigato
Fanno felice chi t'ama,
Padre, per le tue voci
Segrete fuse nell'ampia natura,
Per i tuoi cieli fioriti
Da tutto il popolo de' tuoi splendori,
Per l'orda delle tue tenebre muta,
Per ogni respiro di mamma spaurita
Strinta al giaciglio del suo figlio e tuo,
O Dio cantato negli anni sereni
Quand'ero un bambino pensoso di te.



Berto Ricci (http://www.beppeniccolai.org/Ricci.htm)

Avamposto
19-08-10, 11:49
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Avamposto
19-08-10, 11:51
L' impegno civile e morale di Berto Ricci

di Indro Montanelli

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L'impegno civile e morale di Berto Ricci PER DICHIARARSI NAUSEATI Sedici anni sono pochi Sono nauseata dal mondo della politica, e dai politici. Ho solo 16 anni, e faccio parte della generazione che prendera' in mano l'Italia nei prossimi 20 anni. Spero con tutto il cuore che sara' migliore di quella uscente, anche se ho i miei dubbi. Ma come e' possibile che non capiscano che non e' all'interesse loro (o del loro partito), ma al semplice e puro interesse dell'Italia, nostro cioe', che devono pensare? Silvia Stringhini, Piadena (Cr) * Due obiezioni. Sedici anni sono pochi per dichiararsi "nauseati". E poi chi ti dice che tra vent'anni la tua generazione prendera' in mano l'Italia? Credi davvero che questi abbiano intenzione di mollare? SE OGGI LEONARDO DIPINGESSE L'Ultima Cena Mi dispiace che manchino i pittori d'un tempo, capaci di tramandare ai posteri affreschi grandiosi. Un Leonardo avrebbe potuto, oggi, dipingere una nuova "Ultima Cena": Nostro Signore Presidente col braccio alzato a benedire, il Santo Spirito di Cossiga che lo illumina e tutti gli Apostoli attorno. Ma gli Apostoli sono tanti, piu' di dodici, e tutti con il proprio vangelo gia' scritto e tutti fedeli al dogma "aggiungi un posto a tavola". R. Claren, Milano * Irrispettoso, ma impeccabile. INVITO AI PANIFICATORI Tornare a fare pane leggero Una volta una legge impediva ai panificatori di commercializzare pane con un'umidita' superiore ad un certo valore ed esisteva qualcuno che controllava. Percio' i panificatori stavano attenti. Non so se la legge sia stata abrogata o se, piu' semplicemente, i controlli siano cessati: sta di fatto che molte panetterie incrementano i propri profitti offrendo pane ricchissimo d'acqua e pesantissimo. Carlo Randone, Milano L'ISTITUZIONE MONARCHICA Cosa rappresenta la figura del Re La sua risposta alla mia lettera non mi ha soddisfatto. Lei sostiene che preferisce un re figlio di re ed educato a fare il re a un presidente. Non mi sembra che i Savoia, da Vittorio Emanuele II a Vittorio Emanuele III, abbiano imparato bene a fare i re. Il primo cosa avrebbe fatto senza Cavour? Il secondo ha preferito lasciare il Paese nelle mani di Mussolini, e ha dimostrato la sua "reale" educazione scappando. Un presidente si puo' cambiare, ma un re cretino ce lo dobbiamo tenere. Mi piacerebbe che lei ammettesse di essere in contraddizione con la sua fede liberale quando dimostra di preferire un re a un presidente. Mi rendo conto che questa lettera non verra' mai pubblicata. Franco Vicentini, Treviso * Non capisco perche' non dovrei pubblicare una lettera come questa. Sono io che devo rinunziare a far capire che le persone dei Re non m'interessano; m'interessa l'istituzione monarchica. De Gaulle mi diceva: "Per fare la Francia ci sono voluti quattro secoli e quaranta Re, la maggior parte dei quali erano inetti o megalomani, ma senza i quali non ci sarebbe stato un Potere capace di fare la Francia". E mi vuole spiegare come mai gl'inglesi, dopo averne deposto uno, mandato al patibolo un altro, e spogliato i loro successori di ogni potere, continuano a tenersi i loro Re? Lei pensa che noi italiani siamo piu' intelligenti e politicamente maturi degl'inglesi? NEL "PAESE DEI FURBI" L'identikit del cittadino perfetto Dopo circa quarant'anni ho rincontrato un collega di universita': si e' dichiarato "felicissimo, completamente realizzato e molto soddisfatto di come vanno le cose". Sorseggiando un aperitivo, ha ripercorso con compiacimento le tappe della sua vita cosi' riassumendole. Di solida fede marxista e mangiapreti, non disdegno' un matrimonio cattolicissimo con la benestante nipote del parroco, superando un concorso di basso livello in un istituto previdenziale con "appoggio di amici democristiani che contavano". Negli anni Settanta consegui' la laurea in legge con "il diciotto politico che mi competeva perche' lavoravo". Con "appoggio di politici e corsi e concorsi interni, avendo la laurea, ho raggiunto posizioni di vertice". Grossa soddisfazione dimostrava per "aver lavorato non piu' di due giorni a settimana e solo per fare dei piaceri ad amici". A coronamento, oltre alla conversione al catto - comunismo, e' intervenuto anche il pensionamento - baby ed un buon lavoro in nero esentasse per la sua introduzione in uffici pubblici. Io penso che gli dovrebbe essere conferita una onorificenza "al buon italiano e perfetto cittadino". Pasquale Giglione, Marcianise (Ce) GRAVATI DA TROPPE TASSE I piccoli proprietari di immobili Per un appartamento affittato ad equo canone ricevo 100.000 lire al trimestre (comprensive di spese condominiali). Ho in corso una causa per finita locazione. Mi chiedo come faccia lo Stato a pretendere tante tasse dal piccolo - anzi piccolissimo - proprietario di immobile e come sia possibile che il diritto alla casa debba ricadere sulla mia persona anziche' sulla comunita'. + in questo modo che in Italia si incoraggia e si tutela il risparmio? Luisa Arcangeli, Milano PREMI DALL'IMPORTO ECCESSIVO / 1 Lotteria Italia Ame sembra un'esagerazione regalare miliardi nella trasmissione di Raffaella Carra', al sabato sera. Non si potrebbe frazionare il miliardo in modo che si possano accontentare piu' persone? Possibile che si possa vincere un miliardo indovinando, semplicemente, in quale mano della Carra' si trova la carta che fa aprire la cassaforte? Lino Aloe, Cerlongo (Mn) PREMI DALL'IMPORTO ECCESSIVO / 2 Superenalotto Il jackpot al Superenalotto va bene, ma non deve superare i 10 miliardi, che gia' sono tanti. Quando supera questa cifra l'eccedenza dovrebbe essere riversata nel montepremi. Alessio D'Antonio, Ancona IN CASO DI INCIDENTE Le spiegazioni degli assistenti di volo Un lettore lamenta la scarsa attenzione dei passeggeri alle spiegazioni degli assistenti di volo sulle norme di sicurezza dell'aereo e sul come comportarsi in caso di abbandono dell'aereo stesso. Forse la scarsa attenzione e' dovuta al fatto che i passeggeri sanno che in caso di incidente grave non serve a nulla sapere come comportarsi in via preventiva perche' nel 99 per cento dei casi l'aereo si schianta al suolo e nel 99 per cento dei casi non ci sono sopravvissuti. + soltanto nei film del filone catastrofico della serie "Airport" che l'eroe o l'eroina di turno riesce a portare a terra l'aereo garantendo la totale incolumita' dei passeggeri, malgrado bombe o terroristi a bordo, motori rotti, morte dei piloti e disgrazie consimili. Solo in questi film infatti si vede largo uso di salvagenti, maschere per l'ossigeno e quant'altro. Mario Donetti, Milano Caro Montanelli, Sono un laureando in Storia dell'Universita' di Venezia ed ho appena terminato di leggere il bel libro di Paolo Buchignani "Un fascismo impossibile" (edizioni Il Mulino) che e' una documentata biografia di quello che fu un suo grande amico, Berto Ricci. Sono rimasto affascinato dall'"onesta" morale ed intellettuale di Ricci (un'onesta' che poi gli costera' la vita) ma trovo che il Buchignani dia alla scelta di questi di partire volontario per il fronte africano un'interpretazione diversa da quella che lei diede ne "L'Italia dell'Asse". Per Buchignani "Era la rivoluzione, appunto, che cercava l'intellettuale fiorentino nella guerra, non la morte. Quella lo colse quando lui meno se l'attendeva e certamente non la cercava..."; per lei, invece, Ricci scelse di andare a morire volontariamente in Libia, perche' cosi' gli imponeva la sua Coscienza ("Nella vita c'e' spazio per un solo cambiamento e io ho gia' fatto il mio" mi pare le abbia detto prima dell'imbarco) e il suo senso del Dovere. Gradirei un suo parere sulla tesi del Buchignani. Paolo Valbusa, Montebelluna (Tv) Caro Valbusa, Non ho letto il libro di Buchignani (non ho piu' il tempo ne' gli occhi per seguire tutto cio' che - a valanga e molto, mi pare, alla rinfusa - oggi si pubblica). Non so quindi dove e come Buchignani, che per quanto mi ricordi non faceva parte del gruppo dell'Universale, abbia attinto le sue informazioni. Le mie sono di fonte diretta: Berto Ricci. Fu lui a dirmi, al momento d'imbarcarsi per la Libia, cio' che ho riferito: non che "voleva" andare a morire, ma che, anche se la partita era persa, lui non poteva tirarsene indietro (e mi sento di aggiungere con assoluta certezza che, se non fosse morto in Libia, sarebbe andato a morire a Salo'). Queste certezze io le baso non su prove scritte e documentabili, ma sulla comunanza di vita e di pensiero che ho avuto con Ricci in quei lontani anni Trenta fino al momento in cui entrambi dovemmo constatare l'abbaglio in cui, col fascismo, eravamo caduti. Noi l'avevamo scambiato per una fabbrica di coscienze civili e nazionali e in quel senso avevamo, nel nostro piccolo (L'Universale non tiro' mai piu' di 1.500 copie), lavorato. Sul piano dell'ideologia, fra noi c'erano le tendenze piu' disparate: Bilenchi e Rosai erano per un populismo che gia' li predisponeva al salto che fecero nel postfascismo; Herzog era per un superomismo di marca evoliana; Diano Brocchi per un corporativismo che ci avrebbe condotto pari pari all'economia di Stato sovietica; c'era il filosofo Pavese per un non meglio identificato spiritualismo. A questi contrasti e alle diatribe che su di essi si accendevano, Berto non poneva alcun freno. Si limitava a posporli a quello che lui considerava l'impegno fondamentale, da cui secondo lui (e oggi anche secondo me) i contrasti erano condizionati: quello civile e morale. Era questo che gli conferiva quell'autorita' che tutti gli riconoscevamo senza che lui facesse nulla per imporcela. Ricordo quando Mussolini, che in quel momento era al meglio di se stesso e seguiva con molta attenzione anche quei giornaletti che segnalavano le tendenze - tutte gia' di fronda - delle nuove leve fasciste, ci convoco' a Palazzo Venezia. Eravamo tutti eccitatissimi, salvo Berto. Forse per l'occasione il Duce aveva letto gli articoli dell'ultimo numero del nostro giornaletto e ne discusse coi singoli firmatari. A me che ne avevo scritto uno contro il razzismo, disse: "Giusto. Il razzismo e' roba da biondi". Poi chiese a Berto, che insegnava matematica, perche' criticava la riforma Gentile. E Berto, senza tanti complimenti: "Perche' ispirata all'idealismo cui dobbiamo tre o quattro generazioni di dilettanti, i quali conoscono tutte le teorie sul tornio, ma non sanno come lo si usa". Il Duce parve colpito da quelle parole, poi gli chiese: "Voi eravate anarchico, vero?". "Militante - rispose Berto - fino a due anni fa". Il Duce lo fisso' sorpreso, poi fece sorridendo: "Pure io, anche se non militante". Due anni dopo soppresse L'Universale e tutti gli altri giornaletti di fronda, e dopo altri due fece, come un biondo, le leggi razziali. Quello era Mussolini. E quello era Berto Ricci, andato a morire per lui.*

