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Majorana
20-08-10, 03:12
Julius Evola

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Nell'introduzione alle Enneadi Porfirio scrisse di Plotino: "Della sua origine dei suoi parenti, della sua patria non amava parlare: né mai permise che pittore o scultore gli facesse il ritratto, quasi si vergognasse di avere un corpo".

Di Julius Evola si potrebbe dire la stessa cosa: degli anni dell'infanzia e dell'adolescenza infatti sappiamo poco o nulla, e poco o nulla conosciamo, attraverso di lui, di episodi, esperienze o solo aneddoti della sua vita. Nel Cammino del Cinabro, un libro considerato la guida attraverso i suoi libri e le sue idee, e che possiamo tranquillamente definire la sua autobiografia spirituale, Evola non si abbandona mai all'onda dei ricordi: si ha così l'impressione che nulla nella sua vita sia stato lasciato in sospeso e che soprattutto lui stesso considerasse la sua persona semplicemente come il veicolo, lo strumento, il canale di trasmissione dell'idea tradizionale e della sua etica che ammonisce non esser importante chi agisce ma l'azione compiuta.

Julius Evola nasce a Roma il 19 maggio del 1898 da una famiglia siciliana di antiche origini nobili, le prime notizie, scarne, che lo riguardano le apprendiamo dal Cammino del Cinabro: "Nella prima adolescenza si sviluppò in me un interesse naturale e vivo per le esperienze del pensiero e dell'arte. Da giovinetto, subito dopo il periodo di romanzi d'avventure, mi ero messo in mente di compilare, insieme ad un amico. una storia della filosofia, a base di sunti. D'altra parte. se mi ero già sentito attratto da scrittori come Wilde e D'Annunzio, presto il mio interesse si estese, da essi. a tutta la letteratura e l'arte più recenti. Passavo intere giornate in biblioteca, in un regime serrato e libero di letture. In particolare, per me ebbe importanza l'incontro con pensatori come Nietzsche, Michelstaedter e Weininger".

Parallelamente era catturato dalla cultura più anticonformista di quel tempo: Marinetti e il futurismo, Papini e Lacerba, Tzara e il dadaismo. Evola fu in contatto anche epistolare con Tzara e lui stesso s'impegnò nel dadaismo dipingendo alcuni quadri che gli hanno fruttato la qualifica di maggiore e più interessante esponente del dadaismo italiano. Sono dipinti questi le cui geometrie metafisiche sprigionano un'aurea come quelle di alcune poesie, scritte anch'esse in quegli anni. Una dedicata all'alba recita così: "A levante ora il cielo si diluisce I ha dissonanze in roseo I mentre giungono lentamente impolverati suoni flautati".

Evola sentiva fortissimo l'impulso alla trascendenza: "quasi il desiderio di una liberazione o evasione non esente da sfaldamenti mistici", ma allo stesso tempo la disposizione intima di kshatriya, di guerriero, gli portava un impulso per l'azione. Nel 1917 partecipa diciannovenne al primo conflitto mondiale come ufficiale di artiglieria. Evola non è un nazionalista, è attratto anzi dagli Stati imperiali contro cui deve combattere. Viene assegnato a posizioni montane di prima linea vicino ad Asiago dove cominciano, forse, le sue meditazioni delle vette, il suo amore per l'alpinismo e la montagna come espe*rienza interiore.

Evola, che non viene impegnato in azioni militari di rilievo, finita la guerra rientra a Roma: gli anni che seguono saranno per lui quelli di una crisi esistenziale drammatica e decisiva. Scrive nel Cammino: "Col compiersi del mio sviluppo, si acutizzarono in me l'insofferenza per la vita normale alla quale ero tornato, il senso dell'inconsistenza e della vanità degli scopi che normalmente impegnano le attività umane. In modo confuso ma intenso, si manifestava il congenito impulso alla trascendenza".

Evola sente il bisogno di raggiungere una percezione più profonda e reale della realtà oltre quella, limitata, dei cinque sensi fisici: comincia a far uso di sostanze stupefacenti per placare in qualche modo la sua fame di assoluto. Ciò però non risolve nulla, anzi aggrava la situazione tanto che giunge ad un punto morto: ha 23 anni, l'età in cui si suicidarono Weininger e Michelstaedter. Decide di farla finita anche lui, di chiudere la partita con la vita.

Ma accade qualcosa: “Questa soluzione”, scrive Evola, “fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una illuminazione, che io ebbi nel leggere un testo del buddhismo delle origini”. Così recitava il testo del Buddha: "Chi prende l'estinzione come estinzione, e presa l'estinzione come estinzione pensa all'estinzione, pensa sull'estinzione, pensa 'mia è l'estinzione' e si rallegra dell'estinzione, costui, io dico, non conosce l'estinzione". "Fu per me una luce improvvisa". scrive Evola. "in quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento, e il sorgere di una fermezza capace di resistere a qualsiasi crisi”.

Evola non rinnegherà mai certe esperienze, ma terrà a specificare che non divenne schiavo delle droghe e che successivamente non ne senti più il bisogno né la mancanza. Intanto, si conclude una fase. Già nel 1921 infatti, Evola smette del tutto la pittura, e dopo il 1922 cessa anche di scrivere poesie.

Comincia il periodo filosofico: già nel 1917, in trincea, aveva iniziato a scrivere Teoria e Fenomenologia dell'individuo assoluto, un'opera che conclude nel 1924 e che viene pubblicata in due volumi, dall'editore Bocca, nel 1927 e nel 1930. In questi due libri Evola associa il suo interesse per la filosofia a quello per le dottrine riguardanti il sovrarazionale, il sacro e la Gnosi. L'obiettivo era tentare il superamento della dualità io/non-io: il soggetto che percepisce il mondo deve sentire che quell'io che ha evocato il mondo è lui stesso, che i confini del suo essere sono più estesi di quelli di cui è cosciente nella esperienza di veglia, deve comprendere che il mondo è una "ipnosi cristallizzata alla quale", scrive Adriano Romualdi che fu suo discepolo e suo esegeta, "si sfugge svegliandosi dal mondo dei sensi con una disciplina della mente".

Nelle teorizzazioni di Evola c'era l'influenza della sapienza tantrica che divulga con L'uomo come potenza edito da Atanòr nel 1926. Com'è, noto i Tantra negano ogni dualismo tra dio e natura, tra uomo e mondo: questo mon*do che ci circonda è la divinità stessa e la stessa divinità non è differente dall'io definitivamente liberato: la realtà è celata dal "velo di Maya" che la ispessisce, ma una volta rimosso il velo l'occhio percepirebbe che l'intero universo non è che un'espressione del proprio Sé.

Questi sono gli anni in cui Evola comincia a frequentare i circoli dello spiritualismo romano: entra in contato con kremmerziani, antroposofi teosofi, ma sono anche gli anni delle avventure galanti sullo sfondo di una Ro*ma notturna. Su questo argomento Evola ha sempre tenuto un certo riserbo, ma di una vicenda in particolare sappiamo dal romanzo Amo dunque sono (1927) della scrittrice Sibilla Aleramo con la quale Evola ebbe un tempestoso rapporto sentimentale.

Del 1924-26 sono le collaborazioni a riviste come Ultra, Bilychnis. lgnis, Atanor. Del 1927-29 è l'esperienza del "Gruppo di UR" di cui Evola è il coordinatore dando vita ad una serie di fascicoli, un'antologia dei quali uscirà per Bocca nel 955-6 in tre volumi col titolo: Introduzione alla Magia quale Scienza dell'Io. Qui magia è appunto "scienza dell'Io", apertura verso stati di percezione più sottili, tecnica di risveglio interiore.

Intanto in Italia aveva preso forma il fascismo. Evola era già intervenuto nel dominio della politica collaborando nel 1924-5 a Il mondo e a Lo Stato democratico, testate dichiaratamente antifasciste ma disposte ad ospitare le sue riflessioni ispirate ad un antifascismo antidemocratico. Eppure il suo interessamento a questa sfera non gli aveva mai creato condizionamenti, né lui si era proposto di esercitarli. Nel 1928, invece, con Imperialismo pagano (Atanòr) Evola, dopo una violentissima critica al cristianesimo, si rivolge esplicitamente al fascismo invitandolo a tagliar corto con i cattolici. Il libro gli vale una serie infinita di problemi. Evola stesso, nella sua maturità, giudicherà quest'opera estremistica, un pamphlet giovanile.

Tra il 1927 e il 1929, ha un carteggio con Giovanni Gentile. L'argomento è la collaborazione di Evola all'Enciclopedia Treccani per la voce sull'ermetismo, lettere in cui Evola trova l'occasione per segnalare al Gentile alcune delle sue posizioni anche in materia filosofica e di critica della civiltà. L'epistolario oltre a dimostrare il riconoscimento della competenza di Evola in materia dì scienze occulte da parte del Gentile, denota l'intenzione di Evola di aprire un dialogo con la cultura ufficiale del regime.

Dal 1925 al 1933 ha un rapporto epistolare anche con Benedetto Croce. Evola ha accennato al rapporto con Croce nel Cammino del Cinabro, ma è grazie alle ricerche di Stefano Arcella che oggi se ne conosce il contenuto. Il motivo specifico del carteggio è quello di pubblicare presso Laterza le opere filosofiche: Teoria e fenomenologia, Nelle lettere Evola nconosce al Croce "quel vasto, oggettivo senso di comprensione, che lo distingue così nettamente dal settarismo e dal dogmatismo oggi così diffuso in Italia". Croce spenderà per queste opere un sincero apprezzamento, giudicandole “ben inquadrate filosoficamente”. Con Teoria e Fenomenologia il periodo filosofico di Evola è concluso.

Nel 1930, insieme ad altri amici, tra cui Emilio Servadio, padre della psicanalisi italiana, Evola dà vita a La Torre: "Fu un nuovo tentativo di sortita nel dominio politico culturale. Abbandonando le tesi estremiste e poco meditate di Imperialismo pagano, riferendomi invece al concetto di Tradizione", scrive Evola, "volli vedere fino a che punto con esso si potesse agire sull'ambiente italiano, fuor dal campo ristretto di studi specializzati". Nell'editoriale del primo numero si propugna una rivolta radicale contro la civiltà moderna con queste parole: "La nostra parola d'ordine, su tutti i piani, è il diritto sovrano di ciò che fu privilegio ascetico, eroico e aristocratico rispetto a tutto ciò che è pratico, condizionato, temporale... è la ferma protesta contro l'onnipervadenza insolente della tirannide economica e sociale, e contro il naufragio di ogni punto di vista superiore in quello più meschinamente umano".

Ma Evola non aveva una buona fama presso varie autorità del regime, Imperialismo pagano non viene gradito e meno ancora piace ora l'intransigenza della Torre, la sua indisponibilità assoluta a piegarsi ai conformismi e ai tatticismi della politica. Sempre nel primo numero, in un articoletto intitolato Carta d'identità, si legge: "La nostra rivista è sorta per difendere dei principi che per noi sarebbero assolutamente gli stessi, sia che ci trovassimo in un regime fascista, sia che ci trovassimo in un regime comunista, anarchico o democratico. In sé questi principi sono superiori al piano politico; ma applicati al piano politico, essi possono solo dar luogo ad un ordine di differenziazioni qualitative, quindi di gerarchia, quindi anche di autorità e di Imperium nel senso più ampio". E veniva aggiunto a mo' di chiusa: "Nella misura in cui il fascismo segua e difenda tali principi, in questa stessa misura noi possiamo considerarci fascisti. E questo è tutto".

Ciò che fece saltare i nervi al peggiore fascismo fu una rubrica interna della Torre: L'arco e la clava. Dopo alcuni attacchi, "... si scatenarono le reazioni più violente e brutali, tanto più che ad esser presi particolarmente di mira... erano degli autentici gangsters, uomini privi di ogni qualificazione ai quali per il semplice fatto di essere stati degli squadristi o di ostentare un ottuso fanatismo era stato accordato di fungere da arroganti rappresentanti del pensiero e della 'cultori' fascista, col risultato di offrire uno spettacolo pietoso”.

Per un certo periodo, a seguito di queste polemiche, Evola deve girare per Roma con una personale guardia del corpo. Viene prima diffidato dal continuare a pubblicare la rivista poi, siccome della diffida non tiene alcun conto, la polizia politica proibisce a tutte le tipografie di stampare la Torre. Finisce così l'avventura della Torre che uscì per dieci numeri fino al 15 giugno del 1930.

In un clima di conformismo e di adulazione al Duce La Torre era stata una meteora accesa in un mondo culturale abbastanza grigio, anche perché, nelle pagine della rivista era contenuto il nucleo originario dei libri che Evola pubblicò subito dopo presso Laterza e Bocca, libri che indagavano il inondo dei simboli primordiali e dell'esoterismo: La Tradizione ermetica del 1931, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo del 1932, il mistero del Graal del 1937.

Il primo e il terzo libro delineano la via occidentale alla gnosi: l'alchimia e la ricerca del Graal, la religione segreta dell'imperialismo ghibellino. Il secondo, Maschera e volto, è un'opera volta ad indagare criticamente le correnti pseudo-spirituali di allora e di oggi: lo spiritismo, il superomismo, il satanismo, certi misticismi. Ma vi è anche lo studio e l'apprezzamento di autori come Meyrink e il Kremmerz, e qualche giudizio, forse un po' troppo sbrigativo su Steiner, un pensatore cui Evola è stato sotto certi aspetti concernenti le scienze spirituali, debitore.

Dopo l'esperienza de La Torre Evola comprende che per poter agire con una certa libertà occorre essere ben protetti dentro qualche base della cittadella fascista. Le basi sono il mensile La Vita Italiana di Giovanni Preziosi e il quotidiano Il Regime Fascista di Farinacci, un uomo oggi universalmente esecrato ma del quale Evola scrive parole di stima: "Chi era con lui poteva esser sicuro di non esser tradito, di esser difeso sino all'ultimo, se la sua causa era giusta".

Su questa testata Evola reincarna praticamente la battaglia della Torre ora con la sua pagina speciale "Diorama Filosofico" alla quale collaboravano autori di grande prestigio come Guénon, Dodsworth, Benn e Paul Valery, tutti accomunati da una visione del mondo aristocratica, antiborghese, antimoderna e tradizionale. Evola dal canto suo attacca il sentimentalismo, la retorica del fascismo piccolo borghese, demolisce il razzismo biologico, lo scientismo, l'umanitarismo in nome di un elitarismo ascetico, sapienziale e cavalleresco.

Nel 1934 appare l'opera fondamentale e principale di Julius Evola: Rivolta contro il mondo moderno. In Rivolta Evola traccia un affresco grandioso della morfologia della storia che vien letta con lo schema ciclico tradizionale delle quattro età (oro, argento, bronzo, ferro, nella tradizione occidentale; satva, treta, dvapara, kali yuga, in quella indù), comune ad Oriente ed Occidente.

Il libro si divide in due parti: la prima tratta di "una dottrina delle categorie dello spirito tradizionale: la regalità, la legge, lo stato, l'Impero, il rito e il patriziato, l'iniziazione, le caste e la cavalleria, lo spazio, il tempo, la terra e poi il sesso, la guerra, l'ascesi e l'azione". La seconda parte contiene "un'interpretazione della storia su base tradizionale partendo dal mito". Il libro si fonda sulla dialettica tra mondo moderno e mondo della Tradizione: il mondo moderno poggia sui criteri dell'utile e del tempo, il mondo della Tradizione sui valori del sacro e dell'eternità. Quello attuale è il tempo del ferro, il kali yuga, in cui l'ordine cede al caos, il sacro alla materia, l'uomo all'animale, ove dilaga la demonia delle masse e del sesso, dell'oro e della tecnica scatenata; un'epoca senza pietà, senza luce, senza amore.

Il poeta tedesco Gottfried Benn dirà di Rivolta contro il mondo moderno: "Chi lo legge si sentirà trasformato".

Nel 1938 in Italia alcuni si improvvisano razzisti e danno vita al Manifesto della razza dove viene riproposto confusamente il razzismo nazista, una rozza dottrina deterministica che non vede nulla al di là del corpo. Ad Evola il razzismo ripugna: per lui teoria dell'eredità eugenetica e vitalismo naturalistico sono abiezioni moderne. Ma d'altro canto non crede alla promiscuità comunistica ove ogni differenziazione scompare in una totalità animale. Per questo dal 1937 al 1941 studia il problema del razzismo, al quale si era già applicato all'inizio degli Anni Trenta. Scrive due libri Il mito del sangue nel 1937 e Sintesi di dottrina della razza nel 1941, editi da Hoepli.

Per Evola è lo spirito che informa di sé il corpo: “Il concetto della razza dipende dall'immagine che si ha dell'uomo... Come salda base della mia formulazione presi la concezione tradizionale che nell'uomo riconosce un essere composto da tre elementi: il corpo, l'anima e lo spirito. Una teoria completa della razza doveva perciò considerare tutti tre questi elementi”.

Evola in questo lungo dopoguerra si è visto etichettare indelebilmente come razzista, che oggi è più di un'accusa, è un anatema, mentre personaggi come Guido Piovene e Luigi Chiarini negli Anni Trenta feroci antisemiti nel dopoguerra si sono ammantati di rispettabilità antifascista. Sta di fatto che Evola, per le sue posizioni in merito alla razza, fu osteggiato da ambienti ufficiali tedeschi, come oggi rivelano i documenti segreti del ministero degli interni del Reich e della Anenherbe, la sezione ideologica delle SS.

In questo periodo Evola compie alcuni viaggi, soprattutto in Germania, dove tiene un numero considerevole di conferenze. Del 1938 è l'incontro in Romania con Cornelio Codreanu, del quale Evola, in un articolo che ne ricordava la figura, scrive parole di grande stima.

Intanto dal 1940 l'Italia è in guerra, all'inizio della compagna contro l'URSS Evola chiede di partire volontario. Ma la risposta giunge quando ormai l'Armir è in ritirata, motivo del ritardo: Evola non è tesserato al partito fascista!

L'8 settembre sorprende Evola in Germania. È tra i pochi, con Preziosi, il figlio Vittorio e qualche altro, ad accogliere Mussolini, liberato da Skorzeny al Gran Sasso, al Quartier Generale di Hitler. Aderisce alla RSI, lui monarchico, aristocratico e reazionario aderisce ad una repubblica sociale. Una contraddizione? Evola non sposa i punti di Verona, ma lo spirito legionario di chi, pure ormai militarmente sconfitto, rimane fedele ad un'idea scegliendo di battersi su posizioni perdute.

Nel 1943, in un'Italia sconvolta dalla guerra esce per Laterza La dottrina del risveglio, saggio sull'ascesi buddhista. Scrive Evola nella sua autobiografia: “Il carattere aristocratico del buddhismo, la presenza in esso della forza virile e guerriera (è un ruggito di leone che designa l'annuncio del Buddha) sono stati i tratti che io ho messo in rilievo nell'esposizione ditale dottrina". D'altronde abbiamo visto come Evola avesse un debito con la dottrina del principe Siddharta: il libro è anche un gesto di gratitudine.

Negli ultimi anni della guerra Evola è prima in Germania poi a Vienna, in questa città, probabilmente nell'aprile del 1945 si trova coinvolto in un bombardamento mentre passeggia per strada. Evola viene sbalzato da uno spostamento d'aria: una lesione al midollo spinale gli provoca una paralisi agli arti inferiori che purtroppo, malgrado tentativi chirurgici e sottili, risulterà definitiva. Può sembrare strano, e di fatto ad una logica comune lo è, che Evola passeggiasse per le vie di Vienna durante un bombardamento ma, spiega nel Cammino, "il fatto non fu privo di relazione con la norma, da me già da tempo seguita, di non schivare, anzi di cercare i pericoli nel senso di un tacito interrogare la sorte". E poi commenta così la sua paralisi, quasi che fosse quella di un altro: “Nulla cambiava, tutto si riduceva ad un impedimento puramente fisico che, a parte dei fastidi pratici e certe limitazioni della vita profana, poco mi toccava, la mia attività spirituale e intellettuale non essendone in alcun modo pregiudicata o modificata".

Poi con distaccata ironia aggiunge - è il 1961: "Per intanto, mi sono adeguato con calma alla situazione, pensando umoristicamente talvolta, che forse si tratta di dèi che han fatto pesare un po' troppo la mano, nel mio scherzare con loro

Non era nuovo a questo contegno. Pio Filippani-Ronconi, in un ricordo di Evola scrive: "Amo raffigurarmi la solitudine di Evola con l'immagine del suo soggiorno viennese durante la guerra: quando, durante i più terrificanti bombardamenti aerei, il silenzio fra le esplosioni era punteggiato dal ticchettio della sua macchina da scrivere, sulla quale, indifferentemente allo squasso circostante, continuava placidamente a lavorare".

Dopo l'esplosione Evola si risveglia in ospedale, si guarda intorno e chiede che fine abbia fatto il suo monocolo.

Nel 1948, grazie alla Croce Rossa Internazionale. viene trasferito a Bologna. Nel 1951 rientra nella sua casa di Roma. Sono cinque anni di vero e proprio calvario passati in letti d'ospedale con assistenza precaria e cibo al limite del commestibile. Evola considera tutto ciò come una prova di autosuperamento. Del passato non rimpiangeva nulla, o quasi. Gianfranco de Turris che dal 1968 sino alla morte gli è stato assiduamente vicino, ha scritto che gli mancavano soprattutto Vienna e la montagna, il mondo dell'aristocrazia e la solitudine delle vette.

Evola si guarda intorno e vede un panorama di rovine, non solo materiali. Non ha più alcuna speranza negli uomini; invece viene a sapere che esistono dei gruppi giovanili che non si sono lasciati trascinare nel crollo generale e che leggono i suoi libri. Per questi giovani nel 1950 scrive Orientamento dove sviluppa in undici punti le direttrici di un'azione Politico-culturale. "Non senza relazione con ciò", scrive Evola, “mi trovai coinvolto in una comica vicenda”. Si riferisce al processo contro i FAR dei quali viene indicato, e arrestato come ispiratore.

"Naturalmente e ancora la voce di Evola, "la cosa finì in un nulla, quasi tutti gli imputati vennero assolti". A difendere gratuitamente Evola c'è un avvocato antifascista Francesco Carnelutti. Personalmente tiene anche una brillante autodifesa poi pubblicata, dove oltre a chiarire la sua posizione (aveva Scritto un paio di articoli su Imiperium. la rivista dei neofascisti ed era all'oscuro delle azioni illegali di questi che furono comunque tanto inutili quanto innocue), mette in chiaro la sua visione del mondo, anche per ribattere alle accuse di apologia del fascismo. Scrive Evola ricordando quel fatto:

"Dissi che attribuirmi idee fasciste era un assurdo. non in quanto erano fasciste, ma solo in quanto, rappresentavano, nel fascismo, la riapparizione di principi della grande tradizione Politica europea di Destra in genere, io potevo aver difeso e potevo continuare a difendere certe concezioni in fatto di dottrina dello Stato. Si era liberi di fare il processo a tali concezioni. Ma in tal caso si do vano far sedere sullo stesso banco degli accusati Platone, un Metternich, n Bismarck, il Dante del De Monarchia e via dicendo".

Ne 1953 Evola dà alle stampe Gli uomini e le rovine che è l'estensione degli un ci punti di Orientamenti. Il libro è l'ultimo tentativo di promuovere la formazione di uno schieramento di vera Destra. Lo Stato che delinea Evola è lo Stato organico che ha come base “i valori della qualità, della giusta diseguaglianza e della personalità... ad ognuno il suo e ad ognuno il suo diritto, conformemente alla sua dignità naturale".

Nulla a che vedere con lo Stato totalitario e poco a che vedere, purtroppo, anche col fascismo.

Nel 1963 Evola scrive per la casa editrice Volpe un libretto intitolato: Il Fascismo visto dalla Destra. Contro ogni esaltazione, come contro ogni partigiana denigrazione, Evola enuclea, dal punto di vista dell'idea tradizionale, ciò che di positivo e di negativo risultava nel fenomeno fascista: dà atto al fascismo di aver sollevato gli antichi simboli dell'ascia e dell'aquila, di aver teorizzato un uomo nuovo, di aver agitato il mito dell'ordine e della gerarchia, ma lamenta che tutto sia rimasto a livello di propaganda sia per i tempi, inadatti, sia per la qualità umana che compose i quadri del fascismo, la quale in gran parte, in questo dopoguerra ha composto con la stessa ottusità quelli dell'antifascismo. Il fascismo, in definitiva per Evola, è stato un tentativo generoso ,ma va inquadrato nella fenomenologia delle ideologie moderne.

Nel 1958 intanto era uscito anche Metafisica del sesso un libro tra i più suggestivi di Evola dove viene messa in luce la forza basale. magica e potentissima del sesso, l'ultima, in un mondo ormai desacralizzato, assieme all'esperienza de! l'innamoramento, a rivestire un carattere sacro ove possa balenare un lampo di trascendenza, una rottura di livello della coscienza ordinaria dell'uomo e della donna.

Nel 1961, parallelo a Gli uomini e le rovine, era uscito Cavalcare la tigre, il breviario di chi deve vivere in un mondo che non è il suo forte della propria invulnerabilità. Evola si rivolge a quel tipo di “uomo differenziato” che pur non sentendo di appartenere interiormente a questo mondo, non ha nessuna intenzione di cedere ad esso né psicologicamente né esistenzialmente. "Occorre far sì che ciò su cui non si può nulla, nulla possa su di noi", occorre "cavalcare la tigre" perché la tigre non può colpire chi la cavalca. Bisogna aprirsi senza perdersi, concedersi soltanto ciò di cui si è sicuri di poter fare anche a meno. La differenza tra l'anarchico tout court e l'anarchico di Destra, è che il primo vuol essere libero da tutto tranne dalle sue bassezze e dai suoi vizi, il secondo non riconosce al mondo attuale nessuna legittimità e nessuna legge, ma cerca la libertà in se stesso, il dominio su di sé. l'autarchia; chi cavalca la tigre, non è amico della tigre.

Nella sua abitazione romana di Corso Vittorio Emanuele, Evola vive in affitto e sopravvive con una pensione d'invalido di guerra. Traduce libri, scrive articoli per diverse testate, riceve amici e curiosi. Così lo descrive Adriano Romualdi in un libro del 1968, in occasione del suo settantesimo compleanno: "Chi si recasse da Evola per incontrarvi un ispirato, un profeta, o per udire sentenze ed enigmatici motti, rimarrebbe deluso. Del pari, chi fosse cupido di atteggiamenti preziosi, ricercati o, comunque, remoti dall'ordinario vi troverebbe soltanto un signore dai capelli non ancora bianchi, dalla figura - nonostante la forzata immobilità - ancora imponente, il tratto distinto ed affabile, il volto curioso, intelligente, attento. Più che un santone un aristocratico e, quasi per una certa finezza di modi ancien régime, una figura di filosofo e viaggiatore settecentesco. Eppure", continua Romualdi, con un po' di osservazione potrebbe notare che quell'espressione attenta è la spia di una perpetua vigilanza, di una personalità che 'veglia su se stessa con continua disciplina, “natura intellettuale priva di sonno”.

Nel 1968, mentre il suo pensiero viene contrapposto nelle università a quello di Marcuse, Evola viene colpito da uno scompenso cardiaco acuto. Lo stesso malore si ripeterà nel 1970. In questa occasione viene fatto ricoverare dal suo medico e personale amico. Evola, in ospedale, infastidito dalle suore che lo assistono, minaccia di denunciarlo per sequestro di persona.

Anche se il corpo è stanco lo spirito di Evola è forte e combattivo: continua a scrivere, a rilasciare interviste, a ironizzare se qualcuno lo va a trovare con la ragazza, lui s'infila il monocolo e inscena un corteggiamento, oppure a chi in un'intervista gli chiede molto serioso, dove potrebbe rivolgersi chi sia interessato alle scienze occulte lui risponde: "Se si tratta di giovani donne, anche qui, a casa mia".

Scherza su di sé e gli altri, è sereno.

La salute però peggiora costantemente, perde le forze, il corpo s'indebolisce, ha difficoltà respiratorie ed epatiche. Comincia a contrarre banali infezioni, mangia poco e malvolentieri.

Verso la fine di maggio del 1974 si sente sempre più debole, e sempre più consapevole che il vestito fisico non lo regge più. Pierre Pascal, che va a rendere l'ultimo omaggio al Maestro così lo ricorda negli estremi giorni di vita: "Gli dissi il desiderio supremo di Henry de Montherlant: essere ridotto in ceneri dal fuoco, affinché fossero disperse [...] ha brezza leggera del Foro, tra i Rostri e il Tempio di Vesta. Allora quest'uomo, che era davanti a me, disteso, con le belle mani incrociate sul petto mi mormorò dolcemente e quasi impercettibilmente: “Io vorrei... ho disposto... che le mie fossero lanciate dall'alto di una montagna”.

Martedì 11 giugno, nel primo pomeriggio Evola, sentendo vicina la morte si fa condurre al tavolo dì lavoro di fronte alla finestra che dà sul Gianicolo; sono le quindici quando spira reclinando il capo. Nel suo testamento aveva stabilito che il corpo venisse cremato, che non vi fossero cerimonie cattoliche né annunci.

Le ceneri, secondo quanto scritto nelle sue ultime volontà, vengono consegnate alla guida Eugenio David suo compagno di scalate tanti anni addietro. Un parente del David e una schiera di seguaci seppelliscono una parte delle ceneri del Maestro in un crepaccio del Monte Rosa, le altre vengono lanciate al vento.


Julius Evola unofficial webSite - Biografia di Julius Evola (http://www.juliusevola.it/evola/biografia.asp)

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La razza iperborea e le sue ramificazioni

Il limite che si può dare alla nostra dottrina della razza in fatto di esplorazione delle origini cade nel punto, in cui la razza iperborea dovette abbandonare, ad ondate successive, seguenti itinerari diversi, la sede artica, per via del congelamento che la rese inabitabile – nelle opere già citate si è già accennato a quel che rende fondata l’idea, che la regione artica sia diventata quella dei ghiacci eterni solo a partire da un determinato periodo: i ricordi di quella sede, conservati nelle tradizioni di tutti i popoli nella forma di miti varii, ove essa appare sempre come una “terra del sole”, come un continente insulare dello splendore, come la terra sacra del Dio della luce, e così via, sono già, nel riguardo, abbastanza eloquenti. Ora, nel punto in cui si iniziarono le emigrazioni iperboree perisotiche, la razza iperborea poteva considerarsi, fra tutte, quella superiore, la superrazza, la razza olimpica riflettente nella sua estrema purità la razza stessa dello spirito. Tutti gli altri ceppi umani esistenti sulla terra in quel periodo, nel complesso, sembra che si presentassero o come “razze di natura”, cioè razze animalesche, o come razze divenute, per involuzione di cicli razziali precedenti, “razze di natura”. Gli insegnamenti tradizionali parlano in realtà di una civiltà o di una razza antartica già decaduta al periodo delle prime emigrazioni e colonizzazioni iperboree, i cui residui lemurici erano rappresentati da importanti gruppi di razze negridi e malesiche. Un altro ceppo razziale, distinto sia da quello iperboreo che da quello antartico-lemurico, era quello che come razza bruno-gialla occupò originariamente il continente eurasiatico (razza finnico-mongoloide) e che come razza rosso-bruna ed anche, nuovamente, bruno-gialla occupò sia una parte delle Americhe che terre atlantiche oggi scomparse.
Sarebbe evidentemente assurdo tentare una precisa tipologia di queste razze preistoriche e delle loro combinazioni primordiali secondo caratteristiche esterne. Ad esse ci si deve riferire solo per prevenire degli equivoci e potersi orientare fra le formazioni etniche dei periodi successivi. Anche l’indagine dei crani fossili può dirci ben poco, sia perché non dal solo cranio è caratterizzata la razza, perfino la semplice razza del corpo, sia perché vi sono ragioni per affermare fondatamente, che per alcune di tali razze dei residui fossili non potettero conservarsi fino a noi. Il cranio dolicocefalo, cioè allungato, unito ad un’alta statura e ad una slanciata figura, al colorito biondo dei capelli, chiaro della pelle, azzurro degli occhi, è, come è noto, caratteristico per gli ultimi discendenti delle razze nordiche direttamente calate dalle regioni artiche. Ma tutto ciò non può costituire l’ultima parola; anche a volersi limitare all’ordine positivo, bisogna far intervenire, per orientarsi, le considerazioni proprie al razzismo di secondo grado. Infatti già si è detto che per la razza l’elemento essenziale non è dato dalle semplici caratteristiche corporee e antropologiche, ma dalla funzione e dal significato che esse hanno nell’insieme di un dato tipo umano. Dolicocefali di alta statura e slanciata figura si trovano infatti anche fra le razze negridi, e colorito bianco e occhi quasi azzurri si trovano fra gli Aino dell’Estremo Oriente e le razze malesi, stando naturalmente, in tali razze, a significare tutt’altro; né qui si deve pensare solo a delle anomalie o a scherzi della natura, in certi casi potendosi trattare di sopravvivenze somatiche spente di tipi procedenti da razze le quali, nel loro remotissimo periodo zenitale, potevano avere caratteri simili a quelli che, nell’epoca da noi considerata, si trovarono invece concentrati nell’elemento nordico-iperboreo e, qui, accompagnati, fino ad un’epoca relativamente recente, dal significato e dalla razza interna corrispondente.
Quanto alle emigrazioni delle razze di origine iperborea, avendo anche di esse parlato nei libri già citati, limitiamoci ad accennare a tre correnti principali. La prima ha presa la direzione nord-ovest sud-est raggiungendo l’India e avendo come suoi ultimi echi la razza indica, indo-afgana e indo-brachimorfa della classificazione del Peters. In Europa, contrariamente a quel che si può credere, le tracce di tale grande corrente sono meno visibili o, almeno, più confuse, perché si è avuta una sovrapposizione di ondate e quindi una composizione di strati etnici successivi. Infatti, dopo questa corrente della direzione nord-ovest sud-est (corrente nordico-aria trasversale), una seconda corrente ha seguito la direzione occidente-oriente, in molti suoi rami attraverso le vie del Mediterraneo, creando centri che talvolta debbonsi considerare anche più antichi di quelli derivati dalla precedente ondata trasversale, per il fatto che qui non sempre si trattò di una emigrazione forzata, ma anche di una colonizzazione operata prima della distruzione o della sopravvenuta inabitabilità dei centri originari della civiltà d’origine iperborea. Questa seconda corrente, col relativo tronco di razze, possiamo chiamarla ario-atlantica, o nordico-atlantica o, infine, atlantico-occidentale. Essa proviene in realtà da una terra atlantica, in cui si era costituito un centro che, in origine, era una specie di immagine di quello iperboreo. Questa terra fu distrutta da una catastrofe, di cui parimenti si ritrova il ricordo mitologizzato nelle tradizioni di quasi tutti i popoli, ed allora ale ondate dei colonizzatori si aggiunsero quelle di una vera e propria emigrazione.

Si è detto che la terra atlantidea conobbe in origine una specie di fac-simile del centro iperboreo, perché i dati fino a noi per giunti ci inducono a pensare ad una involuzione sopravvenuta sia dal punto di vista della razza, sia dal punto di vista della spiritualità, in questi ceppi nordici scesi già in epoche antichissime verso il sud. Le mescolanze con gli aborigeni rosso-bruni sembrano, nel riguardo, aver avuta una parte non indifferente e distruttiva, e se ne trova un ricordo preciso nel racconto di Platone, ove l’unione dei “figli degli dèi” – degli Iperborei – con gli indigeni è data come una colpa, in termini, che ricordano quel che in altri ricordi mitici, viene descritto come “caduta” della razza celeste – degli “angeli” o, di nuovo, dei figli degli dèi, ben elohim – la quale si congiunse, ad un dato momento, con le figlie degli uomini (delle razze inferiori) commettendo una contaminazione significativamente assimilata, da alcuni testi, al peccato di sodomia, di commercio carnale con gli animali.

Il gruppo delle razze “arie”
Più recente di tutte è l’emigrazione della terza andata, che ha seguito la direzione nord-sud. Alcuni ceppi nordici precorsero questa direzione già in epoche preistoriche – sono quelli, per esempio, che dettero luogo alla civiltà dorico-achea e che portarono in Grecia il culto dell’Apollo iperboreo. Le ultime ondate sono quelle della cosiddetta “migrazione dei popoli” avvenuta al decadere dell’Impero romano e corrispondono alle razze di tipo propriamente nordico-germanico. A questo riguardo, devesi fare una osservazione molto importante. Tali razze diffusesi nella direzione nord-sud discendono più direttamente da ceppi iperborei che per ultimi lasciarono le regioni artiche. Per tale ragione, essi spesso presentano, dal punto di vista della razza del corpo, una maggiore purità e conformità al tipo originario, avendo avuto minori possibilità di incontrare razze diverse. Lo stesso non può però dirsi dal punto di vista della loro razza interna e delle loro tradizioni. Il mantenersi più a lungo delle razze sorelle nelle condizioni di un clima divenuto particolarmente aspro e sfavorevole non poté non provocare in loro una certa materializzazione, uno sviluppo unilaterale di certe qualità fisiche ed altresì di carattere, di coraggio, di resistenza, costanza e inventività, avente però come sua controparte una atrofia del lato propriamente spirituale. Ciò si vede già presso gli Spartani; in maggior misura, però, nei popoli germanici delle invasioni, che noi possiamo continuare a chiamare “barbariche”; “barbariche”, però, non di fronte alla civiltà romana degenerescente, in cui quei popoli apparvero, ma di fronte ad un superiore stadio, da cui quelle razze erano ormai decadute. Fra le prove di una tale interiore degerescenza, o oscuramento spirituale, sta la relativa facilità con cui tali razze si convertirono al cristianesimo e poi al protestantesimo; per questa ragione, i popoli germanici nei primi secoli dopo il crollo dell’impero romano d’Occidente, fino a Carlomagno, non seppero opporre nulla d’importante, nel dominio spirituale, alle forme crepuscolari della romanità. Essi furono fascinati dallo splendore esteriore di tali forme, caddero facilmente vittime del bizantinismo, non seppero rianimare quanto di nordico-ario sussisteva, malgrado tutto, nel mondo mediterraneo, che per il tramite di una fede inficiata, in più di un aspetto, da influenze razziali semitico-meridionali, allorché esse, più tardi, dettero forma al Sacro Romano Impero sotto segno cattolico. E’ così che anche dei razzisti tedeschi, come il Günther, hanno dovuto riconoscere che, volendo ricostruire la visione del mondo e il tipo di spiritualità proprio alla razza nordica, ci si deve meno riferire alle testimonianze contenute dalle tradizioni dei popoli germanici del periodo delle invasioni – testimonianze frammentarie, spesso alterate da influssi estranei o decadute nella forma di superstizioni popolari o di folklore – quanto alle forme superiori spirituali proprie all’antica Roma, all’antica Ellade, alla Persia e all’India, cioé di civiltà derivate dalle due prime ondate.

All’insieme delle razze e delle tradizioni generate da queste tre correnti, trasversale l’una (ceppo degli ario-nordici), orizzontale l’altra (cepo degli ario-germanici) si può applicare, non tanto per vera conformità, ma piuttosto in base ad un uso divenuto corrente, il termine “ario” o “ariano”. Volendo prendere in considerazione le razze definite dagli studiosi più noti e riconosciuti di razzismo di primo grado, possiamo dire, che il tronco della razza aria, avente alla sua radice quella iperborea primordiale, si differenzia nel modo seguente. Vi è anzitutto, come razza bionda, il ramo chiamato in senso stretto “nordico”, che alcuni differenziano in sottoramo teutonordide, dalico-falico, finno-nordico; lo stesso ceppo nel suo miscuglio con le popolazioni aborigene sarmate ha dato poi luogo al cosiddetto tipo est-europide e est-baltico. Tutti questi gruppi umani, dal punto di vista della razza del corpo, come si è accennato, conservano una maggiore fedeltà o purità rispetto a ciò che si può presumere esser stato il tipo nordico primordiale, vale a dire iperboreo.
In secondo luogo, debbonsi considerare delle razze già più differenziate rispetto al tipo originario, sia nel senso di fenotipi di esso, vale a dire di forme, a cui le stesse disposizioni e gli stessi geni ereditari han dato luogo sotto l’azione di un ambiente diverso, sia di misto-variazioni, cioè, prodotte da più accentuata mescolanza; si tratta di tipi, in prevalenza, bruni, di statura più piccola, in cui al dolicocefalia non è di regola o non è troppo pronunciata. Menzioniamo, utilizzando le terminologie più in voga, la cosiddetta razza dell’uomo dell’ovest (westisch), la razza atlantica che, come l’ha definita il Fischer, è già da essa diversa, la razza mediterranea, da cui, a sua volta, si distingue, secondo il Peters, la varietà dell’uomo euroafricano, o africo-mediterraneo, ove la componente oscura ha maggior risalto. La classificazione del Sergi, secondo la quale queste due ultime varietà, più o meno, coincidono, è senz’altro da rigettarsi e, dal punto di vista del razzismo pratico, soprattutto di quello italiano, è fra le più pericolose. Parimenti equivoco è il chiamare, col Peters, pelasgica la razza mediterranea: in conformità col senso che tale parola ebbe nella civiltà greca, bisogna considerare il tipo pelagico, in un certo modo, a sé, soprattutto nei termini del risultato di una degenerazione di alcuni antichissimi ceppi atlantico-ari stabilitisi nel Mediterraneo prima dell’apparire degli Elleni. Specie dal punto di vista della razza dell’anima si conferma questo significato dei “pelasgi”, fra i quali rientra anche l’antica gente etrusca (Cfr. Bachofen, “La razza solare”. Studi sulla storia segreta dell’antico mondo mediterraneo, Roma 1940).

In un certo modo a sé sta la razza dinaride, perché, mentre essa, in certi suoi aspetti, è maggiormente vicina al tipo nordico, in altri mostra caratteri comuni con la razza armenoide e desertica, e, come quella che alcuni razzisti definiscono propriamente razza alpina o dei Vosgi, si mostra prevalentemente brachicefala: segno di incroci avvenuti secondo altre direzioni. La razza aria dell’est (ostisch) ha, di nuovo, caratteri distinti, sia fisici che psichici, per cui si allontana sensibilmente dal tipo nordico.

Non vi è nulla in contrario, dal punto di vista tradizionale, assumere nella dottrina della razza di primo grado le precisazioni che i varii autori fanno nei riguardi delle caratteristiche fisiche e, in parte, anche psichiche, di tutti questi rami dell’umanità aria. Solo che sulla portata di tutto ciò non bisogna farsi troppe illusioni, nel senso di stabilire rigidi limiti. Così, benché non bianche né bionde, le razze superiori dell’Iran e dell’India, e benché non bianchi, molti antichi tipi egizi possono rientrare senz’altro nella famiglia aria. Non solo: autori come il Wirth e il Kadner, che hanno cercato di utilizzare i recenti studi sui gruppi sanguigni per la ricerca razziale, sono stati indotti a ritenere più vicini al tipo nordico primordiale alcuni ceppi nord-americani pellirosse e alcuni tipi esquimesi, che non la maggior parte delle razze arie indoeuropee ora accennate; e in quest’ordine di indagini, ad esempio, risulta altresì, che il sangue nordico primordiale in Italia ha un percento vicino a quello dell’Inghilterra, e decisamente superiore a quello dei popoli ari germanici. Bisogna dunque non fissarsi su degli schemi rigidi, e pensare che, salvo casi abbastanza rari, la “forma” della superrazza originaria, più o meno latente, impedita o sopraffatta, o estenuata, sussiste nel profondo di tutte queste varietà umane e, date certe condizioni, può tornare ad esser predominante e ad informar di sé un dato tipo, che le si dimostri corrispondente, anche là dove meno si potrebbe sospettare, cioè là dove gli antecedenti, secondo la concezione schematica e statica della razza, avrebbero invece fatto sembrar probabile l’apparizione di un tipo di razza, mettiamo, mediterranea, o indo-afgana, o baltico-orientale. […]

Che cosa voleva dire “ario”
Veniamo ora al termine “ario”. Secondo la concezione oggi divenuta corrente, ha diritto di dirsi “ario” chiunque non sia ebreo o di razza di colore, né abbia avi di tali razze – in Germania, fino alla terza generazione. Per gli scopi più immediati della politica razziale, questa veduta può avere una certa giustificazione, nel senso di punto di riferimento per una prima discriminazione. Su di un piano più alto, ed anche in sede storica, essa appare invece insufficiente, già per il fatto, che essa si esaurisce in una definizione negativa, indicante quel che non si deve essere, non ciò che si deve essere; per cui, soddisfatta la condizione generica di non essere né negro, né Ebreo, né di colore, egual diritto a dirsi ario avrebbe sia il più “iperboreo” degli Svedesi che un tipo seminegroide delle regioni meridionali. D’altra parte, se si confronta questo significato ridotto dell’arianità con quello che la parola ebbe originariamente, vien quasi da pensare ad una profanazione, perché la qualità aria, in origine, coincideva essenzialmente con quella che, come si è accennato, la ricerca di terzo grado può attribuire a schiere della razza restauratrice, della “razza eroica”. Quindi il termine “ario” nella sua concezione corrente odierna non può accettarsi che ai fini della circoscrizione e separazione di una zona generale, all’interno della quale dovrebbe però aver luogo tutta una serie di ulteriori differenziazioni, qualora ci si voglia avvicinare, sia pure approssimativamente, al livello spirituale corrispondente al significato autentico e originario del termine in questione.
Il razzismo – è vero – nelle sue propaggini filologiche si è dato ad una ricerca comparativa di parole, che nell’insieme delle lingue indoeuropee contengono la radice *ar di “ario” ed esprimono più o meno qualità di un tipo umano superiore. Herus in latino e Herr in tedesco significano “signore”, in greco aristos vuol dire eccellente e areté virtù; in irlandese air significa onorare e nell’antico tedesco la parola era vuol dire gloria – come in quello moderno Ehre vuol dire onore, ecc., e tutte queste espressioni, come varie altre, sembrano appunto trarsi dalla radice *ar di ario. Inoltre questa stessa radice il razzismo ha creduto di ritrovarla anche in Eran, antico nome per la Persia, in Erin e Erenn, antichi nomi dell’Irlanda, oltre che in molti nomi propri che ricorrono frequentissimi nelle antiche stirpi germaniche. Tuttavia, da un punto di vista rigoroso, il termine “ario” – da arya – con certezza può solo esser riferito alla civiltà dei conquistatori preistorici dell’India e dell’Iran. Nello Zend-Avesta, testo dell’antica tradizione iranica, la patria originaria delle stirpi, a cui tale tradizione fu propria, è chiamata airyanem-vaejo, significante “seme della gente aria” e dalle descrizioni che se ne danno risulta chiaramente, che essa fa tutt’uno con la sede artica iperborea. Nella inscrizione di Behistun (520 a.C.) il gran Re Dario parla così di sé stesso: “Io, re dei re, di razza aria” e gli “arii”, a loro volta, nei testi s’identificano alla milizia terrestre del “Dio di Luce”: cosa che ci fa già apparire la razza aria in un significato metafisico, come quella che, senza tregua, in uno dei varii piani della realtà cosmica, lotta incessantemente contro le forze oscure dell’anti-dio, di Arimane.
Questo concetto spirituale dell’arianità si precisa nella civiltà indù. Nella lingua sanscrita ar significa “superiore, nobile, ben fatto” ed evoca anche l’idea di muovere come ascendere, portarsi in alto. Con riferimento alla dottrina indù dei tre duna, una tale idea propizia ravvicinamenti interessanti. La qualità “ar” va cioè a corrispondere a rajas, che è la qualità delle forze ascendenti, superiore e opposta a tamas, che è la qualità, invece, di tutto ciò che cade, che va verso il basso, mentre qualità superiore a rajas è sattva, la qualità propria a “ciò che è” (sat) in senso eminente – si potrebbe dire, al principio solare nella sua olimpicità. Ciò può dunque dare un senso del “luogo” metafisico proprio alla qualità aria. Da questa radice *ar, arya come aggettivo indica poi le qualità di esser superiore, fedele, ottimo, stimato, di buona nascita; e come sostantivo designa “chi è signore, di nobile stirpe, maestro, degno di onore”: sono deduzioni in sede di carattere, in sede sociale e, infine, di “razza dell’anima”.

Ciò dal punto di vista generico. In senso specifico arya però era essenzialmente una designazione di casta: si riferiva collettivamente all’insieme delle tre caste superiori (capi spirituali, aristocrazia guerriera e “padri di famiglia” quali proprietari legittimi, con autorità su di un certo gruppo di consanguinei) nella loro opposizione alla quarta casta, alla casta servile degli sudra – oggi forse si dovrebbe dire: alla massa proletaria.

Ora, due condizioni definivano la qualità aria: la nascita e l’iniziazione. Ari si nasce – tale è la prima condizione. L’arianità, su tale base, è una proprietà condizionata dalla razza, dalla casta e dall’eredità, essa si trasmette col sangue da padre a figlio e da nulla può esser sostituita, così come il privilegio che, fino ad ieri, in Occidente aveva il sangue patrizio. Un codice particolarmente complicato, sviluppante una casistica fin nei più minuti dettagli, conteneva tutte le misure necessarie per preservare e mantenere pura questa eredità preziosa e insostituibile, considerando non solo l’aspetto biologico (razza del corpo) ma anche quello etico e sociale, il contegno, un dato stile di vita, diritti e doveri, quindi tutta una tradizione di “razza dell’anima”, differenziata poi per ciascuna delle tre caste arie.

Ma se la nascita è la condizione necessaria per essere ari, essa non è anche sufficiente. La qualità innata va confermata per mezzo dell’iniziazione, upanayana. Come il battesimo è la condizione indispensabile per far parte della comunità cristiana, così l’iniziazione rappresentava la porta attraverso la quale si entrava a far parte effettiva della grande famiglia aria. L’iniziazione determina la “seconda nascita”, essa crea il dvija, “colui che è nato due volte”. Nei testi, arya appare sempre come sinonimo di dvija, rinato, o nato due volte. Per cui, già con questo si entra in un dominio metafisico, nel campo di una razza dello spirito. La razza oscura, proletaria – sudra-varna – detta anche nemica – dasa – non-divina o demonica – asurya-varna – ha solo una nascita, quella del corpo. Due nascite, l’una naturale, l’altra sovrannaturale, urànica, ha invece l’arya, il nobile. Come in varie occasioni l’abbiamo ricordato, il più antico codice di leggi arie, il Manavadharmasastra, va fino al punto di dichiarare, che chi è nato ario non è veramente superiore allo sudra, al servo, prima di esser passato attraverso la seconda nascita o quando la sua gente abbia metodicamente trascurato il rito determinante questa nascita, cioè l’iniziazione, l’upanayana (*).
Ma vi è anche la controparte. Atto e qualificato a ricevere legittimamente l’iniziazione, in via di principio, non è chiunque, ma solo chi è nato ario. Impartirla ad altri è delitto. Ci troviamo dunque di fronte ad una concezione superiore e completa della razza. Essa si distingue dalla concezione cattolica, perché ignora un sacramento atto a somministrarsi a chiunque, senza condizioni di sangue, razza e casta, tanto da condurre ad una democrazia dello spirito. In pari tempo, essa supera anche il razzismo materialistico, perché, mentre si soddisfa alle esigenze di esso ed anzi si porta il concetto della purità biologica e della non-mescolanza fino alla forma estrema relativa alla casta chiusa, l’antica civiltà aria riteneva insufficiente la sola nascita fisica: aveva in vista una razza dello spirito, da raggiungere – partendo dalla salda base e dall’aristocrazia di un dato sangue e di una data eredità naturale – per mezzo della ri-nascita, definita dal sacramento ario. Ancor più in alto, la terza nascita, o, per usare la designazione corrispondente delle tradizioni classiche, la resurrezione attraverso la “morte trionfale”. Come supremo ideale, l’antico ario considerava infatti la “via degli dèi” – deva-yana – detta anche “solare” o “nordica”, lungo la quale si ascende e “non si ritorna”, non la “via meridionale” del dissolversi nel ceppo collettivo di una data stirpe, nella sostanza confusa di nuove nascite (pitr-yana): cosa che già basta per immaginarsi in che conto l’uomo ario poteva avere la cosiddetta rincarnazione, concezione, questa, che, come si è detto, fu propria a razze estranee, prevalentemente “telluriche” o “dionisiache”.

L’elemento solare ed eroico della antica razza aria
La doppia condizione della qualità aria fa capire, che queste antiche civiltà presupponevano una specie di eredità sovrannaturale latente nella razza aria del sangue, eredità, che però doveva esser ridestata e portata dalla potenza all’atto caso per caso, affinché il singolo potesse farla davvero cosa sua. Questo era il significato generale del sacramento ario nelle sue forme più alte. Considerando però l’àpice della gerarchia aria, si può vedere facilmente che la qualità primordiale latente da ridestare corrisponde essenzialmente a quella della “razza solare” e che, quindi, l’ario, come colui che a tale razza appartiene potenzialmente, ma che tuttavia deve riconquistarla o restaurarla quale singolo, presenta esattamente i tratti della razza da noi tecnicamente definita “eroica”.

Come si è accennato, la casta aria si ripartiva in altre tre e la più alta l’abbiamo detta dei “capi spirituali”, giacché questa espressione previene molti equivoci e ci permette anche di evitare il problema alquanto complesso dei rapporti che nelle antiche società arie d’origine iperborea esistevano fra la casta sacerdotale – brahman – e quella guerriera – kshatram. La maggior parte degli orientalisti, nel riferirsi alla prima là dove essa effettivamente rappresentò il vertice della gerarchia aria, credono di vedervi una specie di supremazia sacerdotale, cosa effettivamente errata. Anzitutto sembra risultare dalle più antiche testimonianze che la casta sacerdotale in origine faceva tutt’uno con quella guerriero-regale, in piena corrispondenza con l’ufficio originario della “razza solare”. In secondo luogo, anche a prescindere da ciò e a limitarsi al soli brahmana (ai componenti della casta dei brahman) come capi ari, non si può pensare ad una società retta da “sacerdoti” e asservita ad isee “religiose”, come gli uni e le altre vengono concepiti nella religione europea. Ciò, per due ragioni.

Anzitutto perché vi era l’anzidetta condizione del sangue. Peer ragioni varie, la Chiesa dovette imporre al clero il celibato, col che si rese impossibile una base razziale e ereditaria per la dignità sacerdotale. Secondo la veduta cattolica – e ancor più secondo quella protestante – per divenire sacerdote basta la “vocazione” (concetto, qui, piuttosto vago), certi studi affini alla filosofia e l’ossequio a certi precetti morali: non è richiesto esser di razza di sacerdoti per esser ordinati sacerdoti. Questo è il primo punto.

In secondo luogo, l’antica élite aria come “razza solare” ignorava la distanza metafisica fra un Creatore e la creatura. I suoi rappresentanti non apparivano come mediatori del divino (cioè nella funzione che ha il sacerdote nelle civiltà lunari), bensì come essi stessi nature divine. La tradizione li descrive come dominatori non solo di uomini, ma anche di potenze invisibili, di “dèi”. Fra i molti testi riprodotti nel nostro libro già spesso ricordato, a tale riguardo, vi è p. es. questo: “Noi siamo dèi, voi [soltanto] uomini”. Essi sono nature luminose e vengono paragonati al sole. Sono costituiti “da una sostanza ignea radiante”, costituiscono l’“apice” dell’universo e “sono oggetto di venerazione da parte delle stesse divinità”. Non sono gli amministratori di una fede, ma i possessori di una scienza sacra. Questa conoscenza è potenza e forza trasfigurante. Agisce come un fuoco, che consuma e che distrugge tutto ciò che per altri nele azioni potrebbe significare colpa, peccato, costrizione – è qualcosa di simile al nietzschiano “al di là del bene e del male”, ma su di un piano trascendente, non da superuomo “bionda bestia” ma da superuomo “olimpico”. Poiché essi “sanno” e “possono”, questi capi arii non hanno bisogno di “credere”, non conoscono dogmi, nel dominio delle conoscenze tradizionali essi sono infallibili.
E come non hanno dogmi, essi nemmeno costituiscono una “chiesa”; esercitano direttamente, di persona, la loro autorità; non hanno pontefici da venerare, perché, in un certo modo, ogni esponente legittimo della loro casta è un “pontefice”, nel senso originario della parola. Pontefice è colui che fa i ponti, che stabilisce i contatti fra due rive, fra due mondi – fra l’umano e il superumano. Esattamente perché questa era la funzione propria al brahman; e poiché in una civiltà orientata in senso eminentemente eroico e metafisico, come era il caso di quella dell’antica arianità, una tale funzione appariva di suprema utilità ed efficacia – per questo il capo spirituale, o brahmana, incarnava agli occhi delle altre caste arie, per tacere di quelle servili non-arie, una autorità illimitata e supremamente legittima.

Lo strumento “pontificale” – cioè di “collegamento” – per eccellenza (in origine, prerogativa regale), era il rito. Anche circa il rito dovremmo, qui, ripetere cose da noi già dette in più di una occasione. Il rito per l’uomo antico non era una vuota e superstiziosa cerimonia. Vi si esprimeva invece una attitudine virile e dominatrice di fronte al supersensibile, giacché, mentre la preghiera è un chiedere, il rito, secondo questa veduta, è un comandare e un determinare. Il rito è una specie di “tecnica divina”, che si distingue da quella moderna, pel fatto che non agiva in base alle leggi esterne dei fenomeni naturali ma influiva sulle cause supersensibili di essi; in secondo luogo, perché la sua efficacia era condizionata da una forza speciale e oggettiva, supposta in chi doveva eseguire il rito. La mentalità moderna, che vede tutto al rovescio, inclina notoriamente a riportare i riti alle pratiche superstiziose dei selvaggi. La verità è invece, che le pratiche dei selvaggi non sono che le forme degenerescenti dei veri riti, i quali sono da spiegarsi e da capirsi su tutt’altra base.

Ora, se già nel modo di apparire come brahmana della suprema casta aria sono presenti tutti questi tratti, abbiamo ragioni sufficienti per ammettere che nelle origini, ove il brahman e lo kshatram – l’elemento sacerdotale e quello guerriero o regale – facevano tutt’uno, la civiltà degli Iperborei scesi verso il Sud aveva al proprio centro esattamente ciò che noi abbiamo definito spiritualità olimpica o solare e che questa tradizione permase nelle fasi successive, di parziale oscuramento di tale civiltà, per mezzo di restaurazioni di tipo “eroico” in una élite o casta di capi spirituali. Una indagine delle testimonianze corrispondenti della più antica civiltà greca e romana condurrebbe agli stessi risultati. L’elemento solare e regale, il senso della comunità di origine e di vita con gli enti divini sono tratti in essa parimenti presenti.

Perciò, riassumendo, se lo si vuole spiegare con le vedute e le tradizioni proprie alle civiltà, alle quali appartenne in via rigorosa e provata, il termine “ario” si riferisce anzitutto, in generale, ad una “razza dello spirito” di origine iperborea impegnata in una specie di lotta metafisica e avente in proprio uno speciale ideale dell’Imperium – il capo, come “re dei re” (Iran); più in particolare, nella sua estrema purezza, esso comprende in primo luogo l’ideale di un’alta purità biologica e di una nobiltà della razza del corpo; in secondo luogo l’idea di una razza dello spirito, di tipo “solare”, con tratti sacrali e simultaneamente regali e dominatori: razza di veri superuomini, di fronte a tutto ciò che di materialistico, di evoluzionistico e di “prometeico” si trova invece nelle concezioni moderne del superuomo – anche a prescindere, che queste altro non sono che “filosofia”, che teorie e imaginazioni formulate da persone la cui razza, quasi sempre, è tutt’altro che in ordine.

Se l’indagine relativa all’aristocrazia aria dei tempi primordiali ci porta a tali altezze, venir, da esse, alle esigenze pratiche del problema attuale della razza non è certo agevole. Il mondo spirituale che la considerazione di terzo grado riporta alla luce mediante un esame adeguato delle tradizioni e dei simboli antichi e vede essenzialmente congiunto al più altpo retaggio ario-iperboreo, per molti “ari” di oggi può sembrare inusitato e fantastico, per altri addirittura incomprensibile. Richiamare in vita significati, che millenni di storia han sepolto nei più profondi strati della subcoscienza, a che essi destino forme nuove di sensibilità, non può accadere dall’oggi al domani e, in ogni caso, è un’opera che va associata ai compiti del razzismo pratico di primo e di secondo grado, essendo necessario rimuovere in pari tempo ostacoli e deformazioni che paralizzano, per così dire, perfino fisicamente, la possibilità di ogni ritorno all’antico spirito ario.

Come pur stiano le cose, è esenziale che l’espressione “ario” oggi non decada in una vuota parola d’ordine e sia la semplice designazione di chiunque non sia proprio negro, ebreo o mongolo. Occorre tener sempre presenti i supremi punti di riferimento, i concetti-limite, le linee di vetta, perché è da esse che dipende il senso di tutto lo sviluppo, a partir dai primi gradi di esso. Ed anche a tale riguardo può avvenire una scleta delle vocazioni: il senso di qualcosa che, oggi, appare come una vetta lucente in mitiche irraggiungibili lontananze, mentre può paralizzare gli uni e indurli a “non perder tempo” in fantasticherie anacronistiche, può destere negli altri una tensione creatrice, suscitatrice di superiori possibilità.

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(*) R. Guénon, in Etudes traditionelles, n. Marzo del 1940 ha giustamente rilevato che l’iniziazione delle caste ariane non va confusa con l’iniziazione in senso assoluto – diksha: ma la prima si può dire che già contiene la potenzialità della seconda, la quale peraltro può realizzarsi, nella gran parte dei casi, al momento della morte concepita come “terza nascita” (vedi qui e pag. 139 [nell’ediz. del 1994. Ndc.]). L’iniziazione di casta è così paragonabile al sacramento cristiano del battesimo, cui si attribuisce un certo potere trasformativi, ma che viene distinto dalla “seconda nascita” in senso mistico. Resta così, in ogni caso, il valore di un “sacramento” – e inoltre è possibile che ad esso, in tempi più antichi, corrispondesse proprio un rito iniziatico vero e proprio.

Fonte: Sintesi di dottrina della razza, 1941.

La razza iperborea e le sue ramificazioni | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/la-razza-iperborea-e-le-sue-ramificazioni.html)

Majorana
24-08-10, 08:50
Sfaldamento delle parole

Uno dei segni del fatto, che il corso della storia ha rappresentato, fuor dal piano puramente materiale, tutt’altro che un progresso, è dato dalla povertà delle lingue moderne rispetto a molte lingue antiche. Non vi è una delle cosidette “lingue vive” occidentali che, per organicità, articolazione e plasticità regga il confronto, ad esempio, col latino antico o col sanscrito. Fra le lingue di ceppo europeo, forse il solo tedesco ha conservato qualcosa della struttura arcaica (ed è per questo che la lingua europea ha fama di essere “così difficile”), mentre la lingua inglese e quella dei popoli scandinavi hanno parimenti subito un processo di erosione e di appiattimento. In genere, si può dire che le lingue antiche cui accenniamo erano tridimensionali mentre quelle moderne sono bidimensionali. Il tempo ha agito anche qui in senso corrosivo; ha reso “pratiche” e “fluide” le parlantine a scapito, appunto, dell’organicità. È, questo, un riflesso di quanto si è verificato in molti altri domini della cultura e dell’esistenza.

Anche le parole hanno una loro storia e spesso il mutamento subito dai loro contenuti è un interessante indice barometrico di corrispondenti mutamenti della sensibilità generale e della visione del mondo. In particolare, sarebbe interessante fare un confronto fra il significato che alcune parole ebbero nell’antica lingua latina e quello che è proprio a termini corrispondenti, rimasti quasi uguali, della lingua italiana e anche spesso di altre lingue romanze. In genere, si può osservare una caduta di livello. Il senso più antico o è andato perduto, o sopravvive in forma residuale in qualche particolare eccezione o locuzione, senza più corrispondere a quello ormai generale e prevalente, o, ancora, appare del tutto distorto e di frequente banalizzato. Indicheremo qualche esempio.

Il caso più tipico e noto è forse costituito dalla parola virtus. La “virtù” in senso moderno non ha quasi nulla a che fare con la antica virtus. Virtus significava forza d’animo, coraggio, prodezza, saldezza virile. Si legava a vir, termine designante l’uomo come veramente tale, non come uomo in senso generico e naturalistico. La stessa parola nella lingua moderna ha assunto, invece, un senso essenzialmente moralistico, spessissimo associato a pregiudizi sessuali, tanto che riferendosi ad esso Vilfredo Pareto ha coniato il termine “virtuismo” per designare la morale puritana e sessuofoba borghese. In genere dicendo “persona virtuosa” oggi si pensa a cosa ben diversa da quel che, con una reiterazione assai efficace, potevano significare, ad esempio, espressioni come questa: vir virtute praeditus. E la differenza non di rado può trasformarsi quasi in una antitesi. Infatti un animo saldo, fiero, intrepido, eroico è il contrario di ciò che significa una persona virtuosa nel senso moralistico e conformistico moderno.

Il senso di virtus come forza efficiente si è mantenuto soltanto in certe locuzioni particolari moderne: la “virtù” di una pianta o di medicamento, in “virtù” di questa o quella cosa.

Honestus. Connesso con l’idea di honos, questo termine anticamente ebbe il significato prevalente di onorevole, nobile, di nobile rango. Che cosa, di ciò, si conserva nel termine moderno corrispondente? “Onesta” è la persona dabbene della società borghese, quella che non compie proprio cattive azioni. L’espressione “nato da onesti genitori” oggi ha perfino una sfumatura quasi ironica, mentre nella Roma antica era la designazione precisa di una nobiltà di nascita, cui spesso corrispondeva anche una nobiltà biologica. Vir honestia facie significava, infatti, uomo di prestante aspetto, allo stesso modo che nell’antica lingua sanscrita il termine arya comprendeva sia il senso di una persona degna di onore, sia quello di una nobiltà tanto interiore quanto del tipo somatico.

Gentilis, gentilitas. Oggi ognuno pensa alla persona cortese, affabile, di buone maniere. Il termine antico rimandava invece al concetto di gens, di stirpe, di razza, casta o lignaggio. Era “gentile”, romanamente, chi aveva le qualità che derivano da un lignaggio e da un sangue differenziato, le quali solo per riflesso possono determinare eventualmente un contegno di distaccata cortesia, cosa diversa dalle “maniere” che anche il parvenu può far proprie studiandosi il galateo – e diversa, anche, dalla vaga nozione moderna della gentilezza. E’ così che oggi pochi possono capire il senso pieno e più profondo di espressioni come “spirito gentile” e simili, rimaste come isolati prolungamenti in scrittori di altri tempi.

Genialitas. Chi è “geniale”, oggi? Un tipo prevalentemente individualistico, ricco di trovate originali, estroso. Come limite, si ha il genio nel campo artistico, il culto feticistico tributato al quale nella civiltà umanistica e borghese è noto, tanto che il genio, più che non l’eroe, l’asceta o l’aristocrate, è stato spesso considerato, in tale civiltà, come il più alto tipo umano. Il termine latino genialis allude invece a qualcosa di ben poco individualistico e “umanistico”. Esso deriva dalla parola genius, la quale originariamente designò la forza formatrice e generatrice interna, spirituale e mistica, di una data gente o di un dato sangue. Non è dunque azzardato affermare che le qualità geniali nel senso antico ebbero una certa relazione con quelle che, nell’accezione più alta, si possono dire appunto di “razza”. In opposto alla significazione moderna, l’elemento geniale si distingue da quello individualistico e arbitrario; si lega ad una radice profonda, obbedisce ad una necessità interiore per una aderenza più superpersonali di un sangue e di una gente, a quelle forze a cui, in ogni senso gentilizio, si connetteva, come è noto, anche una tradizione sacrale.

Pietas. Non occorre dire che cosa significhi oggi una “persona pietosa”. Si pensa ad un atteggiamento sentimentale più o meno umanitario, sensitivo – e “pietoso” è quasi sinonimo di compassionevole. Nell’antica lingua latina la pietas apparteneva invece al dominio del sacro, designava lo speciale rapporto in cui l’uomo romano stava con le divinità in primo luogo, poi con altre realtà legate al modo della Tradizione, compreso lo stesso Stato. Di fronte agli dèi, si trattava di un atteggiamento di calma, dignitosa venerazione: sentimento di appartenenza e, nel contempo, di rispetto, di memore riferimento, anche di dovere e di adesione, come potenziamento dello stesso sentimento suscitato dalla figura severa del pater familias (donde la pietas filialis). Come si è accennato, la pietas poteva manifestarsi anche nel campo politico: pietas in patriam significava fedeltà e dovere rispetto allo Stato e alla patria. In alcuni casi, la parola in quistione ammette anche il significato di iustitia. Colui che non conosce la pietas è anche l’ingiusto, quasi l’empio, è colui che disconosce il luogo che gli è proprio e che deve mantenere in un ordine superiore, divino e umano ad un tempo.

Innocentia. Anche questa parola evocava idee di chiarezza e diforza, nell’uso prevalente nell’antichità essa esprimeva la purezza d’animo, l’integrità, il disinteresse, la rettitudine. Non si esauriva nel significato negativo di non essere colpevole. Da essa esulava la sfumatura di banalità che oggi presenta l’espressione “spirito innocente”, sinonimo, quasi, di sempliciotto. In altre lingue romaniche, come nel francese, lo stesso termine, innocent, finisce con l’essere anche la designazione degli idioti (!!!), degli spiriti sfasati per nascita, deboli di mente e come stupefatti.

Patientia. Il significato moderno, rispetto a quello antico, accusa di nuovo uno smussamento e un depotenziamento. Oggi viene detto paziente chi non si arrabbia, chi non si irrita, chi tollera. Nella lingua latina la patientia designava una delle “virtù” primarie dell’uomo romano: comprendeva l’idea di una forza interna, di una incrollabilità, alludeva alla capacità di tener fermo, di aver l’animo non turbato di fronte a qualsiasi rovescio e a qualsiasi avversità. Per questo fu detto esser prorio, alla razza di Roma, il potere sia di compiere grandi cose, sia di “patire” vicende avverse di non minore entità (cfr. il noto detto di Livio: et facere et pati fortia romanum est). Il significato moderno risulta invece, rispetto all’altro, completamente innacquato. Come esempio di una natura tipicamente paziente viene indicato l’asino.