Montanelli Indro


Pagina 38
(18 ottobre 1998) - Corriere della Sera



L' impegno civile e morale di Berto Ricci (http://archiviostorico.corriere.it/1998/ottobre/18/impegno_civile_morale_Berto_Ricci_co_0_981018901.s html)

Avamposto
19-08-10, 11:52
martedì 3 marzo 2009

Le Verghe del Fascio: Berto Ricci “Fascista eretico”


«La Cultura Fascista, che recupera valori dell’intero novecento italiano, non è di destra. Il movimento della “Voce”, antiliberale nel midollo e nell’espressionismo polemico, rivive nel moto de “L’Universale” di Berto Ricci»



(Benito Mussolini)



«Berto Ricci ha reso fiera la nostra Nazione, e ogni italiano ne è orgoglioso». Così si espresse Giampiero Mughini, nella celebre conferenza con Valerio Morucci tenuta a CasaPound.
Ma siamo davvero sicuri che sia così? Nella stanca e vuota Italietta dei nostri giorni, quanti conoscono la lezione dell’intellettuale fiorentino?
La verità è che il suo anticonformismo dirompente, la sua prosa violenta e il suo spregiudicato antiborghesismo risulterebbero indigesti alle plebi americanizzate dei nostri giorni, più a loro agio tra grilli parlanti e grandi fratelli.
Ciò che è peggio è che Berto fu Fascista, non per calcolo politico o comodità (come gli illustri Montanelli, Bocca & co.), ma aderendo intimamente ai princìpi della Rivoluzione e cercando di incarnarli in ogni gesto ed ogni azione. La sua vita fu un sofferto e meditato percorso volto alla realizzazione dell’ “uomo nuovo”: spartano, eroico, giovane, con tutte le difficoltà e le contraddizioni del caso.

Ricci (1905 – 1941) si avvicinò relativamente tardi al Fascismo, iniziando a collaborare al “Selvaggio” di Mino Maccari nel 1927, e dimostrando sin da subito di trovarsi a suo agio nei fogli meno conformisti del Regime. Forte di un passato addirittura anarchico, “assaltò” la mentalità borghese e l’ottuso clericalismo che frenavano le istanze sociali e rinnovatrici dell’azione mussoliniana, attirandosi le ire del conservatorismo vecchio ed inutile che ancora affollava l’Italia. Quasi galvanizzato dalla polemica, continuò febbrilmente la sua attività culturale fino a fondare nel 1931 “L’Universale” («scritto col fuoco, alla carducciana, e non con lo stile leopardevole»), rivista che raccolse le intelligenze più giovani e spregiudicate della “sinistra fascista”.

Non perse tempo ad innescare dibattiti con i suoi articoli al vetriolo, che mettevano a nudo la meschinità di quanti sfruttavano il Regime per scopi personali, senza capirne l’essenza: «L’Italia è stata liberata dai bolscevichi, ma bisognerà liberarla dai commendatori, razza più dannata; dai professori corrotti ed insulsi, e da tutta la maledetta gente perbenino».

In “Errori del nazionalismo italico” sfidò ampi settori della cultura del tempo, legati ad una visione ottusa, limitata e borghese della Patria, adulatrice della propria terra e del proprio capo a prescindere. Al suo posto Ricci propugnò la riscoperta dell’Imperialismo, inteso come spinta ideale che riesce a conquistare i popoli in virtù della suo primato culturale, sulla scia del Dante del Monarchia e del Mazzini del Concilio.
Una vera e propria sfida di Civiltà, che contrapponeva il Fascismo alle ideologie materialiste liberali e marxiste, due facce della decadenza: «Cadente Mosca non perché sovvertitrice, ma perché asservita alla causa della materia e del capitale […] congiurata con l’antirivoluzione poliglotta ai danni dell’Italia novatrice e proletaria – resta come polo dei popoli Roma e soltanto Roma».

La grandezza del Fascismo stava nel rifiutare la concezione dell’homo oeconomicus («L’intelligenza Fascista mira al totale dell’Uomo, non ha punti di contatto con l’uomo economico»), riconoscendo e preservando tutte le tradizioni e le spinte verso il Sacro che sono parte fondamentale dei popoli.
La tensione spirituale fu una costante del pensiero ricciano, potendo individuare nei suoi scritti eroismo nietzscheano, vitalismo bergsoniano e richiami pagani accanto ad un cattolicesimo “pauperistico e guerriero”, sull’esempio dei Templari.

Insieme a tutto questo vi era una spiccata attenzione per l’aspetto sociale: Ricci si batté con forza per far “accorciare le distanze” tra classi sociali, per la scuola aperta a tutti, per le Corporazioni come luogo di effettiva e feconda partecipazione dei lavoratori, oltre che di selezione delle élites politiche. Il suo impegno in questo senso gli attirò addirittura accuse di “bolscevismo” da parte di Farinacci, quando negò che la proprietà privata fosse un principio inviolabile del Fascismo. Incurante delle critiche continuò a combattere conservatori, borghesi e profittatori: «la mentalità d’arricchimento va combattuta e limitata, pena il restar fermi all’idolo antieroico e antifascista della ricchezza vertice di valori […] occorre che la ricchezza privata valga poco, serva a poco; che con essa si ottenga poco».
A livello mondiale, simbolo di questa mentalità erano le plutocrazie inglese ed americana. Ricci si oppose fermamente alla penetrazione dei loro costumi in Italia, arrivando a scagliare idealmente Roma “la Città dell’Anima” contro Chicago “la città del maiale”. La risposta al parlamentarismo capitalista stava nella già accennata Corporazione, fulcro di una riforma che vede l’economia subordinata ad un’etica superiore sintetizzata dallo Stato. «Il problema non è o è solo secondariamente abbattere il bolscevismo, ma in primissima linea quello di abbattere un mondo, una struttura economica che ha reso il bolscevismo possibile ed inevitabile».

Dopo aver suscitato interesse in Julius Evola, Giuseppe Bottai, Emilio Settimelli, Benito Mussolini (che incontrò nel 1934 a Palazzo Venezia) ed essersi messo in contrasto addirittura con Giovanni Gentile (pubblicò un “Manifesto Realista” in contrapposizione all’idealismo e alla moderazione del filosofo siciliano), vide la sua rivista chiudere agli albori della Guerra d’Etiopia. Fu una decisione profondamente sbagliata del Regime, anche se forse “L’Universale” sarebbe cessato comunque, visto che quasi tutti i suoi componenti partirono per il fronte, Ricci in primis. «Se resto a casa sono un uomo inutile: non son più buono a scrivere un rigo o a dire una parola. E come me ce n’è tanti. Almeno ai giornalisti dovrebbe essere concesso di combattere» scrisse chiedendo di essere assegnato alla prima linea. Molti gerarchi, invece, andarono in caccia di gloria a buon mercato, facendo solo finta di combattere. Solo Farinacci si ferì… mentre pescava!

Al suo ritorno Ricci collaborò con molte riviste di primo piano, come “Critica Fascista” di Bottai e “Il Popolo d’Italia” di Mussolini, oltre ovviamente al libro Processo alla Borghesia, sintesi della battaglia fascista contro la mentalità “passatista” che Berto conosceva bene.
Il fecondo contributo culturale del “fascista eretico”, simbolo di quella gioventù entusiasta ed insofferente che avrebbe costituito la futura classe dirigente, fu interrotto bruscamente allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

L’intellettuale toscano si gettò con coraggio nel fronte africano, trovando la morte per mano inglese il 2 Febbraio 1941 a Bir Gandula. Il conflitto si concluse tragicamente, ed i sogni di chi, come Ricci, aveva creduto nel riscatto del popolo italiano finirono nel sangue.
Fortunatamente il suo lascito non è andato completamente perduto, ed ultimamente il suo pensiero è stato accostato addirittura ad Antonio Gramsci (per la concezione di politica totalitaria, l’anti-accademismo e la visione realista e populista) e ad Ernst Jünger (nell’idea di “cavalcare la tigre” tecnologica e sul piano del lavoratore inteso come realtà spirituale).

Ma è ancora poco, troppo poco. Il suo impegno civile e rivoluzionario, la sua coerenza, la sua vis polemica, il suo inesauribile contributo culturale e il suo eroismo sono stati sostanzialmente accantonati, e Dio sa quanto ne avremmo bisogno.



AVGVSTO: Le Verghe del Fascio: Berto Ricci “Fascista eretico” (http://augustomovimento.blogspot.com/2009/03/le-verghe-del-fascio-berto-ricci_03.html)