Humilitas. Con la religione venuta a predominare in Occidente l’umiltà è divenuta una ‘virtù’ in un senso poco romano, glorificata in opposto a quella tenuta di forza, di dignità, di calma consapevolezza, di cui si è detto più sopra. In Roma antica essa significò proprio il contrario di ogni virtus. Volle dire bassezza, spregevolezza, bassa condizione, abiezione, viltà, disonore – per cui, ad esempio potè dirsi che all’«umiltà» è da preferire la morte o l’esilio: humilitati vel exilium vel mortem anteponenda esse. Frequenti sono associazioni di idee, come mens humilis et prava, cioè mente bassa e malvagia. L’espressione humilitas causam dicentium si riferisce alla condizione di inferiorità e di colpa di coloro che sono portati dinanzi ad un tribunale. Anche qui s’incontra una interferenza con l’idea di razza o casta: humilis parentis natus significava essere nato dal popolo in senso dispregiativo, plebeo, in opposto alla nascita gentilizia, dunque con una sensibile divergenza rispetto al senso moderno di «umile condizione», specie considerando che oggi il criterio quasi esclusivo delle posizioni sociali è quello economico. In ogni caso, ad un Romano del buon tempo antico non sarebbe mai venuto in mente di concepire l’humilitas come una virtù, fino a trar vanto da essa e a predicarla. Quanto a certa «morale dell’umiltà», si potrebbe ricordare il rilievo di un imperatore romano, ossia che nulla vi è di più deprecabile dell’orgoglio di coloro che si dicono umili – senza che con questo si voglia dar valore, però, alla presunzione e all’arroganza.

Ingenium. Solo in parte il significato antico si è conservato nella parola moderna, ed è, di nuovo, il suo aspetto meno interessante. Ingenium nell’antica lingua latina indicava anche la perspicacia, l’acutezza di mente, la sagacia, l’avvedutezza – ma, in pari tempo, la parola rimandava al carattere, a ciò che in ognuno è organico, innato, veramente proprio. Vana ingenia poté, dunque, significare persone senza carattere; redire ad ingenium poté dire tornare alla propria natura, ad un modo di vita conforme a quel che veramente si è. Questo più importante significato è andato perduto nella parola moderna, a tal segno da dar luogo quasi ad una antitesi. Infatti se l’ingegno lo si intende in senso intellettualistico e dialettico, si ha qualcosa di evidentemente opposto al secondo significato incluso nel termine antico, che rimanda al carattere, ad uno stile conforme alla propria natura; è superficialità di contro a organicità, è moto irrequieto, brillante e inventivo della mente contro ad un rigoroso stile di pensiero aderente al proprio carattere.

Servitium. Il verbo servio, servire in latino ha anche il significato positivo di essere fedeli. Prevale però il significato negativo di essere servi; è quest’ultimo, in ogni caso, che sta alla base dell’altra parola, servitium, la quale indicava appunto la schiavitù, il servaggio, perché derivata da servus = schiavo. Nei tempi moderni la parola “servire” si è sempre più diffusa perdendo questa sfumatura negativa e avvilente, al punto che nei popoli soprattutto anglosassoni del “servizio sociale” si è potuto fare quasi l’oggetto di un’etica, dell’unica etica veramente moderna. E come non si è sentito l’assurdo di parlare di “lavoratori intellettuali”, del pari nel sovrano si poté vedere “il primo servitore della nazione”.

Anche a tale riguardo, è opportuno rilevare che, come i Romani non ci si presentano per nulla come una razza di “oziosi”, del pari essi ci offrono i più alti esempi di lealismo politico, di fedeltà allo Stato e ai capi. Ma il tono è assai diverso. La trasformazione dell’anima delle parole non è casuale. Che parole, come labor, servitium, otium, si siano imposte nell’uso corrente secondo il loro significato moderno, ciò è un indice sottile, ma eloquente, di uno spostamento di prospettive avvenuto non di certo nella direzione di vocazioni virili, aristocratiche, qualitative.

Stipendium. Occorre appena dire che cosa oggi significhi “stipendio”. Si pensa subito ad un impiegato, alla burocrazia, al famoso 27 del mese degli statali. Nella Roma antica il termine si riferiva invece quasi esclusivamente all’esercito. Stipendium merere significava militare, stare agli ordini dell’uno o dell’altro capo o condottiero. Emeritis stipendis significava: dopo aver compiuto il servizio militare. Homo nullius stipendii era colui che non aveva conosciuto la disciplina delle armi. Stipendis multa habere voleva dire poter vantare molte campagne, molte imprese di guerra. Anche qui, la differenza è di non poco momento.

Il significato completo di altre parole latine, come studium e studiosus, oggi non si mantiene più che in certe locuzioni speciali, come ad esempio “fare con studio”, intendendosi a bella posta o con una certa applicazione. Nel termine latino era presente l’idea di una intensività, di un calore, di un interesse vissuto, che nella parola moderna si è offuscato, perché da questa si è portati a pensare soprattutto a discipline intellettuali o scolastiche più o meno aride. Studium latinamente poteva dire perfino amore, desiderio, inclinazione viva. In re studium ponere significava prendere a cuore una cosa, interessarsene vivamente e attivamente. Studium bellandi voleva dire il piacere, l’amore del combattere. Homo agendi studiosus era colui che ama l’azione – riprendendo quel che si è detto circa labor, era l’antitesi di colui pel quale l’azione può significare soltanto “lavoro”. Che si può pensare, poi, oggi, di una espressione come studiosi Caesaris? Essa non voleva dire coloro che studiano Cesare, bensì coloro che lo seguono, che lo ammirano, che ne prendono le parti, che gli sono affezionati e fedeli.

Altre parole l’antico senso delle quali è andato perduto sono, ad esempio, docilitas, che non voleva dire docilità ma soprattutto buona disposizione o capacità di apprendere, di far proprio un insegnamento o principio; poi ingenuus, che non significava affatto “ingenuo” bensì uomo nato libeo, di condizione non servile. Che, latinamente, humanitas non significasse “umanità” nel senso democratico e sfaldato di oggi bensì cultura di sé, pienezza di vita e di esperienza – e ciò, originariamente, nemmeno in un senso “umanistico” all’Humboldt – è cosa più o meno risaputa. Un altro esempio non privo d’importanza: certus. Nell’antica lingua latina la nozione di certezza, di cosa certa, stava frequentemente in relazione con quella di una determinazione consapevole. Certum est mihi vuol dire: è mia ferma volontà. Certus gladio è colui che può affidarsi alla propria spada, che è sicuro di sapersene servire. Nota è la formula diebus certis, che non vuol dire “nei giorni certi” ma nei giorni fissati, stabiliti. Ciò potrebbe dare uno spunto per considerazioni circa una speciale concezione della certezza: concezione attiva, che la fa dipendere da ciò che rientr nel nostro potere determinante. In una certa misura, Gian Battista Vico nello stesso spirito enunciò la formula verum et factum converturtur – ma su tale via si doveva finire nelle divagazioni proprie al cosidetto “idealismo assoluto” neo-hegeliano. Porremo fine a queste osservazioni considerando il contenuto originario di tre antiche nozioni romane, quelle di fatum, felicitas e fortuna.

Fatum. Secondo l’accezione moderna più corrente il “fato” è una potenza cieca che incombe sugli uomini, che ad essi s’impone facendo si che si realizzi quel che essi meno vogliono, spingendoli eventualmente verso la tragedia e la sventura. Da qui il termine “fatalismo”, antitesi di ogni atteggiamento di libera, efficace iniziativa. Secondo la visione fatalistica del mondo il singolo non è nulla, la sua azione, malgrado ogni parvenza di libero arbitrio, o è predestinata, o è vana, e gli avvenimenti si svolgono obbedendo ad una obbedienza o ad una legge che lo trascende e che non lo tiene in alcun conto. “Fatale” è un aggettivo che, prevalentemente, ha un significato negativo: esito “fatale”, un incidente “fatale”, “l’ora fatale della morte”, e via dicendo.

Secondo la concezione antica, il fatum corrispondeva invece essenzialmente alla legge dello sviluppo del mondo, legge che, a sua volta, non veniva pensata cieca, irrazionale e automatica – “fatale” nel senso moderno – bensì come piena di senso e come procedente da una volontà intelligente, soprattutto da quella delle potenze olimpiche. Il fatum romano rimandava, come il *rta indoeuropeo, alla nozione del mondo come cosmos e ordine, in particolare a quella della storia come uno sviluppo di cause e di eventi riflettente significati superiori. Le stesse Moirai della Tradizione ellenica, benché presentassero alcuni aspetti malefici e “inferi” (che risentivano di culti pre-ellenici e pre-indoeuropei), appaiono spesso come personificazioni della legge intelligente e giusta che presiede al governo dell’Universo, in certe sue estrinsecazioni.

Però è soprattutto a Roma che la nozione di fatum acquista un particolare risalto. Ciò pel fatto che la civiltà romana, fra tutte quelle a carattere tradizionale e sacrale, si concentrò particolarmente sul piano dell’azione e della realtà storica. Perciò ad essa importò meno il conoscere l’ordine cosmico come una legge supertemporale e metafisica, che il conoscerlo come forza in atto nella realtà, come volere divino ordinatore di avvenimenti. Al che, romanamente, si collegava appunto il fatum. L’espressione viene dal verbo fari, dal quale deriva anche la parola fas, il diritto come legge divina. Così fatum allude alla “parola” – s’intende: alla parola rivelata, soprattutto a quella delle divinità olimpiche che dà a conoscere la norma giusta (fas) così come annuncia ciò che sta per avvenire. In relazione a questo secondo aspetto gli oracoli, nei quali un’arte speciale tradizionale cercava di cogliere in germe quel che corrispondeva a situazioni in via di realizzarsi, si chiamavano anche fata; erano, quasi, la parola rivelata della divinità.

Ciò premesso, per l’insieme che ora stiamo considerando devesi tener presente un rapporto dell’uomo con l’ordine generale del mondo che in Roma antica e nelle civiltà tradizionali in genere era assai diverso da quello che doveva successivamente predominare. Se l’idea di una legge universale e di un volere divino non annullavano la nozione della libertà umana, pure fu costante preoccupazione dell’uomo antico formare la sua azione e la sua vita in modo che esse continuassero l’ordine generale, rappresentassero, per così dire, un prolungamento o un ulteriore sviluppo di esso. Partendo dalla pietas, ossia, romanamente, dal riconoscimento e dalla venerazione delle forze divine, ci si pone come compito il presentire la direzione di queste forze divine nella storia in modo da potervi accordare opportunamente l’azione, tanto da renderla massimamente efficace e piena di significato. Da qui la parte importantissima che nel mondo romano, fin nel dominio della cosa pubblica e dell’arte militare, ebbero l’oracolo e l’auspicio. Fu ferma persuasione del Romano che le peggiori sciagure, comprese le disfatte militari, non fossero tanto dipese da errori, debolezze o deviazioni umane quanto dall’aver trascurato gli auspici, cioè riportando la cosa alla sua essenza, dell’aver agito disordinatamente e arbitrariamente, seguendo meri criteri umani, rompendo i contatti col mondo superiore (romanamente, ciò voleva dire aver agito senza religio, cioè senza collegamento), senza tener conto delle “direzioni di efficacia” e del “momento giusto” condizionanti un’azione “felice”. Si noti che la fortuna e la felicitas in Roma antica spesso appaiono soltanto come l’altra faccia di fatum, come la sua faccia propriamente positiva.. L’uomo, il capo o il popolo che usano la loro libertà per agire in aderenza con le forze divine delle cose, hanno successo, riescono, trionfano – e questo voleva dire, anticamente, essere “fortunato” ed essere “felice” (tale senso si è conservato in locuzioni, come “un’iniziativa felice”, una “mossa felice”, ecc.). Uno storico moderno, Franz Altheim, ha creduto di poter riconoscere in questo atteggiamento la causa effettiva della grandezza romana.

Per chiarire ulteriormente i rapporti fra “fato” e azione umana ci si può riferire alla tecnica moderna. Esistono certe leggi delle cose e dei fenomeni, che possono essere conosciute o ignorate, di cui si può tenere o non tenere conto. Di fronte ad esse l’uomo, in fondo, resta libero. Egli può anche agire in modo contrario a quel che tali leggi consiglierebbero, tanto da vedere la sua azione fallire ovvero tanto da raggiungere lo scopo solo con un grande sperpero di energie e superando ogni specie di difficoltà. La tecnica moderna corrisponde all’opposta possibilità; si cerca di conoscere il meglio possibile le leggi delle cose per poterle sfruttare e far sì che esse indichino la linea della minore resistenza e della maggiore efficacia per la realizzazione di un dato fine.

Non altrimenti stanno le cose su un piano in cui non si tratta più di leggi della materia ma di forze spirituali e “divine”. L’uomo antico riteneva cosa essenziale conoscere o, almeno, presentire tali forze, tanto da potersi formare un concetto delle condizioni propizie per una data azione e eventualmente di ciò che doveva fare o non doveva fare. Sfidare il fato, ad ergersi contro il fato, per lui non era cosa “prometeica” nel senso romantico esaltato dai moderni, ma semplicemente sciocca. Empietà (che vuol dire il contrario della pietas, ossia l’esser privo di religio, di “collegamento” e della comprensione rispettosa dell’ordine cosmico) per l’uomo antico era più o meno stupidità, infantilità, fatuità. Il paragone con la tecnica moderna è difettoso in un sol punto: pel fatto che le leggi della realtà storica non si presentavano come disanimatamente “oggettive”, affatto staccate dall’uomo e dalle sue finalità. Si potrebbe dire così: l’ordinamento oggettivo divino connesso al fato giunge fino ad un certo limite, oltre il quale esso cessa di essere determinante e diviene tendenziale (donde il noto detto dell’astrologia: astra inclinant non determinant). Qui prende inizio il mondo umano e storico in senso proprio. In via normale questo mondo dovrebbe continuare il precedente, la volontà umana dovrebbe, cioè, riprendere e portar oltre la volontà “divina”. Che ciò avvenga o no dipende essenzialmente dalla libertà: occorre che lo si voglia. Nel caso positivo quel che era tendenza si fa, attraverso l’azione umana, realtà. Il mondo umano si presenterà allora come una continuazione dell’ordine divino e la stessa storia andrà ad assumenre i tratti di una rivelazione e di una “storia sacra”; l’uomo non vale e non agisce più per se stesso bensì in una dignità divina e il tutto acquista, in un qualche modo, una dimensione superiore.

Si vede, così, che si tratta di cosa ben diversa dal “fatalismo”. Come un’azione contro il “fato” è sciocca e irrazionale, così un’azione armonizzata col fato è non solo efficace ma anche trasfigurante. Chi non tiene conto del fatum è quasi sempre destinato ad essere passivamente trasportato dagli eventi; chi lo conosce lo assume e vi si innesta viene invece guidato verso un superiore compimento, ricco di un significato non soltanto individuale. Tale è il senso del detto antico secondo il quale i fata “nolentem trahunt, volentem ducunt“.

Nel mondo romano antico e nell’antica storia romana sono numerosi gli episodi, le situazioni e le istituzioni dove viene in luce, appunto, il sentimento di incontri “fatidici” fra mondo umano e mondo divino, di forze dall’alto che scorrono nella storia e si manifestano attraverso quelle umane. Per limitarci ad un solo esempio, si può ricordare che “il culmine del culto romano di Giove era sostituito da un atto in cui il dio si fa presente nella sua qualità di vincitore in un uomo, nel trionfatore. Non è che Giove sia solo causa della vittoria, ma egli stesso è il vincitore; il trionfo non si celebra in suo onore ma egli stesso è il trionfatore. Per questa ragione l’imperator riveste le insegne del dio” (KK. Kerényi, F. Altheim).

Attuare – talvolta prudentemente, talaltra audacemente – nell’azione e nell’esistenza il divino, questo fu un principio direttivo che l’antica romanità applico allo stesso ordine politico. Così è stata giustamente messa in rilievo la misura nella quale Roma ignorò il mito nel senso astratto e soltanto superstorico prevalente in alcune altre civiltà; in Roma il mito si fa storia, così come, a sua volta, la storia assume un aspetto “fatale”, si fa mito.

Da ciò procede una conseguenza importante. In questi casi, è una identità che, propriamente, si realizza. Non si tratta di una parola divina che può essere ascoltata o non ascoltata. Si tratta invece di un dispiegamento nel quale la volontà umana appare quella stessa delle forze superiori. Con il che si viene ad un concetto particolare, oggettivo, quasi diremmo trascendentale della libertà. Contrapponendomi al fatum posso bensì rivendicare per me un arbitrio, ma esso è sterile, è un puro “gesto” perché esso ben poco saprebbe incidere sulla trama della realtà. Quando, invece, ho fatto si che la mia volontà continui un ordinamento superiore, sia, cioè, l’organo per mezzo del quale questo ordinamento si realizza nella storia, ciò che io voglio in un simile stato di coincidenza o di sintonia è tale da tradursi eventualmente in un comando per forze oggettive che altrimenti non si sarebbero facilmente piegate o non avrebbero avuto riguardo per quel che gli uomini vogliono o sperano.

Ora, ci si può chiedere: come è che si è giunti alla nozione moderna del fato come una potenza oscura e cieca? Come tanti altri, un tale mutamento di significato è lungi dall’essere casuale, esso riflette un mutamento di livello interiore e si spiega, essenzialmente, con l’avvento dell’individualismo e dell’umanismo inteso in un senso generale, cioè con riferimento ad una civiltà e ad una visione del mondo basate unicamente su ciò che è umano e terrestre. È evidente che, una volta prodottasi questa scissione, al luogo di un ordinamento intelligibile del mondo doveva essere sentito il potere di qualcosa di oscuro e di estraneo. Il “fato” divenne allora il simbolo generale di tutte quelle forze più profonde in atto, sulle quali l’uomo, malgrado il suo dominio sul mondo fisico, può ben poco, perché non le comprende più e si è tagliato fuori di esse, ed anche di forze che, col suo stesso atteggiamento, ha liberato e ha rese sovrane in dati dominî dell’esistenza.

Questa è solo un’idea dell’importanza e dell’interesse che avrebbe una illuminata filologia perché, come si disse, le parole hanno una loro anima e una loro vita, tanto che anche a tale riguardo il rifarsi alle origini può spesso dischiudere prospettive insospettate. Il lavoro, poi, sarebbe ancor più fecondo ove non ci si limitasse a retrocedere dalle lingue “romaniche” all’antica lingua latina, ma la stessa lingua latina venisse riportata al più vasto, comune ceppo delle lingue indoeuropee, del quale essa, nei suoi elementi fondamentali, è stata una differenziazione.

Sfaldamento delle parole | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/sfaldamento-delle-parole.html)

Majorana
24-08-10, 08:52
Sul «regnum» e sulla spiritualità di Cesare

Appunto perché l’argomento oggi in Italia è, come si suol dire, in voga, fra i numerosi nuovi lavori dedicati a Giulio Cesare son pochi quelli che presentano un valore effettivo. In tale condizione, i più, infatti, son portati a trattar questo o analoghi soggetti più per ragioni di convenienza e quasi di opportunismo che non per un interesse spontaneo, sentito e confortato da seria preparazione e comprensione. Un altro dei difetti del più dei lavori moderni su Cesare procede poi dall’applicazione di un punto di vista esclusivamente «umanista». Il cosiddetto «culto della personalità», il concentramento di ogni interesse sulla parte semplicemente «umana» delle grandi figure del mondo antico quasi prendendo a principio per la comprensione loro il tipo del «condottiere» della Rinascenza — tutto ciò costituisce un pregiudizio invero limitatore, se non pure contaminante. Del che, Cesare è fra coloro che più hanno a soffrire, appunto per il fatto che alcuni suoi tratti si prestano particolarmente a
colpire in tal senso l’immaginazione di coloro che già vi sono inclinati: mentre altri caratteri, superpersonali e vorremmo dire «fatidici», vengono a cadere nell’ombra. La formula «Le personalità fanno la storia» è tanto vera se ricondotta al suo giusto ambito e contrapposta ad un determinismo di carattere inferiore, materialistico o sociologico, quanto è pericolosa se portata più oltre, tanto da precludere la penetrazione di quell’aspetto delle grandi figure storiche, secondo il quale esse ci appaiono, se non come strumenti, almeno come elementi in un piano d’ordine superiore, in uno sviluppo che — come quello di ogni grandezza — non si lascia spiegare con fattori semplicemente umani. Una considerazione della figura di Giulio Cesare che prendesse le mosse da questo punto di vista, distaccandosi dalla abituale valutazione «umanistica», politico-militare e letteraria sarebbe invero assai desiderabile nel nuovo clima culturale italiano.

Queste riflessioni ci son tornate in mente in occasione della lettura di un’opera nuova su Cesare, dovuta a Giovanni Costa (1). Qui non possiamo fare una «recensione» del libro, cosa che ci riuscirebbe piuttosto banale. Come diretto riferimento ad esso ci limiteremo dunque a dire che si tratta di una esposizione chiara, equilibrata, compendiosa e rivolta al gran pubblico, della vita e dell’opera di Cesare, esposizione che però risulta alquanto sincopata da una certa tal quale forma mentis razionalista dell’Autore, che ad ogni istante ha scrupolo di andar di là da quanto i cosiddetti dati «positivi» possono fondare e di utilizzare adeguatamente tutto quel che se, come tradizione e mito, può esser destituito di verità storica nel senso volgare, appunto per questo assurge al valore di testimonianza certa per significati di un ordine superiore, essi soli atti a introdurci nel lato interno, e quindi più essenziale, di una data realtà. Per tal via, questa stessa nuova opera, se è aliena da fronzoli retorici, da «letterarizzazioni» e da ostentate apologie, se essa ci appare dignitosa e testimoniante la ponderatezza d’uno «studioso», pure non sfugge essa stessa, nei riguardi di Cesare, all’anzidetto «umanismo», che talvolta si intreccia perfino con qualche vena di scetticismo, a diminuirne alquanto la statura.

Eppure il libro si apre con una impostazione, la quale fa pensare che l’Autore abbia imbroccata subito la via giusta, che al Costa sia riuscito cogliere quel punto centrale, che permetterebbe di ordinare i tratti essenziali della figura, dell’azione e della funzione di Cesare appunto in un riferimento non semplicemente storico, ma storico e in pari tempo superstorico. Il Costa infatti prende le mosse dal discorso che Cesare adolescente tenne in occasione delle esequie della moglie di Caio Mario quale discendente dell’antichissima, gloriosa e quasi leggendaria gens Julia. Cesare pronunciò in tale occasione queste parole fatidiche: «Nella mia stirpe vi è la maestà dei re, che eccellono per potenza fra gli uomini, e la sacrità degli dèi, che hanno la potenza dei re nelle loro mani». Il Costa qui vede l’affiorare di un principio — nuovo e antico ad un tempo — che risuona già come un’allarmante squillo nell’ambiente agitato, infido, disgregato e liberaleggiante della romanità dell’ultimo secolo avanti Cristo, quasi preludio all’opera del futuro dominatore. Ma già nel riferimento a quella formula— l’aspetto del semplice imperator — che nella lingua del tempo designava il mero duce militare — è superato e si stabilisce un nesso evidente e pieno di significato con una idea tradizionale e primordiale, già incarnatasi in alcuni aspetti della Roma prisca dei Re, ma, oltre ciò, universale, perché ritrovabile, in una forma o nell’altra, in un ciclo tipico che riprende in sé le più grandi civiltà gerarchico-spirituali del mondo preantico.

Tale idea è già quella del sacrum imperium, del regnum che si giustifica come una istituzione non soltanto temporale, ma temporale e in pari tempo sostenuta e resa trascendente da una forza o influenza dall’alto. Ma il Costa si direbbe che abbia avuto paura di toccare questo punto giusto per una interpretazione di tipo superiore, onde subito noi lo vediamo intento a sminuirne la portata anzitutto non sapendo connettere ad altro quella idea di Cesare, se non a presunte «reminiscenze ellenicoasiatiche» e poi bruciando abbondanti grani d’incenso ai pregiudizi positivisti circa le «favole», le «storielle» e le «divertenti avventure» che sarebbero le simboliche tradizioni antiche circa le origini superstoriche di Roma. Per tal via, il Costa si è dato a fare il contrario di quel che, dal nostro punto di vista, sarebbe stato da farsi: considerar, cioè, Cesare in funzione di un fatale, superpersonale compiersi dell’idea del Regnum, in un primo tempo rivelatasi istintivamente e quasi diremmo incoscientemente in un tratto d’eloquenza del giovane patrizio, in un secondo tempo agente come potenza oggettiva di destino attraverso l’«umanità» e l’azione militare di Cesare, infine facentesi coscienza a se stessa e coscienza dello stesso «dittatore perpetuo» nella nuova costituzione romana.

Tuttavia è estremamente significativo che, malgrado le sue intenzioni, il Costa sia venuto più o meno allo stesso punto. Egli ci descrive Cesare come una specie di anticlericale positivista avant la lettre, che tuttavia attraverso l’affermazione della sua potente personalità finisce col credere a qualcosa di più che non a questa semplice umana personalità: certo, non a divinità esterne o a «redentori» alla sirio-semitica, bensì ad una mistica, misteriosa forza di fortuna e di vittoria — felicitas Caesaris, fortuna Caesaris — che gli si rendeva via via evidente come anima occulta o setterranea scaturigine di tutto ciò che attraverso di lui andava creandosi nel mondo visibile. Una tale forza, nella sua personificazione di Venus Victrix e Venus Genitrix, da Cesare fu posta poi nella più stretta connessione con la forza primordiale generatrice della sua stessa stirpe: il che significa che essa gli apparve in connessione con lo stesso principio, riferendosi al quale il giovane Cesare aveva proclamata la anzidetta dottrina del Regnum, e quasi come concreta efficacia di tale principio nella romanità e nel mondo.

In più, se il Costa scopre una unità d’intento e di volere dietro alla varietà — spesso contraddittoria, se non perfino machiavellica e opportunistica, malgrado tutto subordinata costantemente ad una formula: la dignità propria e la dignità del popolo romano — dei mezzi o dei fini immediati eletti da Cesare nelle varie fasi della sua ascesa — anche da qui si lascia presentire lo stesso motivo, cioè: il parallelismo di due serie, dominio, l’una, della «persona», e l’altra di un principio superiore, dal quale l’elemento «persona» in una fase preliminare è, per dir così, agito, ma nel quale alla fine esso si trasfigura e si incentra. Dire che Cesare, il quale «non è un credente non solo nel senso della prassi formalistica dei Romani, ma neppure nel largo senso religioso che potrebbero riconoscergli i moderni» e fa anche a meno delle ipotesi devote o speculative circa l’immortalità dell’anima, quasi attraverso una sensazione dette nuova vita all’idea «antica primitiva della Fortuna romana» elemento cosmico e impersonale, «unica attrice soprattutto nelle cose di guerra», e che questa fu «l’unica concezione che, una volta formatasi in lui, lo ebbe tenace sostenitore, tanto che nell’ultimo periodo della sua vita può venire il dubbio che l’abbia talmente trasfusa in sé e talmente confusa con le sue sorti tanto da ritenersi anche lui, come molti lo ritenevano, «divino»; ripetere che «in Cesare però ciò si unisce all’elemento personale che abitualmente riscontriamo in tutti gli uomini di genio, i quali sentono il daemonium fervere a tal punto in sé, da obbiettarlo e farlo motivo di una specie di esaltazione da cui traggono di necessità energia e fede per lo svolgimento dell’opera propria. Perciò si potrebbe seguire, con il progredire della sua fortuna in guerra, il maturarsi e il compiersi di questa sua concezione (della fortuna Caesaris)… come una fede e una spiegazione che a poco a poco pare astragga dalla persona e dagli eventi cesariani», sì che «tanto egli che i suoi contemporanei vedevan qualcosa
di inesplicabile in cui credevano passar l’aura del numinoso» — dire tutto ciò significa constatare, sia pure attraverso reticenze e titubanze, e con le solite limitazioni e pseudo-spiegazioni psicologistiche e empiristiche di rigore presso agli storici e ai «ricercatori» moderni, appunto l’elemento di «fatidicità» sopraindicato e da noi non inteso come una sensazione generica, ma compreso in connessione col principio stesso del Regnum, in atto di dar forma ad una nuova civiltà universale attraverso la potenza romana.

Cesare è colui che, nello stesso riferimento ad una figura non certo di primo piano, quale Cicerone, poteva dire esser cosa superiore in gloria allargare i confini dell’impero spirituale che non quella di un qualunque trionfatore, ampliatore dell’impero materiale — e Cesare è in pari tempo colui che nel suo stile non ha nulla di mistico e di vago, la cui essenzialità e lucidità, più che dello «spiritualista» o del letterato, è dello scienziato o dell’uomo d’azione.

Cesare è colui che nutre una rivoluzionaria indifferenza per gli auguri e i sacrifici — ed è colui che in pari tempo dall’affermazione della sua personalità direttamente tradotta in termini d’azione oggettiva e vittoriosa coglie, come si è detto, di contro ad un fatalismo di carattere esteriore e sacerdotale, la sensazione di un fatalismo di carattere superiore e immanente, adombrato dalla forza delle origini. Chi comprende in una sintesi questi elementi, si avvicina al segreto della figura di Cesare, epperò, attraverso di lui, anche a quello dell’«eroe occidentale» per eccellenza. In un tale «eroe» vi è del «dorico» come personalità, chiarezza, essenzialità, azione — ma tutto ciò non si esaurisce nell’ «umanistico», nel puramente profano. Già la civiltà greca né nel tiranno traente la sua potenza dall’oscura sostanza del demos o da un effimero prestigio personale né nel tipo «titanico» e «prometeico», bensì nel tipo del vincitore simbolicamente alleato agli «Olimpici» — in Eracle — riconobbe il suo ideale eroico. Un tale ideale può porsi di là sia dal «mistico» che dal sacerdotale in senso ristretto, e raggiungere secondo un suo modo specifico un superiore piano, una certa tal quale trascendenza e fatidicità, attraverso il punto in cui, secondo la formula già usata, l’estremo limite dell’esser «personalità» fa tutt’uno con l’esser più che personalità.

Il principio del regnum che attraverso Cesare si creò, per così dire, le elementari condizioni corporeo-politiche e psicologico-sociali per la sua incarnazione e affermazione universale, sincopato dalla tragica fine del grande Imperatore, doveva riaffermarsi e svolgersi anche in sede direttamente spirituale attraverso una vera e propria riforma del culto romano con Cesare Augusto. Qui non possiamo sviluppare delle considerazioni volte a stabilire la segreta continuità ideale che corre fra queste due figure della romanità: continuità di solito non compresa appunto perché in Cesare di solito viene accentuato deformativamente il solo aspetto del dittatore e del duce militare, o imperator.

Questo sarebbe dunque un soggetto fra i più suggestivi per chi avesse una adeguata mentalità e preparazione dottrinale per trattarlo: appunto in funzione del principio del regnum verrebbe allora in luce l’«eternità» dell’impero romano, non nei termini di un modo di dire glorificativo, ma per il riferimento ad un’idea che, più che storica — cioè sorta dal contingente e dal perituro — è da dirsi «metafisica» e, come tale, dotata di perenne vita e della dignità del «sempre ed ovunque» di fronte ad un significato fondamentale della civiltà quale virile spiritualità.

Note

1 G. Costa, Caio Giulio Cesare. La vita e le opere, Ed. Morpurgo, Roma 1934, pp. IX-183 (N.d.A.)

Tratto da «La Vita Italiana», XLIV, 10 – Ottobre 1934.


Sul «regnum» e sulla spiritualità di Cesare | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/sul-%C2%ABregnum%C2%BB-e-sulla-spiritualita-di-cesare.html)

Majorana
24-08-10, 08:53
Economia e politica

Nel capitolo VI si è detto che spezzare la demonia esercitata dall’economia nel mondo occidentale moderno è una delle premesse fondamentali pel ritorno ad una condizione generale di normalità; così è stato anche brevemente indicato il mutamento di atteggiamento interno necessario per tale superamento. Però allo stato attuale delle cose, per l’urgere di forze che nel dominio economico-sociale tendono a portare sempre più in basso, non si può contare sui soli fattori interni, per quanto essi resteranno sempre quelli veramente decisivi. In più è necessario considerare quelle forme mediante le quali l’economia può venire intanto frenata e ordinata e siano limitati fattori di disordine e di sovversione insiti negli sviluppi più recenti di essa.

Che oggi non si possa giungere a tanto in virtù di un processo spontaneo, è abbastanza chiaro. Un intervento politico è indispensabile. Le premesse fondamentali sono queste due: lo Stato, incarnazione di una idea e di un potere, è una realtà sopraelevata rispetto al mondo dell’economia – in secondo luogo: all’istanza politica spetta il primato rispetto a quella economica e, si può aggiungere economico-sociale. Nel riguardo del secondo punto, dopo quanto abbiamo detto precedentemente non occorrerà precisare che secondo la concezione tradizionale un’istanza politica si legittima con valori spirituali e superindividuali. Lo Stato è il potere che s’intende a dare a tali valori il peso che ad essi spetta in un ordinamento complessivo normale, realizzando così l’idea di “giustizia” in un senso superiore.

Ciò premesso, occorre appena dire che il primo passo da compiere per normalizzare l’economia è il superamento del classismo, in esso risiedendo la causa prima del disordine e della crisi del nostro tempo. A questo fine non è necessario mettersi alla ricerca di idee nuove, anche a tale riguardo basta attingere dal retaggio tradizionale, il principio corporativo offre già l’idea direttrice che, opportunamente adattata, può costituire ancor oggi il miglior punto di riferimento. Lo spirito fondamentale del corporativismo era quello di una comunità di lavoro e di solidarietà produttiva, a cui i principi della competenza, della qualificazione e della naturale gerarchia facevano da saldi cardini, il tutto avendo in proprio uno stile di impersonalità attiva, di disinteresse, di dignità.

Tutto ciò fu ben visibile nelle corporazioni artigiane medievali, nelle gilde e nelle Zünften, portandoci ancora più indietro, abbiamo l’esempio delle antiche corporazioni professionali romane. Queste, secondo un espressione caratteristica, erano costituite ad exemplum rei publicae, cioè ad imagine di uno Stato, e nelle stesse designazioni (per esempio di milites o milites caligati per i semplici corporati di fronte ai magisteri) riflettevano sul loro piano l’ordinamento militare. Quanto alla tradizione corporativa quale fiorì nel Medioevo romano-germanico, in essa ebbe particolare risalto la dignità di esseri liberi negli appartenenti alla corporazione, l’orgoglio del singolo di appartenervi; all’amore per il lavoro considerato non come un semplice mezzo di guadagno ma come un’arte e una espressione della propria vocazione, e all’impegno delle maestranze facevano riscontro la competenza, la cura, il sapere dei maestri dell’arte, il loro sforzo pel potenziamento e l’elevazione dell’unità corporativa complessiva, la loro tutela dell’etica e delle leggi di onore che questa aveva in proprio (1).