Avamposto
19-08-10, 11:53
:: Berto Ricci

Berto Ricci nacque a Firenze il 21 maggio 1905. Morì a 35 anni in combattimento - contro gli inglesi a Bir Gandula in Cirenaica - la mattina, verso le nove, del 2 febbraio 1941. Trentacinque anni vissuti intensamente, come giornalista, come poeta, come matematico, come scrittore. Fu un fascista anticonformista, sanguigno, maestro di carattere, coscienza senza sonno, uomo di viventi e cocenti passioni. Secondo Indro Montanelli (prefazione allo “Scrittore italiano” - Editore Ciarrapico): “Fu l’esempio di un nuovo tipo d’italiano che il Fascismo ha tentato di costruire per trasformarsi in una vera rivoluzione”, ma anche “il solo maestro di carattere che io abbia trovato in Italia”. Sul “Borghese” del 4 novembre 1955, sempre Montanelli scrisse: “Quando decisi di voltare le spalle al fascismo e andai a parlarne con Berto Ricci, questi mi disse: “Pensaci bene. Per non arrossire di fronte a noi stessi e l’uno di fronte all’altro, se imbocchi questa strada, devi batterla fino in fondo, sino al confino o all’esilio. Questo solo ti chiedo: di poter continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico”. Lì per lì, quando Berto mi disse che se imboccavo una nuova strada, era mio dovere batterla fino in fondo, mi pareva di essere ben deciso a farlo. Ma poi mi accorsi che, per battere fino in fondo una strada, bisogna sapere almeno qual è. Ed io non lo sapevo. Credevo di essere diventato antifascista, ma non era vero. Anticipavo solo di qualche anno quella malinconica cosa che è l’Italia di oggi, l’Italia smaliziata e utilitaria degli italiani che non ci credono più. E’ così che diventai scanzonato ed entrai nella compagnia dei grandi scettici, cioè di coloro a cui si deve il bel capolavoro di questa Italia. Mi ero illuso di aver trovato una bandiera: ora so benissimo che di bandiere non posso averne altre e l’unica che seguiterà a sventolare nella mia vita è quella che disertai, prima che cadesse. Fummo giovani soltanto allora, amici miei!”
E ancora: “A quella grande epopea mancata che fu il fascismo, l’ ”Universale” di Berto Ricci fornì un contributo, la cui inutilità non toglie nulla al suo valore. Quando un giorno si farà, al di fuori della polemica, la storia di quel regime e dei tentativi che nel suo interno furono fatti da alcuni giovani per impedirne la mummificazione, quel piccolo quindicinale apparirà più importante del “Popolo d’Italia”.
Nel 1932, Berto Ricci aderì al Partito Fascista, divenendone un esponente del fascismo possibile, come Guido Pallotta, Niccolò Giani, Carlo Roddolo e Dino Garrone. Al Fascismo arrivò frequentando gli ambienti di “Strapaese” e collaborando al “Selvaggio” di Mino Maccari. Dopo la laurea in matematica, conseguita a ventun anni a Pisa, cominciò ad insegnare nella scuola media e nel frattempo collaborava con alcune riviste fiorentine. La prima fu “Il Bargello”. Nel gennaio 1931 avviò la pubblicazione di una rivista, “L’Universale”: la prima uscita fu il 3 gennaio, anniversario del famoso discorso mussoliniano della presa del potere. “Fondiamo questo foglio con volontà di agire sulla storia italiana. Contro la filosofia regnante, che fermamente avverseremo, non ammettiamo che tutto sia storia: storia non è quel che passa e quel che dura, ripudiamo l’effimero e ce ne facciamo negatori... Non ci sentiamo continuatori di nessun vivo; noi s’è imparato a scrivere da Niccolò Machiavelli e dal popolo d’Oltrarno, che sono dunque i nostri più diretti maestri. Chi sognasse di averci creato, si disilluda: gli uomini li crea Iddio... Abbiamo l’ambizione incredibile di portare la letteratura e l’arte all’altezza del primato. Saremo dunque universali, e contro qualunque resto di nazionalismo ; moderni, e senza idoli, né d’aeroplano; saremo caldi, com’è degli uomini. Sta al nostro secolo ridare alla mente italiana l’abito della vastità, l’amore e l’ardire, il dominio dei tempi e delle nazioni. Chi intende questo sarà con noi.”
Oltre ai suoi scritti, ”L’Universale” ospitò, tra gli altri, scritti e disegni di Benito Mussolini, Edgardo Sulis, Diano Brocchi, Giorgio De Chirico, Ugo Betti, Indro Montanelli, Giuseppe Ungaretti, Ottone Rosai, Luigi Bartolini, Camillo Pellizi. Scrive a Ottone Rosai: “Sicuro, ho fatto la guerra perché c’era da spendere tutto e riscuotere tutto, ma non per me, ma per gli altri; e ho fatto il fascista perché lo spirito ne trasse gli stessi vantaggi che dalla guerra sono derivati, e sono rimasto fascista perché è necessaria la vigilanza disinteressata e diretta, ma mi guarderei bene dal far la rota a un posto qualunque o dall’accettare di esservi nominato. Ho da servire una fede e so che soltanto col purificarmi la mente e col denudare la mia anima posso servirla e non col diventare accademico o deputato, dalla poltrona dei quali è possibile impartire del bene. Sto a casa mia, sto con la mia miseria, col mio destino e servo fino in fondo; e, se a un tratto, indipendentemente da questo, occorra la vita, sia pure, per il bene degli altri.”
“L’Universale” terminò le pubblicazioni il 25 agosto 1935 e l’editoriale, firmato da Ricci concludeva: “Questo giornale finisce quando deve finire, quando il suo desiderio di battaglia e di grandezza trova appagamento magnifico nel volere del Capo. Non altro chiedevamo e non altro credevamo. Bilanci? Li tirerà chi ritornerà. Ora, camerati, non è più tempo di carta stampata: e se ieri un’Italia letteraria ci parve buffa, oggi a noi poeti essa appare come la personificazione dell’irreale. Non è più tempo di carta stampata.“
Per due anni insegnò matematica a Palermo, poi rientrò a Firenze ed ebbe la cattedra a Prato. Sul fronte egiziano portò con sé un quaderno in cui annotava pensieri per un nuovo libro sulla gioventù fascista, che andò perduto: si sarebbe intitolato “Tempo di sintesi”. Il tema della classe dirigente è centrale nel pensiero di Ricci. Mirava alla formazione della seconda generazione fascista dei nuclei di una nuova dirigenza intellettuale e politica. Non fu nazionalista, né mai condivise come Gentile che fosse lo Stato a dover fare gli italiani, al contrario ricercò l’italianità ed il carattere nazionale da un incrocio di natura e cultura, “qualcosa d’imponderabile, eppure sommamente presente e reale”. Polemizzò contro l’”umanesimo rancido” e le astrattezze dottrinarie della riforma Gentile (“tutto quanto teoria è antifascismo”). Pubblicò articoli di fuoco contro il Concordato, in cui si redarguiva il regime per il suo atteggiamento nei confronti dell’Azione Cattolica. Rivendicò al Fascismo il diritto ed il dovere di educare i giovani, accusando la Chiesa di essere compromessa con la mentalità borghese e di non aver più nulla né della santità francescana né dell’eroismo sacro e profano dei papi rinascimentali. Ammonì contro il “troppo unisono” e la “troppa ortodossia” che poteva anche “significare un impero della mediocrità”, ritenendo che la migliore avanguardia giovanile rappresentava una garanzia contro ogni imbalsamazione del regime e ogni interessata “normalizzazione”. Affermò che la proprietà inviolabile non era affatto un principio dello Stato fascista, ma un dogma liberale, inglese e non romano e che “si poneva all’intelligenza fascista l’imperativo di non transigere con il mondo del denaro, cioè con la concezione mercantile della vota e con quella plutocratica della società”. Accomunò Fascismo e bolscevismo come movimenti destinati a mettere in crisi il sistema di Versailles, l’egemonia del capitalismo anglosassone, “l’Europa della pace ladra, antiitaliana e antiumana”. Il 10 gennaio 1933 venne pubblicato il “Manifesto realista” (sottoscritto da Ricci, Bilenchi, Pavese, Brochi, Petrone, Ottone Rossi, Sulis, Contri): contro il nazionalismo che fa da paravento agli interessi della borghesia, contro il capitalismo incapace di porsi di fronte ai nuovi grandi problemi sociali, contro il cristianesimo ridotto a virtuismo, ma esaltando la rivoluzione italiana, intrapresa dal Fascismo, come “premessa necessaria dell’Impero umano che realizzerà la Monarchia di Dante e il Concilio di Mazzini”, e negando un avvenire sia alle ideologie democratiche che a quelle marxiste contrapponendo l’imperialismo popolare, l’eticità dell’economia, il dovere del lavoro, il corporativismo.
Ricci sostenne che il Fascismo avesse bisogno di una fase di “destra” che egli identificò nell’Impero, sia di una fase di “sinistra” in cui prevalsero la rivoluzione sociale nel grande e profondo processo economico imposto dalla rivoluzione corporativa. Ma il nemico numero uno, come scrisse nel 1938, “fu e resta il centro, cioè la mediocrità accomodante... Il centro è compromesso, noi fummo affermazione simultanea degli estremi, nella loro totalità.”
Il suo forte anticapitalismo era in realtà l’applicazione coerente del suo antimaterialismo; il marxismo “è contrario alla natura umana, specialmente alla natura italiana.” Ma la Russia “con la rivoluzione dei comunisti ha fatto bene a se stessa” e gli italiani col Fascismo “non possono sentirsi più vicini a Londra parlamentare e conservatrice, che a Mosca comunista. L’Antiroma c’è, ma non è a Mosca. Contro Roma, città dell’anima, sta Chicago, capitale del maiale.” Gli “Avvisi” de “L’Universale” ebbero profonda eco e indussero Mussolini a far convocare a Palazzo Venezia, nell’estate del 1934, Ricci ed i suoi collaboratori. Si complimentò per vecchie e recenti battaglie (compresa quella contro il razzismo hitleriano e tra i collaboratori dell’”Universale” c’è l’ebreo Ghiron) e li invitò a collaborare col “Popolo d’Italia”, dove tennero una rubrica “Bazar”. Anche se matematico, fu intimamente umanista da dedicarsi, oltre alle poesie, a traduzioni di Ovidio e di Shakespeare, in più nel 1931 pubblicò il saggio “Lo scrittore italiano”, intenso scritto che traccia il ritratto inconsueto del vero intellettuale che sa coltivare il suo anticonformismo creativo senza separarsi dalla vita politica e civile del suo popolo. Partì volontario in guerra per la seconda volta e venne inviato in Libia, nel Gebel Cirenaico, al 29° artiglieria. Nel gennaio 1941 scrisse ai genitori: “Ai due ragazzi (i figli, ndr) penso sempre con orgoglio ed entusiasmo. Siamo qui anche per loro, perché questi piccini vivano in un mondo meno ladro; e perché la sia finita con gl’inglesi e coi loro degni fratelli d’oltremare, ma anche con qualche inglese d’Italia.” La mattina del 2 febbraio verso le nove, la sua batteria fu attaccata presso un pozzo montagnoso tra Barce e Cirene, vicino a Bir Gandula, e fu mitragliato da uno Spitfire inglese. Oggi è sepolto nel sacrario di Bari.



Berto Ricci - Azione Giovani Sassari (http://www.agsassari.altervista.org/berto%20ricci.htm)

Avamposto
19-08-10, 11:54
CONFERENZE


Intervento di Beppe Niccolai al Convegno, tenuto a Firenze domenica 25 marzo 1984, all’auditorium del Palazzo dei Congressi per ricordare, a cento anni dalla nascita, Benito Mussolini.
Il testo dell'intervento è ricavato da una "cassetta" inviata da Umberto Croppi e "sbobinata" dal ricercatore Andrea Biscàro - Ricercando (http://www.ricercando.info)




Beppe Niccolai

Berto Ricci: come fummo giovani allora



Domenica, 25 Marzo 1984, nell’auditorium del Palazzo dei Congressi in Firenze, l’aspra, irriducibile toscana, celebra e ricorda, a cento anni dalla nascita, Benito Mussolini.

Coordinatore:
Un saluto, e un ringraziamento che non hanno e non vogliono avere niente di formale, ma che sostanziano la rinnovata scelta di ieri e di oggi dei grandi valori di nazione, popolo, patria e la loro socialità. Con noi oggi, e ne siamo fieri e felici, alcune presenze che toccano il nostro cuore e il nostro animo: la vedova e il figlio di Berto Ricci, che ringraziamo; con noi oggi e ne siamo profondamente grati, Federico Gentile con Giorgio Gentile. A loro, sinceramente e profondamente, l’abbraccio più affettuoso per queste presenze così significative. Come significativo, esaltante e, lasciatemelo dire, particolarmente adatto a questa nostra terra di maledetti e a questa città tanto difficile, il tema di questo incontro: l’anticonformismo dei fascisti critici da Berto Ricci a Giovanni Preziosi. Niente di dissacrante, certo, ma un’occasione esaltante per rivisitare storicamente e culturalmente uomini e fatti gettati nel dimenticatoio dal regime cosiddetto democratico, perché estremamente scomodi ed estremamente più grandi, tanto più grandi dei tanti […] grande occasione questo giorno e guai, guai amici e camerati, se non si comprendesse e non se ne intuisse il significato più profondo che è celebrativo ma non nostalgico, dacché non può esservi nostalgia, quella inutile, quella che […] fuori dai tempi e dalla storia in chi scegliendo la strada dell'incontro con gli uomini che fecero la storia, sceglie l’avvenire, il futuro, senza dimenticare la tradizione, il passato, le radici.
Grazie! Grazie ancora una volta a tutti voi che siete venuti a trovarci. Grazie per la vostra presenza. Grazie agli autorevoli relatori che svolgeranno i loro interventi e un grazie particolare, per concludere, permettetemi di rivolgerlo a due uomini che sono a questo tavolo, ai due presidenti, il presidente nazionale del mio partito, Nino Tripodi, e al presidente del comitato nazionale, Vittorio Mussolini. Noi non abbiamo vissuto anagraficamente alcune esperienze importanti che molti di voi ricordano e da loro e non solo da loro, dal nostro mondo altamente indietro abbiamo appreso cose importanti e fondamentali nella vita di ogni uomo, per esempio la coerenza, lo stile di vita. Ecco perché oggi, insieme a voi, siamo qui ad ascoltare, in punta di piedi, a imparare, per ricordare. Grazie.

[…]

Coordinatore:
Dopo la voce, il saluto, il memento filiale di Vittorio Mussolini, seguono le relazioni di Nino Tripodi, Mario Bernardi Guardi, Luigi Tallarico.
Chiude l’indimenticabile convegno Giuseppe Niccolai, sul tema «Berto Ricci: come fummo giovani allora».


[…]



Coordinatore:
Vi porgiamo ora all’ascolto la vigorosa, ardente orazione di Niccolai, vivente memoria di questo impareggiabile giorno e testimonianza di un altro tempo, il tempo d’allora. Anni e uomini irripetibili, vissuti in generosa giovinezza, con un enorme carico di passione, di fede e di virtù eroiche.
Nell’ultimo intervento, l’onorevole Giuseppe Niccolai parlerà di Berto Ricci: «Come fummo giovani allora».

(continua)


Berto Ricci: come fummo giovani allora (http://www.beppeniccolai.org/Giovani_allora.htm)

Avamposto
19-08-10, 11:54
Berto Ricci: come fummo giovani allora


Berto Ricci è fiorentino, poeta, polemista, matematico, cade a Bir Gandula, Cirenaica, il 2 Febbraio 1941. Aveva 35 anni. In che cosa credeva? Nelle strutture politico-brurocratico-amministrative di cui è fatto uno Stato? Nel Palazzo, si direbbe oggi? Berto Ricci credeva nell’Italia, e per dirla con le parole di Dino Garrone, e che Berto Ricci mise nella sua prefazione alle lettere di Garrone stesso, scomparso anche lui giovanissimo all’età di ventisette anni, l’Italia la vedeva e la sognava così: «l’Italia dura, taciturna, sdegnosa, che portava la sua anima in salvo soffrendo delle contraffazioni, dei manifesti, dei ciarlatani, dei buffoni, dei letterati, dei commendatori. L’Italia che ci fa spesso bestemmiare perché la vorremmo più rigida, più attenta, più macra: vicino alla perfezione dei santi».

Dell’amico adorato, scrittore e poeta come lui, Berto Ricci tracciò questi lineamenti:

«Non cercò carriera, non ebbe fini effimeri, non comuni ambizioni. Ebbe vita interiore potente, soverchiante la esteriore pur così varia, popolata di fatti e di figure e accesa di passioni. Soffrì d’ogni menomazione inferta dalla debolezza propria o altrui (…) una coscienza senza sogno (…) un volere il sole, in sé e negli uomini il sole (…) un gioire e un soffrire coi paesi e con le acque, con la gente e i libri, con tutto quello che noi siamo (…) Il rispetto per l’uomo, la sua umiltà dinanzi al fratello ignoto e qualunque,così bella se guardata sullo sfondo della formidabile capacità di disprezzo che era in lui, dicono com’egli fosse alto e solo. Risultava da tutto questo, dall’amore, dal disdegno, dall’ingegno, dalla dominante e assillante pretesa d’assoluto, una magnetica giovinezza, di quelle che fanno esclamare: bella questa moneta nuova, e quanto val più dell’altre usate e tosate. E giovane è rimasto in morte, sull’invecchiare veloce di molti vivi».

Così Berto Ricci di Dino Garrone.

Potremmo scrivere: «così Berto Ricci di Berto Ricci».

La prefazione alle lettere di Dino Garrone è del ’38, ma Berto Ricci resta una colata di vita:

«E giovane è rimasto in morte, sull’invecchiare veloce di molti vivi».

Lo potremmo scrivere sulla tomba di Berto. E nessuno meglio di lui, a cui è toccata la sorte di vivere questa scettica e cinica Italia, sa e conosce la verità di quella frase: «e giovane è rimasto in morte sull’invecchiare veloce di molti vivi».

Berto Ricci fu un’intelligenza viva, libera, sanguigna, spregiudicata, strafottente e spavalda. Il suo foglio "l’Universale" è destinato a restare. Berto Ricci fu carattere, che altro non è che il coraggio civile. Berto Ricci, nel tempo di Mussolini e della sua dittatura, fu faziosamente, come può esserlo un fiorentino, controcorrente, contro, su ogni cosa, il moderatismo, i tecnici del saper vivere e del saper fare. Per dirla con termini della grigia politica di oggi, fu l’antidoroteo, fu l’antimoroteo per eccellenza.

In una sua poesia, "Inno a Roma" del ’33, è detto: «Oh i buoni servi non sono degni di Roma, non gli immoti e i pigri, ma i liberi, gli inquieti, quelli che simili a praterie che inarca il vento delle folli ambizioni».

«Pederasti e ladri», scriverà nel ’31 su "Lo scrittore italiano", «possono esser grandi d’arte, e furono i piccoli cercatori d’applausi, cacciatori di recensioni e di premi, romanzieri stipendiati dal pubblico, no in nessun modo. E se parrà enorme a qualcuno questa mia affermazione, da non poterla digerire, e’ se la sputi. Già ho notato la preminenza dello spirituale sul morale, della divinità sulla onestà: e con questo non vo’ dire che pederasti e ladri sono divini; ma più vicini a Dio, forse, dei frigidi astuti savi e delle canaglie moderate».

Più vicini a Dio dei frigidi savi e delle canaglie moderate…



Giugno 1931. Fascismo e Azione Cattolica si fronteggiano. Sono passati due anni dal Concordato. Motivo del contrasto: l’educazione dei giovani. Berto Ricci su "l’Universale" titola: "Il duello col Papa" e trancia questi giudizi:

«Diciamolo francamente: noi non ci spaventeremmo di un clero macchiato di lussuria, di simonia, di ferocia, quanto ci preoccupa questo esercito d’impiegati in tonaca, irrimediabilmente malati di mal borghese. È nel peccato una grandezza, un principio forse di santità: nell’inerzia dei borghesi e dei mediocri non c’è che buio».

«(…) Venga presto, per il bene della cristianità, un papa gagliardo, rivoluzionario, che sprotestantizzi la Chiesa, spenga la politica e ravvivi...

[incomprensibile, coperto dagli applausi]

..., lasci alle donnacole le polemichette puntigliose, riporti nel mondo l’alito del Vangelo, riceva sì i pellegrini d’America, ma si mescoli anche alla plebe di Trastevere ed entri il vicario di Cristo nelle case di San Frediano».

C’è qualcuno nell’Italia democratica e repubblicana, uscita dalla Resistenza, che mi sappia indicare, da qualche parte, un polemista di questa vaglia, polemista, fatene caso, che così si esprimeva negli anni del diavolo del cavalier Benito Mussolini?

«Questo ci preme, questo vogliamo dire: questo nessuno può smentire, che gli eunuchi, i vili i pigliaschiaffi disonorano il fascismo, che i saggi in cappa magna lo inceppano, i noiosi teorici della tradizione gli fanno perdere tempo, gli adulatori lo avvelenano, i bruti spiritati dal gesto dittatorio e dagli occhi grifagni lo mettono in farsa, e l’Italia del popolo, l’Italia di Basso Porto e di via Toscanella, essa sola lo alimenta di vita, e questo non è classismo, non è bolscevismo, perché non importa essere nati in via Toscanella né starci. Quel che conta è saperci stare».

È il 12 Aprile 1931: la Spagna è repubblicana. Re Alfonso XIII, l’ultimo dei Borboni, lascia Madrid e prende la via dell’esilio. Su "l’Universale" del Maggio ’31, Berto Ricci scrive:

«Sommo errore politico, oltre che pessima romanticheria di maniaci del principio monarchico universale, sarebbe fare il broncio alla nuova Spagna repubblicana. Né i dogmi democratici dei successori di re Alfonso possono interessarci gran che: c’interessa la loro politica estera e la posizione del loro paese nel Mare Mediterraneo. Venendo poi a considerare in sé questo sbrigativo, ma atteso, invocato e guadagnato mutamento di regime, non si può dire che la monarchia sia stata molto benemerita di quella nazione. Che fruttarono alla Spagna i suoi secoli di obbedienza e di fedeltà al trono? Una lunga, atona agonia, una dittatura senza genio, un parlamentarismo senza sale, una lenta rovina di commerci e d’imprese. Ogni scossa è santa se giova a scuotere dal sonno e dall’ozio i popoli forti. D’altra parte i ribelli spagnoli hanno mostrato negli ultimi tempi di saper guardare in faccia con abbastanza tranquillità i plotoni d’esecuzione: e un’idea capace di preparare gli uomini alla morte merita vittoria, merita rispetto nell’Italia del comandante Umberto Maddalena». (maggio 1931)

Fateci caso, amici fiorentini, non sono considerazioni di poco conto. Sulla Spagna repubblicana o no, sui cui casi successivi l’Italia fascista, specie nei settori giovanili, doveva sentirsi lacerata, Berto Ricci è chiaro e direi aperto: questi ribelli sanno morire, meritano rispetto. E poi quali vantaggi hanno portato alla Spagna i secoli di obbedienza al trono? «Una lunga, afona, agonia, una lenta rovina».

Alcune idee di Berto Ricci irrinunciabili, le espose in una lettera del 3 Aprile ’38, quando decidendo di riprendere la pubblicazione de "l’Universale", che aveva cessato di vivere allo scoppio della guerra di Abissinia, chiamava alla nuova collaborazione i suoi antichi, giovanissimi amici. È un documento rarissimo, di cui ringraziamo la famiglia di Berto di averci dato la possibilità di prenderne visione. Sono dodici pagine cariche di religiosità. State ad ascoltare. Sono direttive rivolte ad un gruppo umano che farà un giornale.

«È necessario -scrive Berto- che ognuno di noi sappia essere severissimo con se stesso. È una regola di vita e metodo d’azione che noi ci imponiamo e che va dalla purezza del nostro vivere pubblico alla semplicità dello stile, dalla dedizione intera all’Italia alla infrangibile unità fra noi. È il nostro fascismo e, anzi, più brevemente, il fascismo. E dobbiamo riflettere che è molto facile consentire su questi propositi, ma che il realizzarli sarà non sempre facile e potrà costar sacrificio. Sacrificio che può essere oggi una recensione mancata o il vedere un proprio articolo rifiutato. Sacrificio che può essere domani quello di partire per un fronte qualsiasi e di morirci come c’è morto Carlo Roddolo. Disciplina vera e bella, cioè non rinunziare mai alle idee, ma saper sempre rinunziare al tornaconto personale».

Signori della democrazia italiana: così i giovani trentenni nell’Italia di Mussolini fondavano i loro giornali, ne stabilivano le norme di vita e di comportamento. E ci vogliono dire, o ci volete dire se, per caso, nel giornalismo ultrademocratico del dopoguerra c’è qualche esempio del genere? Io l’ho chiesto personalmente a Romano Bilenchi, che ha vissuto da scrittore e polemista di punta l’esperienza de "l’Universale", poi quella di questo dopoguerra come comunista.

«No -mi ha risposto- di quella passione non resta più nulla, se non un’angoscia panica di vivere oggi senza significato».