Il problema del capitale e della proprietà dei mezzi di produzione qui quasi non si affacciava, tanto era naturale il concorso dei vari elementi del processo produttivo per la realizzazione dello scopo comune. Del resto, si trattava di organizzazioni che avevano “in proprio” gli strumenti di produzione, strumenti che nessuno pensava di monopolizzare per fini di sfruttamento e che non erano vincolati ad una finanza estranea al lavoro. L’usura del “danaro liquido” e senza radici – l’equivalente di ciò che oggi è l’uso bancario e finanziario del capitale – veniva considerato cosa da Ebrei e ad essi lasciata, era lungi dal condannare il sistema.

Che tutto ciò corrisponda ad una condizione di normalità è che il problema si riduca alla ricerca di forme e condizioni tali da poter fare valere di nuovo nell’epoca moderna, sconvolta dalla “rivoluzione industriale” (parallela a quella del Terzo Stato e alla ebraicizzazione della economia), le idee basilari dell’ordine corporativo – tutto questo dovrebbe apparire abbastanza chiaro ad ogni persona dotata di sano discernimento. A tale proposito, il punto fondamentale è precisamente il superamento del classismo. Tale fine se lo era proposto lo stesso corporativismo fascista, realizzandolo però imperfettamente, sotto un doppio riguardo. In primo luogo, perché in esso sussiste l’idea-base di un doppio schieramento extra-aziendale, quello sindacale dei lavoratori e quello dei datori di lavoro: i sindacati continuarono ad essere riconosciuti come organizzazioni di classe; benché, dopo il cosidetto sblocco della Confederazione Generale del Lavoro, essi fossero stati frazionati e distribuiti secondo le varie corporazioni. In secondo luogo, l’unità del lavoro non fu ricostituita, nel corporativismo fascista, nel luogo stesso ove le prevaricazioni capitaliste da un lato, il marxismo dall’altro l’avevano spezzata, cioè all’interno stesso di ogni azienda o complesso di aziende, bensì all’esterno, nel quadro di un sistema burocratico-sociale, con organi che spesso si riducevano a semplici ingombranti sovrastrutture.

Fu la legislazione nazionalsocialista tedesca del lavoro che, a tale riguardo, si avvicinò maggiormente allo scopo, perché essa si rese conto che quel che soprattutto importava era appunto di realizzare all’interno delle aziende la solidarietà organica delle forze dirigenti imprenditoriali e del lavoro, precedendo ad un ridimensionamento che rispecchiò in una certa misura lo spirito, dinanzi accennato, del corporativismo tradizionale. In effetti, i dirigenti aziendali in tale sistema tedesco assunsero figura e responsabilità di “capi” (Betriebshführer), le maestranze, di loro “sèguito” (Gefolgschaft), in una solidarietà, che varie misure garantivano e tutelavano, e con un risalto del momento etico: sia al dirigente che all’operaio si chiedeva di elevarsi di là dall’interesse puramente individuale (il massimo lucro e plus-valore economico nell’uno, il massimo salario senza riguardo né per le condizioni della azienda, né per quelle del paese o della situazione generale, nell’altro), quindi anche di porre dei limiti al mero interesse economico (fra l’altro, per eventuali contrasti era competente un cosidetto “tribunale d’onore”). Così nello stesso periodo della rapida ripresa economica dopo la seconda guerra mondiale, si poté dire, degli operai tedeschi, che essi “lavoravano con lo stesso spirito di sacrificio del soldato”, malgrado le dure condizioni di vita, scioperi per rivendicazioni salariali in tale periodo furono quasi inesistenti, mentre un largo margine di liberismo e di non-protezionismo metteva alla prova la responsabile iniziativa di ogni capo-azienda inteso ad affermarsi. Ma anche in Austria, in Spagna e in Portogallo esperienze organico-corporative sono state fatte.

Le condizioni elementari per il ripristino dell’accennata condizione di normalità sono dunque da un lato (in basso) la sproletarizzazione dell’operaio, dall’altro (in alto) l’eliminazione del tipo deteriore del capitalista, semplice beneficiario parassitario di profitti e di dividendi, estraneo al processo produttivo. A quest’ultimo proposito, si è giustamente parlato di una doppia defezione del capitalista nel corso dei tempi ultimi. In un primo tempo dal capitalista-imprenditore si è differenziato il capitalista soltanto finanziere o speculatore, estraneo alla direzione tecnica delle imprese da lui controllate, dunque non più centro effettivo e personale dei complessi di lavoro; in un secondo tempo si è arrivati addirittura al tipo del capitalista che non è nemmeno lo speculatore ma colui che si limita ad incassare dei dividendi, sapendo appena donde gli vengono e usandoli per una vana vita mondana. È evidente che contro questi tipi gli agitatori abbiano facile giuoco, né vi è modo di venir davvero a capo delle loro mente senza eliminare il motivo dello scandalo, cioè senza combattere i rappresentanti di un simile deteriore capitalismo. In un nuovo sistema corporativo il capitalista, il proprietario dei mezzi di produzione, dovrebbe invece riprendere la funzione di capo responsabile, di dirigente tecnico e di organizzatore al centro dei complessi aziendali, e mantenersi in stretto, personale contatto con gli elementi più fidati e qualificati dell’impresa come con una specie di suo stato maggiore, avendo intorno a sé maestranze solidali, liberi dal vincolo sindacale, fiere invece di appartenere alla sua azienda. L’autorità di un tale tipo di capitalista-imprenditore dovrebbe inoltre fondarsi non solo sulla sua competenza tecnica specializzata, sul suo controllo degli strumenti di produzione e su particolari, ampie capacità di iniziativa e di organizzazione, ma altresì su di una specie di suo crisma politico, come più sotto diremo.

In effetti, questo punto conduce alla considerazione delle relazioni fra economia e Stato, considerazione a cui è però opportuno premettere alcune osservazioni. Uno degli ostacoli principali per la ripresa dello spirito corporativo e pel superamento di quello proletario sta certamente nelle mutate condizioni di lavoro cui ha condotto la rivoluzione industriale. Nelle varietà di un lavoro essenzialmente meccanico è ben difficile che possa conservarsi il carattere di “arte” e di “vocazione”, e che le estrinsecazioni di esso rechino l’impronta della personalità. Da quì il pericolo, per l’operaio moderno, di esser portato a considerare il lavoro come una semplice necessità e le sue prestazioni come la vendita di una merce ad estranei contro il massimo compenso, venendo meno i rapporti vivi e personali che nelle antiche corporazioni, e ancora in molti complessi del primo periodo capitalistico, erano esistiti fra capi e maestranze. Di fronte a tale difficoltà potrebbe aiutare soltanto il prendere forma di un nuovo tipo, definito da una specie particolare di impersonalità non diverso da quello che, in quadri assai più vasti, può caratterizzare quel nuovo tipo di combattente di cui già dicemmo. Bisognerebbe che l’anonimia e il disinteresse già propri all’antico corporativismo risorgessero in forma inedita, estremamente quintessenziata e lucida nel mondo della tecnica e dell’economia. A tale riguardo sarebbe decisiva una disposizione non dissimile da quella di chi sa tenersi in piedi anche nel logorio di una guerra di posizione. È sotto certi aspetti, la prova, fra macchine e complessi industriali sviluppatisi fino a dimensioni mostruose, potrà essere, per l’uomo medio, più ardua a superare che non nel caso delle esperienze di guerra, perché se in queste ultime la distruzione fisiche è la possibilità di ogni istante, tuttavia un insieme di fattori morali e emotivi forniscono all’uomo un sostegno che in gran parte è inesistente sul grigio, monotono fronte del lavoro moderno.

Tornando ora al dominio propriamente economico bisogna considerare alcune istanze moderne di reintegrazione organica delle aziende, che tuttavia seguono direzioni sbagliate. Accenneremo pertanto alla cosidetta “socializzazione”, nome dato ad un sistema economico nel quale (a differenza di ciò che è proprio nazionalizzazione e alla statizzazione collettivistica dell’economia) le aziende manterrebbero la loro autonomia, la loro unità interna dovendo essere però cementata dalla partecipazione delle maestranze alla direzione (diritto di co-direzione, co-gestione e co-determinazione) e dalla ripartizione fra di esse degli utili dell’esercizio, tolta una certa quota considerata come il giusto interesse del capitale.

La prima cosa da considerare a tale riguardo è che, quanto a partecipazione agli utili, il sistema in discorso potrebbe rappresentare qualcosa di giusto solamente nel quadro di un più vasto principio di solidarietà, per cui, se di partecipazione agli utili si vuol parlare, si dovrebbe altresì parlare di una ripartizione, a danno delle maestranze, dell’eventuale deficit dell’esercizio, cosa, questa, che già andrebbe a privare la formula della socializzazione del fascino che esercita sul piano di certa demagogia. Del resto, in vaste imprese la quota della partecipazione agli utili non sarà mai di rilievo rispetto a salari-base, il che rivela il fine meno sociale, che non politico, della tendenza in parola. Assai più importante sarebbe piuttosto la determinazione differenziata dei salari, sottratta all’uniformismo delle imposizioni sindacali, concertata di comune accordo in ogni impresa in vista delle particolari condizioni di essa. Per quanto riguarda una compartecipazione con finalità non utilitario-individualistiche, ma veramente organiche, ad una compartecipazione alla proprietà: si dovrebbe studiare le forme mediante le quali l’operaio potrebbe divenire gradualmente un proprietario in piccolo – unico modo per davvero sproletarizzarlo e per spezzar la spina dorsale al marxismo – col farlo entrare in possesso di azioni intrasferibili della sua azienda-corporazione (si è parlato delle cosidette “azioni-lavoro”), anche se non oltre la misura richiesta a che i giusti nessi gerarchici non siano pervertiti. Questo sarebbe il mezzo migliore per “integrare” il singolo lavoratore nella sua impresa, per interessarlo ad essa ed elevarlo anche di là dal suo interesse più immediato di mero, sradicato individuo, riproducendo il tipo di appartenenza organica, quasi “nella vita”, ad una data comunità di lavoro, che fu proprio appunto alle antiche formazioni corporative.

Quanto alla co-gestione o co-direzione (mediante “consigli di gestione”, “commissioni interne”, “comitati di fabbrica”, ecc.), essa rappresenta un’assurdità pura ove si tratti di altro che di rapporti più diretti e personali limitati alle condizioni generali del lavoro e, in genere, alle attinenze della parte subordinata, amministrativa, di un dato complesso aziendale. Per quel che invece la direzione vera e propria e l’ultima istanza, voler stabilire nelle aziende una specie di “parlamentarismo economico” (così Carlo Costamagna ha efficacemente caratterizzato il fine della tendenza “socializzatrice”), significherebbe ignorare il carattere estremamente differenziato, quasi diremmo “esoterico”, che hanno le funzioni tecniche e direttive nell’alta industria contemporanea, carattere che renderebbe dannosa, disorganizzatrice o per lo meno disturbatrice ogni ingerenza dal basso. Sarebbe lo stesso assurdo di pensare che comitati di soldati dovessero dir la loro in quistioni di alta strategia, di mobilitazione generale, di condotta e di organizzazione di una guerra moderna (2). A parte la considerazione tecnica, ve ne è un’altra, almeno altrettanto importante, contro la co-direzione: si è che nel sistema di un’azienda integrata, come noi l’abbiamo in vista, proprio partendo dal vertice debbono esser fatte eventualmente valere considerazioni a carattere non solamente utilitario, ma anche politico, come una istanza superiore, e ciò in base ad una autorità egualmente superiore e insindacabile, invece è fatale che col controllo da parte delle maestranze predominerebbero soprattutto considerazioni a carattere puramente economico e utilitario, oppure politico sì, ma in senso deteriore, marxista e classista. In effetti, come spirito la “socializzazione” non è che cripto-marxismo, quasi un cavallo di Troia che si vorrebbe introdurre in un primo tempo in un sistema non comunistico di economia, come inizio di quella scalata alle imprese che nella forma dichiarata e completa corrisponde alla tendenza di un “sindacalismo integrale” e che per fase finale ha una economia comunista con la quale la scalata è data non solo all’impresa ma allo stesso Stato.

Istanze radicali del genere si erano già annunciate in margine al corporativismo fascista. Secondo gli uni, si sarebbe dovuto superare il dualismo sussistente in questo sistema, con la corrispondente “pariteticità” delle rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro, a mezzo di un rigoroso delle competenze, i tecnici, differenziatisi come “lavoro che dirige” dal “lavoro che esegue”, avrebbero dovuto cessare di essere organi del capitale per divenire essi soli i capi e i dirigenti dell’unità organica della corporazione sindacalmente controllata. Secondo altri, non solo avrebbe dovuto essere istituita la cosidetta “corporazione proprietaria” (idea che, entro certi limiti e sotto certe condizioni, potrebbe perfino venir considerata), ma si propugnava anche il pieno assorbimento della burocrazia statale negli organi corporativi, la identificazione delle rappresentanze politiche con quelle corporative nel segno del cosidetto “Stato integrale del Lavoro”. Si seguiva, a tale riguardo, la parola d’ordine di “introdurre il lavoratore nella cittadella dello Stato”. Era, cioè, la via della involuzione della politica nell’economia, che qui veniva indicata come mèta del vero corporativismo, di un “corporativismo integrale e rivoluzionario”. A tali tendenze abbiamo fatto cenno per rendere chiaro che là dove si tende a forme organiche, antidualistiche, due possibilità, due direzioni si presentano a questo effetto: si può procedere dall’alto e si può procedere dal basso, si può far cadere il centro di gravità delle strutture, riorganizzate corporativamente e secondo il principio delle competenze, nella sfera inferiore, materiale e sindacale, ovvero in quella superiore, propriamente politica.

Così, è d’uopo riprendere l’esame dei rapporti che in un sistema normale debbono intercorrere fra Stato ed economia. Le condizioni dell’epoca attuale sono tali, che un’attività del tutto autonoma dei complessi aziendali è impossibile. Per potenti e vasti che siano, tali complessi hanno da fare i conti con forze e con monopoli che controllano in larga misura gli elementi fondamentali del processo produttivo. Così vi è chi ha giustamente rilevato che oggi il problema veramente attuale e serio non è più quello classista in senso ristretto, bensì quello del frano da imporre alla lotta selvaggia e priva di scrupoli che si svolge fra vari monopoli, essenzialmente fra il monopolio delle merci e delle materie (consorzi), quello del danaro (finanza, banca, speculazioni di borsa) e quello del lavoro (schieramenti sindacali, Trade Unions, ecc) (3). Così come stanno le cose nella società attuale, per evitare gli effetti distruttivi di questa lotta, per limitare la potenza di questi gruppi extra e superaziendali ed assicurare quindi alle stesse imprese condizioni di sicurezza e di regolata produzione, può essere efficace soltanto l’intervento dello Stato – naturalmente ove lo Stato si faccia valere come un potere sopraelevato tale da sapere affrontare e spiegare qualsiasi forza sovvertitrice, per potente che essa sia. In particolare, è dunque della massima importanza, nell’epoca attuale, che il processo contro il capitalismo degenere e prevaricatore sia condotto dall’alto, cioè che sia lo Stato ad assumere l’iniziativa di combattere senza pietà questo fenomeno e di ricondurre ogni cosa ad un ordine di normalità, invece di lasciare alle sinistre il diritto di accusa e di protesta a vantaggio di un’azione eversiva.

Ora, uno Stato moderno, integrato nel senso anzidetto, avrebbe sufficienti poteri per un’azione del genere. La situazione dell’economia contemporanea è tale che un ostracismo rigoroso da parte dello Stato riuscirebbe esiziale per ogni gruppo capitalista, per potente che sia. La condizione preliminare sarebbe naturalmente il superamento della situazione propria alle democrazie, dove l’elemento politico stringe alleanze promiscue con quello plutocratico, facendosi aperto ad ogni specie di corruzione e proprio in tali termini pretendendo di rappresentare una “Destra” rispetto al marxismo. Ripetiamolo, il puro potere politico va sciolto da ogni vincolo – in primo luogo dai vincoli del capitalismo, poi, in genere, dell’economia. Ed anche praticamente, volendo tener conto del “troppo umano” , non si vede la ragione per cui i rappresentanti del puro principio politico dovrebbero prostituirsi, dovrebbero asservirsi a quelli del capitalismo, dal momento che essi, avendo la potenza – e la potenza essi possono averla – hanno anche la possibilità di dominare la ricchezza e di dettar legge ai signori del capitale e dell’industria. Il regime di corruzione è cosa possibile, anzi inevitabile, là dove uno Stato forte e tradizionale è inesistente, dove lo Stato si riduce ad uno strumento che il politicante attivista e senza scrupoli nato ieri sfrutta individualmente per negoziare i vantaggi legati all’una o all’altra carica politica. Nel punto in cui di contro al capitalismo degenere e prevaricante sorgesse un vero Stato, cadrebbe da sé la polemica delle sinistre e sarebbe stroncato ogni tentativo dell’economia di dare la scalata allo Stato in un senso marxista o semi-marxista (sindacalismo, laburismo, ecc.) col pretesto di rimettere le cose in ordine e di promuovere una presunta “giustizia sociale”. Così è cosa decisiva la capacità, o meno, dello Stato, come Stato davvero sovrano, di prevenire le forze sovversive, soppiantandole con una tempestiva rivoluzione dall’alto (4). Dopo di che il grande problema sarebbe quello di stabilire rapporti organici, ma non totalitari, fra lo Stato e le aziende-corparazioni, estromettendo o limitando al massimo ogni potere, ogni schieramento, monopolio ed interesse estraneo sia ad una sana economia, sia alla pura ragione politica.

A tale riguardo, è di nuovo il retaggio tradizionale che potrebbe offrire l’idea direttiva: ci si potrebbe riferire, né più e né meno, al sistema feudale, adeguatamente trasposto e adattato. Ciò che nel regime feudale era l’assegnazione di una data terra e di una corrispondente giurisdizione o parziale sovranità, in sede di economia equivarrebbe al riconoscimento da parte dello Stato di complessi economici di diritto privato svolgenti determinati compiti produttivi, con un ampio margine di libera iniziativa e di autonomia. Il riconoscimento implicherebbe in caso di necessità la protezione, ma, come nel regime feudale, anche la controparte di un vincolo di “fedeltà”e di una responsabilità rispetto al potere politico, la statuizione di un “diritto eminente” a questo proprio, anche limitato, nell’esercizio suo, solo ai casi di emergenza e di particolare tensione. Su tali basi potrebbe venire organizzato un sistema riprendente l’unità e la pluralità, il fattore politico e quello economico, la pianificazione e vari spazi articolati di libera iniziativa e di responsabilità personale. Dunque, né centralismo totalitario da parte dello Stato, né interventi che disturbino o coartino i gruppi e i processi economici ove questi si svolgono ordinatamente.

Direttive generali e schemi complessivi possono venire dati, ma quanto l’esecuzione, massimo spazio per lo spirito di iniziativa e di organizzazione (5). Nel complesso si avrà un sistema gerarchico: “unità di lavoro”, cioè aziende organicamente integrate, con maestranze raccolte intorno ai loro dirigenti, a loro volta raccolti intorno al potere statale, nel quadro di un regime rigoroso di competenze e di produzione, con eliminazione di ogni intossicazione ideologica classista e di ogni irresponsabile attivismo. Peraltro, il procedere, anche se solo in parte, su di una direzione del genere significherebbe anche andar di là del clima dell’ “era economica”, grazie allo speciale ethos, sia antiproletario, sia anticapitalista, che tutto ciò presuppone. La finalità ultima dell’idea corporativa, intesa a questa stregua, sarebbe effettivamente di elevare le attività inferiori, legate alla produzione e all’interesse materiale, al piano che in una gerarchia qualitativa viene subito dopo, in direzione ascendente, quello economico-vitale; nel sistema delle antiche caste, o “classi funzionali”, tale piano era quello della casta guerriera, sopraelevata rispetto alla casta della borghesia possidente e dei lavoratori. Ora è evidente che, col subentrare del sistema, di cui abbiamo parlato, nello stesso mondo dell’economia si rifletterebbe l’ethos chiaro, virile e personalizzato, proprio appunto ad una società basata sul tipo generale non del “mercante” o del “lavoratore”, bensì, come carattere e disposizione generale, in termini analogia, del “guerriero”. Sarebbe il principio di un risollevamento.

Qui basteranno questi brevi cenni, relativi ad un orientamento complessivo, lo studio delle formule concrete con cui le esigenze indicate potrebbero partitamente realizzarsi cadendo fuor dai limiti della presente trattazione. Gioverà solo ribadire il principio, che l’ordine economico non deve essere mai altro che un ordine di mezzi; per cui esso, in via di massima, deve sottostare ad un ordine di fini che trascendono il piano economico e che a questo sta come la finalità superiore, e perfino la vita passionale del singolo, stanno alle condizioni elementari della sua esistenza fisica. È per questo che la formula di uno “Stato del lavoro” rappresenta una pura aberrazione, qualcosa di invertito, di degradante e di degradato: l’opposto della concezione tradizionale.

A tale riguardo, sarà bene aggiungere ancora qualche considerazione. Contro il sistema partitocratrico demoparlamentare, la riforma fascista che portò alla costituzione della Camera delle Corporazioni ebbe sicuramente vari titoli di legittimità; si volle instaurare un regime delle competenze in opposto all’incompetenza politicante che fa il buono e il cattivo tempo in regime demoparlamentare, non mancando di esercitare influenze perturbatrici nella sfera stessa dell’economia. Una tale linea può essere ripresa, salvo rivedere il sistema fascista delle rappresentanze corporative in vista di un diverso ordinamento che comprenderà la corporazione nel senso burocratico fascista, bensì le corporazioni nel senso anzidetto di unità aziendali organiche e di complessi, variamente coordinate o gerarchizzati, di tali unità a seconda dei rami. Come base, qui dovrebbe vigere l’accennato principio della spoliticizzazione delle forze economico-sociali. L’applicazione del rigido principio delle competenze dovrebbe togliere ad ogni rappresentanza corporativa ciò che potrebbe chiamarsi il suo plus-valore politico. La “Camera corporativa” non dovrebbe perciò avere figura di assemblea politica. Essa costituirebbe solo la “Camera bassa”e le istanze politiche dovrebbero farsi valere in una seconda Camera, in una “Camera alta”, ad essa sopraordinata. Una volta ricondotta l’economia entro i suoi limiti normali, è evidente che quando essa, nei quadri dell’accennato corporativismo, investe l’ordine legislativo e, in genere, quando si debbono affrontare quei problemi di organizzazione in grande, che sono ormai fondamentali per la economia moderna e che interessano la potenza stessa di uno Stato, occorre far valere adeguatamente dei criteri superiori mediante un organo distinto e più complesso, munito di una più alta autorità e incorporante, nei casi controversi, la suprema istanza. Tale organo sarebbe appunto la Camera alta. Mentre nella Camera corporativa sarebbe rappresentata l’economia e tutto ciò che riguarda il mondo professionale, l’istanza politica (politica in senso superiore) dovrebbe concentrarsi ad agire nella Camera alta attraverso uomini che rappresentino e difendano interessi più che soltanto economici e “fisici”, cioè interessi spirituali, nazionali, di prestigio e di potenza, e che provvedano affinché una direzione costante di insieme si mantenga nella soluzione di tutti i principali problemi riguardanti la parte corporeo-materiale dell’organismo politico. Un sistema misto di elezione e di designazione, non dissimile da quello che fu già studiato per le rappresentanze politico-corporative fasciste, potrebbe essere ammesso per la Camera bassa. Ma analogamente a ciò che fu propria a quelle esistenti nel passato in altre nazioni, per la Camera alta dovrebbe essere escluso il principio democratico; ad essa si dovrebbe appartenere non contingentemente, e temporaneamente, per “voto”, bensì per designazione dall’alto e per la vita, quasi come ad un Ordine, per naturale dignità e inalienabile qualificazione. È infatti necessario che stabilità e continuità non siano assicurate solo pel vertice, ove risiede il puro, saldo principio politico dell’imperium, ma, quasi per partecipazione, anche per una classe selezionata avente in proprio i caratteri e le funzioni di classe politica già posseduti dalla nobiltà tradizionale. Istituzionalmente, ciò troverebbe la sua concretizzazione appunto nella Camera alta. E quando in coloro che della Camera alta fanno parte si riflettesse la stessa severa impersonalità, la stessa distanza delle semplici necessità e contingenze del momento, la stessa neutralità rispetto ad ogni interesse particolare e di parte (naturalmente, pei “partiti” nel senso attuale ideologico qui non vi sarebbe alcun posto) incorporati eminentemente dal puro simbolo della sovranità, non vi sarebbe dubbio quanto alla monoliticità di una struttura atta davvero ad affermarsi di contro ad ogni eversione delle forze sovvertitrici dell’ “era economica”.

Note

1) Cosa che apparirà ben singolare ai nostri contemporanei, fra tali principi valse, fino ad un certo periodo, la condanna di tutto ciò che corrisponde alla moderna pubblicità con le sue imposture, perché vi si vedeva un mezzo scorretto per scalzare i competitori, i quali dovevano essere invece battuti guadagnandosi lealmente l’acquirente con la migliore qualità dei manufatti.
2) Avendo accennato a ciò, ricorderemo che lo sviluppo dello stesso comunismo in Russia ha eliminato illusioni del genere. Come i consigli di soldati che nell’esercito avrebbero dovuto sostituire o integrare gli alti comandi furono rapidissimamente liquidati, così cosa analoga si ebbe in economia. Nella prima fase, euforica e utopica, della rivoluzione comunista si eliminarono per le vie brevi i capitalisti e i dirigenti aziendali e si istituirono i “comitati di fabbrica” con poteri illimitati. Siffatta fase doveva però presto dar luogo a quella in cui la direzione tecnica fu di nuovo monopolizzata da una minoranza, ai comitati operai essendo lasciata solo una funzione consultiva e una competenza in fatto di condizioni di lavoro, con in più un diritto di veto. Ma in un terzo tempo questo stesso diritto apparve incomparabile con l’autonomia necessaria alla élite tecnico-direttiva per coordinare i processi economici e produttivi in vista dei vari “piani” della ricostruzione economica russa e dei corrispondenti interessi, non solo economici, ma altresì politici. Per cui il “controllo da parte dei lavoratori”, che in partenza era stato la parola d’ordine, finì con l’essere privo di ogni realtà di fatto. È quel che, per la forza stessa delle cose, nell’epoca moderna si verificherà sempre.
3) C. Costamagna, Discorso sulla socializzazione, Roma. 1951.
4) Fu Bismarck a parlare di una “rivoluzione dall’alto”, in un analogo ordine di idee. Mentre con la legislazione del 1878, rimasta in vigore fino al 1890, egli aveva messo al bando la socialdemocrazia marxista accusata di mirare al sovvertimento del sistema politico-sociale esistente, di rompere la pace sociale e l’armonia delle classi, Bismarck fece sì che in Germania, prima che in ogni altro Stato europeo, venissero prese iniziative di previdenze e di assicurazione sociale delle classi operaie da parte dello Stato. E assai significativo che tali iniziative servirono a poco, facendo apparire chiaramente che l’agitazione marxista – allora come oggi – non perseguiva affatto finalità positive oggettive a carattere soltanto sociale, ma aveva intenti dichiaratamente politici sovvertitori. Nel trattare della “tattica e della strategia della rivoluzione mondiale” Lenin scrisse che la rivoluzione deve cominciare con le richieste economiche (cioè con pretesti economici) e poi passare alle richieste politiche.
5) O. Spengler ha giustamente scritto (in Jahre den Entscheidung: “La regolamentazione (dell’economia) è come l’ammaestramento di un cavallo di razza ad opera di un esperto cavaliere e non la costrizione del vivo corpo economico prestabilito come in un busto e la trasformazione di esso in una macchina di cui si battono i tasti”.

* * *

Questo brano costituisce il dodicesimo capitolo di Julius Evola, Gli Uomini e le rovine (ultima edizione Mediterranee, Roma 2002).


Economia e politica | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/economia-e-politica.html)

Majorana
24-08-10, 08:55
L’esoterismo di René Guénon

Per la serietà e la sicurezza delle vedute, per una preparazione veramente particolare in fatto di tradizioni religiose, miti e simbolismi e specialmente di dottrine orientali, per una costante cura nell’affrontare tutti i dettagli pur mantenendo sempre un punto di vista di sintesi, l’opera del Guénon non è da paragonarsi a quella di altri che hanno trattato problemi consimili.

La posizione del Guénon è una posizione di blocco. Si tratta di accettare o meno un dato sistema di riferimento: ma aderendovi è difficile non seguirlo nelle deduzioni che ne trae.

I vari libri del Guénon obbediscono ad un piano prestabilito, che essi vanno ordinatamente svolgendo, il compito iniziale è puramente negativo e se ne può chiarire il senso come segue. Chiuso nella tenaglia del materialismo, l’Occidente negli ultimi decenni è stato preso da un èmpito confuso verso qualcosa di «altro», non sapendo però giungere che a forme equivoche, superstiziose e inconsistenti le quali, contraffacendo la vera «spiritualità», hanno costituito, alla fine, un pericolo altrettanto reale quanto quello del materialismo contro cui erano partite. È così che il Guénon, per primo, ha creduto opportuno prendersela con i «neospiritualismi» più in voga, eseguendone una demolizione sistematica e, a nostro avviso, salutare.

Primo a cadere sotto i suoi colpi è stato lo spiritismo. Il suo libro L’Erreur Spirite, del 1923, merita veramente di esser letto, perché in nessun altro si trova una mise au point del genere. Bisogna, a questo proposito, comprendere l’attitudine del Guénon: egli non contesta la realtà dei fatti, ritenendosi anzi fondato ad ammettere molto più di quel che non possa qualsiasi spiritista. Quel che egli afferma, conformandosi all’opinione di chi, come gli Orientali, purtuttavia erano così addentro in fatto di fenomeni psichici – quel che egli afferma è che tali fatti (medianità, ecc.) non hanno nessun valore spirituale; che ogni interesse extrasperimentale per essi è malsano e incentivo di degenerescenza; che l’ipotesi spiritica oltre che arbitraria, è in sé stessa contraddittoria e che è soltanto aberrante la pseudoreligione che in certi ambienti ne deriva. Spiragli oltre il «normale» possono pur aprirsene, ma con ben altri metodi e con ben altra attitudine interiore, se si deve parlare di «spiritualità».

Il secondo colpo cade sulla teosofia anglo-indiana e le sue derivazioni più o meno «occultistiche», per le quali vien proposto il termine di «teosofismo» (Le Théosophisme. Histoire d’une pseudo-réligion, 1921). Il Guénon si dimostra terribilmente informato di tutti i retroscena privati del movimento. Simultaneamente, se pur non sistematicamente (e per questo il primo volume è migliore), egli si dà a mostrare quanto, nel teosofismo, si risolva in una morbosa divagazione di menti confuse, mista a singolari travisamenti di dottrine orientali per opera dei peggiori pregiudizi occidentali. Ed anche qui, come l’antispiritismo del Guénon, non vuol dire filisteismo materialista, ma proprio il contrario, così pure il suo antiteosofismo parte unicamente dal bisogno di difendere certe posizioni e dottrine spirituali e tradizionali a cui lo stesso teosofismo vorrebbe rifarsi, non giungendo invece che a delle contraffazioni più dannose.

Ma l’opera negativa del Guénon non si arresta a tanto. Dopo le velleità «neospiritualiste» ecco che l’intera cultura dell’Occidente diviene l’oggetto dei suoi attacchi (Orient et Occident, 1924; La crise du monde moderne, 1927; ed anche: Introduction générale à l’étude des doctrines hindoues, 1921). Più semplicemente, si tratta di ciò a cui l’Occidente ha dato luogo partendo, ad un dipresso, dall’Umanesimo e dalla Riforma. Guénon non esita a riconoscere la perversione più completa di ogni ordine ragionevole di cose. Per chi voglia seguire il Guénon, qui il terreno comincia a farsi difficile, perché difficile, per i più, è il rendersi conto del punto di riferimento assunto dall’ autore.

Il Guénon sostiene che la causa della crisi del «mondo moderno» risiede principalmente in un perduto contatto con la «realtà metafisica» e nel conseguente estinguersi di tradizioni che avessero il deposito di un corrispondente corpus di principi di valori e di insegnamenti.

Per la comprensione del termine «realtà metafisica» come l’usa Guénon, è d’uopo retrocedere a dottrine «premoderne» e «superare», nell’opinione della moderna filosofia: alla scolastica, per esempio, o a Plotino o alle grandi scuole speculative orientali. Di là da tutto ciò che è spaziale e temporale che è soggetto a cangiamento, che è intriso di particolarità, di individualità e di sensibilità, esisterebbe un mondo di essenze intellettuali, ma non come ipotesi o come astrazione della mente, sibbene come la più reale delle realtà. L’uomo potrebbe «realizzarlo», cioè averne un’esperienza diretta così certa, come quella datagli dai sensi fisici, quando riesca ad elevarsi ad uno stato «soprarazionale» di «intellettualità pura», cioè ad un atto trascendente dell’intelletto scisso da ogni elemento propriamente umano, psicologistico, affettivo-soggettivo e così pure «mistico» e individualistico; ed è in relazione a ciò, e non nel riferimento ad una speculazione filosofica, che viene usato il termine: «metafisico».

Cose, come ognuno vede, tutt’altro che nuove. Ma il Guénon a priori si dichiara avversario irriducibile di tutto ciò che è «nuovo» e «moderno»; e nell’idea che l’esser «originale» e «personale», anzi che l’esser vera, decida dell’importanza di una dottrina, egli accusa una delle più singolari deviazioni della mentalità contemporanea.

Dal contatto con la «realtà metafisica» l’uomo, come si è detto, ricaverebbe un insieme di principi, che renderebbero possibile una visuale non-umana per considerare e ordinare le cose umane: avrebbe dei punti fermi, da cui per adattazione ai vari piani potrebbero esser dedotti principi per conoscenze particolari e varie, ma sempre ordinate «gerarchicamente» intorno ad un asse unico sovrannaturale. Questo, per il Guénon, sarebbe stato il carattere delle «scienze tradizionali» conosciute negli antichi cicli di cultura, in opposto alle scienze moderne, induttivo-esterioristiche, particolaristiche, prive di un punto unitario di riferimento, incapaci di conoscere oltre che di «sapere», puramente «profane».

D’altra parte, trasportata sul piano dell’azione, la «conoscenza» relativamente alla «realtà metafisica» darebbe dei punti di vista superiori, dei principi per dirigere gli interessi terreni, per inquadrare le attività mondane, per prolungare, insomma, la «vita» in qualcosa che è più che «vita».

E a questa seconda applicazione non va dato un valore puramente ideale o contrappuntistico: ciò che non comincia né finisce nell’elemento «uomo», proietta dei precisi rapporti di distinzione e di «dignità» nelle forme di vita; e così nasce la possibilità di quella «gerarchia», che antiche organizzazioni sociali conobbero: nell’India, nell’Estremo Oriente, anche nei centri paleomediterranei sino a quel medioevo cattolico-feudale al quale il Guénon, rivendica uno speciale significato di valore. Invece che un gioco di forze esterne, sarebbe dunque stata l’azione universale e, diciamo così, «catalittica» della «conoscenza metafisica» a instaurare simili strutture d’ordine sin nella vita concreta e politica.