«Cosa dire? -si chiedeva Berto Ricci, scrivendo ai suoi amici- Ripensiamo, diceva, l’esperienza de "l’Universale" dal ’30 al ’34. Dal ’34 la Rivoluzione Fascista è inchiodata. Per una rivoluzione essere fermi significa arretrare. Si chiude il primo periodo dell’affermazione liberale, si apre il secondo tempo sociale del fascismo. Bisogna ricreare l’antitesti fascismo-capitalismo. Il nostro più immediato e più grave compito sta qui: le energie dirette altrove sono da considerarsi come disperse. Un socialismo di Stato, anche attuato completamente, e cioè una politica di assistenza spinta all’estremo limite, sarebbe semplice demagogia e trionfo di quel materialismo che molto fieramente si combatte a parole. Finchè non si organizza su nuove basi la produzione, e non la sola ripartizione, si resta nel sistema borghese, nella civiltà borghese, nel fascismo borghese. Si fa tanto per il popolo. A me non interessa neppure di sapere se questo è vero, perché una rivoluzione non può contentarsi di fare tanto per il popolo. Deve fare il popolo. Non basta dire quello che il fascismo non è. Bisogna dire quello che è. Per me il [incomprensibile] ideologico è cessato. La confusione ideologica rimane. Rimane un indirizzo sempre più accentuatamente destrorso e conservatore. Equivoci dottrinali innumerevoli, alcune farfalle, alcune povere farfalle e degni mandolinisti in camicia nera, si sono dati alla propaganda razzista. Anche qui, però, non basta insorgere contro la sempreverde livrea italiana, oggi al servizio di Berlino come ieri di Parigi, se non si indicano i veri e più profondi mali e i rimedi. Il razzismo deve il suo potere di attrazione perchè ha saputo essere a suo modo e con perfetta barbarie estremismo. Il fascismo, nonostante l’occasione impagabile delle sanzioni, è rimasto all’ideale della moderazione. Incoltura, machiavellismo volgare e un tritume storicistico non digerito hanno cooperato la tara al pensiero fascista l’orrore delle posizioni estreme. Barbari non si può più essere. Civili non si sa essere per bene. Noi siamo civilini. E la colpa è degli intellettuali fascisti. Quando Mussolini dice una parola giusta, diretta, audace, si precipitano in centomila a denicotizzarla, a tradurgliela in termini di compromesso e di burocrazia. Si tratta, invece, di andare più in là di lui, avendo noi le mani più libere. Si tratta di dirle anche per conto nostro codeste parole, senza aspettare il «via». "l’Universale" dette a Mussolini il senso che questa iniziativa c’era, e bisogna ridarglielo. Chi dice: c’è Lui, dunque seguiamolo; e chi dice: c’è Lui, dunque non possiamo far nulla, si inganna egualmente, tradisce la nostra missione. Le conseguenze sono che la gioventù straniera non vede in noi che i piccoli seguaci di un grande condottiero, i soldati di Napoleone che finiranno con Napoleone e quella Italiana sbadiglia, colleziona le cartoline precetto delle adunate, qualche volta fonda le cellule comuniste. Il pericolo comunista c’è anche in Italia ed è creato in gran parte dalla stupidità della polemica anticomunista fatta dai fascisti, perché l’estremismo è l’eterno bisogno organico della gioventù degna di tal nome, e quando non lo si trova in casa lo si cerca fuori. Avete sentito parlare di cellule comuniste nel periodo della guerra d’Africa? Io no. E questo non soltanto per un fenomeno di sana unione, ma proprio perché in quel tempo la posizione rivoluzionaria dell’Italia nel mondo fu aperta e apertamente proclamata. Fu estremismo».

E sul tema della libertà: «compito del futuro immediato -vedeva Berto- l’educazione della libertà, far vedere quanto il postulare una educazione, e quindi volontà e responsabilità si distanzi da un’affermazione di libertà vecchio stile, statica e sterile. Ma per Dio!, fare anche vedere che non si può proseguire all’infinito sulla via del saluto romano, del rompete le righe e zitti! Che il fascismo si decida: o con Dio o con il diavolo! O sistema invariabile delle nomine dall’alto o partecipazione del popolo allo Stato, e non semplice atto di presenza alle adunate e versamento dei contributi sindacali. Affogare nel ridicolo, chi vede nella discussione il diavolo, chi non capisce la funzione dell’eresia, chi confonde unità e difformità. Far capire che se non si fa questo, hanno ragione i fondatori di cellule comuniste, e finiranno per averla davvero. Finirla con l’asfissiante frasario a base di "ordine e basta". Libertà da conquistare, da guadagnare, da sudare. Libertà non indistinta ma funzionale e non al servizio dei porci comodi dell’individuo. La libertà che è anche mistica, che anzi non può sboccare che nella mistica, ma libertà come valore eterno, incancellabile, fondamentale. Mostrare come la civiltà e la moralità fascista non possa coesistere nei soli ingredienti "fede e polizia". E anche la libertà di manifestare opinioni e di fare un giornale che dica queste cose è secondaria dinanzi a quella che l’ultimo italiano deve esercitare, cioè il controllo dei pubblici poteri, di denunciare apertamente le ingiustizie, le prevaricazioni da chiunque commesse. Finirla col tabù delle benemerenze personali. Le benemerenze impegnano. In Italia gli attestati di benemerenza sono troppi e contano troppo, sono troppi e rendono troppo. E poi educare alla semplicità di vita le gerarchie, specialmente le loro donne».

E sulla politica estera: «si presenta -scrive Ricci- un fatto inquietante». E mi ha fatto piacere che l’ha detto Vittorio all’inizio dell’apertura di questo Convegno: «qua e là nel mondo -scrive Ricci- le destre si mettono in divisa fascista; arrembano il potere e danno quindi elegantemente lo sgambetto a chi ce le ha portate col proprio sangue. Camicie verdi o guardie di ferro. Le confusioni ideologiche ed i facili innamoramenti, per i quali un qualsiasi generale o colonnello che si mettano a parlare di governo forte e a mobilitare un po’ di ceti medi possano passare per banditori del verbo di Mussolini, ebbene -scrive Ricci- questi signori ci hanno fatto più male della grandine, all’estero e all’interno. Hanno autorizzato certe zone del popolo italiano, e non sempre le peggio disposte verso il fascismo, a vedere il fascismo soprattutto sotto l’aspetto della conservazione sociale».

L’allusione a Franco, qui, è scoperta, e questo valga per Ricci, ma per noi, o almeno per alcuni di noi, è attualissimo e Pinochet ci dice qualcosa a riguardo. Ma poi, è immaginabile, ai tempi che si vivono, una lettera di intenti per fondare un giornale, organata sulle motivazioni che Berto Ricci portava innanzi. Pensate: «si fonda un giornale per dibattere idee. La nostra totale dedizione è all’Italia. La nostra vita è all’Italia. Lo fondiamo perché chi sta in alto dia esempio di umiltà e di pulizia, perché le benemerenze impegnino e non contino. Perchè anche l’ultimo degli italiani abbia il diritto di denunciare chi ruba e chi commette ingiustizie».

Ma ditemi un po’, ma si fondano oggi giornali in Italia per sostenere simili istanze?

Oggi in Italia si fondano ad un unico scopo: farne strumento di lotta fra bande rivali che si contendono il potere, e non si va oltre. Nino Tripodi nel suo "Intellettuali sotto due bandiere", ha risposto alla domanda. Non mi servirò di Berto antifascista, Berto comunista. Non mi servirò delle sue puntuali citazioni. Per la parte in cui è schierato, la testimonianza di Tripodi potrebbe apparire tendenziosa. Berto comunista, Berto antifascista? Io prendo invece a difesa Alberto Asor Rosa, già deputato comunista, operaista, come lui si qualifica, professore universitario a Roma. Nel IV volume della "Storia d’Italia" stampato da Einaudi scrive: «non si creda che le idee sostenute da questi giovani scrittori fiorentini, Berto Ricci è un personaggio assai più importante di quanto non dica la sua fama, siano il frutto di una individualistica ricerca di verità, tendente ad ogni modo a spezzare la corteccia del fascismo con posizioni apertamente e genuinamente eterodosse. Dietro a questi atteggiamenti di questi giovani c’è un corpus di dottrina fascista cui essi in gran parte si ispirano e non si può pensare altrimenti, dopo aver letto il brano -e lo riporta- in cui Giovanni Gentile afferma con molto chiarezza la natura popolare dello stato fascista. Sì, questi giovani, sul piano politico esprimono una posizione di estrema sinistra. Si badi, però, che estrema sinistra -è il comunista Asor Rosa che parla- significa, in questa sede, richiesta di una applicazione totale dei princìpi della rivoluzione fascista ed esaltazione del periodo eroico delle bastonature dello squadrismo. Nel progressismo social-fascista di questi giovani, c’è del nuovo …

[breve interruzione del nastro]

… c’è, rispetto ai precedenti modelli democratici, un più accentuato senso della dimensione sociale dovuto -è Asor Rosa che parla- a quel tipo di ideologia sociale antiproprietaria e collettivistica che nei teorici del corporativismo fascista trova la sua prima sistemazione politica».

Natura popolare del fascismo: se fosse stato altrimenti, cari amici fiorentini, come avrebbero potuto, scrittori come Curzio Malaparte e Vasco Pratolini, scrivere queste pagine sulla Firenze di Berto Ricci?

«Ma anche quei "franchi tiratori" -questo è Vasco Pratolini che scrive, su "il Politecnico" del Dicembre ’47- che si difesero di tetto in tetto erano fiorentini. La Repubblica Sociale Italiana salvò la faccia a Firenze. Una faccia che spuntava coi mitra dai comignoli e dagli abbaini. Soltanto a Firenze ci fu fra patrioti e fascisti vera guerra civile. Fu lì e solo lì vera Spagna. Rossi e neri dietro le barricate, al riparo di una cantonata, la linea del fuoco sugli argini di un torrente, nelle stesse ore dell’Agosto ’44, in cui anche Parigi lottava per la sua liberazione. I partigiani scesero dalle montagne e i fascisti li aspettarono. Non era più nazi-fascismo e Nazioni Unite. Erano fiorentini di due opposte fazioni che si ritrovavano ad uno dei tanti appuntamenti della loro storia. I tedeschi, fatti saltare i ponti, piegavano in ritirata, lasciavano le bande nere a vender cara la pelle. Gli alleati avevano segnato il passo davanti alle rovine dei ponti, affidavano ai volontari della libertà l’onore di cavare le castagne dal fuoco, espugnando la città. Durò otto giorni. E sulla stessa pietra, che ricorda il rogo di fra Savonarola, venne fucilato Pietro Chesi, trionfatore con distacco di una Milano-San Remo, che fa testo negli annali del ciclismo italiano. Dietro l’abside di Santa Croce, ove riposano Machiavelli, Galileo e Foscolo, fu passato per le armi Alfredo Magnolfi, challenger al campionato europeo dei pesi gallo. I partigiani dissero: "Alfredino era una canaglia, ma è morto bene". Morirono bene questi sportivi».

La descrizione che si farà è stupenda, nella prosa di Curzio Malaparte ne "La Pelle", il capitolo "Il Processo", che inizia (oh, se Berto avesse potuto vedere questi ragazzi!):

«I ragazzi seduti sui gradini di Santa Maria Novella. (…) I fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti, che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino. C’era anche una ragazza, fra loro: giovanissima, nera d’occhi e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s’incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo, sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d’estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gessoso, e qua e là screpolato, simile ai cieli di Masaccio negli affreschi del Carmine. A un tratto i ragazzi presero a parlar fra loro ridendo. Parlavano con l’accento popolano di San Frediano, di Santa Croce, di Palazzolo.

"E quei bighelloni che stanno a guardare? O non hanno mai visto ammazzare un cristiano?"

"E come si divertono, quei mammalucchi!"

"Li vorrei vedere al nostro posto icché farebbero, quei finocchiacci!"

"Scommetto che si butterebbero in ginocchio!"

"Li sentiresti strillar come maiali, poverini!"

I ragazzi ridevano, pallidissimi, fissando le mani dell’ufficiale partigiano.

"Guardalo bellino, con quel fazzoletto rosso al collo!"

"O chi gli è?"

"O chi gli ha da essere? Gli è Garibaldi!"

"Quel che mi dispiace" disse il ragazzo, in piedi sullo scalino, "gli è d’essere ammazzato da quei bucatoli!"

"’Un la far tanto lunga, moccicone!" gridò una dalla folla.

"Se l’ha furia, la venga lei al mio posto" ribattè il ragazzo ficcandosi le mani in tasca.

L’ufficiale partigiano alzò la testa, e disse: "Fa presto. Non mi far perder tempo. Tocca a te".

"Se gli è per non farle perdere tempo" disse il ragazzo con voce di scherno "mi sbrigo subito".

E scavalcati i compagni andò a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra, accanto al mucchio dei cadaveri, proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato.

"Bada di non sporcarti le scarpe!" gli gridò uno dei suoi compagni, e tutti si misero a ridere. (…)

Ma in quell’istante il ragazzo gridò "Viva Mussolini!" e cadde crivellato di colpi».



Il più illustre dei sopravvissuti che si trovò con Berto Ricci a collaborare al foglio "l’Universale", Indro Montanelli, nel "Borghese" di Leo Longanesi, il 4 Febbraio ’55, trenta anni fa, così racconta: «quando andai a Firenze, insieme a Brocchi, a conoscere il direttore del periodico Berto Ricci, con il quale avevo scambiato alcune lettere, anche per me il fascismo cominciò a contare qualcosa».

Due esili volumetti, oggi credo introvabili, uno di poesie, l’altro di pezzi polemici, son tutta l’eredità lasciata da Berto, caduto volontario a Bir Gandula nel 1941. Sulle poesie non mi sento di pronunciarmi perchè non ne capisco nulla, ma sulla prosa polemica mi pare di poter dire che la letteratura giornalistica non ne ha mai avuta di così stringente, dura e qua e là spavalda. A quella grande epopea mancata, che fu il fascismo, "l’Universale" di Berto Ricci fornì un contributo la cui inutilità non toglie nulla al suo valore e quando un giorno si farà, al di fuori della polemica, la storia di quel regime e dei tentativi che nel suo interno furono fatti da alcuni giovani per impedirne la mummificazione, quel piccolo quindicinale apparirà più importante del "Popolo d’Italia" e di "Gerarchia".

Fin qui Mussolini. Più importante perché? Perché su tutti, amici di Firenze, al di là delle idee, le più disparate, che ne "l’Universale" venivano dibattute, con una libertà senza pari e sulle quali quei giovani sotto i trent’anni si accapigliavano con impegno ed entusiasmo, una convinzione è per la preminenza che nasce, ferma e ripetuta fino all’ossessione, che la rivoluzione italiana sarebbe stata tale solo se riusciva a costruire un nuovo tipo di italiano. Qui sta la solitaria grandezza di Berto Ricci. Qui sta la sua eresia nei riguardi di un fascismo ufficiale che in questa opera di costruzione umana non fu pari alla predicazione.

Berto Ricci non mancò a quell’appello di fondo. Fu un maestro di carattere. Portò l’impegno di fare le cose sul serio sino alle estreme conseguenze.

Si è detto, dal punto di vista letterario ci lascia soltanto due o tre volumetti. Sì, perché Berto, più che fornire parole, badò a dare un esempio a chi gli stava vicino, fino alla morte, e ci riuscì, vista la straordinaria autorità che esercitò su quei giovani di allora e che vi si raccoglievano intorno e chi si chiamavano Indro Montanelli, Ottone Rosari, Romano Bilenchi, Dino Garrone, Camillo Pelizzi, Elio Vittorini, Vasco Pratolini.

Lui, anti-gentiliano, si spense gentilianamente.

«Un uomo è vero uomo -aveva scritto Giovanni Gentile nel "Sommario della pedagogia"- se è martire delle sue idee. Non solo le confessa e le professa, ma le attesta, le prova e le realizza».

Berto Ricci è l’insegnamento che ci ha lasciato e che proprio nel suo ricordo, nel suo rifiorire prepotentemente dopo tanti anni di oblio, ci fa dire che spesso quell’insegnamento, come operatori di politica, in questa Italia della fuga dalla storia, abbiamo spesso offeso. Ai gigioni degli immancabili destini del «credere, obbedire, combattere», del «meglio un giorno da leoni» ci fu Berto Ricci che i problemi, anziché in termini di retorica facile, se li pose in termini di coscienza. Un fenomeno umano e politico che non ha eguali assolutamente nel tempo…

[interruzione]

Fin dal 1821 una costante storica italiana si afferma: la vocazione del volontariato. Si corre laddove le idee in cui si crede si danno battaglia. Berto parte due volte volontario: come soldato semplice la prima volta, come ufficiale la seconda. Per le idee in cui crede rinnova la tradizione che fu di Garibaldi e per le idee in cui crede muore.



1945-1984: quella tradizione è del tutto spenta.

L’Italia antifascista, alla lotta delle idee in cui afferma di credere non dà volontari. Nemmeno uno. Nemmeno nello scontro più fortemente passionario, il Vietnam, tutto finisce in cortei, nella raccolta di firme, nei gesti di solidarietà turistico-simbolici come i gemellaggi. Finisce la fede, tramonta l’idea, non sventola più nessuna bandiera. È il periodo democristiano. È il periodo bianco della nostra storia: la fuga dalla storia.

Con il 1945, con piazzale Loreto, la vena letteraria in senso lato, dei nuovi scrittori si esaurisce. Deserto. Nel libro citato di Nino Tripodi, "Intellettuali sotto due bandiere", è riportata una frase significativa del pittore comunista Renato Guttuso: «la cosa strana è che le cose migliori che abbiamo prodotto le abbiamo fatte sotto il fascismo, sotto Mussolini perché sia Vittorini con "Conversazioni in Sicilia", sia Luchino Visconti con "Ossessione", sia io con la "Crocifissione" abbiamo dato il meglio di noi sotto il fascismo».

Gli fanno eco i due registi Paolo e Vittorio Taviani, "La notte di San Lorenzo": «rispetto ai nostri miserabili anni di piombo del terrorismo e della pazzia, quelli del diavolo di Mussolini erano anni di diamante».

Ma perché, italiani di Firenze? Perché nella decrepita società italiana del primo dopoguerra, Mussolini, aggregando e contrapponendo per forza di idee gli uomini vivi, rimette in moto il sangue, la vita della storia. Fascisti e antifascisti si dividono, si fronteggiano, si scontrano, ma creano. Non fuori della storia ma dentro la storia. La fine di Mussolini è la fine delle speranze, per tutti, comunque la si pensi. Proiettati fuori della storia, rassegnazione è la nostra bandiera.



Indro Montanelli, e ho finito.

Nell’articolo citato del 1955, scrive: «non ha alcuna importanza stabilire che idee dibattevamo ne "l’Universale" di Berto Ricci. Le idee non si dividono in buone o cattive, ma in quelle in cui si crede e quelle in cui non si crede. Noi, nelle nostre, ci credevamo».

Montanelli pone la domanda -ascoltate bene, è del ’55- «abbiamo più creduto in altro, dopo di allora? Quando decisi di voltare le spalle al fascismo -racconta Montanelli- e andai a parlarne con Berto Ricci, questi mi disse: "Pensaci bene. Per non arrossire di fronte a noi stessi e l’uno di fronte all’altro, se imbocchi questa strada, devi batterla fino in fondo, sino al confino o all’esilio. Questo solo ti chiedo: di poter continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico". Lì per lì - scrive Montanelli-quando Berto mi disse che se imboccavo una nuova strada, era mio dovere batterla fino in fondo, mi pareva di essere ben deciso a farlo. Ma poi mi accorsi che, per battere fino in fondo una strada, bisogna sapere almeno qual è. Ed io non lo sapevo. Credevo di essere diventato antifascista, ma non era vero. Anticipavo solo di qualche anno quella melanconica cosa che è l’Italia di oggi, l’Italia smaliziata e utilitaria degli italiani che non ci credono più. È così che diventai scanzonato ed entrai nella compagnia dei grandi scettici, cioè di coloro a cui si deve il bel capolavoro di questa Italia. Mi ero illuso di aver trovato una bandiera: ora so benissimo che di bandiere non posso averne altre e l’unica che seguiterà a sventolare nella mia vita è quella che disertai, prima che cadesse. Fummo giovani soltanto allora, amici miei!».

Così trenta anni fa, Indro Montanelli, rendeva omaggio a Berto Ricci.

A Berto Ricci, uomo nuovo di Mussolini, in questa Italia vecchia, senza respiro storico e senza speranza, rendiamo omaggio, soffrendo per non essere stati pari al suo insegnamento di vita e al suo messaggio. Alla moglie Mafalda, al figlio Paolo qui con noi, il nostro abbraccio affettuoso…



Beppe Niccolai



Berto Ricci: come fummo giovani allora (http://www.beppeniccolai.org/Giovani_allora.htm)