Per la sua natura non-umana, una tale «conoscenza» avrebbe un carattere universale, di una universalità concreta basata sopra un’esperienza trascendente, ripetiamolo, e non astratta o comunque razionale. E come secondo antiche teorie, la potenza del fuoco esisterebbe sempre e ubiqua, per quanto non si manifesti visibilmente che quando siano presenti dati determinismi e ora sotto questa o quella forma contingente, così pure la conoscenza metafisica avrebbe per sue manifestazioni il corpus degli insegnamenti di varie tradizioni e religioni, varie secondo il tempo e il luogo, ma pure riconducibili all’«invariante» di una Tradizione unica o «primordiale», espressione, questa, da prendersi però non in senso temporale e storico, ma in senso metafisico e spirituale.

Dall’Umanesimo in poi, il Guénon vede costituirsi una cultura «involutiva» in quanto basata unicamente sull’«umano». Sono le facoltà razionali che prendono il posto dell’«intellettualità pura»: l’astrazione filosofica si sostituisce alla conoscenza metafisica, l’immanenza alla trascendenza, l’individuale all’universale, il movimento alla stabilità, l’antitradizione alla tradizione. Simultaneamente il polo materiale e pratico della vita si ipertrofizza, si ispessisce, prende la mano su tutto il resto. Nuove manifestazioni dell’«umano», il moralismo, il sentimentalismo, l’esaltazione dell’«io», dell’incomposto agitarsi (attivismo), della tensione senza luce («volontarismo») balenano dappertutto nel mondo moderno, fra una completa mancanza di «principi», fra un caos sociale e ideologico, fra una contaminazione mistica della «vita» e del «divenire» che batte il ritmo ad una specie di corsa verso l’abisso, sotto il cielo arimànico di una grandiosità puramente meccanica e materialistica. E dall’Europa il male si estende altrove come una nuovissima barbarie: l’antitradizione insinua dappertutto il suo standard of living, «modernizzando» quelle civiltà che, come l’Islam, l’India e la Cina, sia pure in lontani riflessi ancora conservano valori dell’altro ordine. Onde – giustamente, a parer nostro – il Guénon dice contro Massis che, se mai, non di un «pericolo orientale» per l’Occidente, bensì di un «pericolo occidentale» per l’Oriente si deve parlare. E gli scatti di reazione, si è visto già dove conducono, in Occidente: sono le deviazioni neospiritualistiche e spiritistiche che esse stesse, riflettono la tirannia delle facoltà infraintellettuali e l’incomprensione per una realtà che si può esser talvolta mostrata, per spiragli luciferinamente socchiusi. E quand’anche non si tratti di teosofismi, spiritismi e simili, la stessa riviviscenza cristiana in sette e in «ritorni» è la più lontana di tutto dal senso di quel severo contenuto di conoscenza ascetica e simbolica, che attraverso il cristianesimo, potrebbe condurre ad un rinnovato contatto con la «realtà metafisica» e con la «Tradizione», al titolo di una liberazione e di una reintegrazione dell’io.

Il panorama dell’«età moderna» si presenta dunque al Guénon in modo non troppo luminoso. Né egli ammette transazioni: dice no allo spirito occidentale preso in blocco e dubita che si sia ancora in tempo per arrestare la corsa che forse già precipita verso un epilogo di catastrofe. Ad ogni modo, a ciò si richiederebbe anzitutto formare delle élites, nelle quali si ridesti il senso della realtà metafisica. Ma fra queste élites (che, fra l’altro, potrebbero già esistere, più o meno fra le quinte) e le grandi masse della società moderna, come si può pensare che si stabilisca una comunicazione? E allora, anche fatto questo passo, la «Tradizione», in senso grande, non resterebbe nuovamente un problema?

Il tentativo di partire da una delle tradizioni ancora esistenti e da là procedere per «integrazione», forse avrebbe migliori possibilità. A questo riguardo, lo sguardo del Guénon si è portato sul cattolicesimo. Egli, come si è detto, ritiene che, più di ogni altra, la tradizione cattolica abbia avuto in Occidente il deposito della «Tradizione primordiale»: deposito anzitutto ricevuto in una forma religiosa e poi, al giorno d’oggi, passato allo «stato latente» come corpo di simboli e di dottrine, nella cui comprensione non entra ormai niente più di metafisico. Occorrerebbe invece che nel cattolicesimo si formasse una élite capace di tanto; e alla reintegrazione, secondo il Guénon, potrebbe servire la conoscenza di dottrine orientali che, come quella vedantina di cui il Guénon ha dato una buona esposizione: L’homme et son devenir selon le Vedanta, 1925, conserverebbero tuttora l’insegnamento «ortodosso» in una forma più pura e più metafisica. Allora il cattolicesimo potrebbe rianimarsi e costituirsi come un principio positivo contro la crisi del mondo moderno.

Quanto siano chimeriche speranze del genere, qui non staremo a rilevarlo: e il Guénon lascia quasi comprendere una certa sua delusione dopo certe «esperienze» personali in proposito. Ma, in ogni caso, resterebbe questo problema: sino a che punto lo stesso cattolicesimo, anche così reintegrato, si può pensare che possa riorganizzare nell’unità di una Tradizione universale il mondo moderno? Come «base», non bisogna illudersi: il cattolicesimo ormai è estraneo al centro del mondo moderno: ed anche là dove ancora domina, il suo dominio è tutto in superficie e non impedisce che la direzione principale della vita e degli interessi miri a tutt’altra cosa, sia laica e antitradizionale.

Diciamo di più: la stessa comprensione della realtà metafisica, come il Guénon la presenta, è tale da essere essa stessa in contrasto con lo spirito dell’Occidente non pure post-umanistico, ma altresì classico, nordico-germanico, ellenico; onde il Guénon deve forzatamente vedere una via senza uscita e ridursi ad un verdetto di condanna privo di effetti. Tuttavia ci si può chiedere: il modo con cui il Guénon concepisce il metafisico è forse l’unico possibile e legittimo?

Qui siamo al punto fondamentale ove la cinta di difesa del Guénon lascia una zona scoperta. Si è che il termine di «intellettualità pura» usato dal Guénon per l’organo della «conoscenza metafisica» cela un equivoco, anzi un paralogismo, perché effettivamente esso vuol dire «realizzazione» e ogni «realizzazione» comprende due aspetti, due possibilità che sono: azione e contemplazione. Il Guénon surrettiziamente identifica il punto di vista metafisico con quello in cui la contemplazione domina sull’azione, laddove è di uguale dignità l’altro, in cui l’azione invece domina sulla contemplazione e viene a fornire essa stessa una via e una testimonianza della trascendenza, così come nelle tradizioni di sapienza eroica degli kshatriya (guerrieri) conosciute dallo stesso Oriente, se pure in frequente contrasto con quelle più predominanti dei brahmana, alle quali si rifà l’attitudine del Guénon. Ma dal punto di vista brahmano, l’antitesi con l’Occidente si fa aspra ed irriducibile, perché lo spirito dell’Occidente ha appunto una tradizione essenzialmente guerriera, epperò rivela possibilità di latenti vie di reintegrazione solamente quando gli si vada incontro partendo dai principi e dalla comprensione del metafisico che sono propri ad una sapienza guerriera: e quei valori occidentali, come quelli dell’affermazione individuale, della pluralità, della libera iniziativa e dell’immanenza, più che negazione, apparirebbero come elementi allo stato materiale da elevare ad un piano spirituale, secondo l’anima di una tradizione veramente occidentale, cioè guerriera.

Si può dunque dire che l’opera del Guénon è positiva nella sua parte negativa e negativa nella sua parte positiva, perché qui la sua leva manca del punto d’appoggio necessario per poter agire su quella realtà, su cui vorrebbe agire. È invece comprendendo la radice guerriero-eroica che tuttora sta dietro alle forme oscure del mondo moderno e mostrando per quale via si possa liberarla da tale piano e condurla a riaffermarsi in un ordine superiore – quelle antiche tradizioni, in cui l’Eroe, il Signore e il Re apparivano simultaneamente come portatori di valori e di influenze non-umane potrebbero, a questo proposito, insegnarci più di una cosa – che si può giungere in Occidente a qualcosa, più che ad una sterile negazione, che ne disconosce la fisionomia.

A Guénon resta comunque il merito di aver affermata la necessità del ritorno ad un punto di vista «non-umano» nel senso più integrale, chiaro e virilmente ascetico e soprarazionale del termine: giacché questo è il principio, ciò che, anzitutto, importa e senza di cui il problema dello spirito moderno sarebbe condannato a rimanere tale.

* * *

Tratto dalla presentazione del volume Considerazioni sulla Via Iniziatica di René Guénon.


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Majorana
24-08-10, 08:57
Il mistero dell’Artide preistorica: Thule

È cosa assai caratteristica, che in seno a tutto un gruppo di ricerche recentissime sulla preistoria facciano nuova apparizione idee antiche, fino a ieri considerate come puri miti.

thuleUna di tali idee si riferisce alla leggendaria terra primordiale degli Iperborei. Messa sotto cauzione la presunta certezza, che nella preistoria avrebbe soltanto vissuto un’umanità scimmiesca; giunti ad affrontare il problema delle origini con uno sguardo nuovo e spregiudicato, fino a sospettare che già l’età della pietra sia stata testimone di una vera e propria civiltà di tipo superiore, simbolico-spirituale dei distinti ricercatori come «ipotesi di lavoro» per una grande sintesi, oggi, han ripreso proprio quell’idea. La patria primordiale di una razza bianca preistorica altamente civilizzata, tanto da venir considerata come «divina» dagli antichi, sarebbe stata proprio l’Artide, il Polo Nord, la favolosa Iperboride.

L’apparenza paradossale di questa tesi viene meno non appena si ricordi ciò che la fisica insegna intorno ai fenomeni derivanti dalla cosiddetta «precessione degli equinozî». A causa dell’inclinazione dell’asse terrestre di epoca in epoca si produce uno spostamento di clima sulla terra. Se sotto ai ghiacci polari è stato rinvenuto del carbon fossile, ciò vuol dire che un tempo in quella zona vi furono foreste e fiamme. Il congelamento non sarebbe intervenuto nella zona artica che in un periodo successivo. Una delle designazioni per l’Asgard, sede delle «divinità» e patria originaria dei ceppi regali nordici, secondo le tradizioni scandinave, è l’«isola verde» o «terra verde», in tedesco moderno Grünes-Land, donde Groenlandia. Ma questa terra, come lo dice il suo nome, ancor sino al tempo dei Goti sembra presentasse una rigogliosa vegetazione e non fosse ancora investita tutta dal congelamento. Ma vi è di più: nella regione dei ghiacci artici recentemente le spedizioni del canadese Jenness, dei danesi Rasmussen, Therkel e dell’americano Birket-Smith han fatto dei rinvenimenti archeologici invero singolari: in fondo sotto i ghiacci si son trovati resti di civiltà di ben più alto grado di quella esquimese e relitti di strati ancor più antichi, preistorici. A tale civiltà è stato dato il nome di civiltà di Thule.

origine-lingue-indoeuropeeThule è il nome che i Greci davano appunto a una regione o isola dell’estremo nord, la quale si confonde spesso con quelle terre degli Iperborei, donde sarebbe venuto il solare Apollo, cioè il dio delle razze dorico-achee scese effettivamente dal nord in Grecia. E di Thule Plutarco dice che in essa le notti per circa un mese duravano due sole ore: è proprio la «notte bianca» dei paesi boreali. E se altre tradizioni elleniche chiamano il mare boreale Mare Cronide, cioè Mare di Kronos (Saturno), questa è un’indicazione significativa, poiché Kronos veniva concepito come uno degli dei dell’età dell’oro, cioè dell’età primordiale, dell’età prima dell’umanità.

Ora, se noi ci portiamo in America, nelle civiltà azteche del Messico troviamo corrispondenze così singolari, che esse si estendono fino ai nomi. Infatti gli antichi messicani chiamavano Tlapallan, Tullan e anche Tulla (l’ellenica Thule) la loro patria primordiale. E come la Thule ellenica veniva riferita al solare Apollo, così ecco che anche la Tulla messicana vien considerata come la «Casa del Sole».

Ma confrontiamo tali tradizioni messicane con quelle celtiche. Se i lontanissimi progenitori dei Messicani sarebbero venuti in America da una Terra nordico-atlantica, ecco che le leggende irlandesi ci parlano della «razza divina» del Tuatha dè Danann, la quale sarebbe venuta in Irlanda dall’Occidente, da una mistica terra atlantica o nordico-atlantica, l’Avallon. Si direbbero, dunque, due forme di uno stesso ricordo. Le due civiltà corrisponderebbero a due irradiazioni, americana l’una, europea l’altra, partite da un unico centro, da un’unica sede scomparsa (mito dell’Atlantide), ovvero congelate. Ma vi è di più, nel senso che, se passiamo nel campo delle indagini positive moderne, troviamo elementi che potrebbero benissimo concordare con questi echi leggendarî. Infatti sul litorale atlantico europeo (soprattutto nella cosiddetta cultura delle Madéleines) esistono tracce ben precise di una civiltà vera e propria e di un tipo di umanità — il cosidetto uomo Cro-Magnon — che appare di uno sviluppo ben superiore rispetto alle razze quasi animalesche del cosiddetto «uomo glaciale» o «musteriano» abitanti allora l’Europa. I frammenti pervenutici di questa civiltà sono di tale natura, da far dire a dei ricercatori, che i Cro-Magnon potrebbero ben definirsi gli Elleni dell’età della pietra. Ora, questa razza dei Cro-Magnon, apparsa enigmaticamente nell’età della pietra lungo il litorale atlantico fra razze inferiori e quasi scimmiesche, non potrebbe forse essere la stessa cosa dei Tuatha dè Danann, della «razza divina» venuta dalla misteriosa terra nordico-atlantica, di cui nelle accennate leggende irlandesi? E i miti circa le lotte fra le «razze divine» sopravvenute e le razze di «demoni» o mostri, non sarebbero per caso da interpretarsi come echi fantastici della lotta svoltasi fra quelle due razze, fra gli uomini Cro-Magnon, «gli Elleni dell’età della pietra», e gli uomini «musteriani» animaleschi?

meditazioni-delle-vetteTornando ai ricordi tradizionali, non soltanto i Greci e gli Americani ricordano una sede artica primordiale. Secondo i ricordi iranici dell’Avesta, la patria originaria e mistica degli Ariani, concepita come la «prima creazione del Dio di Luce», — l’aryanem vaêjô — sarebbe stata una terra dell’estremo settentrione, e anzi vien detto che in essa, a un dato momento, l’inverno durò dieci mesi dell’anno, proprio come nelle regioni artiche. Si tratta dunque di un ricordo ben preciso del congelamento sopravvenuto con la precessione degli equinozî nella regioni boreale: ricordo, cui peraltro fa riscontro quello del «terribile inverno Fibur» scatenatosi alla fine di un certo ciclo, o «mondo», di cui nelle antichissime tradizioni scandinave. Ma anche in India si ricorda un’isola o terra luminosa posta nell’estremo settentrione, lo çveta-dvipa, e una razza dell’estremo settentrione, gli uttara-kura; lo stesso ricordo si ha nel Tibet, nel mito della mistica città del Nord Chandhala; nell’estremo Oriente Liezi riferisce la tradizione circa la terra posta «all’estremo nord del mare settentrionale» e abitata da «uomini trascendenti», e così si potrebbe continuare con molti altri riferimenti, tanto concordanti, che è da domandarsi se sia solo da attribuirsi al «caso» la presenza del comune motivo fra popoli così diversi e lontani fra di loro.

Fin qui, dunque, i ricordi tradizionali. Esattamente queste idee sono oggi riprese in una ricerca scientifica veramente mastodontica che, riportando a unità un complesso di risultati e di indagini speciali — quali quelle del Frobenius, dello Herrmann, del Karsts, etc. — si è intesa a forzare il problema delle origini. Intendiamo parlare dell’opera consacrata dallo scienziato Herman Wirth appunto all’Aurora dell’Umanità. Qui non si tratta né di un «teosofo», né di un dilettante imaginoso, ma di un tecnico, la cui competenza in fatto di filologia, antropologia, paleografia e discipline affini non può essere messa in dubbio.

ice-pack-air1I risultati delle ricerche del Wirth, in breve, sarebbero appunto questi: che nella più alta preistoria — verso il 20.000 avanti Cristo — una grande razza bianca unitaria, dal culto solare, dalla regione polare divenuta inabitabile per via del congelamento si sarebbe spinta verso il Sud, in Europa e in America, ma soprattutto in una terra scomparsa, posta al Nord dell’Atlantico. Da tale terra essa si sarebbe successivamente spostata, nel periodo paleolitico, verso l’Europa e l’Africa, con un moto, dunque, dall’Occidente all’Oriente; essa sarebbe penetrata nel bacino del Mediterraneo creando un ciclo di civiltà preistoriche intimamente apparentate, nel quale rientrerebbero quella egizia, etrusco-sarda, pelasgica, ecc., a tacere di altre ancora che nuove ondate avrebbero fondate nel loro avanzare per via continentale fino a raggiungere il Caucaso e poi oltre, fino all’India e alla stessa Cina. Così ciò che si riteneva esser la «culla dell’umanità», l’altopiano del Pamir, sarebbe soltanto uno dei centri abbastanza recenti d’irradiazione di una razza ben più antica. Le razze ariane e indogermaniche, l’homo europaeus in genere, sarebbero già razze derivate e in una certa misura già miste in confronto a ceppi più antichi e più puri, «iperborei», a cui vanno riferiti i ricordi, i simboli e perfino le figurazioni preistoriche su roccia relative ai «conquistatori dai grandi vascelli stranieri», dall’«ascia», dal «sole» e dall’«uomo solare con braccia innalzate». Una misteriosa unità stringerebbe per tal via un gruppo di grandi civiltà e di antiche religioni fiorenti già là dove fino a ieri si supponeva l’uomo animalesco delle caverne.

In brevi tratti tale è la concezione strana e suggestiva che, traendosi dal mondo del mito, oggi torna a luce: l’Artide, patria prima dell’umanità, anzi della civiltà, nel senso più alto, «solare».

E siccome simbolo richiama simbolo, per finire, ricorderemo questo. Ancor nell’epoca romana l’idea della regione del nord come un paese mistico, abitato dal «padre degli dei», dal nume dell’età prima o età aurea, e l’idea che il giorno artico quasi senza notte non fosse senza relazione con la luce perenne che circonfonde gli immortali, tali idee nell’epoca romana erano ancora così vive, che, secondo la testimonianza di Eumanzio, Costanzo Cloro avrebbe diretto una spedizione verso il Nord della Gran Bretagna, confusa con la stessa leggendaria Thule, non tanto per il desiderio di glorie militari, quanto per raggiungere la terra «che più di ogni altra è vicina al cielo» e quasi presentire la trasfigurazione divina che si riteneva subissero gli Eroi e gli Imperatori alla loro morte.

Ora, queste stesse regioni, che avrebbero visto l’aurora dell’umanità, che racchiuderebbero il mistero di una razza di conquistatori bianchi primordiali il cui simbolo, l’ascia, si ritrova peraltro nello stesso simbolo romano del fascio; queste stesse regioni nordico-artiche, dall’Islanda alla Groenlandia fino all’America del Nord, son quelle stesse che ieri l’ala italiana ha sorvolate vittoriosamente, in un’impresa che qualcosa di fatidico ha dunque voluto legare enigmaticamente appunto ai luoghi di una grandezza primordiale[1].

Il Corriere Padano (Ferrara), 13 gennaio 1934.

[1] [Il riferimento è o alla crociera atlantica della squadriglia di 25 idrovolanti, capitanata dall’allora ministro dell’aeronautica Italo Balbo, che era partita il primo luglio 1933 e giunta il 19 a New York o, più probabilmente, alle due trasvolate del Polo in dirigibile condotta dal generale Umberto Nobile del 1926 e del 1928, rispettivamente con il Norge e l'Italia, la seconda delle quali finì tragicamente con l'avventura della Tenda Rossa].


Il mistero dell’Artide preistorica: Thuleï€ | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/il-mistero-dell%E2%80%99artide-preistorica-thule%EF%80%A0.html)

Majorana
24-08-10, 08:58
Il navigare come simbolo eroico

Se vi è una caratteristica delle nuove generazioni, essa è il superamento dell’elemento “romantico”; il ritorno all’elemento epico. Non interessano più parole, complicazioni psicologistiche e intellettualistiche, quanto azioni. E il punto fondamentale è questo: che, a differenza di quanto è proprio ai fanatismi e alle deviazioni “sportive” delle razze anglosassoni, le nostre nuove generazioni tendono a superare il lato puramente materiale dell’azione, tendono ad integrare e chiarificare questo lato con un elemento spirituale, tornando, più o meno consciamente, a quell’agire, che è un liberarsi, un prender contatto reale, e non estetistico e sentimentale, con le grandi potenze delle cose e degli elementi.

Ora, vi sono ambienti naturali che più particolarmente propiziano queste possibilità liberatrici e reintegratrici dell’epica dell’azione, e sono l’alta montagna e l’alto mare, con i due simboli dell’ascendere e del navigare. Qui per via più immediata, la lotta contro le difficoltà e contro i pericoli materiali, si fa mezzo per compiere simultaneamente un processo di superamento interno, per compiere una lotta contro elementi che appartengono alla natura inferiore dell’uomo e che debbono esser dominati e trasfigurati.

Qualche generazione di superstizione positivistica, e materialistica ha fatto sì che tante belle e profonde tradizioni dell’antichità siano state sepolte nell’oblio, ovvero siano date unicamente come oggetti di curiosità erudita: ignorando e facendo ignorare il significato superiore di cui esse restano sempre suscettibili e che può esser sempre ridestato e rivissuto.

Ciò, per esempio, va detto per l’antico simbolismo della navigazione, che è uno dei simbolismi tradizionali più diffusi in tutte le civiltà premoderne, ritrovabile con i caratteri di una uniformità strana, che ci fa pensare quanto universali e profonde debbon esser state certe esperienze spirituali dinanzi alle grandi forze degli elementi. E su ciò non crediamo inopportuno dar qui un qualche cenno.

Julius Evola, Oriente e OccidenteIl navigare – e in particolare il traversare le acque tempestose – è stato tradizionalmente innalzato al valore di simbolo, in quanto nelle acque, come acque di oceano o acque di correnti, fu sempre figurato l’elemento instabile, contingente della vita terrena, della vita soggetta a decadenza, a nascita ed a morte – e fu inoltre e più particolarmente raffigurato l’elemento passionale e irrazionale che altera questa stessa vita. Se la terraferma, sotto un primo aspetto, valse come sinonimo di mediocrità, di esistenza pavida e piccola poggiata su certezze e sostegni la cui stabilità è tutta illusoria – il lasciar la terraferma, il volgere verso il largo, l’affrontar intrepidamente la corrente o l’alto mare, dunque il “navigare”, apparve spontaneamente come l’atto epico per eccellenza, non pure nel senso immediato, ma anche nel senso spirituale.

In navigatore si presentò dunque come un sinonimo di eroe e di iniziato, come sinonimo di colui che, lasciato il semplice “vivere”, vuole arditamente un “più che vivere”, nel senso di uno stato superiore alla caducità e alla passione.

Sorge allora il concetto dell’altra terraferma, quella vera, che si identifica con la stessa mèta del “navigatore”, con la conquista propria alla epica stessa del mare: e l’”altra riva”, è la terra prima sconosciuta, inesplorata, inaccessibile, data dalle antiche mitologie e dalle antiche tradizioni con i simboli più vari, fra i quali è però frequentissimo quello della isola, immagine per la fermezza interiore, per la calma e il dominio di colui che ha felicemente e vittoriosamente “navigato” portandosi fra le onde o l’impetuosa corrente, ma senza divenirne preda.

Julius Evola, L'arco e la clavaL’attraversare una grande corrente a nuoto o come pilota di un battello era fase simbolica fondamentale nella cosiddetta “iniziazione regale” che si celebrava ad Eleusi. Giano, l’antica divinità della Romanità, dio dei cominciamenti e quindi anche, in senso eminente, della iniziazione quale “vita nova”, era anche dio del navigare; aveva fra le sue insegne caratteristiche la nave. E questa nave di Giano, come pure le sue due chiavi son passate poi nella tradizione cattolica, figurando nella nave di San Pietro e, in genere nel simbolismo della funzione ponteficale. Ora si potrebbe rilevare che lo stesso termine pontifex, nelle antiche etimologie romane, significava il “facitore di ponti”; che pons però arcaicamente significava anche via e come “via” veniva anche concepito il mare, e il Ponto venne detto così per non diversa ragione. Onde vediamo come, per occulte trame, fino in parole e in segni, oggi quasi non più compresi, si siano trasmessi elementi dell’antica concezione del navigare come simbolo.
Nel mito caldaico dell’eroe Gilgamesh noi troviamo un esatto fac-simile di quello dell’Eracle dorico che coglie il frutto di immortalità del giardino delle Esperidi avendo traversato prima il mare, sotto la guida di Atlante il titano. Anche Gilgamesh affronta la via del mare, salpa, seguendo la via occidentale, cioè la via atlantica, verso una terra o isola, ove egli cerca “l’albero di vita”, mentre l’Oceano è paragonato significativamente alle “acque oscure della morte”. E se noi ci spostiamo verso l’Oriente e l’Estremo Oriente, troveremo echi di eguali esperienze spirituali legati ai simboli eroici ed epici del navigare, del guadare, del salpare.

Come l’asceta buddista fu frequentissimamente comparato a colui che affronta, taglia e vince la corrente, a colui che guada, a colui che naviga glorioso contro corrente, nelle acque essendo figurato appunto tutto quel che viene dalla sete animale di vita e di piacere, dal vincolo dell’egoismo e dall’attaccamento degli uomini – così, nello stesso Estremo Oriente si trova il tema ellenico della “traversata” e del raggiungimento di “isole”, nelle quali la vita non è più mista a morte: come l’Avallon o il Mag Mell atlantico delle leggende irlandesi e celtiche.

Julius Evola, Rivolta contro il mondo modernoCi si porti nell’Egitto antico e fin nel Messico precolombiano: direttamente o indirettamente ritroviamo non dissimili elementi. E li ritroviamo altresì nelle leggende nordico-ariane. La stessa impresa dell’eroe Siegfried nell’isola di Brunhild comprende essenzialmente il simbolismo della navigazione, della traversata del mare: Siegfried, secondo il Nibelunglied, è colui che dice: “Le vere vie del mare mi sono conosciute. Io posso condurvi sulle onde”.

Noi potremmo mostrare che la stessa impresa di Cristoforo Colombo ebbe più rapporti di quel che comunemente si sappia con le oscure idee circa una terra, ove, secondo alcune leggende medioevali, si troverebbero “profeti mai morti”, circa un “eliseo transatlantico” che appunto rientra nel simbolismo ora detto. Inoltre, potremmo mostrare perché il concetto del talassocrate, del “signore dei mari” o delle “acque”, molto spesso si collegò anticamente con il concetto del legislatore in senso superiore (p.es. nel mito pelasgico di Minos): potremmo sviluppare l’idea racchiusa nelle figurazioni di colui “che sta sulle acque” o “cammina sulle acque” o e salvato dalle acque” (da Narâyâna a Mosè, a Romolo, a Cristo) ma tutto ciò ci porterebbe troppo lontano, e forse vi torneremo in un’altra occasione.

“Vivere non necessita. Navigare è necessario”. Questa parola ancor oggi (1933 – n.d.r.) vive, ancor oggi è sentita, ed avvia una delle migliori correnti della nuova epica dell’azione – “Dobbiamo tornare ad amare il mare, a sentire l’ebbrezza del mare, perché vivere non necesse sed navigare necesse est” ebbe a dire lo stesso Mussolini. Ma in questa formula, presa nel suo aspetto più alto, non sussiste forse l’eco di quegli antichi significati?

Non sussiste forse l’idea del navigare come più che vita, come attitudine eroica, come avviamento a forme superiori di esistenza?

Che là dove regna il grande, libero respiro del largo, ove si sente tutta la forza di ciò che è senza limiti, sia nella sua calma possente e profonda, sia nella sua terribilità elementare – che sui mari e sugli oceani nuove generazioni sappiano dare “epicamente” alla vicenda fisica del navigare un’anima metafisica, tanto da conferire allo stesso eroismo e allo stesso ardire il valore di un mezzo trasfigurante e da risuscitare così ciò che si celava nelle antiche tradizioni del salpare e del navigare come simbolo e del mare come via verso qualcosa di non più e di non soltanto umano – questo ci sembra uno dei punti più alti che possono orientare le forze di resurrezione in atto nella nuova Italia.


Il navigare come simbolo eroico | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/il-navigare-come-simbolo-eroico.html)

Majorana
24-08-10, 09:00
Soldati, società, Stato

Si sa che per le democrazie moderne il “militarismo” è una specie di bestia nera e che uno degli slogans da esse usate nelle ultime due guerre è stato appunto quello della lotta contro gli “Stati militaristi”. In ciò non tutto si riduce ad un espediente di propaganda; anche se oggi vediamo che le democrazie son costrette ad armarsi fino al punto di sentirsi accusare a loro volta di “militarismo” e “imperialismo” dai comunisti, bisogna pur riconoscere che quella loro parola d’ordine tradiva un’antitesi reale, la quale prima di essere quella fra due gruppi di nazioni rivali è quella esistente fra due diverse concezioni della vita e dello Stato.

Tale antitesi riguarda il diverso apporto con cui l’elemento militare sta rispetto a quello borghese, e però anche il diverso significato e la diversa funzione che al primo vengono riconosciuti nel complesso di una società e di uno Stato. La concezione delle democrazie moderne, strettamente solidale con le idee della civiltà capitalistica del Terzo Stato, è che l’elemento primario nella società è costituito dal tipo borghese e dalla vita borghese pacifica, vita determinata dalla preoccupazione fisica del benessere, per la ricchezza, la comodità. Qui l’elemento militare è privo di significato politico ed anche quando gli si riconosce una sua etica, le democrazie non giudicano desiderabile che questa etica si applichi alla vita complessiva di una nazione. Si è persuasi che la “civiltà” non abbia nulla a che fare con quella “triste necessità” e quell’inutile “macello” che è la guerra, che al primo piano debbano stare le virtù “civiche” e “sociali” con “progresso” e “umanitarismo”, e non quelle “guerriere”; l’ideale della cultura è quello liberale, ristretto al dominio intellettualistico. Ciò che ha attinenze con disciplina, guerre e armi viene considerato come materialistico, come antitesi del pensiero, cultura e spiritualità. Più in generale, appare che le democrazie, malgrado la coscrizione universale, tollerano solo il tipo del “soldato”, non quello del “guerriero”; del soldato, quasi nel senso “dell’assoldato”, delle truppe che venivano pagate dall’una o dall’altra città perché si occupassero loro a far guerra. Infatti nelle democrazie moderne il militare dovrebbe semplicemente stare al servizio del “borghese” per continuare le mene politiche “con altri mezzi” sul piano internazionale, per difenderlo “dall’aggressore”, e nelle forme più recenti per assicurare mercati e materie prime all’industria e al capitale in cerca di investimenti. L’elemento puramente guerriero, eroico, non viene considerato come valore in sé anzi viene stigmatizzato appunto come “militarismo” . Quanto alla vita politica essa dovrebbe essere di esclusiva pertinenza dei politicanti e dei partiti [...]

Julius Evola, Gli uomini e le rovineOra, a tutto ciò si oppone non tanto il “militarismo” o un governo in mano a dei “generali”, bensì la verità di coloro che riconoscono il superiore diritto di una concezione guerriera della vita, con la spiritualità e l’etica sua propria dare la forma e il tono ad un determinato tipo di civiltà di società e di Stato. Il punto fondamentale sta qui nel riconoscere che se tale concezione “guerriera” può si avere una espressione specifica in quanto ha attinenza con la guerra e con la professione delle armi, pure essa non si riduce a tanto; essa è suscettibile ad avere altre espressioni perché si tratta di avere uno “stile” generale il quale può estendersi anche in altri domini di ogni specie non escluso quello dell’economia e della stessa spiritualità. Infatti a valore di tipo “militare” si può concedere una preminenza senza che ciò equivalga per nulla ad una deprecabile casermizzazione dell’esitenza. Amore per la gerarchia e la disciplina, rapporti di comando e di obbedienza, sentimento di onore e fedeltà, un certo amore per la distanza, forme specifiche di impersonalità attiva capaci di svilupparsi fio al sacrificio anonimo, relazioni chiare e leali, insofferenza per le vuote parole e il semplice discutere. [...]

Quanto ha attinenza con l’esercito e la guerra rispetto a tutto ciò costituisce solo un dominio particolare; l’essenziale è piuttotsto un certo grado di tensione spirituale, opposto ad ogni vita “borghese”. [...]

Ogni civiltà normale ha considerato la guerra come un fenomeno naturale, dipendente dallo spirito nel quale esso viene vissuto, accettato e voluto. Non ha torto è stato detto che la guerra indica ad una nazione l’esatta misura di ciò che per essa ha significato la pace; se cioè la pace per essa è sinonimo di semplice vita vegetativa, con prospettive di benessere da bestiame bovino, con piccole morali e solo quel po’ di discipline conformistiche necessarie per un borghese addomesticamento degli istinti.[...]

Per far marciare la massa, dato il livello intellettuale generale, è necessario ubriacarla o ingannarla con fattori passionali ideologici e propagandistici. [...] Di questo non avevano bisogno gli Stati tradizionali (quelli stigmatizzati come “militaristici”) [...] in quegli Stati bastava il comando di un Capo e il richiamo ai principi di fedeltà e onore. [...] È nell’epoca della democrazia che la guerra si è degradata accompagnandosi ad una esasperazione e ad un radicalismo quasi ignoti [...] inoltre le guerre appaiono sempre più scatenate da fattori incontrollabili appunto perché tali sono gli interessi e le passioni che predominano negli stati democratizzati. [...]

* * *

Tratto da Civiltà, marzo/aprile 1974.


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Majorana
24-08-10, 09:01
La massoneria moderna come inversione del ghibellinismo

Poiché la nostra ricerca ha anche considerato le interferenze fra organizzazioni iniziatiche e correnti storiche è opportuno dire qualcosa – in sede di conclusione – circa i rapporti esistenti fra ciò che abbiamo chiamato l’“eredità del Graal”, ossia l’alto ghibellinismo, e le società segrete dei tempi moderni, particolarmente di quelle che, a partire dall’Illuminismo, si sono definite in forma di massoneria. Naturalmente, qui noi dovremo limitarci all’essenziale.

Già nella cosiddetta setta degli Illuminati di Baviera si ha un esempio tipico di quel capovolgimento di tendenze, a cui poco fa abbiamo accennato. Ciò risulta dallo stesso mutamento di significato subito dal termine “Illuminismo”. Esso in origine ebbe relazione con l’idea di una illuminazione spirituale superrazionale; ma successivamente a poco a poco si fece invece sinonimo di razionalismo, di teoria del “lume naturale”, di antitradizione. Si può parlare, nel riguardo, di un uso contraffatto e “sovversivo” del diritto proprio all’iniziato, all’adepto. L’iniziato, se è veramente tale, può porsi di là dalle forme storiche contingenti di una particolare tradizione, può accusarne – ove a ciò riceva mandato – le limitazioni e porsi al disopra della loro autorità; egli può respingere il dogma, perché ha qualcosa di più, la conoscenza trascendente, e in ben altra sede sa dell’inviolabilità di questa conoscenza; infine, può rivendicare per sé la dignità di un essere libero, perchè egli si è disciolto dai vincoli della natura inferiore, umana: a tale stregua i “liberi” sono anche “pari” e la loro comunità può esser concepita come una “confraternita”. Ebbene, basta materializzare, laicizzare e democratizzare questi aspetti del diritto iniziatico, e tradurli in termini individualistici, per aver subito i principi-base delle ideologie sovversive e rivoluzionarie moderne. Il lume della mera ragione umana subentra alla “illuminazione” e dà luogo alle distruzioni del “libero esame” e della critica profana. Il sovrannaturale è messo al bando o confuso con la natura. La libertà, l’eguaglianza e la parità divengono quelle prevaricatoriamente rivendicate dal singolo “conscio della sua dignità” – non conscio però della sua schiavitù di fronte a sé stesso – per ergersi contro ogni forma di autorità e costituirsi illusoriamente come estrema ragione a sé stesso: diciamo illusoriamente, poiché nella concatenazione inesorabile delle varie fasi della decadenza moderna, l’individualismo ha avuto la durata di un breve miraggio e di una fallace ebbrezza, l’elemento collettivo e irrazionale nell’epoca delle masse e della tecnica ha presto avuto ragione del singolo “emancipatosi”, cioè sradicato e senza tradizione. Ora a partire dal XVIII secolo sorgono appunto gruppi, affiancanti le cosiddette sociétes de pensée, i quali ostentano un carattere iniziatico, mentre si danno più o meno direttamente a quest’opera rivoluzionaria e “riformistica” di “illuminismo” e di razionalismo. Alcuni di tali gruppi erano effettivamente la continuazione di organizzazione precedenti di tipo regolare e tradizionale. Così a tale riguardo devesi pensare ad un processo di involuzione spintosi fino ad un punto nel quale, per via del ritirarsi del principio animatore originario di queste organizzazioni, potè realizzarsi una vera e propria inversione di polarità: influenze di tutt’altro ordine andarono ad inserirsi e ad agire in organismi, che più o meno rappresentavano il cadavere o la sopravvivenza automatica di quel che essi in precedenza erano stati, utilizzandone e volgendone le forze in una direzione opposta a quella che era stata la propria normalmente e tradizionalmente.

Il prologo, che è qualcosa di più di una pura fantasticheria (perché utilizza dei dati risultati nel processo a questo personaggio), del Giuseppe Balsamo di A. Dumas, ove un capo che si presenta come un Gran Maestro Rosacroce dà, in una riunione segreta di “iniziati” convenuti da ogni nazione, come parola d’ordine L.D.P. (le iniziali di lilia destre pedibus – cioè: distruggi e calpesta la Casa di Francia), può valerci come un riflesso del clima proprio alle logge e ai convegni degli Illuminati e di gruppi affini, i quali promossero quella “rivoluzione intellettuale”, che alla fine doveva scatenare l’ondata delle rivoluzioni politiche dall’ 89 al ’48.

Julius Evola, Imperialismo pagano. Il fascismo dinnanzi al pericolo euro-cristiano. Quarta edizione corretta e con due appendici. Heidnischer Imperialismus. Seconda edizione rivedutaMa la duplicità contraddittoria dei due motivi – cioè da una parte sopravvivenze del ritualismo gerarchico simbolico e iniziatico, dall’altra professione di ideologie del tutto opposte a quelle che si potrebbero dedurre da una qualsiasi autentica dottrina iniziatica – è palese soprattutto nella massoneria moderna. Questa massoneria sembra che si sia positivamente organizzata nel periodo dei rumori rosicruciani e della successiva partenza dei veri Rosacroce dall’Europa. Elia Ashmole, che si vuole abbia avuto una parte fondamentale nella organizzazione della prima massoneria inglese, visse fra il 1617 e il 1692. Purtuttavia, secondo i più, la massoneria nella sua forma attuale di associazione semi-segreta militante non risale oltre il 1700 – è nel 1717 che ebbe luogo la fondazione della Grande Loggia di Londra. Come antecedenti positivi, non fantasticati, la massoneria ha avuto soprattutto le tradizioni di certe corporazioni medievali, nelle quali gli elementi principali dell’arte del costruire, dell’edificare, venivano simultaneamente assunti secondo un significato allegorico e iniziatico. Così la “costruzione del Tempio” poteva divenir sinonimo della stessa “Grande Opera” iniziatica, lo sgrossamento della pietra grezza in pietra squadrata poteva alludere al compito preliminare di formazione interna, e via dicendo. Si può ritenere che fino al principio del XVIII secolo la massoneria abbia conservato questo carattere iniziatico e tradizionale, sì che essa, con riferimento al compito di un’azione interiore, fu chiamata “operativa” [5]. Fu nel 1717 che, con l’accennata fondazione della Grande Loggia di Londra e col subentrare della cosiddetta “massoneria speculativa” continentale, si verificarono il soppiantamento e l’inversione di polarità, di cui si è detto. Come “speculazione” qui valse infatti l’ideologia illuministica, enciclopedistica e razionalistica connessa ad una corrispondente, deviata interpretazione dei simboli, e l’attività dell’organizzazione si concentrò decisamente sul piano politico-sociale, anche se usando prevalentemente la tattica dell’azione indiretta e manovrando con influenze e suggestioni, di cui era difficile individuare l’origine prima.

Si vuole che questa trasformazione si sia verificata solo in alcune logge e che altre abbiano conservato il loro carattere iniziatico e operativo anche dopo il 1717. In effetti, questo carattere si può riscontrare negli ambienti massonici cui appartennero un Martinez de Pasqually, un Claude de Saint Martin e lo stesso Joseph de Maistre. Ma devesi ritenere che questa stessa massoneria sia entrata, per altro riguardo, essa stessa in una fase di degenerescenza, se essa nulla ha potuto contro l’affermarsi dell’altra e se, praticamente, da questa è stata alla fine travolta. Nè si è avuta una qualsiasi azione della massoneria, che sarebbe rimasta iniziatica per diffidare e sconfessare l’altra, per condannare l’attività politico-sociale e per impedire che, dappertutto, essa valesse propriamente e ufficialmente come massoneria.

Riferendoci dunque alla massoneria “speculativa”, in essa le vestigia iniziatiche restarono limitate ad una sovrastruttura rituale, che specie nella massoneria di rito scozzese ebbe carattere inorganico e sincretistico, pei molti gradi di là dai tre primi (i soli, che hanno una qualche connessione effettiva con le precedenti tradizioni corporative), essendo stati raccolti simboli delle tradizioni inizatiche più varie, visibilmente per dare l’impressione di aver raccolto l’eredità di esse tutte. Così in questa massoneria troviamo anche vari elementi dell’iniziazione cavalleresca, dell’ermetismo e della Rosacroce: vi figurano “dignità” come quella di “Cavaliere d’Oriente o della Spada”, di “Cavaliere del Sole”, di “Cavaliere delle due Aquile”, di “Principe Adepto”, di “Dignitario del Sacro Impero”, di “Cavaliere Kadosh” (cioè, in ebraico, “Cavaliere Santo”), equivalente a “Cavaliere Templare”, di “Principe Rosacroce”. In genere – e questo è il punto che per noi ha uno speciale significato – vi è una particolare ambizione, da parte della massoneria di rito scozzese, a rifarsi appunto alla tradizione templare. Si pretende così che almeno sette dei suoi gradi siano di origine templare, oltre il 30°, che reca esplicitamente la designazione di Cavaliere Templare in un gran numero di logge. Uno dei gioielli del grado supremo di tutta la gerarchia (il 33°) – una croce teutonica – reca la sigla J.B.M., che viene prevalentemente spiegata con le iniziali di Jacopus Burgundus Molay, che fu l’ultimo Gran Maestro dell’Ordine del Tempio, e “De Molay” ricorre anche come una “parola di passo” di questo grado: quasi che coloro che vi sono iniziati andassero a riprendere la dignità e la funzione del capo dell’Ordine ghibellino distrutto. Del resto, la massoneria scozzese pretende di aver avuto trasmessi molti dei suoi elementi da una più antica organizzazione, detta del “Rito di Heredom”. Questa espressione viene tradotta da vari autori massonici con “rito degli eredi”, intendendosi appunto gli eredi dei Templari. La leggenda corrispondente è che pochi Templari superstiti si sarebbero ritirati in Scozia, dove si posero sotto la protezione di Robert Bruce; da questi furono aggregati ad una preesistente organizzazione iniziatica di origine corporativa, che allora assunse il nome di “Gran Loggia reale di Heredom”.

Julius Evola, Oriente e OccidenteOgnuno vede la portata che avrebbero tali riferimenti nel riguardo specifici di ciò che abbiamo chiamato “l’eredità del Graal”, qualora essi avessero un fondamento reale: fornirebbero alla massoneria un titolo di ortodossia tradizionale. Ma, in realtà, ben altrimenti stanno le cose. E’ di una usurpazione che si tratta: non è una continuazione, bensì una inversione della precedente tradizione che qui deve constatarsi. Ciò risulta in modo caratteristico considerando nel suo complesso proprio l’ accennato grado 30° del Rito Scozzese, che in alcune logge ha per parola d’ ordine: “La rivincita dei Templari”. La “leggenda” che vi si riferisce riprende il motivo dianzi accennato: i Templari che avrebbero trovato rifugio in certe organizzazione segrete inglesi, in esse avrebbero creato questo grado nell’ intento di riorganizzare il loro Ordine e di compiere la loro vendetta. Ora, l’inversione già detta del ghibellinismo non potrebbe trovare una più chiara espressione che in questa elucidazione del rituale: “La vendetta templare si è abbattuta su Clemente V non nel giorno in cui le sue ossa furono date al fuoco dai Calvinisti della Provenza, ma nel giorno in cui Lutero sollevò metà dell’ Europa contro il Papato in nome dei diritti della coscienza. E la vendetta si è abbattuta su Filippo il Bello non il giorno in cui i suoi resti furono gettati tra i rifiuti di San Dionigi da una plebaglia in delirio e nemmeno il giorno in cui l’ultimo discendente rivestito del potere assoluto uscì dal Tempio, divenuto prigione di Stato, per salire sul patibolo, ma il giorno in cui la Costituente francese proclamò in faccia ai troni i diritti dell’uomo e del cittadino” [6].

Che poi il livello dal piano del singolo – l’”uomo” e il “cittadino” – finisca con lo scendere fino a quelle masse anonime e dei dirigenti mascherati di esse, risulta da una storia connessa al rituale di vari gradi – nel Rito Scozzese del Supremo Consiglio di Germania essa figurava nel 4° grado, detto del “Maestro segreto”. Si tratta della storia di Hiram, il costruttore del Tempio di Gerusalemme, il quale di fronte al re sacrale Salomone dimostra di avere, sulle masse, un potere così prodigioso, che “il re, il quale aveva fama di essere uno dei più randi Saggi, scoprì che, di là dalla sua, vi è una maggiore potenza, una potenza, che ne futuro, essa conoscerà la propria forza, eserciterà una sovranità più grande della sua (cioè di Salomone). QUesta potenza è il popolo (das Volk). E si aggiunge: “Noi massoni di rito scozzese vediamo in Hiram la personificazione dell’umanità”. Ora il rito, facendoli “Maestri segreti”, dovrebbe conferire agli iniziandi massoni la stessa natura di Hiram: dovrebbe cioè farli partecipi di questo misterioso potere di muovere l’umanità come popolo, come massa, potere che scalzerebbe quello stesso del re sacrale simbolico.

Quanto al grado specificatamente templare (il 30°), vale ancora notare, nel suo rito, la conferma dell’associarsi dell’elemento iniziatico con l’elemento sovversivo antitradizionale, il che va a dare necessariamente al primo i caratteri di una effettiva contro-iniziazione là dove il rito stesso non si riduca ad una vuota cerimonia, ma metta in moto forze sottili. Nel grado in questione, l’iniziato che abbatte le colonne del Tempio e calpesta la croce, essendo ammesso, dopo di ciò, al Mistero della scala ascendente e discendente con sette gradini, è colui che deve giurare vendetta e concretizzare ritualmente tale giuramento col colpire con un pugnale la Corona e la Tiara, cioè i simboli del doppio potere tradizionale, dell’autorità regale e di quella pontificale, esprimendo con ciò null’altro che il senso di quanto la massoneria come forza occulta della sovversione mondiale ha propiziato nel mondo moderno partendo dalla preparazione della Rivoluzione francese e dalla costituzione della democrazia americana e, passano per i moti del ’48, giungendo fino alla prima guerra mondiale, alla rivoluzione turca, alla rivoluzione di Spagna e altri analoghi avvenimenti. Là dove nel ciclo del Graal, come si è visto, la realizzazione iniziatica è così concepita, che ad essa si lega l’impegno di far risorgere il re, nel rito ora indicato si ha esattamente l’opposto, vi è la contraffazione di una iniziazione che si lega al giuramento (talvolta con la formula: “Vittoria o morte”) di colpire o rovesciare ogni forma di autorità dall’alto.

Julius Evola, L'arco e la clavaAd ogni modo, ai nostri fini il lato essenziale di queste considerazioni è di indicare il punto in cui l’”eredità del Graal” e di analoghe tradizioni iniziatiche si arresta e in cui, a parte eventuali sopravvivenze di nomi e di simboli, non si può più constatare alcuna filiazione legittima di esse. Nel caso specifico della massoneria moderna, da un lato il suo confuso sincretismo, il carattere artificiale della gerarchia della gran parte dei suoi gradi – carattere appariscente anche per un profano -, la banalità delle esegesi correnti, moralistiche, sociali e razionalistiche applicate a vari elementi ripresi, aventi in sè un contenuto effetttivamente esoterico – tutto ciò porterebbe a far vedere in essa un esempio tipico di organizzazione pseudo-iniziatica [7]. Ma considerando, d’altra parte, la “direzione di efficacia” dell’organizzazione in parola con riferimento agli elementi dianzi rilevati e alla sua attività rivoluzionaria, sorge la sensazione precisa di avere di fronte una forza che, nel campo dello spirito, agisce contro lo spirito: una forza oscura appunto di antitradizione e di contro-iniziazione. Ed allora è ben possibile che i suoi riti siano meno inoffensivi di quel che si possa credere, che in molti casi essi, senza che coloro che vi partecipano se ne rendano conto, stabiliscano appunto il contatto con questa forza, inafferabile per la coscienza ordinaria.

Julius Evola, La Tradizione ErmeticaUn ultimo accenno. Nella leggenda del 32° grado del rito scozzese (“Sublime Principe del Segreto regale”) è spesso quistione della organizzazione e della ispezione di forze (concepite come raccolte in vari “accampamenti”) che, una volta conquistata “Gerusalemme”, dovranno costruirvi il “Terzo Tempio”; Tempio, questo, che va ad identificarsi col “Sacro Impero”, quale “Impero del mondo”. Ora, è stato molto discusso sui cosidetti Protocolli dei Savi di Sion, i quali contengono il mito di un piano dettagliato di congiura contro il mondo tradizionale europeo. Noi diciamo “mito” a ragion veduta, intendendo con ciò lasciare aperta la quistione della veridicità o della falsità di un tale documento, spesso sfruttato da un volgare antisemitismo [8]. Il fatto che resta è che questo documento, come vari altri consimili usciti qua e là, ha un valore sintomatico, giacchè i principali rivolgimenti della storia contemporanea verificatisi dopo la sua pubblicazione hanno presentato una impressionante concordanza col piano in esso descritto. In genere, scritti siffatti riflettono l’oscura sensazione dell’esistenza di una “intelligenza” direttrice dietro ai fatti più caratteristici della sovversione moderna. Essi dunque, quale pur sia la finalità pratica della loro divulgazione o, se sono falsi ed inventati, della loro compilazione, hanno colto “qualcosa, che è nell’aria” e a cui la storia sta via via dando conferma. Ma proprio nei Protocolli vediamo anche riapparire l’idea di un futuro impero universale e di organizzazioni che lavorano sotterraneamente per l’avvento di esso [9], però in una contraffazione che possiamo dire satanica, perchè quel che sta effettivamente in primo piano è la distruzione e lo sradicamento di tutto ciò che è tradizione, valori della personalità e vera spiritualità. Il presunto Impero non è che la suprema concretizzazione della religione dell’uomo terrestrizzato, resosi estrema ragione a sè stesso e avente Dio per nemico. E’ il tema con cui sembra debbano concludersi lo spengleriano “tramonto dell’ Occidente” e l’età oscura – kali yuga – dell’antica tradizione indù.

Paragrafo tratto dal libro di Julius Evola Il mistero del Graal.

Note

1- Per un puro caso – per via dei documenti trovati addosso ad un corriere ucciso da un fulmine – si ebbero prove positive anche di un’azione organizzata rivoluzionaria svolta dalla setta degli Illuminati.

2- Per il meccanismo di questo processo, nella sua analogia ad un’azione necromantica, cfr. R. Guénon, Le règne de la quantité et les signes des temps, Paris, 1945, cap. XXVI, XXVII (tr. it.: Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Adelphi, Milano, 1982).

3- La sigla L.D.P. appare nel primo dei cosidetti gradi cavallereschi massonici (il 15° della gerarchia complessiva delRito Scozzese). Oscuramente, sembra che la leggenda di questo grado alluda proprio allo spostarsi della funzione dell’iniziato; vi si parla, infatti, di contrassegni di dignità principesche che l’iniziato, insieme alla libertà, riceve da “Ciro”, ma che poi pede; raggiunto però il maestro che insieme a pochi fedeli superstiti si era rifugiato fra le rovine del Tempio salomonico, gli viene detto del dubbio valore di quei titoli ed egli riceve un nuovo titolo e la spada.

4- Cfr. A. Pike, Morals and Dogmas of the Ancient and Accepted Scotch Rite, Richmond, 1927.

5- Devesi rilevare che già nel suo periodo operativo ed iniziatico è constatabile, nella massoneria, una certa usurpazione, quando essa si riferisce a sè l’”Arte Regia”. L’iniziazione legata ai mestieri, infatti, è quella che corrisponde all’antico Terzo Stato (la casta indù dei vaysha), cioè a strati gerarchicamente inferiori alla casta dei guerrieri, cui corrisponde legittimamente l’”Arte Regia”. Peraltro, va anche rilevato che l’ azione rivoluzionaria della massoneria speculativa moderna è quella che ha minato le civiltà del Secondo Stato e ha preparato, con le democrazie, l’avvento di quelle del Terzo Stato. Per il primo punto, anche dal lato più esteriore non può non nascere una impressione di comicità nel vedere fotografie di re inglesi, che, come dignitari massonici, portano il grembiule e altri contrassegni delle corporazioni artigiane.

6- Rituale del XXX grado del Supremo Consiglio del Belgio del rito scozzese antico ed accettato, Bruxelles, s. d., pp.49,50. Nell’azione drammatica rituale si fa apaprire Squin de Florian, colui che avrebbe denunciato i Templari, il quale come sua giustificazione afferma il principio: “La Chiesa è al disopra della libertà”; contro di che il Maestro della loggia afferma: “La libertà è al disopra della Chiesa”. Evidentemente, è giusta la prima proposizione, se si tratta della pretesa di libertà di un qualunque individuo, mentre è vera la seconda se si tratta di chi abbia la qualificazione richiesta per porsi di là dalle inevitabili limitazioni proprie ad una particolare forma storica di autorità spirituale.

7- Stupisce trovare in un autore, altrimenti così qualificato quanto a studi tradizionali, quale il Guénon, l’affermazione che, insieme al Compagnonaggio, la massoneria sarebbe quasi l’unica organizzazione attualmente esistente in Occidente che, malgrado la sua degenerazione, “possa rivendicare una origine tradizionale autentica e una trasmissione iniziatica regolare” (Apercus sur l’initiation, Paris, 1946, pp. 40,103; tr.it.: Considerazioni sulla via iniziatica, Il Basilisco, Genova, 1984). La diagnosi giusta della massoneria quale sincretismo pseudo-iniziatico portato da forze sotterranee di contro-iniziazione, formulabile proprio sulla base delle vedute del Guénon, viene da lui più o meno esplicitamente diffidata (cfr. p. 201). Come ciò possa conciliarsi col carattere di tradizionalità che il Guénon in pari tempo riconosce al cattolicesimo, nemico mortale della massoneria moderna, è cosa che resta all’oscuro. Un travisamento del genere è pericoloso anche sotto uno speciale riguardo, perchè esso offre armi preziose ad una interessata polemica cattolica. Il fatto della mistificazione e dell’uso sovversivo del Mistero, avvenuto per inversione nelle correnti già dette e precipuamente nella massoneria in un’epoca recente (laddove in precedenza non costituì che una anomalia teratologica), ha servito per una stravagante tesi del cattolicesimo militante: quella, secondo cui tutta la tradizione inziatica, in ogni tempo, avrebbe avuto un carattere tenebroso, diabolico, anticristiano e, nelle sue conseguenze, sovversivo. Ciò, naturalmente, è solo uno scherzo di cattivo genere. Ma una tale tesi non è forse confortata da chi dà inconsideratamente un carattere di ortodossia e di regolare filiazione iniziatica alla massoneria? Terremmo assai che il lettore non supponesse in noi una qualche animosità preconcetta verso la massoneria. Personalmente abbiamo avuto rapporti con alti esponenti di essa che si sono sforzati di valorizzarne le vestigia iniziatiche e tradizionali. Su tale linea hanno lavorato anche, per esempio, un Ragon, un A. Reghini, un O. Wirth. Sappiamo inoltre di logge, quali la Iohannis Loge ed altre, che si sono mantenute staccate dall’attività politico-sociale presentandosi essenzialmente come centri di studi. Ma per un dovere verso la verità non sapremmo modificare in alcunchè il quadro generale qui dato della massoneria moderna dal punto di vista storico, in considerazione della direzione predominante, effettiva e attestata, della sua azione.

8- Nei Protocolli dei Savi di Sion le fila del complotto vengono supposte in mano all’ebraismo, ma si fa anche cenno alla massoneria. Un altro punto che, quanto alla massoneria, va messo in rilievo, è che gli elementi da essa presi in prestito da tradizioni propriamente occidentali passano quasi in secondo ordine di fronte a quelli ebraici – la gran parte delle “leggende” oltre a quasi tutte le “parole di passo” hanno base ebraica. Questo è un altro punto sospetto. Infatti, anche nell’insieme dell’ebraismo può riscontrarsi un processo di degradazione e di inversione che ha parimenti destato forze di contro-iniziazione o di sovversione antitradizionale. Tali forze hanno forse avuto nella storia segreta della massoneria una parte non trascurabile.

9- Di passata, devesi rilevare che l’opera rivoluzionaria della massoneria resta essenzialmente limitata alla preparazione e al consolidamento dell’epoca del Terzo Stato (che ha dato luogo al mondo del capitalismo, della democrazia, della civiltà e società borghesi). L’ultima fase della sovversione mondiale, poichè corrisponde all’avvento del Quarto Stato, si lega ad altre forze, che necessariamente vanno oltre la massoneria e lo stesso giudaismo, anche se hanno spesso utilizzato le distruzioni propiziate dall’una e dall’altro. E’ significativo che le attuali avanguardie dell’epoca del Quarto Stato hanno eletto il simbolo del pentagramma, la stella a cinque punte, come rossa stella dei Soviet. L’antico simbolo magico del potere dell’uomo quale iniziato e dominatore sovrannaturale – simbolo, che si è visto consacrare anche la spada del Graal – diviene, per inversione, simbolo della onnipotenza e della demonia dell’uomo materializzato e collettivizzato nel regno del Quarto Stato.


La massoneria moderna come inversione del ghibellinismo | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/la-massoneria-moderna-come-inversione-del-ghibellinismo.html)

Majorana
24-08-10, 09:03
Roma e il “Natale solare” della tradizione nordico-aria

Fra gli altri, a due risultati di non poco momento dovrebbe condurre la dottrina della razza sul piano spirituale: in primo luogo, con un ritorno alle origini, essa dovrebbe riportare alla luce i significati più profondi di tradizioni e di simboli, che si sono oscurati nei corsi dei millenni, sì da non sopravviverne che frammenti sparsi, decaduti in consuetudini e in feste convenzionali. In secondo luogo — e non senza relazione a ciò — la dottrina della razza dovrebbe ridestare la sensibilità per una concezione vivente del mondo e della natura, a limitare il potere di quella razionalistica, profana, scientista e fenomenicista, da cui l’uomo occidentale è stato sedotto ormai da secoli. E, in ordine a questo senso vivente e spirituale delle cose e dei fenomeni, i migliori punti di riferimento possono essere dati soprattutto dalle concezioni «solari» ed eroiche, che le più antiche tradizioni arie ebbero in proprio.

Ben pochi sospettano che le feste di questi giorni, che ancor oggi, nel secolo dei grattacieli, della radio, dei grandi movimenti di folle, si celebrano e nelle cosmopoli così come fra trincee, macchine di guerra e masse combattenti, continuano una tradizione remota, riportandoci ai tempi ove, quasi all’aurora dell’umanità, s’iniziò il moto ascendente della prima civiltà aria; una tradizione, in cui peraltro si espresse meno una particolare credenza degli uomini, che la gran voce delle stesse cose. Volendo qui dir qualcosa in proposito, va anzitutto ricordato un fatto da molti ignorato, vale a dire, che in origine la data del Natale e quella dell’inizio del nuovo anno coincidevano, non essendo questa data arbitraria, ma connessa ad un preciso avvenimento cosmico, al solstizio d’inverno. Il solstizio d’inverno cade, infatti, nel 25 dicembre, che è la data del Natale successivamente conosciuto, ma che nelle origini ha avuto un significato essenzialmente «solare». Ciò appare ancora in Roma antica: la data natalizia in Roma antica era quella del risorgere del Sole, dio invitto — Natalis solis invicti —. Con essa, come giorno del sole nuovo — dies solis novi — nell’epoca imperiale prendeva inizio l’anno nuovo, il nuovo ciclo. Ma questo «natale solare» di Roma del periodo imperiale, a sua volta, rimanda ad una tradizione assai più remota d’origine nordico-aria. Del resto, Sol, la divinità solare appare già fra i dii indigetes, cioè fra le divinità delle origini romane, ricevute da ancor più lontani cicli di civiltà. In realtà, come diremo, la religione solare del periodo imperiale, in larga misura ebbe il significato di una ripresa e quasi di una rinascenza, purtroppo alterata da vari fattori di decomposizione, di un antichissimo retaggio ariano.

Già la preistoria italica preromana è ricca di tracce del detto culto solare: carri solari, dischi radiati, stelle radiate, croci d’ogni tipo, non escluse le croci uncinate incise p. es. in asce arcaiche rinvenute in Piemonte e nella Liguria. Per tal via può constatarsi il passaggio, nell’Italia antichissima, della stessa tradizione, che lasciò fin dall’età della pietra tracce consimili lungo tutti gli itinerari delle grandi migrazioni ano-occidentali e nordico-arie. Simboli, segni, jerogrammi, notazioni calendariche o astrali rudimentali, figurazioni su vasi, armi od ornamenti, enigmatiche disposizioni di pietre rituali o di caverne, poi, più tardi, riti e miti sopravvissuti in civiltà più tarde, se studiati secondo i nuovi punti di vista propri all’indagine spirituale e razziale del mondo delle origini, forniscono peraltro testimonianze concordanti e univoche non solo circa la presenza di un culto solare unitario come centro della civiltà delle genti arie primordiali, ma altresì circa la speciale importanza che in esse aveva la data «natalizia», vale a dire quella del solstizio d’inverno, il 25 dicembre.

Ad evitare degli equivoci, sarà però bene ricordare ad una certa classe dei lettori quel che in questa sede abbiamo già avuto occasione di rilevare, vale a dire, che parlando di un culto solare preistorico non si deve per nulla pensare a forme inferiori di una religione «naturalistica»e idolatrica. E’ una fola, che l’antica umanità, e soprattutto quella della grande razza aria, divinificasse superstiziosamente i fenomeni naturali — vero è invece, che l’antichità concepì i fenomeni naturali essenzialmente come simboli sensibili di significati superiori, spirituali — quindi, più o meno come sostegni spontaneamente offerti ai sensi dalla natura per poter presentire questi significati trascendenti. Che le cose fra la parte meno qualificata di un dato popolo antico talvolta possano anche esser andate altrimenti, ciò può esser concesso, ma evidentemente prova così poco quanto il fatto non raro del passare in forma di superstizioni bigotte perfino in alcuni culti cristiani, in certe popolazioni incolte e fanatiche del Sud. Prevenuto così un noto malinteso, il significato simbolico d’espressioni arcaiche arie, come «luce degli uomini», o «luce dei campi» — landa ljòme — date al sole, deve risultare chiaro ,e si può anche comprendere, che lo stesso intero corso del sole nell’anno, con le sue fasi ascendenti e discendenti, si presentasse parimenti nei termini di un grandioso simbolo cosmico. In questa vicenda solare il solstizio d’inverno costituì una specie di punto critico, vissuto secondo una particolare drammaticità nel periodo in cui le stirpi arie originarie ancora non avevano lasciate regioni, nelle quali era sopravvenuto il clima artico e l’incubo di una lunga notte. In tali condizioni, il punto del solstizio d’inverno — il più basso dell’eclittica — apparve come quello in cui la « luce della vita » sembrava estinguersi, tramontare, sprofondarsi nella terra desolata e gelata o nelle acque o fra le cupe selve, da cui però ecco che subito di nuovo si rialza a risplendere di nuovo chiarore.

Qui sorge una vita nuova, si pone un nuovo inizio, si apre un nuovo ciclo. La «luce della vita», si riaccende. Sorge o nasce dalle acque l’«eroe solare». Di là dall’oscurità e dal gelo mortale viene vissuta una rinascita, una liberazione. Il simbolico albero del mondo e della vita si anima di nuova forza. E’ in relazione a tutti questi significati che già in tempi preistorici anteriori di millenni all’èra volgare una quantità di riti e di feste sacre andarono a celebrate la data del 25 dicembre, come data di nascita o rinascita, nel mondo così come nell’uomo, della forza «solare». Poco si sa che lo stesso tradizionale albero natalizio, ancora in uso in molti paesi e in parte anche in Italia, ma nella forma di una faccenda da bambini o, al massimo, da buone famiglie borghesi, è un’eco residuale proprio di quell’antichissima, severa tradizione aria e nordico-aria. Un tale albero, ricavato da un «sempre verde», semper virens, cioè da pianta che non muore nell’inverno, pino od abete, riproduce l’arcaico albero della vita o del mondo, che al solstizio d’inverno s’illumina di nuova luce, cosa espressa appunto dalle candelette che lo adornano e che vengono accese in quella data. E i «doni», di cui quell’albero è carico – oggi, semplici regali per bambini — raffiguravano effettivamente il simbolico «dono di vita» proprio alla forza solare che nasce o rinasce. Ma il momento in cui il semper virens, la pianta che non muore, si rinnova e si illumina è, nel simbolismo primordiale, anche quello in cui, come si è detto, l’“eroe solare” sorge dalle acque allo stesso modo che, secondo un rito continuatosi fino al Medioevo ghibellino dopo aver avuto una parte importante nelle leggende relative ad Alessandro Magno, l’albero cosmico è anche un albero «solare» avente un’intima relazione col cosiddetto «albero dell’impero» — arbor solis, arbor imperii.

Julius Evola, Rivolta contro il mondo modernoCiò ci induce a considerare un altro aspetto assai interessante delle tradizioni in parola, per il quale vogliamo particolarmente riferirci all’antica romanità. Il mithracismo. o culto di Mithra, come è noto, è la tarda forma assunta dall’antica religione ario-iranica (mazdea), in una formulazione particolarmente adatta per una mentalità guerriera. Diffusosi questo culto nella Romanità, sotto Aureliano la data del «natale solare o solstizio d’inverno», il 25 dicembre, si identificò a quella della celebrazione del Natalis Invicti, cioè della nascita di Mithra considerato come un eroe «solare».

Circa il mithracismo a Roma, come si è accennato, sarebbe assai superficiale, se non addirittura grossolano, parlare sic et sirnpliciter di «importazioni» o «influenze orientali»: l’Oriente di quel tempo fu una cosa assai complessa, nella quale figuravano elementi molto eterogenei— ma fra di essi, indubbiamente, anche parti importanti e incorrotte del più antico retaggio spirituale delle genti arie e indoeuropee. Nei riguardi della relazione che fu stabilita fra Mithra e il «natale solare» romano, un noto studioso ebbe dunque a rilevare assai giustamente, che con questo non si venne ad un’alterazione, ma piuttosto ad un rinnovamento del calendario romano secondo quel suo antico aspetto astronomico e cosmico, che esso aveva avuto ai tempi primi di Romolo e di Numa e che conferiva alle feste il significato di grandi simboli nella coincidenza delle date di esse con grandi epoche della vita del mondo.

Dopo di che, è importante esaminare l’attributo di invictus-aniketos — dato a Mithra — all’eroe solare — e alla stessa forza solare nella nuova concezione romana. E’ un attributo « trionfale ». Nelle originarie tradizioni ario-iraniche e affini esso è l’attributo di ogni natura celeste e, eminentemente, del sole, in quanto luce che vince le tenebre, forza luminosa urànica su cui mai quelle della notte e della buia terra prevarranno. Ma, a Roma, noi vediamo che lo stesso epiteto invictus diviene titolo imperiale, cesareo, e noi sappiamo che mithracismo, più che esser culto di una divinità astratta, voleva «indurre » per così dire — la stessa qualità di Mithra negli iniziati, per mezzo di una certa trasformazione della loro natura. E’ in ciò evidente la tendenza a comprendere anche in modo simbolico e analogico l’attributo «solare», sì da poter farlo valere per l’uomo e, propriamente, a controsegnare il tipo e l’ideale di una superiore umanità —per non dire addirittura di una «superumanità». Come il sole risorge, perennemente vittorioso sulle tenebre, così pure, in una perenne vittoria interiore sulla natura mortale e istintiva si compie un essere, che una mistica virtù rende, in via normale, eminentemente atto alla funzione di re, di capo, di duce. E’ così che in Mithra, l’“eroe solare“, fu venerato a Roma un fautor imperii; è così che si stabilisce un’intima relazione del simbolismo solare con le idee di regalità e di impero, nella loro più alta forma. Siffatta relazione ebbe particolare risalto nelle tradizioni eroiche delle antiche genti arie, e noi, in questa stessa sede, ne abbiamo già parlato trattando della dottrina mistica della «gloria». Non volendo ripeter, dunque, cose già dette, ci limiteremo a ricordare la presenza degli stessi significati nell’antica Roma. La victoria Caesaris, cioè la mistica forza trionfale che, nel simbolo di una statuetta, dall’un Cesare veniva trasmessa all’altro, riflette esattamente le più antiche tradizioni ario-iraniche circa la regalità e il cosiddetto hvarenò: poiché, come già dicemmo nell’articolo ora ricordato, l’hvarenò valse come una misteriosa forza «solare» di invincibilità, e di «gloria», che investe i duci, fa di essi qualcosa di più che semplici uomini e li testimonia appunto con la loro vittoria.