Avamposto
19-08-10, 11:57
PENSIERO

Berto Ricci

Nasce a Firenze il 21 maggio 1905 figlio del cav. Arturo Ricci e di Bianca Stazzoni. Sin da piccolo mostra una grande attitudine alla matematica che lo porta a frequentare l’Istituto Tecnico “G.Galilei” e successivamente il Politecnico di Torino, dopo il biennio, però, non essendo portato al disegno tecnico si trasferisce alla Normale di Pisa dove si iscrive ai corsi di matematica e fisica conseguendo poi la laurea nel 1926 a Firenze presso l’Università Statale.
Roberto “Berto” Ricci non è solo un matematico egli mostra infatti una naturale inclinazione anche alla letteratura e alla poesia, fatto atipico nella formazione culturale di un intellettuale del Novecento. Infatti di questo primo periodo della sua vita vi sono innumerevoli lettere scritte ai suoi amici dalle quali affiora un forte anarchismo composto prevalentemente da sentimenti anti-borghesi e anti-clericali. Gli scritti di questo periodo raccolti nei “Quaderni” sono in prevalenza riferiti alla cultura eretica del Medioevo e del Rinascimento dove evidenzia il cristianesimo eversivo dei Patarini, dei Flagellanti e dei Fraticelli nonché una robusta ammirazione per Giordano Bruno. Per questo giovanissimo Ricci autori di riferimento sono Cecco Angiolieri, Boccaccio, Petrarca, Ariosto e Machiavelli. E’ contrario alla pena di morte e alla tortura, di Rousseau condivide il concetto di primato della politica. Berto ha una concezione anti-materialista della vita ed una visione universale dell’esistenza e dell’agire umano.
Della sua prima attività poetica ricordiamo “All’Italia”, “Vento di Aprile”, “Ode al Re”. Nel 1930 pubblica per la casa editrice Vallecchi di Firenze “Poesie” sotto l’influenza letteraria di riviste come “Voce” e “L’Acerba”, nel 1933 pubblica l’ opera “Corona Ferrea” apice della sua produzione poetica. Per Berto l’adesione al fascismo non fu improvvisa, come per molti altri avveniva allora, ma meditata e ragionata e soprattutto sempre critica nei confronti della retorica del regime, lato nel quale emerge la sua giovanissima indole anarchica. E’ importante sottolineare che per Berto il regime ed il Fascismo non potevano prescindere da Mussolini che era il massimo esponente e l’incarnazione stessa della rivoluzione.
Berto collabora con “Il Selvaggio” di Maccari e tesse amicizia con Rosai, Romanelli ed altri che saranno i fondatori de “L’Universale”. Nei suoi scritti traspare la scuola toscana, colorita e sarcastica nonché influenze dei contemporanei Papini e Soffici oltre a quella del Carducci . Egli intende la toscanità come italianità necessaria al Fascismo perché senza fronzoli, acuta e di tendenza popolare, è convinto infatti, che il significato di tradizione culturale italiana, fascista, non deve essere ripetizione ma il dovere di interpretare la modernità, resuscitare lo spirito e non le forme dell’antichità.
A tal proposito elogia G.Verga perché conserva lo spirito della sua terra e non già L.Pirandello, le cui opere non erano pervase di sicilianità. Secondo Ricci in una visione aristocratica e gerarchica la cultura popolare deve forgiare, al di là della classe sociale di appartenenza, l’elite sociale che governa, interpretando sempre la realtà e l’arte non deve essere asservita ai regimi ma deve anch’essa interpretare il tempo attraverso il sua alto sentire. Inoltre dalle pagine de “il Selvaggio” egli si scaglia contro l’imborghesimento del regime. Nel 1928 comincia la collaborazione con “Il libro italiano” di cui diventa ben presto punto di riferimento. Da queste pagine firma la secca e polemica prosa che contribuisce alla diffusione di una cultura fascista, contributo concreto alla creazione di un impero sotto influenza italiana. La sua critica si indirizza contro ogni forma di manierismo ottocentesco, contro l’europeismo retorico e il nazionalismo esasperato.
Nel 1931 nasce “L’Universale”, alla base della pubblicazione vi sono i classici della letteratura toscana, primo fra tutti Machiavelli.
E’ indubbio riconoscere che “L’Universale”, foglio firmato da intellettuali militanti, aveva una natura altamente critica, non priva di contraddizioni, attaccando specialmente gli sbandamenti classisti del regime e dei suoi rappresentanti. Secondo Berto, infatti, il Fascismo è rivoluzione permanente, unica alternativa al liberismo e al collettivismo. Le polemiche che più si accesero durante la vita de “L’Universale” erano relative alle forti concezioni anti-borghesi, anti-clericali ed anti-capitaliste che emergevano nei vari articoli della pubblicazione, il Fascismo vede nascere la critica proprio al suo interno, nell’ambiente giovanile movimentista che a sua volta è continuamente attaccato da molti esponenti del regime.
Mussolini in persona lo richiede al “Popolo d’Italia” e Berto, data la sua immensa stima per il Duce del Fascismo, accetta ed entra nel giornale chiudendo così definitivamente la scomoda e fastidiosa per molti pubblicazione de “L’Universale”.
Nel 1939 Berto è speranzoso in una guerra che già spira nell’aria, vista come unica soluzione rivoluzionaria per accelerare lo scontro con il fronte capitalista, all’esterno, e combattere la borghesia e i suoi privilegi, all’interno. Molti amici si sono da lui allontanati, alcuni divenuti antifascisti e allo scoppio della guerra è lui stesso che richiede il fronte. Pronto ad incarnare con l’azione quel pensiero che ha sempre enunciato nei suoi scritti chiede egli stesso con insistenza il fronte:
«Caro Pavolini, vi chiedo un favore ... mi sentirei pochissimo a posto dinnanzi a me stesso e all'Italia se restassi a casa mentre si combatte. Aspettavo una cartolina che non viene, voi siete uomo da capire uno stato d'animo che mi dà giornate bruttine. Ho fatto domanda al distretto per essere assegnato ad un reparto combattente, ma ho paura che la domanda resti là a dormire. Non so come andranno le cose dopo la capitolazione francese, ma credo che la partita con gli inglesi non sarà nè brevissima, nè vana. Insomma, vi chiedo, caro Pavolini, di appoggiare questa domanda che ho fatto; tanto se resto a casa sono un uomo inutile, non son più buono nè a scrivere un rigo, nè a dire una parola e come me ce ne è tanti. Almeno ai giornalisti dovrebbe essere concesso di combattere. Aspetto da voi una parola e vi ringrazio perché so che farete quel che potrete. Il vostro B.R.»
Dopo essere stato inviato in un reparto non operativo a Marina di Pisa ottiene finalmente di essere inviato su un fronte di guerra.
Raggiunge infatti il fronte in Africa Settentrionale sul Gebel Cirenaico, continuando a scrivere nella consapevolezza di chi conosce già il suo destino.
Il 2 febbraio 1941 alle 9.30 del mattino presso Bir Gandula, lui ed i suoi camerati e commilitoni vengono falciati dalle mitraglie degli aerei inglesi. Berto colpito in pieno da una raffica muore sul colpo.
“La sua fierezza di cuore e la dedizione di tutte le ore al fascismo gli vietarono di dare quello che avrebbe potuto dare alla letteratura italiana.
Abbiamo perduto qualche splendido libro, ma si è avuto sottomano il libro aperto di una umanità fatta uomo senza pari, che operò, sofferse, ebbe e dette, dalla forza, la fede. E del resto, piaccia o no (per dirla con lui) ai babbuini, ai fiaschi vuoti, ai palloni gonfiati, agli agnostici, ai cinici, resta uomo di viventi e cocenti passioni. Fu una coscienza senza sonno, innamorata di quella: «Italia dura, taciturna, sdegnosa che portava la, sua anima in salvo soffrendo delle contraddizioni dei ciarlatani, dei buffoni, dei letterati e dei commendatori, l'Italia che ci fa spesso bestemmiare, perché la vorremmo più rigida, più attenta, più macra, vicina alla perfezione dei Santi” (B. Niccolai)





BIBLIOGRAFIA

• Asor Rosa “Scrittori e popoli” Einaudi
• Buchignani “Un fascismo impossibile” Il Mulino
• Folin Quaranta “Le riviste giovanili del periodo fascista” Canova
• Heruret “La ventura delle riviste” Vallecchi
• Insenghi “Intellettuali militanti e intellettuali funzionari” Einaudi
• Luti “Le riviste letterarie in Toscana durante il ventennio in “La Toscana nel regime fascista” di AA.VV. Vol. I° pagg 375-411 La Nuova Italia
• Monacorda “Letteratura e cultura nel periodo fascista” Principato
• Ricci “Lo scrittore italiano” Ciarrapico
• Rimbotti “Il fascismo di sinistra” Settimo Sigillo
• Turi “Il Fascismo e il consenso degli intellettuali” Il Mulino
• “L’Universale” Antologia a cura di D.Bracchi Il Borghese
• Veneziani “La rivoluzione conservatrice in Italia” Sugareo
• Zangrandi “Il lungo viaggio attraverso il fascismo” Feltrinelli


Emmetrentanove Associazione Culturale | Pensiero - Berto Ricci (http://www.emmetrentanove.com/pensiero_berto-ricci.php)

Avamposto
19-08-10, 11:59
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Avamposto
19-08-10, 12:00
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Avamposto
19-08-10, 12:05
Berto Ricci - Conferenza all’Istituto Storico della RSI (Recensione)


Domenica 28 febbraio 2010 si è svolta, presso la sede dell’istituto storico della Repubblica Sociale Italiana di Cicogna, la conferenza su Berto Ricci – l’ortodossia nella trasgressione – tenuta da Maurizio Rossi.

La conferenza è stata preceduta da una lunga introduzione da parte dell’ingegnere Conti rivolta ai giovani che da poco si sono avvicinati all’istituto, riguardante la storia a grandi linee della RSI nei suoi punti chiave di carattere costitutivo. In seguito l’ingegnere ha proceduto con il tracciare un profilo storico dell’istituto, dalla sua nascita nel 1986 come associazione culturale fino alla trasformazione in fondazione e ai giorni nostri, oltre che nella lettura, commentata da lui stesso, di alcuni punti fondamentali dello statuto della fondazione.

Dopo questa parte iniziale ha preso la parola Maurizio Rossi, che con brillante oratoria ha tracciato un quadro generale ma nel contempo completo ed esauriente della figura di Berto Ricci.

Prima di cominciare però egli ha voluto rivolgere un pensiero alla figura del camerata Pio Filippani Ronconi, recentemente scomparso, al quale è stato negato il funerale secondo i suoi voleri; questo testimonia come certi uomini, col loro esempio espresso tramite il verbo dell’azione, hanno la capacità di restare minacciosi e temuti anche da morti.


Rossi inizia riconoscendo in Berto Ricci un grande teorico del fascismo nonché uno dei maggiori pensatori della cultura fascista. Quest’ultima però non fu mai univoca, ma piuttosto frammentata in una molteplicità di filoni differenti e talvolta contrapposti; infatti Ricci, pur essendo riconosciuto come teorizzatore influente del fascismo, non ricoprì mai il ruolo di figura vertice del regime (come ad esempio avvenne invece per Gentile) e operava al di fuori dei canali ufficiali rappresentati dall’istituto di cultura fascista. Il suo avvicinamento al fascismo non è stato immediato: negli anni che vanno dal ’21 al ’26 fu un giovane anarchico il cui rapporto con il regime appena installatosi in Italia era quello di oppositore. In seguito disse che secondo lui si può facilmente traghettare dall’anarchismo al fascismo senza complicazioni; a conferma di questa sua brillante intuizione possiamo ricordare il grosso contributo degli anarchici allo squadrismo e alla mentalità dell’epoca. Da una certa sinistra antifascista e non solo, Berto Ricci viene spesso definito come un eretico e il suo un fascismo impossibile, questo perché definirlo un fascismo diverso, un’altra possibilità di applicazione dell’idea fascista, sconvolge il quadro di chi vorrebbe rinchiudere il fascismo all’interno di un recinto fatto di stereotipi ormai radicatisi nel tempo. In realtà lui non fu un libertario, bensì un grande intransigente. Attaccò tutti quelli che secondo lui erano dei gretti “voltabandiera” all’interno delle università e che aderivano al fascismo unicamente per convenienza, oltre che ad esprimersi riguardo alla mancanza di univocità del Duce. Criticò quella che secondo lui fu la mancanza di un’anima veramente totalitaria del regime, di una rivoluzione fatta a parole ma che non portò i cambiamenti conseguenti e inizialmente auspicati. Infatti considerando il fascismo come un’alternativa di civiltà, in special modo dal punto di vista economico-produttivo con la cosiddetta “terza via”, Berto Ricci partecipò attivamente al discorso sul corporativismo cercando effettivamente di costruire una linea guida e una teoria realistica ed applicabile del corporativismo fascista. Egli fu un rivoluzionario integrale e non un eretico; odiato da tutte quelle “mele marce” che vivevano alle spalle e alle spese del Duce e del regime, rallentando e sfavorendo notevolmente quel processo rivoluzionario al quale Ricci auspicava.