Un’antica effige romana di Sol raffigura questo dio simbolico con la destra levata nel gesto «pontificale» di protezione e con la sinistra che regge una sfera, simbolo del dominio universale. In un’altra immagine si ravvisa però lo stesso dio che trasmette il globo all’imperatore, presso ad iscrizioni, le quali riferiscono appunto alla «solarità» la stabilità e l’imperium di Roma: Sol conservator orbis, Sol dominus romani imperii. Un altro medaglione particolarmente interessante reca nel retto l’imagine laureata dell’imperatore — con la testa, cioè, cinta del semper virens, della fronda imperitura: a tergo si ha il dio solare con la sfera, ma in più, vicino, una croce uncinata (che noi vediamo dunque presente anche in Roma antica) e la scritta: soli invicto comiti cioè: al dio solare, compagno invincibile. Ancora un’imagine conservata nel Museo Capitolino — ci mostra l’associazione del simbolo di Sol sanctissimus con l’Aquila, con l’animale fatidico di Roma, che si pensava fosse anche quello, da cui lo spirito trasumanato degli imperatori morti veniva simbolicamente tratto dal rogo funerario in cielo. Testimonianze analoghe potrebbero esser facilmente moltiplicate. Non è azzardato dire, che esse ci parlano di un vero e proprio «mandato divino solare» quale anima viva di quella funzione imperiale cesarea, che, per noi, nel mondo antico, fu una specie di ultimo guizzo di significati arcaici a poco a poco perduti.

Nella antica settimana romana il «giorno del sole» era il «giorno del signore» — e questo significato è sopravvissuto nei tempi successivi col termine di domenica, da dominus, signore, così come nella designazione germanica sontag o inglese sunday per lo stesso giorno di «festa» si e conservato letteralmente il significato di «giorno del sole» e, con esso, il riflesso dell’antica concezione solare ariana. Qualcosa della sapienza dei primordi sembra dunque essersi conservato, in un qualche modo, nella stessa festa attuale del Natale, per quanto la celebrazione dell’anno nuovo si sia da essa dissociata. Il simbolismo della luce vi si mantiene — si ricordino p. es. le parole del prologo del Vangelo di Giovanni: erat lux vera, quae illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum -così come l’attributo di «gloria», che appare poco più sotto. In tracce monumentali del primo periodo romanica lo stesso simbolo della croce si unisce a quello solare.

Nella tradizione aria e nordico-aria e nella stessa Roma lo stesso tema ebbe una portata non soltanto religiosa e mistica, ma sacra, eroica e cosmica ad un tempo. Fu la tradizione di una gente, alla quale la stessa natura, la stessa gran voce delle cose, parlò in quella data di un mistero di resurrezione, della nascita o rinascita di un principio non solo di «luce» e di nuova vita, ma anche di imperium, nel senso più alto e augusto del termine.

* * *

Tratto da La difesa della razza del 20 dicembre 1940.


Roma e il "Natale solare" della tradizione nordico-aria | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/roma-e-il-natale-solare.html)

Majorana
24-08-10, 09:04
Religiosità del Tirolo

Sul margine del sentiero vi è una grande croce, con una data ed una scritta sbiadita, di cui non ricordiamo con esattezza le parole tedesche, ma che diceva approssimativamente così: “Tu che vai, fermati un istante, guarda i ghiacci e i segni di Colui, che morì per la nostra redenzione, insegnandoci che la morte è la via verso la vita”.

Un’enigmatica leggenda vuole che il Santo Graal, la mitica coppa che raccolse il sangue del Cristo e simboleggiante la tradizione spirituale vivente dell’Occidente medioevale, dalla Spagna – dal Monsalvato di Salvatierra – si sarebbe trasferito dopo varie peripezie in Baviera, e infine in Tirolo.

In Innsbruck, nella “Cappella d’Argento” , fra le statue dei leggendari antenati dell’ultimo cavaliere “Europeo”, di Massimiliano I, si trova quella di Arthur, il re della Tavola Rotonda e, appunto, dei Cavalieri del Graal. Sia pure nella chiusura e nell’irrigidimento propria ad una realtà residuale, nel Tirolo sembra conservarsi qualcosa di questo oscuro retaggio. Le origini della razza prevalente, dinarìca e nordico-dinarìca, non sono chiare. Certo è che il cristianesimo deve aver ravvivato in essa una credità assai più remota, dandole la possibilità di protrarsi, trasformata, in un ulteriore periodo storico.

La presenza di alcuni simboli primordiali in forma cristianizzata, più che occidentale, deve avere questa origine.

E’ per esempio assai diffuso, nelle valli tirolesi ed anche in città, come Innsbbruck e Lienz, una strana variante del crocifisso, che poggia sul geroglifo dell’Ariete, formato con trofei di caccia e che porta intorno al Cristo una aureola solare dello stesso tipo radiante delle religioni primordiali. Al sommo di case campestri, sempre fedeli ad un tipo caratteristico di stile, si trovano interessanti combinazioni del crocifisso con figure animali sintetiche, varie a seconda delle valli, le quali conservano con grande verosimiglianza arcaici simboli “totemici”. E così via.

Sono frequenti, in ogni caso, i segni di una religiosità che si stacca dal solito piano sentimentalistico o convenzionale e si porta direttamente al piano della sintesi spirituale.

Poco fa ne abbiamo indicato un esempio. Nell’Oetzal un sentiero che conduce fino ai ghiacci è, per così dire, ritmato dalle immagini della Via Crucis. Le varie stazioni si susseguano a lunghi intervalli, dalla “passione” fino alla resurrezione, là dove il mondo delle rocce finisce e si preludia quello dei ghiacci perenni.

Ciò, in una zona fuori dagli itinerari alpinistici più battuti, come un rito anonimo e silenzioso, ma pur saturo di vivente significato.

Nella zona del Gross-Glockner, in una gola ove scroscia in una turbinosa cascata il torrente generatosi da questa cima, vi è una piccola cappella con vari ex-voto. Uno di essi è rappresentato da medaglie al valore militare, con questa scritta: “A Dio devo il coraggio che mi ha conferito questo onore”.

Ci ricordiamo di una cerimonia celebrata, non sappiamo per quale occasione, nella chiesa di Prägraten. La chiesa aveva l’aspetto di un vero e proprio schieramento. A destra gli uomini, a sinistra le donne, gli uni e gli altri nei costumi tradizionali e in perfetto allineamento. Al centro , una specie di rappresentanza corporativo-militare, in piedi con bandiere e stendardi. Tutti accompagnavano il motivo dato da un organo, ma rinforzato da trombe con un effetto singolare, non privo, malgrado le stonature, di una certa grandiosità. Nel Tirolo non vi è gruppo di case, per remoto ed esiguo che sia, che non abbia la sua cappella e passo montano o punto panoramico che non abbia il suo crocifisso, costantemente rimesso a posto ogni volta che vento o tormenta lo abbiano abbattuto o portato via: quasi come un muto invito a trasfigurare ed integrare quello che, come semplice emozione estetica, può venire dalla contemplazione della natura nella forma superiore di un significato spirituale, per non dire di un simbolo illuminante.

* * *

Originariamente pubblicato sul quotidiano Il regime fascista del 7 novembre 1936.


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Majorana
24-08-10, 09:06
L’Operaio e le scogliere di marmo

E’ opinione generale, che tale libro sia uno Schlüsselroman, cioè un romanzo a chiave, nel quale le vicende e gli stessi personaggi hanno un carattere simbolico e si riferiscono a rivolgimenti e forze in atto ai nostri giorni, avendo dunque il valore di mezzi espressivi fantastici per una idea precisa. Il centro di questo nuovo libro, scritto dallo Jünger nel 1939, è il contrasto fra due mondi. L ‘uno è quello della “Marina” e dei pascoli, sovrastati dalle “scogliere di marmo”; è un mondo patriarcale e tradizionale, ove la vita nella natura e lo studio della natura hanno per controparte una superiore saggezza e un simbolo ascetico e sacrale incorporato eminentemente, nel romanzo, dalla figura di Padre Lampro.

Ernst Jünger, Sulle scogliere di marmo Di contro al mondo raccolto presso le ” scogliere di marmo” sta quello delle paludi e dei boschi, ove signoreggia una paurosa, diabolica figura che lo Jünger chiama l’Oberförster (tradotto con “Forestaro”): è, questo, un mondo ” elementare “, di violenza, di crudeltà; di ignominia, di disprezzo di ogni valore umano.

Il tono della vicenda fantastico-simbolica descritta con arte magistrale dallo Jünger è da “crepuscolo degli dèi”. Il mondo del Forestaro finisce col sopraffare quello della Marina e delle Scogliere di Marmo.

La civiltà e i costumi della Marina sono alterati da processi di corruzione oculatamente diretti, l’anarchia vi si infiltra e non trova nessuna remora in uomini d’azione capaci davvero di imporsi, di far fronte al nihilismo ed alla distruzione. Nel momento del massimo pericolo, due uomini cercano di assumere l’iniziativa di una azione liberatrice.

L’uno, Braquemart, incarna una volontà di potenza e una teoria del superuomo e della superazza alla nietzschiana, teoria che qui si risolve essa stessa in una forma di nihilismo ed è condannata nella sua astratta cerebralità e nella sua mancanza di spontanea grandezza, a fare il giuoco dell’avversario, a cui Braquemart cerca di contrapporsi usando le sue stesse armi.

Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra. 1919-1933. Vol. 1: 1919-1925 Lo Jünger, nel proposito, scrive: “In questo ambito occorreva intervenire ed erano quindi necessari ordinatori e nuovi teologi, cui il male fosse noto nelle sue apparenze e nelle sue radici; e solamente allora avrebbe giovato il taglio delle spade consacrate, a guisa di un fulmine nelle tenebre. Per queste ragioni dovevano i singoli vivere con chiarità e forza d’animo anche maggiore, secondo una disciplina più severa, testimoni di una nuova legittimità. Anche chi voglia vincere una breve corsa si assoggetta ad una adatta disciplina; ma qui erano in giuoco i beni supremi, la vita spirituale, la libertà, la stessa dignità umana. Per certo Braquemart riteneva esser, coteste, vane chiacchiere e progettava di ripagare il vecchio (il “Forestaro”) con ugual moneta, ma aveva perduto il rispetto di se, e da ciò ogni rovina ha fra gli uomini il suo principio”.

L’altra figura del mondo della Marina è il principe di Sanmyra, simbolo di una nobiltà ormai spossata. I segni della grandezza tradizionalmente innata, la nobiltà d’animo e la prontezza al sacrificio audace ed eroico si accoppiano in lui alla decadenza propria a ciò che vive unicamente come un retaggio del passato, come un’eco, come qualcosa che è meno nostra che non una proprietà dei morti.

Julius Evola, L'Operaio nel pensiero di Ernst Jünger Perciò l’unione delle due figure è come quella di una tradizione crepuscolare congiunta ad una artificiale teoria della potenza, più capace ad accrescere il deserto che non a conferire alla prima una forza nuova. Perciò i due da soli tentano un disperato colpo di mano contro il Forestaro, ma vi perdono la vita e non possono arrestare la catastrofe. Ne può arrestarla lo scendere in campo di Belovar, colui che rappresenta le forze residue della civiltà patriarcale ancora intatta.

L’opera di disgregazione sotterranea si è ormai portata troppo lontano, i “vermi del fuoco” organizzati dal Forestaro son ormai troppo numerosi e troppo potenti. Le forze scatenate del mondo della foresta e delle paludi non possono essere trattenute. Belovar cade nell’ultima, disperata battaglia, dopo di che ferro, fuoco, morte e distruzione si abbattono su tutto il mondo della Marina e delle Scogliere di Marmo.

Padre Lampro, che è il custode del Mistero, della tradizione sacra e della contemplazione, scompare fra le fiamme nel crollo del suo tempio. L’ultimo suo atto è di benedire la testa mozza del principe di Sanmyra, sacrificatosi nell’estremo tentativo e quasi trasfigurato, in esso, da una luce superiore. Arde anche l’Eremo della Ruta, rifugio dello studioso e del saggio, simbolo di umanistica disciplina e di quasi goethiana contemplazione della natura.

Da tutto il mondo della Marina, ormai in fiamme, solo qualcuno riesce a fuggire, con una nave, recando seco, come una reliquia, appunto quella testa mozza, la quale solo molto più tardi, incastonata nella prima pietra, doveva servir di fondamento ad una nuova cattedrale.

Ernst Jünger, L'operaio. Dominio e forma Ma per quel ciclo, per quel mondo legato alle Scogliere di Marmo, il trionfo delle potenze scatenate dal Forestaro è l’ultima parola. E l’unica speranza nella tragedia è che proprio l’esperienza del fuoco distruttore sia, per il singolo, un principio di rinascita, la soglia per passare in un mondo incorruttibile.

Nel mondo ideale proprio al nuovo libro simbolico dello Jünger si ha dunque quasi un ritorno a valori, che nel precedente non stavano di certo in primo piano. Molti elementi fanno pensare, che si tratti, qui, di una specie di bilancio negativo proprio del mondo “elementare” epperò, in buona misura, anche del mondo dell’operaio”.

Le forze scatenate che distruggono le città della Marina, dopo aver travolto sia la sopravvivenza generosa, ma pure stremata, della civiltà del Secondo Stato, sia gli artificiali, nihilistici rappresentanti della semplice volontà di potenza e, infine, in Belovar, le poche energie ancora schiette e legate alla terra – queste forze del “Forestaro” danno ben l’impressione del mondo della “mobilitazione totale” , del mondo del Quarto Stato e del “tellurismo” rivoluzionario giunto al limite e rivelante alla fine la sua vera natura.

Con l’avvento di tali forze nelle terre della “Marina” non è il mondo della borghesia, dell’individualismo o del Terzo Stato che crolla, ma un mondo della qualità, della personalità, dell’ascesi, della tradizione misterica e sacra, della “cultura” in senso superiore.

Ernst Jünger, Il cuore avventuroso. Figurazioni e capricci E’ lo stesso Jünger, già assertore della guerra totale e quasi estrema istanza a se stessa, che ora riconosce che “il coraggio guerriero non è il valore supremo”; che è inevitabile andare incontro al mondo della “selva” e del Forestaro quando, insieme alla forza, non si possegga un principio superiore, una legittimazione, per così dire, dall’alto, come quella simboleggiata dalla figura dell’asceta travolto lui stesso nel crollo del tempio in fiamme, dopo l’ultima benedizione.

Tolti i suoi lati apocalittici, il nuovo libro dello Jünger ha dunque un contenuto profondo.

Una chiaroveggenza lo pervade, superiore di certo a quella del periodo di Der Arbeiter, adeguata alla serietà di questi tempi.

Il fenomeno dell’irruzione dell’”elementare”, come si è già detto, è reale: e reale è anche il processo di enucleazione di un nuovo tipo, realistico, eroico, impersonale, capace di un controllo e d’un’azione assoluta, proteso verso una assunzione totale della vita. Anche se il mondo di questo nuovo tipo non corrisponde proprio a quello del “Forestaro”, anche se esso ha lasciato dietro di se il periodo delle distruzioni e dell’anarchia e nel suo avvento non si celebrino solo varie forme di quello del Quarto Stato, pure gli orizzonti non si schiariranno, e un temibile destino non sarà prevenuto, fino a che come controparte non si avrà appunto la tradizione spirituale nel senso più alto, un Ordine non nella prima assunzione soltanto attivistico-guerresca dello Jünger, ma appunto con riferimento a valori trascendenti, alle file segrete di qualcosa “che non è di questa terra” e che forse fino ad oggi è stato ancora custodito.

Il volto dell’epoca che viene dipenderà certamente dalla misura in cui, malgrado tutto, questa possibilità si realizzerà.


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Majorana
24-08-10, 09:09
Il simbolismo dell’aquila

Il simbolismo dell’aquila ha un carattere “tradizionale” in senso superiore. Dettato da precise ragioni analogiche, è fra quelli che testimoniano un “invariante”, cioè un elemento costante e immutabile, in seno ai miti e ai simboli di tutte le civiltà di tipo tradizionale. Le particolari formulazioni che riceve questo tema costante son però naturalmente diverse a seconda delle razze. Qui diciamo subito che il simbolismo dell’aquila nella tradizione delle genti arie ha avuto un carattere spiccatamente “olimpico” ed eroico, cosa che ci proponiamo di chiarire nel presente scritto con un gruppo di riferimenti e di ravvicinamenti.

Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno Circa il carattere “olimpico” del simbolismo dell’aquila, esso risulta già direttamente dal fatto, che quest’animale fu sacro al Dio olimpico per eccellenza, a Zeus, il quale a sua volta non è che la particolare figurazione ario-ellenica (e poi, come Jupiter, ario-romana) della divinità della luce e della regalità venerata da tutti i rami della famiglia aria. A Zeus fu connesso a sua volta un altro simbolo, quello della folgore, cosa che va ricordata, perché vedremo che per tal via esso va a completare non di rado il simbolismo stesso dell’aquila. Ricordiamo anche un altro punto: secondo l’antica visione aria del mondo, l’elemento “olimpico” si definisce soprattutto nella sua antitesi rispetto a quello titanico, tellurico ed anche prometeico. Ora, proprio con la folgore Zeus abbatte, nel mito, i titani. Negli Arii, che vivevano ogni lotta come una specie di riflesso della lotta metafisica fra forze olimpiche e forze titaniche, essi stessi considerandosi come una milizia delle prime, vediamo peraltro aquila e folgore come simboli e insegne che racchiudono, per tal via, un significato profondo e generalmente trascurato.

Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni Secondo l’antica visione aria della vita, l’immortalità è qualcosa di privilegiato: non significa semplice sopravvivenza alla morte, ma partecipazione eroica e regale allo stato di coscienza che definisce la divinità olimpica. Fissiamo alcune corrispondenze. La veduta ora accennata circa l’immortalità è anche propria alla antica tradizione egizia. Solo una parte dell’essere umano è destinata ad una esistenza eterna celeste in stati di gloria – il cosidetto Ba. Ora, questa parte nei geroglifici egizi è raffigurata appunto come un’aquila o uno sparviero (per le condizioni di ambiente, lo sparviero qui è il surrogato dell’aquila, l’appoggio più prossimo offerto dal mondo fisico per esprimere la stessa idea). È sotto forma di sparviero, che nel rituale contenuto nel Libro dei Morti l’anima trasfigurata del morto incute spavento agli stessi dèi e può pronunciare queste parole superbe: “Io son sorto a similitudine di sparviero o di aquila divina ed Oro mi ha fatto partecipe secondo simiglianza dello spirito suo, a che prenda possesso di quel che nell’altro mondo corrisponde ad Osiride”. Questo retaggio superterreno corrisponde esattamente all’elemento olimpico. Infatti nel mito egizio Osiride è una figura divina che corrisponde allo stato primordiale “solare” dello spirito, il quale, dopo aver subito alterazione e corruzione (uccisione e dilaceramento di Osiride), viene restaurato da Oro. Il morto consegue l’indiamento immortalante partecipando della forza restauratrice di Oro, che riconduce ad Osiride, che provoca il “risorgere” o il “ricomporsi” di Osiride.

Maria Pia Ciccarese (cur.), Animali simbolici. Alle origini del Bestiario cristiano I (agnello-gufo). Vol. 1 A questo punto, è facile constatare corrispondenze molteplici di tradizioni e di simboli. Nel mito ellenico, si comprende, a tale stregua, che da “aquile”, esseri, come Ganimede, siano stati rapiti al trono di Zeus. Per mezzo di aquile, nell’antica tradizione persiana, il re Kei-Kaus tentò prometeicamente di innalzarsi al cielo. Nella tradizione indo-aria è l’aquila che porta ad Indra la mistica bevanda che lo costituirà a signore degli dèi. La tradizione classica qui aggiunge un particolare suggestivo: per essa, benché inesattamente, l’aquila valeva come l’unico animale che poteva fissare il sole senza abbassare gli occhi.

Jean Mabire, Thulé: Le Soleil retrouvé des hyperboréens Ciò chiarisce la parte che l’aquila ha in alcune redazioni della leggenda prometeica. Prometeo vi appare non come colui che è veramente qualificato per far proprio il fuoco olimpico, ma come colui, che, restando di natura “titanica”, vuole usurparlo e farne cosa non più da “dèi”, ma da uomini. Per pena, nelle redazioni della leggenda cui alludiamo, il Prometeo incatenato ha il fegato continuamente divorato da un’aquila. L’aquila, animale sacro del Dio olimpico, associato alla folgore stessa che abbatte i titani, ci appare qui come una figurazione equivalente allo stesso fuoco, che Prometeo voleva far suo. Si tratta cioè di una specie di castigo immanente. Prometeo non ha la natura dell’aquila, che può fissare impunemente e “olimpicamente” la luce suprema. La stessa forza che volle far sua, diviene il principio del suo tormento e del suo castigo. E qui si aprirebbe una via per comprendere la tragedia interiore di vari esponenti moderni della dottrina di un superuomismo titanico, ossessi e vittime della loro stessa idea, partendo da Nietzsche e da Dostojewskij, e con particolare riguardo, anche, agli eroi caratteristici dei romanzi di quest’ultimo.

Jean Mabire, Legendes de la mythologie nordique Tornando al mondo del mito ariano, troviamo nell’antica tradizione indù una variante di quello prometeico. Agni, sotto forma di aquila o di sparviero, strappa un ramo dell’albero cosmico, ripetendo il gesto, che nel mito semita Adamo compì per “rendersi simile agli dèi”. Agni, che a sua volta è una personificazione del fuoco, viene colpito. Dalle sue piume cadute al suolo sorge però il seme di una pianta che produrrà il “soma terrestre”. Ma il soma è un equivalente della ambrosia, è la sostanza simbolica che indìa, che propizia una partecipazione allo stato “olimpico”. La struttura del mito ario, benché in forma più involuta, ripete quella che già abbiamo analizzata nel mito egizio (offuscamento di Osiride, resurrezione per mezzo di Oro). Si può parlare di un tentativo prometeico fallito in un primo tempo, poi “rettificato” e fatto seme di una giusta realizzazione dello stesso fine.

Julius Evola, Il mistero del Graal Nella tradizione irano-aria l’aquila figura spesso come una incarnazione della “gloria” dello hvarenô che, come in altra occasione ricordammo, per quelle razze non valse come una astrazione, bensì come una forza mistica e un potere reale dall’alto, che scende sui sovrani e sui capi, li fa partecipi della natura immortale e li testimonia con la vittoria. Questa “gloria” aria, personificata dall’aquila, non sopporta lesioni dell’etica virile propria alla tradizione mazdea. Così il mito riferisce, che sotto forma di aquila essa si dipartì dal re Yima allorché questi si contaminò con una menzogna. Sulla base di siffatte corrispondenze di significato e di simboli la parte che in Roma antica ebbe l’aquila risulta in una particolare luce. Il rito dell’apoteosi imperiale romana è una prima testimonianza ed una precisa conferma dell’aderenza della romanità all’ideale olimpico. In tale rito proprio il volo di un’aquila dalla pira funeraria simboleggiava infatti il trapasso allo stato di “dio” dell’anima dell’imperatore morto. Ricordiamo i particolari di questo rito, che fu ripetuto sull’esempio di quello originario celebratosi alla morte di Augusto.

Julius Evola, La Tradizione Ermetica Il corpo dell’imperatore morto veniva racchiuso in una bara coperta di porpora, portata da una lettiga d’oro e d’avorio. Veniva deposto in una pira costituita al Campo di Marte e circondata da sacerdoti. Si svolgeva allora la cosiddetta decursio, su cui subito diremo. Dato fuoco alla pira, un’aquila si liberava dalle fiamme, e si pensava che in quell’istante l’anima del morto simbolicamente s’innalzasse verso le regioni celesti, per esser accolta fra gli Olimpici. La decursio, cui ora si è accennato, era la corsa di truppe, di cavalieri e di capi intorno alla pira dell’imperatore, sulla quale essi gittavano le ricompense ricevute per il loro valore. Anche in questo rito si cela un significato profondo. Era credenza aria e romana, che nei capi fosse la vera forza decisiva per la vittoria; cioè, non tanto nei capi come persona, quanto nell’elemento sovrannaturale, “olimpico” ad essi attribuito. Per questo, nella cerimonia romana del trionfo il duce vincitore assumeva i simboli del dio olimpico, di Jupiter, e al tempio di questo dio andava a rimettere i lauri della vittoria, volendo con ciò esprimere il vero autore della vittoria, ben distinto dalla sua parte semplicemente umana. Nella decursio avveniva una “remissione” analoga: i soldati e i capi restituivano le ricompense che ricordavano il loro coraggio e la loro forza vincitrice all’imperatore come a colui che, nella sua potenzialità “olimpica”, ora sul punto di liberarsi e di transumanarsi, ne era stato la vera origine.

Giovanni Santi Mazzini, Araldica. Storia, linguaggio, simboli e significati dei blasoni e delle armi Ciò ci conduce ad esaminare la seconda testimonianza dello spirito “olimpico” della romanità, parimenti controsegnato del simbolismo ario dell’aquila. Era tradizione classica che colui, su cui si posasse l’aquila fosse predestinato da Zeus ad alti destini o alla regalità, volendosi con ciò indicare il presupposto “olimpico” della legittimità degli uni o dell’altra. Ma era parimenti tradizione classica, e poi specificamente romana, che l’aquila fosse segno di vittoria, col che, parimenti, vengono in risalto i presupposti “olimpici” della concezione stessa della lotta e della vittoria, cioè l’idea, che attraverso la vittoria della gente aria e romana fossero le forze stesse della divinità olimpica, del dio di luce, a vincere; la vittoria degli uomini, riflesso di quella stessa di Zeus su forze antiolimpiche e “barbariche”, era preannunciata dall’apparire dell’animale stesso di Zeus, dall’aquila.

Hans Biedermann, Enciclopedia dei simboli Ecco la base per comprendere adeguatamente, in relazione a significati profondi d’origine tradizionale e sacrale, e non a vuote allegorie, la parte che l’aquila aveva fra le insegne degli eserciti romani, presso signa e vexilla, fin dalle origini. Fin dall’epoca repubblicana l’aquila fu in Roma come l’insegna delle legioni – veniva detto: “un’aquila per legione e nessuna legione senz’aquila”. In particolare, l’insegna era costituita dall’aquila con le ali spiegate e, in più, con una folgore fra gli artigli. Vien così confermato rigorosamente il simbolismo “olimpico” già detto: presso all’animale sacro di Giove è il segno della sua stessa forza, di quella folgore, con la quale egli combatte e stermina i titani. Dettaglio degno di rilievo, le insegne delle truppe barbariche non avevano aquila: nei signa auxiliarium troviamo invece animali sacri o “totemici”, rifacentisi ad altre influenze, quali il toro o l’ariete. Solo in un periodo successivo questi segni s’infiltrarono nella stessa romanità associandosi all’aquila e dando luogo, spesso, ad un simbolismo doppio: il secondo animale aggiunto all’aquila nelle insegne di una data legione stava allora in relazione con una caratteristica di essa, mentre l’aquila si rifaceva al simbolo generale di Roma. Nel periodo imperiale, peraltro, l’aquila, da insegna militare, divenne spesso simbolo per lo stesso Imperium.

Michel Pastoureau, Medioevo simbolico Noi sappiamo la parte che nella storia successiva il simbolo dell’aquila ha avuto nei popoli nordici e germanici. Questo simbolo sembra quasi aver abbandonato per un lungo periodo il suolo romano ed esser trasmigrato fra le razze germaniche, tanto da apparire a molti come un simbolo essenzialmente nordico. Ciò non è esatto. Si è dimenticata l’origine dell’aquila che figura ancora oggi (1941 – n.d.r.) come emblema della Germania, così come essa fu anche emblema dell’Impero austriaco, ultimo erede del Sacro Romano Impero. Quest’aquila germanica è semplicemente l’aquila romana. Fu Carlomagno nell’800, che nel punto di dichiarare la renovatio romani imperii ne riprese il simbolo fondamentale, l’aquila, e ne fece l’emblema del suo Stato. Storicamente, è dunque null’altro che l’aquila romana quella che si è conservata fino ad oggi come simbolo del Reich. Ciò non impedisce però che, da un punto dì vista più profondo, superstorico, nel riguardo si possa pensare a qualcosa di più che ad una semplice importazione. L’aquila infatti nella mitologia nordica figurava già come uno degli animali sacri ad Odino-Wotan e come questo animale fu aggiunto nelle insegne romane delle legioni, così esso apparve anche nei cimieri degli antichi capi germanici. Si può dunque concepire che mentre Carlomagno nell’assumere l’Aquila a simbolo del risorto impero aveva essenzialmente in vista Roma antica, egli simultaneamente, senza rendersene conto, riprendeva anche un simbolo dell’antica tradizione ario-nordica, conservatasi solo in forma frammentaria e crepuscolare fra i vari ceppi del periodo delle invasioni. In ogni modo, nella storia successiva l’aquila finì con l’avere un valore semplicemente araldico e il suo significato simbolico e morale più profondo e originario fu dimenticato. Come molti altri, divenne un simbolo che sopravviveva a sé stesso e che quindi fu perfino suscettibile a servir da base ad idee molto diverse. Sarebbe quindi assurdo supporre la presenza, sia pur “sonnambolica”, di concezioni, come quelle qui ricordate, dovunque oggi si siano viste aquile in segni ed emblemi europei. Le cose potrebbero stare diversamente per noi, eredi dell’antica romanità, e poi pel popolo, che oggi ci sta a fianco, erede dell’imperio romano-germanico. La conoscenza del significato originario del simbolismo ario dell’Aquila, risorto emblema di entrambe le nostre genti, potrebbe controsegnare anzi il significato più alto della nostra lotta e connettersi con l’impegno, che in questa si ripeta, in una certa misura, la stessa vicenda, nella quale l’antica gente aria, nel segno olimpico ed evocando la forza stessa olimpica sterminatrice di entità oscure e titaniche, potè sentirsi come la milizia di influenze dall’alto ed affermare un superiore diritto e una superiore funzione di dominio e di ordine.


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Majorana
24-08-10, 09:11
Senso e clima dello Zen

Si sa dell’interesse che il cosidetto Zen ha suscitato anche fuor dagli ambienti specialistici, da quando D. T. Suzuki lo ha fatto conoscere nei suoi libri Introductiontion to Zen Buddhism, Essays in Zen Buddhism e successivamente tradotti anche in francese. Questo interesse deriva da una specie di incontro paradossale. Per l’Occidentale in crisi lo Zen presenta infatti qualcosa di «esistenzialistico» e di surrealistico. Anche la concezione Zen di una realizzazione spirituale libera da qualsiasi fede e da qualsiasi vincolo e, in più, il miraggio di una «rottura di livello» istantanea e, in un certo modo, gratuita, tale, tuttavia, da risolvere ogni angoscia dell’esistenza, non hanno potuto non esercitare su molti una attrazione particolare. Però tutto questo riguarda, in buona misura, soltanto le apparenze: la «filosofia della crisi» in Occidente, che è la conseguenza di tutto uno sviluppo materialistico e nichilistico, e lo Zen, che per antecedente ha sempre la spiritualità della tradizione buddhista, presentano dimensioni spirituali ben distinte, per cui ogni autentico incontro presuppone, in un Occidentale, o una predisposizione eccezionale, ovvero la capacità di quella metanoia, di quel rivolgimento interno, che riguarda meno «atteggiamenti» intellettuali che non ciò che in ogni tempo e luogo è stato concepito come qualcosa di assai più profondo.

Lo Zen vale come la dottrina segreta trasmessa al di fuori delle scritture, dallo stesso Buddha al suo discepolo Mhâkâçyapa, introdotta in Cina verso il VI secolo da Bodhidharma e poi continuatasi attraverso una successione di Maestri e di «patriarchi» sia in Cina che in Giappone, ove è ancor vivo, ha i suoi rappresentanti e i suoi Zendo (le «Sale della Meditazione»).

Miyamoto Musashi, Il libro dei Cinque Anelli Quanto a spirito, lo Zen può venir considerato come una ripresa dello stesso buddhismo delle origini. Il buddhismo nacque come una energica reazione contro lo speculare teologizzante e il vuoto ritualismo in cui era finita l’antica casta sacerdotale indù, già detentrice di una sapienza sacra e viva. Il Buddha fece tabula rasa di tutto questo; pose invece il problema pratico del superamento di ciò che nelle esposizioni popolari viene presentato come «il dolore dell’esistenza» ma che nell’insegnamento interno appare essere, più in genere, lo stato di caducità, di agitazione, di «sete» e di oblio degli esseri comuni. Avendola lui stesso percorsa senza l’aiuto di nessuno, egli indicò a chi ne sentiva la vocazione la via del risveglio, della immortalità. Buddha, come si sa, non è un nome, ma un attributo, un titolo; significa «lo Svegliato», «colui che ha conseguito il risveglio» o l’«illuminazione». Quanto al contenuto della sua esperienza, il Buddha tacque, ad impedire che, di nuovo, invece di agire ci si desse a speculare e a filosofare. Così egli non parlò, come i suoi predecessori, del Brahman (dell’Assoluto), nè dell’Atmâ (l’Io trascendentale) ma, usò il solo termine negativo di nirvâna, anche a rischio di fornire appigli a coloro che, nella loro incomprensione, nel nirvâna dovevano vedere il «nulla», una ineffabile e evanescente trascendenza quasi al limite dell’inconscio e di un cieco non-essere.

Daisetz Teitaro Suzuki, Saggi sul buddhismo Zen. Vol. 1: Una spiegazione chiara e precisa dello zen Orbene, nello sviluppo successivo del buddhismo si ripeté, mutatis mutandis, proprio la situazione contro cui il Buddha aveva reagito; il buddhismo divenne una religione coi suoi dogmi, coi suoi rituali, con la sua scolastica, con la sua mitologia. Esso si differenziò in due scuole, l’una – il Mâhâyâna - più ricca di metafisica e compiacentesi di un astruso simbolismo, l’altra – l’Hinayâna - più severa e nuda nei suoi insegnamenti, ma troppo preoccupata della semplice disciplina morale portata su di una linea più o meno monastica. Il nucleo essenziale e originario, ossia la dottrina esoterica dell’illuminazione, andò quasi perduto.

Ed ecco che interviene lo Zen, a far daccapo tabula rasa, a dichiarare l’inutilità di tutti questi sottoprodotti, a proclamare la dottrina del satori. Il satori è un avvenimento interiore fondamentale, una brusca rottura di livello esistenziale, in essenza corrispondente a ciò che abbiamo chiamato il «rìsveglio». Però la formulazione fu nuova, originale, presso ad una specie di capovolgimento. Lo stato di nirvâna - il presunto nulla, l’estinzione, già lontano termine finale di uno sforzo di liberazione che secondo alcuni potrebbe richiedere perfino più di una esistenza – viene ora indicato come lo stato normale dell’uomo. Ogni uomo ha natura di Buddha. Ogni uomo è già un «liberato», superiore a nascita e a morte. Si tratta solo di accorgersene, di realizzarlo, di «vedere nella propria natura», formula fondamentale dello Zen. Come uno spalancamento senza tempo – questo è il satori. Per un lato, il satori è qualcosa di improvviso e di radicalmente diverso da tutti gli stati a cui sono abituati gli uomini, è come un trauma catastrofico della coscienza ordinaria; nel contempo è ciò che riconduce appunto a quel che, in un senso superiore, va considerato come normale e naturale; quindi è il contrario di una estasi o di una transe. È il ritrovamento e la presa di possesso della propria natura: illuminazione, o luce, che trae fuor dall’ignoranza o dalla subcoscienza la realtà profonda di ciò che, da sempre, si fu e che mai si cesserà di essere, qualunque sia la propria condizione.