Quando a partire dal ’38 il regime ripiega su se stesso e tutto l’apparato istituzionale comincia a mostrarsi obsoleto e inefficace, Mussolini intuisce che per rinnovare e svecchiare il fascismo, nonché allontanare i malumori crescenti, è necessario affidarsi a quella base fascista ortodossa che non perse questa caratteristica col passare del tempo, optando per una svolta che sia davvero rivoluzionaria e di sborghesizzazione dell’Italia. Chiaramente Berto Ricci venne inserito all’interno di questo progetto e come già detto prima, continuò nel cercare di rendere il corporativismo realmente funzionale e funzionante. Quest’opera di rinnovamento, almeno per quel che riguarda Ricci, fu bruscamente interrotta col la sua partenza per il fronte e con la sua morte nel ’41 in Africa. Egli partì per la guerra perché, come tanti fascisti puri come i ragazzi del GUF, credette che anche la guerra potesse essere uno strumento funzionale, talvolta ben più di altri, per portare la rivoluzione fascista fino in fondo. Se non fosse morto al fronte, Berto Ricci avrebbe sicuramente aderito alla Repubblica Sociale Italiana, in quanto il suo pensiero aveva già in se quegli elementi intransigenti e fortemente rivoluzionari che, nonostante le condizioni tutt’altro che favorevoli, si cercò di attuare durante la RSI.

In ultima analisi possiamo dire che Berto Ricci è stato un uomo che, dopo aver scritto e teorizzato molto, ha dimostrato con il suo esempio la coerenza intrinseca alla sua persona, scegliendo l’azione e il coraggio di portare fino in fondo le proprie idee.

Tra le varie figure presenti, trovo sia importante sottolineare la presenza del figlio di Berto Ricci, in quanto non sempre purtroppo è possibile constatare la partecipazione entusiastica ed orgogliosa dei figli nei confronti di un padre che, come molti, decise di farsi portavoce di quella che poi venne - e purtroppo viene - considerata la “barricata sbagliata”.

Alla conferenza è seguito il pranzo comunitario, ben organizzato e buona la cucina, per il quale si ringrazia lo staff della fondazione RSI.



Azione Tradizionale » Blog Archive » Berto Ricci - Conferenza all’Istituto Storico della RSI (Recensione) (http://www.azionetradizionale.com/2010/03/05/berto-ricci-conferenza-allistituto-storico-della-rsi-recensione/)

Avamposto
29-09-10, 13:04
"C'é in Italia un po' di gente, gente giovane e cominciano ormai a conoscersi e a contarsi, che non si sente nata a far da fedelissimo a nessuno; che saggia, sonda, sposta la visuale, rasenta a volte l'eresia, e preferisce lo sbagliarsi al dondolarsi tra gli agevoli schemi; che parla un linguaggio proprio, e ha proprie e ben riconoscibili idee; che considera il presente unicamente in funzione del futuro; che ha buone gambe e una tremenda voglia di camminare".

( Berto Ricci )

Ottobre Nero
30-09-10, 09:35
Grande Italiano e tra le più importanti figure del fascismo di sinistra: ha incarnato un modello di critica alla sclerotizzazione del regime.

Avamposto
30-09-10, 13:00
Grande Italiano e tra le più importanti figure del fascismo di sinistra: ha incarnato un modello di critica alla sclerotizzazione del regime.

Quoto.

Probabilmente una delle menti più acute e tra gli intellettuali più propositivi della generazione dei giovani cresciuti con e durante il Ventennio.

Brillante giornalista di quella cosiddetta "Sinistra Fascista" che sognava una seconda rivoluzione per rilanciare gli ideali socialisti del Fascismo sansepolcrista originario.

stanis ruinas
31-12-10, 19:31
Berto Ricci : la nostra Idea di Fascismo come rivoluzione in movimento!

stanis ruinas
31-12-10, 19:32
http://4.bp.blogspot.com/_bBv3uv0MLOA/STAKDe_Q9mI/AAAAAAAAEA4/N2MT_0SWyjQ/S660/BLOG+BERTO+RICCI+copia.jpg

stanis ruinas
19-01-11, 18:14
«La Cultura Fascista, che recupera valori dell’intero novecento italiano, non è di destra. Il movimento della “Voce”, antiliberale nel midollo e nell’espressionismo polemico, rivive nel moto de “L’Universale” di Berto Ricci»



(Benito Mussolini)



«Berto Ricci ha reso fiera la nostra Nazione, e ogni italiano ne è orgoglioso». Così si espresse Giampiero Mughini, nella celebre conferenza con Valerio Morucci tenuta a CasaPound.
Ma siamo davvero sicuri che sia così? Nella stanca e vuota Italietta dei nostri giorni, quanti conoscono la lezione dell’intellettuale fiorentino?
La verità è che il suo anticonformismo dirompente, la sua prosa violenta e il suo spregiudicato antiborghesismo risulterebbero indigesti alle plebi americanizzate dei nostri giorni, più a loro agio tra grilli parlanti e grandi fratelli.
Ciò che è peggio è che Berto fu Fascista, non per calcolo politico o comodità (come gli illustri Montanelli, Bocca & co.), ma aderendo intimamente ai princìpi della Rivoluzione e cercando di incarnarli in ogni gesto ed ogni azione. La sua vita fu un sofferto e meditato percorso volto alla realizzazione dell’ “uomo nuovo”: spartano, eroico, giovane, con tutte le difficoltà e le contraddizioni del caso.

Ricci (1905 – 1941) si avvicinò relativamente tardi al Fascismo, iniziando a collaborare al “Selvaggio” di Mino Maccari nel 1927, e dimostrando sin da subito di trovarsi a suo agio nei fogli meno conformisti del Regime. Forte di un passato addirittura anarchico, “assaltò” la mentalità borghese e l’ottuso clericalismo che frenavano le istanze sociali e rinnovatrici dell’azione mussoliniana, attirandosi le ire del conservatorismo vecchio ed inutile che ancora affollava l’Italia. Quasi galvanizzato dalla polemica, continuò febbrilmente la sua attività culturale fino a fondare nel 1931 “L’Universale” («scritto col fuoco, alla carducciana, e non con lo stile leopardevole»), rivista che raccolse le intelligenze più giovani e spregiudicate della “sinistra fascista”.

Non perse tempo ad innescare dibattiti con i suoi articoli al vetriolo, che mettevano a nudo la meschinità di quanti sfruttavano il Regime per scopi personali, senza capirne l’essenza: «L’Italia è stata liberata dai bolscevichi, ma bisognerà liberarla dai commendatori, razza più dannata; dai professori corrotti ed insulsi, e da tutta la maledetta gente perbenino».

In “Errori del nazionalismo italico” sfidò ampi settori della cultura del tempo, legati ad una visione ottusa, limitata e borghese della Patria, adulatrice della propria terra e del proprio capo a prescindere. Al suo posto Ricci propugnò la riscoperta dell’Imperialismo, inteso come spinta ideale che riesce a conquistare i popoli in virtù della suo primato culturale, sulla scia del Dante del Monarchia e del Mazzini del Concilio.
Una vera e propria sfida di Civiltà, che contrapponeva il Fascismo alle ideologie materialiste liberali e marxiste, due facce della decadenza: «Cadente Mosca non perché sovvertitrice, ma perché asservita alla causa della materia e del capitale […] congiurata con l’antirivoluzione poliglotta ai danni dell’Italia novatrice e proletaria – resta come polo dei popoli Roma e soltanto Roma».

La grandezza del Fascismo stava nel rifiutare la concezione dell’homo oeconomicus («L’intelligenza Fascista mira al totale dell’Uomo, non ha punti di contatto con l’uomo economico»), riconoscendo e preservando tutte le tradizioni e le spinte verso il Sacro che sono parte fondamentale dei popoli.
La tensione spirituale fu una costante del pensiero ricciano, potendo individuare nei suoi scritti eroismo nietzscheano, vitalismo bergsoniano e richiami pagani accanto ad un cattolicesimo “pauperistico e guerriero”, sull’esempio dei Templari.

Insieme a tutto questo vi era una spiccata attenzione per l’aspetto sociale: Ricci si batté con forza per far “accorciare le distanze” tra classi sociali, per la scuola aperta a tutti, per le Corporazioni come luogo di effettiva e feconda partecipazione dei lavoratori, oltre che di selezione delle élites politiche. Il suo impegno in questo senso gli attirò addirittura accuse di “bolscevismo” da parte di Farinacci, quando negò che la proprietà privata fosse un principio inviolabile del Fascismo. Incurante delle critiche continuò a combattere conservatori, borghesi e profittatori: «la mentalità d’arricchimento va combattuta e limitata, pena il restar fermi all’idolo antieroico e antifascista della ricchezza vertice di valori […] occorre che la ricchezza privata valga poco, serva a poco; che con essa si ottenga poco».
A livello mondiale, simbolo di questa mentalità erano le plutocrazie inglese ed americana. Ricci si oppose fermamente alla penetrazione dei loro costumi in Italia, arrivando a scagliare idealmente Roma “la Città dell’Anima” contro Chicago “la città del maiale”. La risposta al parlamentarismo capitalista stava nella già accennata Corporazione, fulcro di una riforma che vede l’economia subordinata ad un’etica superiore sintetizzata dallo Stato. «Il problema non è o è solo secondariamente abbattere il bolscevismo, ma in primissima linea quello di abbattere un mondo, una struttura economica che ha reso il bolscevismo possibile ed inevitabile».

Dopo aver suscitato interesse in Julius Evola, Giuseppe Bottai, Emilio Settimelli, Benito Mussolini (che incontrò nel 1934 a Palazzo Venezia) ed essersi messo in contrasto addirittura con Giovanni Gentile (pubblicò un “Manifesto Realista” in contrapposizione all’idealismo e alla moderazione del filosofo siciliano), vide la sua rivista chiudere agli albori della Guerra d’Etiopia. Fu una decisione profondamente sbagliata del Regime, anche se forse “L’Universale” sarebbe cessato comunque, visto che quasi tutti i suoi componenti partirono per il fronte, Ricci in primis. «Se resto a casa sono un uomo inutile: non son più buono a scrivere un rigo o a dire una parola. E come me ce n’è tanti. Almeno ai giornalisti dovrebbe essere concesso di combattere» scrisse chiedendo di essere assegnato alla prima linea. Molti gerarchi, invece, andarono in caccia di gloria a buon mercato, facendo solo finta di combattere. Solo Farinacci si ferì… mentre pescava!

Al suo ritorno Ricci collaborò con molte riviste di primo piano, come “Critica Fascista” di Bottai e “Il Popolo d’Italia” di Mussolini, oltre ovviamente al libro Processo alla Borghesia, sintesi della battaglia fascista contro la mentalità “passatista” che Berto conosceva bene.
Il fecondo contributo culturale del “fascista eretico”, simbolo di quella gioventù entusiasta ed insofferente che avrebbe costituito la futura classe dirigente, fu interrotto bruscamente allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

L’intellettuale toscano si gettò con coraggio nel fronte africano, trovando la morte per mano inglese il 2 Febbraio 1941 a Bir Gandula. Il conflitto si concluse tragicamente, ed i sogni di chi, come Ricci, aveva creduto nel riscatto del popolo italiano finirono nel sangue.
Fortunatamente il suo lascito non è andato completamente perduto, ed ultimamente il suo pensiero è stato accostato addirittura ad Antonio Gramsci (per la concezione di politica totalitaria, l’anti-accademismo e la visione realista e populista) e ad Ernst Jünger (nell’idea di “cavalcare la tigre” tecnologica e sul piano del lavoratore inteso come realtà spirituale).

Ma è ancora poco, troppo poco. Il suo impegno civile e rivoluzionario, la sua coerenza, la sua vis polemica, il suo inesauribile contributo culturale e il suo eroismo sono stati sostanzialmente accantonati, e Dio sa quanto ne avremmo bisogno.







AVGVSTO: Le Verghe del Fascio: Berto Ricci “Fascista eretico” (http://augustomovimento.blogspot.com/2009/03/le-verghe-del-fascio-berto-ricci_03.html)