La conseguenza del satori sarebbe una visione completamente nuova del mondo e della vita. Per chi lo ha avuto, tutto è lo stesso – le cose, gli altri esseri, sè medesimo, «il cielo, i fiumi e la vasta terra» – eppure tutto è fondamentalmente diverso: come se una dimensione nuova si fosse aggiunta alla realtà e ne avesse trasformato completamente il significato e il valore. Secondo quanto dicono i maestri dello Zen, il tratto essenziale della nuova esperienza è il superamento di ogni dualismo: dualismo fra dentro e fuori, fra Io e non-Io, fra finito e infinito, fra essere e non essere, fra apparenza e realtà, fra «vuoto» e «pieno», fra sostanza e accidenti – e altresì indiscernibilità di ogni valore posto dualisticamente dalla coscienza finita e offuscata del singolo, sino a dei limiti paradossali: sono una stessa cosa il liberato e il non-liberato, l’illuminato e il non-illuminato, questo mondo e l’altro mondo, colpa e virtù. Lo Zen riprende effettivamente l’equazione paradossale del buddhismo Mâhâyâna: nirvâna =samsâra e quella del taoismo: «l’infinitamente lontano è il ritorno». È come dire: la liberazione non è da cercarsi in un aldilà; questo stesso mondo è l’aldilà, è la liberazione, nulla ha bisogno di essere liberato. Il punto di vista del satori, della illuminazione perfetta, della «sapienza trascendente» (prajñâpâramitâ), è questo.

Julius Evola, Lo Yoga della Potenza In essenza, si tratta di uno spostamento del centro di sé. In qualsiasi situazione e in qualsiasi avvenimento della vita ordinaria, anche nei più banali, il posto del senso comune, dualizzante e intellettualistico di sé viene preso da quello di un essere che non conosce più un Io contrapposto ad non-Io, che trascende e riprende i termini di ogni antitesi, tanto da godere di una perfetta libertà e incoercibilità: come quella del vento, che soffia dove vuole, ed anche dell’essere nudo che, proprio perchè «ha lasciato la presa», (altra espressione tecnica), perchè ha abbandonato tutto («povertà»), è tutto e possiede tutto.

Lo Zen – almeno la corrente predominante dello Zen – insiste sul carattere discontinuo, improvviso, imprevedibile della dischiusura del satori. Con riferimento a ciò, il Suzuki era andato oltre il segno nel polemizzare contro le tecniche in uso nelle scuole indù, nel Sâmkhya e nello Yoga, ma contemplate anche in alcuni dei testi originari del buddhismo. La similitudine è quella dell’acqua che ad un dato momento si tramuta in ghiaccio. Viene anche data l’imagine di una soneria che ad un dato punto, per una qualche scossa, scatta. Non vi sarebbero sforzi, discipline o tecniche che da per sè possano condurre al satori. Si dice, anzi, che talvolta esso interviene ad un tratto, quando abbiamo esaurito tutte le risorse del nostro essere, soprattutto del nostro intelletto e della nostra capacità logica di comprensione. Altre volte sensazioni violente, perfino un dolore fisico, possono propiziarlo. Ma la causa può essere anche la semplice percezione di un oggetto, un fatto qualunque dell’esistenza ordinaria, data una certa disposizione latente dell’animo.

A tale riguardo, possono però nascere degli equivoci. Si è che, come riconobbe lo stesso Suzuki, «in genere non sono state date indicazioni sul lavoro interiore che precede il satori». Egli, comunque, parla della necessità di passare, prima, per un «vero battesimo del fuoco». Del resto, la stessa istituzione delle cosidette «Sale di Meditazione» dove coloro che vogliono raggiungere il satori si assoggettano ad un regime di vita analogo, in parte, a quello di alcuni Ordini cattolici, indica la necessità di una preparazione preliminare, la quale anzi può prendere un periodo di molti anni. L’essenziale sembrerebbe consistere in un processo di maturazione, identico a quello dell’avvicinarsi ad uno stato di estrema instabilità esistenziale, dato il quale basta un minimo urto per produrre il cambiamento di stato, la rottura di livello, l’apertura che conduce alla «visione folgorante della propria natura». I Maestri conoscono il momento in cui la mente del discepolo è matura e l’apertura è sul punto di prodursi; allora essi danno, eventualmente, la spinta decisiva. Talvolta può essere un semplice gesto, una esclamazione, qualcosa di apparentemente irrilevante, perfino di illogico, di assurdo. Ciò basta a produrre il crollo di tutta la falsa individualità e, col satori, subentra lo «stato normale», si assume il «volto originarìo», «quello che si aveva prima della creazione». Non si è più dei «cacciatori di echi» e degli «inseguitori di ombre». Viene di pensare, in alcuni casi, ad un analogo del motivo esistenzialista del «fallimento» o «naufragio» (das Scheitern - Kierkegaard, Jaspers). Infatti, come si è accennato, spesso l’apertura avviene appunto quando si sono esaurite tutte le risorse del proprio essere e, per così dire, si è messi con le spalle al muro. Lo si può vedere in relazione ad alcuni metodi pratici di insegnamento dello Zen. Gli strumenti più usati sul piano intellettuale sono i kôan e i mondo; il discepolo viene messo dinanzi a dei detti o a delle risposte di un genere paradossale, assurdo, talvolta grottesco o «surrealistico». Vi deve logorare la mente, se necessario per anni interi, fino al limite estremo di ogni facoltà normale di comprensione. Se, allora, si osa fare ancora un passo avanti, può prodursi la catastrofe, il capovolgimento, la metanoia. Si ha il satori.

Julius Evola, La dottrina del risveglio In pari tempo, la norma dello Zen è quella di una autonomia assoluta. Niente dèi, niente culti, niente idoli. Svuotarsi di tutto, perfino di Dio. «Se sulla tua via incontri il Buddha, uccidilo» – dice un Maestro. Occorre abbandonare tutto, non appoggiarsi a nulla, andare avanti, con la sola essenza, fino al punto della crisi. Dire qualcosa di più sul satori e fare un confronto fra esso e le varie forme di esperienza mistica e iniziatica d’Oriente e d’Occidente, è molto difficile. Avendo accennato ai monasteri Zen, vale rilevare che in essi vi si trascorre solo il periodo della preparazione. Chi ha conseguito il satori, lascia il convento e la «Sala della Meditazione», torna al mondo scegliendosi la via che più gli conviene. Si potrebbe pensare che il satori sia una specie di trascendenza che allora si porta nell’immanenza, come stato naturale, in ogni forma della vita.

Dalla nuova dimensione che, come si è detto, in seguito al satori si aggiunge alla realtà, procede un comportamento per il quale potrebbe valere la massima di Lao-tze: «Essere interi nel frammento». In relazione a ciò, è stata rilevata l’influenza che lo Zen ha esercitato sulla vita estremo-orientale. Fra l’altro, lo Zen è stato chiamato «la filosofia del Samurai» e si è potuto affermare «la via dello Zen è identica alla via dell’arco» o «della spada». Si vuol significare che ogni attività della vita può essere compenetrata di Zen e così elevata ad un significato superiore, ad un’«interezza» e ad una «impersonalità attiva». Un senso di irrilevanza dell’individuo che non paralizza ma assicura una calma e un distacco che permette una assunzione assoluta e «pura» della vita, in dati casi sino a forme estreme e tipiche di eroismo e di sacrificio, che per la maggioranza degli Occidentali sono quasi inconcepibili (vedi il caso dei Kamikazé nell’ultima guerra mondiale).

E’ uno scherzo ciò che dice lo Jung, ossia che, più di qualsiasi corrente occidentale, è la psicanalisi che potrebbe capire lo Zen, perchè, secondo lui, l’effetto del satori sarebbe la stessa interezza priva di complessi e di scissioni a cui presume di giungere il trattamento psicanalitico quando rimuove le ostruzioni dell’intelletto e le sue pretese di supremazia, e ricongiunge la parte cosciente dell’anima con l’inconscio e con la «Vita». Lo Jung non si è accorto che nello Zen, sia il metodo che i presupposti stanno all’opposto dei suoi: non esiste «inconscio» come una entità a sè, a cui il conscio debba aprirsi, ma si tratta di una visione supercosciente (l’illuminazione, la bodhi o «risveglio») che porta in atto la «natura originaria» luminosa e distrugge, con ciò, l’inconscio. Tuttavia ci si può tenere al sentimento di una «totalità» e libertà dell’essere che va a manifestarsi in ogni atto dell’esistenza. Un punto particolare è però di precisare il livello a cui ci si riferisce.

In effetti, specie nella sua esportazione fra noi, si sono avute delle tendenze ad «addomesticare» o moralizzare lo Zen velandone, anche sul piano della semplice condotta di vita, le possibili conseguenze radicaliste e «antinomistiche» (= di antitesi alle norme vigenti) e insistendo invece sugli ingredienti obbligatori degli «spiritualisti», sull’amore e sul servizio al prossimo, sia pure purificati in una forma impersonale e asentimentale. In genere, sulla «praticabilità» dello Zen, non possono non nascere dei dubbi, in relazione al fatto che la «dottrina del risveglio» ha un carattere essenzialmente iniziatico. Così essa non potrà mai riguardare che una minoranza, in opposto al buddhismo più tardo il quale prese la forma di una religione aperta a tutti oppure di un codice di semplice moralità. Come ristabilimento dello spirito del buddhismo originario, lo Zen avrebbe dovuto tenersi ad un esoterismo. In parte, lo ha fatto: basta riandare alla leggenda delle sue origini. Tuttavia vediamo che lo stesso Suzuki è stato incline a presentare in modo diverso le cose e ha valorizzato quegli aspetti del Mahâyâna che «democratizzano» il buddhismo (del resto, la denominazione «Mahâyâna» è stata interpretata come il «Grande Veicolo» anche nel senso che sarebbe adatto per ampie cerchia, non per pochi). Se si dovesse seguirlo, nascerebbero delle perplessità sulla natura e sulla portata dello stesso satori; sarebbe cioè da chiedersi se una tale esperienza riguardi semplicemente il dominio psicologico, morale o mentale o se investa quello ontologico, come ne è il caso per ogni iniziazione autentica, della quale può però esser quistione solo per un assai piccolo numero.

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Tratto da Vie della Tradizione, II, 1972, 1-9.


Senso e clima dello Zen | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/sensoeclimadellozen.html)

Majorana
24-08-10, 09:12
La seconda religiosità

In un precedente capitolo abbiamo mostrato quanto siano prive di ogni fondamento le idee di certi divulgatori della scienza fisica ultimissima i quali pretendono che questa abbia ormai superato il precedente materialismo e stia conducendo verso una nuova visione spiritualistica della realtà. Ebbene, un equivoco analogo sta alla base delle pretese di quello che si può chiamare il neo-spiritualismo. Alcuni ambienti vorrebbero venire alla stessa conclusione, cioè che si stia ritornando alla spiritualità, pel fatto dell’attuale moltiplicarsi di tendenze verso il sovrannaturale e il soprasensibile in movimenti, sette, chiesuole, loggie e conventicole d’ogni genere aventi in comune l’ambizione di fornire all’uomo occidentale qualcosa di più delle forme della religione positiva e dogmatica, ritenute insufficienti, svuotate e inefficienti, e di condurlo di là dal materialismo. Anche questa è una illusione, dovuta alla mancanza di principii così caratteristica nei nostri contemporanei. La verità è che anche a tale riguardo, nella maggior parte dei casi ci si trova dinanzi a fenomeni che rientrano essi stessi nei processi dissolutivi dell’epoca e che esistenzialmente, malgrado ogni apparenza, hanno un significato negativo, rappresentando una specie di controparte solidale del materialismo occidentale.

Per riconoscere il vero luogo e il significato di questo nuovo spiritualismo ci si può rifare a quel che lo Spengler ha scritto circa la “seconda religiosità“. Nella sua opera principale questo autore ha esposto idee che, seppure presso a gravi confusioni e a divagazioni personali d’ogni genere, ripetono in parte la concezione tradizionale della storia, quando egli ha parlato di un processo che nei vari cicli di civiltà conduce dalle forme organiche di vita delle origini, nelle quali predominano la qualità, la spiritualità, la tradizione vivente e la razza, alle forme tarde e disanimate cittadine ove invece predominano l’intelletto astratto, l’economia e la finanza, il praticismo e il mondo delle masse con lo sfondo di una grandezza puramente materiale. Con l’apparire di tali forme una civiltà si avvia verso la sua fine. Il processo terminale è stato più da presso caratterizzato da Guénon che, usando una immagine tratta dal decorso della vita degli organismi, ha parlato di due fasi, della fase dell’irrigidimento del corpo (corrispondente, in termini di civiltà, al periodo del materialismo), a cui fa seguito la fase ultima, la disgregazione del cadavere. Ora, secondo lo Spengler, uno dei fenomeni che accompagnano costantemente le fasi terminali di una civiltà è la “seconda religiosità“. In margine alle strutture di una barbarica grandezza, al razionalismo, all’ateismo pratico e al materialismo si manifestano forme sporadiche di spiritualità e di misticismo, perfino irruzioni del soprasensibile, le quali non attestano una riascesa, ma sono sintomi di disfacimento.

Julius Evola, Lo Yoga della Potenza Non si tratta più della religione delle origini, delle forme severe che, retaggio di élites dominatrici, stavano al centro di una civiltà organica e qualitativa (è ciò che noi chiamiamo propriamente il mondo della Tradizione), ad improntare tutte le espressioni. Nella fase di cui si tratta, le stesse religioni positive perdono ogni dimensione superiore, si secolarizzano, si appiattiscono, cessano di avere la loro funzione originaria. La “seconda religiosità” si sviluppa al di fuori di esse, spesso perfino contro di esse, ma si sviluppa anche fuori dalle correnti principali e predominanti dell’esistenza e, in genere, col significato di un fenomeno di evasione, di alienamento, di confusa compensazione il quale non incide in nessun modo seriamente sulla realtà, ormai corrispondente ad una civiltà disanimata, meccanicistica e puramente terrena.

Tale è dunque il luogo e il senso della “seconda religiosità“. Il quadro può essere completato rifacendosi al Guénon – autore di ben più profonda dottrina dello Spengler – il quale ha constatato che dopo che il materialismo e il “positivismo” del XIX secolo avevano provveduto a chiudere l’uomo a ciò che sta effettivamente al disopra di lui – al vero sovrannaturale, alla trascendenza – correnti molteplici del XX secolo aventi appunto sembianza “spiritualistica” o di “nuova psicologia” tendono ad aprirlo a ciò che sta al disotto di lui, al disotto del livello esistenziale corrispondente, in genere, alla persona umana formata. Si può anche usare una espressione di A. Huxley, e parlare di un “autotrascendimento discendente” opposto all’”autotrascendimento ascendente”. Come è vero che l’Occidente si trova attualmente proprio nella fase disanimata, collettivistica e materialistica corrispondente al chiudersi di un ciclo di civiltà, del pari non v’è dubbio che la grandissima parte dei fatti interpretati come preludio ad una nuova spiritualità hanno semplicemente un carattere di “seconda religiosità“. Essi rappresentano qualcosa di promiscuo, di sfaldato e di sub-intellettuale. Sono come le fluorescenze che si manifestano nelle decomposizioni cadaveriche; per cui, nelle tendenze accennate è da vedersi non l’opposto dell’attuale civiltà crepuscolare ma, come dicevamo, una sua controparte, la quale potrebbe perfino preludiare ad una fase regressiva e dissolutiva più spinta della medesima, nel caso che esse prendessero piede.

Julius Evola, L'arco e la clava In particolare, là dove non si tratta di semplici stati d’animo e di teorie, là dove l’interesse morboso per il sensazionale e l’occulto si accompagna a pratiche evocatorie e all’apertura degli strati sotterranei della psiche umana – come non di rado ne è il caso nello spiritismo e nella stessa psicanalisi – può ben parlarsi, ancora col Guénon, di “fessure della grande muraglia”, di pericolosi cedimenti di quella cintura di protezione che, malgrado tutto, nella vita ordinaria preserva ogni individuo normale e dalla mente lucida dall’azione di forze oscure reali nascoste dietro la facciata del mondo dei sensi e sotto la soglia dei pensieri umani formati e consapevoli. Da questo punto di vista, il neo-spiritualismo appar essere dunque più pericoloso dello stesso materialismo o positivismo, il quale, se non altro, con la sua primitività e la sua miopia intellettuale rafforzava quella cinta, limitatrice sì, ma anche protettiva. Per un altro verso, circa il livello proprio al neo-spiritualismo nulla è più indicativo della sostanza umana presentata dalla gran parte di coloro che lo coltivano. Mentre le antiche scienze sacre erano la prerogativa di una umanità superiore, di caste regali e sacerdotali, oggi come maggioranza sono medium, “maghi” da popolino, pendolasti, spiritisti, antroposofi, astrologhi e veggenti da annunci pubblicitari, teosofisti, “guaritori”, divulgatori di uno yoga americanizzato e così via a bandire il nuovo verbo antimaterialistico, accompagnandovisi qualche mistico esaltato e visionario e qualche profeta estemporaneo. La mistificazione e la superstizione si mescolano quasi costantemente, nel neo-spiritualismo, del quale un ulteriore tratto significativo è, specie nei paesi anglosassoni, l’alta percentuale delle donne (donne fallite, sviate o fuori uso). In effetti, come orientamento generale è di una spiritualità “femminile” che qui a buon diritto si può parlare.

Ma questa è, di nuovo, una materia da noi già trattata e chiarita in molte altre occasioni. Per l’ordine di idee che qui propriamente ci interessa importa solo accusare la deprecabile confusione che può nascere dal fatto che, a partir dal teosofismo anglo-indiano, nel neo-spiritualismo sono frequenti i riferimenti ad alcune dottrine appartenenti a quello che noi chiamiamo il mondo della Tradizione, specie nelle varietà orientali di esso. Ora qui, è necessario fare una netta separazione. Bisogna tener per fermo che ciò di cui nelle correnti in discorso a tale riguardo si tratta, si riduce quasi sempre a contraffazioni di quelle dottrine, a residui o frammenti di esse mescolati coi peggiori pregiudizi occidentali e con pure divagazioni personali. Del piano a cui le idee riprese propriamente appartenevano, il neo-spiritualismo non ha in genere nessuna idea, così come non ne ha nemmeno di ciò che, in fondo, i suoi seguaci veramente cercano. Quelle idee infatti finiscono spesso col fungere da meri surrogati usati per soddisfare le stesse esigenze che portano altri verso la fede e la semplice religione: grave equivoco, perché si tratta invece di metafisica, e spesso quegli insegnamenti nello stesso mondo tradizionale erano di pertinenza esclusiva delle “dottrine interne”, non divulgate. Inoltre non è nemmeno detto che la ragione per cui i neo-spiritualisti s’interessano ad essi diffondendoli e portandoli addirittura sulla piazza, sia solo da cercarsi nel decadere e nell’inaridirsi della religione occidentale; un’altra ragione è che molti di costoro credono che quegli insegnamenti siano più “aperti” e consolanti, che essi esimano dagli impegni e dai vincoli propri alle confessioni positive: mentre, nel caso, proprio l’opposto è vero, anche se si tratta di un genere assai diverso di vincoli. Un esempio tipico è il genere della valorizzazione moralizzante, umanitaria e pacifista fatta recentemente della dottrina buddhista (secondo il pandit Nehru, essa sarebbe “l’altra alternativa rispetto la bomba H”).

Julius Evola, La Tradizione Ermetica Su di un altro piano, vediamo uno Jung “valorizzare” in termini psicanalitici ogni specie di insegnamenti e simboli mistèrici, adattandoli al trattamento di individui neuropatici e scissi. Per via di tutto questo, sarebbe perfino da domandarsi fino a che punto l’effetto pratico del neo-spiritualismo sia negativo anche da un altro punto di vista, cioè per l’inevitabile discredito che ricade sugli insegnamenti dianzi accennati, riconducibili alle dottrine interne del mondo della Tradizione, a causa del modo distorto e spurio con cui le correnti in discorso oggi si sono date a farli conoscere e a propagandarli. In effetti, occorre avere già un orientamento interno assai preciso, o un non meno preciso istinto, per riuscire a separare il positivo dal negativo e trarre da quelle correnti un incentivo per un vero ricollegamento con le origini e per la riscoperta di un sapere dimenticato. E qualora ciò accada, e si prenda la giusta via, non si tarderà a lasciare assolutamente indietro quanto è proprio a quel casuale punto di partenza, cioè allo spiritualismo di oggi e soprattutto al livello spirituale a cui esso corrisponde: livello dal quale esulano completamente la grandezza, la potenza, il carattere severo e sovrano proprio a ciò che si trova effettivamente di là dall’umano e che solo potrebbe aprire una via oltre il mondo che sta vivendo la “morte di Dio”. Ciò, per quanto riguarda soprattutto il piano della dottrina. E l’uomo differenziato che a noi qui interessa, se la sua attenzione si portasse su tale dominio, deve dunque vedere chiaramente la distinzione ora indicata; qualora egli non disponga già di fonti più dirette e autentiche di informazione fuor dai sottoprodotti e dalle ambigue fluorescenze della “seconda religiosità“, gli sarà necessario un lavoro di discriminazione e di integrazione, lavoro del resto facilitato dal fatto che la moderna scienza delle religioni e altre discipline affini hanno ormai fatto conoscere testi fondamentali di diverse grandi tradizioni, in versioni che potranno anche risentire delle limitazioni accademiche e specialistiche (filologia, orientalismo, ecc.) ma che sono libere dalla deformazione, dalle divagazioni e delle commistioni del neo-spiritualismo. Esiste dunque la base, o materia prima, per andar oltre, dopo lo spunto iniziale e occasionale (1).

In più, vi è però da considerare il problema pratico. Come si è accennato, il neo-spiritualismo fa spesso cadere l’accento sulla pratica e sull’esperienza interiore, e esso riprende da un diverso mondo, dall’antichità o dall’Oriente, non solo delle concezioni del soprasensibile ma anche vie e discipline vòlte alla rimozione dei limiti dell’ordinaria coscienza umana. A questo riguardo, si ripete però l’equivoco già indicato quando parlammo di riti cattolici che hanno finito con l’essere profanati e privati di ogni effettivo significato “operativo” per essere stati applicati alle masse, senza considerare le condizioni necessarie per la loro efficacia: nel presente caso l’equivoco essendo aggravato, perché più ambiziosa è la mèta. A tal proposito, possiamo lasciare da parte le varietà più spurie, “occultistiche”, del neo-spiritualismo, nelle quali sta in primo piano l’interesse per la “chiaroveggenza”, per questo o quel presunto “potere” e per un genere qualsiasi di contatti con l’invisibile. Tutto ciò per l’uomo differenziato non può che essere cosa indifferente: non è su questa via che il problema del significato dell’esistenza può essere risolto, perché qui si resta pur sempre entro il mondo dei fenomeni, e il risultato può perfino essere una evasione e una maggiore dispersione (simile a quella propiziata, su di un altro piano, dal moltiplicarsi stordente delle conoscenze scientifiche e dei mezzi tecnici) anziché un approfondimento esistenziale. Ma, seppure confusamente, nel neo-spiritualismo viene talvolta prospettato qualcosa di più e di diverso, quando ci si riferisce all’”iniziazione” e quando è questa a venir posta come il fine di pratiche varie, di “esercizi”, riti, tecniche yoghiche e simili. A questo proposito se non si può procedere ad una condanna pura e semplice, è però necessario dissipare certe illusioni. Presa nella sua accezione rigorosa e legittima l’iniziazione corrisponderebbe, nell’uomo, ad un reale cambiamento ontologico e esistenziale di stato, all’apertura di fatto della dimensione della trascendenza. Sarebbe la realizzazione inequivocabile e l’appropriazione integrale e decondizionalizzante della qualità che abbiamo considerato come il fondo del tipo umano che a noi interessa, dell’uomo ancora radicato spiritualmente nel mondo della Tradizione. Così si pone il problema di ciò che si deve pensare quando, dall’una o dall’altra corrente del neo-spiritualismo, vengono riesumati e presentati metodi e vie “iniziatici”. E’ necessario circoscrivere questo problema in quanto, in conformità ai limiti propri al presente libro, qui non ci riferiamo a chi, staccatosi dall’ambiente, abbia concentrato tutte le energie sulla direzione della trascendenza, come nel dominio religioso può farlo l’asceta o il santo. Si tratta invece del tipo umano che accetta di vivere nel mondo e nell’epoca, pur avendo una forma interiore diversa da quella dei suoi contemporanei.

Julius Evola, La dottrina del risveglio Quest’uomo sa che in una civiltà come l’attuale è impossibile ripristinare le strutture che nel mondo della Tradizione davano un senso all’insieme dell’esistenza. Ma nello stesso mondo della Tradizione ciò che si può far corrispondere all’ideale dell’iniziazione apparteneva alle linee di vetta, ad un dominio differenziato con suoi limiti precisi, ad una via avente un carattere di eccezionalità e di esclusività. Non si trattava del dominio in cui la legge generale dall’alto della tradizione formava l’esistenza comune nel mondo di una data civiltà, ma di un piano sovraordinato, virtualmente sciolto da quella stessa legge per il fatto di stare alla sua origine. Qui non si può trattare delle distinzioni da farsi nello stesso dominio delle iniziazioni. Ci si deve limitare a tener fermo il significato più alto e essenziale che ha l’iniziazione quando ci si pone sul piano metafisico, significato che, come si è detto, è quello del decondizionamento spirituale dell’essere. Quelle forme più relative che corrispondono alle iniziazioni di casta, alle iniziazioni tribali e anche alle iniziazioni minori, legate a questo o quel potere del cosmo come in certi antichi culti – forme diverse, dunque, dalla “grande liberazione” -, qui debbono essere lasciare da parte, anche perché nel mondo moderno per esse manca ormai ogni base. Ebbene, se è appunto nella sua accezione più alta, metafisica, che la si assume, già a priori si deve pensare che l’iniziazione in una epoca come l’attuale, in un ambiente come quello in cui viviamo e data anche la conformazione interiore generale degli individui (che ormai risente fatalmente di una eredità collettiva già secolare assolutamente sfavorevole), si presenta come una eventualità più che ipotetica, e chi oggi prospetta le cose in modo diverso, quegli o non capisce di che si tratta, oppure inganna sé stesso e gli altri. Ciò che bisogna negare nel modo più reciso è la trasposizione in questo campo della veduta individualistica e democratica del self-made man, cioè l’idea che ognuno che lo voglia possa divenire un “iniziato”, e possa anzi divenirlo da sé, con le sue sole forze, ricorrendo a “esercizi” e pratiche di vario genere.

Questa è una illusione, la verità essendo che con le sole forze dell’individuo umano non si saprebbe andar di là dall’individuo umano, che qualsiasi risultato positivo in tale campo è condizionato dalla presenza e dall’azione di un potere reale d’ordine diverso, non individuabile. E noi possiamo dichiarare categoricamente che a questo riguardo i casi possibili si riducono a tre soltanto.

Julius Evola, Il mistero del Graal Il primo caso è che il diverso potere lo si possegga già per natura. E’ il caso eccezionale di quella che fu chiamata la “dignità naturale”, non derivante dalla semplice nascita umana; è paragonabile a ciò che nel dominio religioso è l’elezione. Come struttura, l’uomo differenziato da noi presupposto è affine al tipo al quale può rapportarsi questa prima possibilità. Ma oggi la convalida in lui della “dignità naturale” in questo senso specifico, tecnico, non può non presentare un largo margine di problematicità, superabile solo se quell’esperimento di sé, di cui si è parlato nel primo capitolo viene opportunamente orientato in tal senso.

Gli altri due casi riguardano una “dignità acquisita”. In primo luogo si può considerare la possibilità dell’apparire del potere in questione, con una conseguente, brusca rottura esistenziale e ontologica di livello, in casi di profonde crisi, di traumi spirituali, di azioni disperate. In essi è possibile che l’individuo, se non va in rovina, sia portato a partecipare a quella forza, anche senza che se lo sia posto consapevolmente come scopo. La situazione effettiva deve però essere chiarita dicendo che in casi del genere era stata già accumulata una energia che le circostanze accennate hanno fatto d’un tratto manifestare, con l’effetto di un cambiamento di stato: per cui, quelle circostanze appaiono come una causa occasionale ma non determinante, necessaria ma non sufficiente. Del pari l’ultima goccia non farebbe traboccare il vaso ove esso non fosse già colmo, e lo spaccare una diga non farebbe prorompere l’acqua se non premesse già dietro di essa.

Il terzo e ultimo caso riguarda l’innesto del potere in parola nell’individuo in virtù dell’azione dell’esponente di una organizzazione iniziatica preesistente, che a tanto sia qualificato. E’ l’equivalente di quel che nel campo religioso è l’ordinazione sacerdotale, la quale in teoria imprimerebbe nell’individuo un character indelebilis che lo qualifica per l’esecuzione efficace dei riti. L’autore da noi già citato, René Guénon – nei tempi moderni, egli è stato quasi l’unico a trattare con autorità e serietà simili argomenti, non mancando di denunciare anche lui le deviazioni, gli errori e le mistificazioni del neo-spiritualismo – considera quasi esclusivamente questo terzo caso. Per contro nostro, riteniamo invece che ai nostri giorni esso praticamente sia pressoché da escludere per via dell’inesistenza quasi completa delle organizzazioni accennate. Se organizzazioni del genere in Occidente ebbero già sempre un carattere più o meno sotterraneo a causa della natura della religione venuta a predominarvi e delle sue iniziative repressive e persecutorie, nei tempi ultimi esse sono quasi del tutto scomparse. Per quel che riguarda altre aree, soprattutto l’Oriente, esse si sono rese sempre più rare e inaccessibili, quando anche le forze di cui erano le portatrici non si siano da esse ritirate, parallelamente al processo generale di degenerescenza e di modernizzazione che ormai ha investito anche quelle aree.

Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno Di massima, oggi lo stesso Oriente ai più non è in grado di fornire che dei sottoprodotti, in un “regime di residui”, cosa evidente solo che si esamini la statura spirituale degli Asiatici che si sono messi ad esportare e a divulgare fra noi la sapienza orientale”.Il Guénon non ha visto la situazione in termini così pessimistici a causa di due equivoci. Il primo deriva dal suo considerare l’iniziazione nel solo senso integrale e attuale dianzi accennato, e dall’introdurre il concetto di una “iniziazione virtuale” che può aver luogo senza alcun effetto percepibile per la coscienza, restando concretamente così inoperante quanto – per prendere anche qui un parallelo dal mondo della religione cattolica – lo è nella quasi totalità dei casi la qualità sovrannaturale di “figlio di Dio” che il rito del battesimo indurrebbe perfino in un neonato deficiente. Il secondo equivoco del Guénon deriva dal supporre che la trasmissione dell’anzidetta forza sia reale anche nel caso di organizzazioni che ebbero già un autentico carattere iniziatico, ma che da tempo sono entrate in una fase di estrema degenerescenza, tanto da esservi ragione di supporre che da esse il potere spirituale che originariamente ne costituiva il centro si sia ritirato, non lasciando, dietro la facciata, che una specie di cadavere psichico. In entrambi i punti, noi non possiamo seguire il Guénon; pensiamo dunque che oggi il terzo dei casi elencati sia perfino più improbabile degli altri due. Riferendoci ora all’uomo che a noi interessa, se nel suo orizzonte mentale deve anche figurare l’idea di una “iniziazione”, egli, dopo aver chiaramente riconosciuto la distanza esistente tra essa e il clima del neo-spiritualismo, non deve crearsi nemmeno lui delle illusioni. Come praticamente possibile, egli di massima deve concepire solo un orientamento fondamentale nei termini di una preparazione per la quale egli troverà in sé una predisposizione naturale. Ma la realizzazione deve essere lasciata nell’indeterminato, e sarà bene far entrare anche in questione la visione post-nichilistica della vita a suo tempo delineata, che fa escludere ogni punto di riferimento tale da provocare uno scarto, uno discentramento – anche se la flessione, come in questo caso, fosse quella che si lega all’attesa impaziente del momento in cui finalmente avverrà l’apertura. Così può valere, a questo riguardo, il detto già citato dello Zen: “Chi cerca la Via, si mette fuori della Via”. Una visione realistica della situazione e la misura di sé stessi fanno dunque vedere oggi come unico compito serio ed essenziale il dare un sempre maggior risalto alla dimensione, più o meno coperta, della trascendenza in sé. Degli studi sul sapere tradizionale e la conoscenza delle dottrine potranno essere dei coadiuvanti, ma l’effetto utile sarà raggiunto solo quando ne risulti un mutamento basale della vita di sé stessi come persona: quella forza, che nei più è legata al mondo, che è semplice volontà di vivere. Si potrebbe paragonare questo effetto all’induzione della qualità magnetica in un pezzo di ferro, induzione che è anche quella di una forza imprimetegli una direzione. Allora si potrà anche spostare sempre di nuovo e quanto si vuole il pezzo di ferro, sospeso, ma dopo oscillazioni più o meno ampie e prolungate esso tornerà a dirigersi verso il polo.

Quando l’orientamento verso la trascendenza non ha soltanto un carattere mentale o emozionale, ma giunge a compenetrare l’essere della persona, l’opera più essenziale è compiuta, il seme è penetrato nel terreno e il resto, in un certo modo, è secondario e consequenziale. Tutte le esperienze e le azioni che vivendo nel mondo e, anzi, vivendo in un’epoca come l’attuale, possono anche avere il carattere di una diversione e legarsi a varie contingenze, avranno allora la stessa portata irrilevante di quegli spostamenti, dopo i quali l’ago calamitato riprenderà la sua direzione. Ciò che in più potrà essere eventualmente realizzato, come si è detto, va lasciato alle circostanze e ad una sapienza invisibile. Del resto, a tale riguardo gli orizzonti non debbono esaurirsi in quelli propri all’esistenza individuale finita che l’uomo differenziato si trova a vivere qui e ora. Così, lasciando da parte le mète lontane e troppo pretenziose di una iniziazione assoluta e attuale intesa in termini metafisici, lo stesso uomo differenziato deve tenersi contento se potrà giungere realmente a produrre questa modificazione che, peraltro, si presenta come una integrazione naturale degli effetti parziali dei comportamenti che per lui sono stati definiti nelle precedenti pagine, in relazione a tanti diversi domini.

Note (1) Noi abbiamo dedicato varie opere alla esposizione degli insegnamenti di cui si tratta, nelle forme originali e autentiche. Le principali sono: La tradizione ermetica, La dottrina del risveglio, Il mistero del Graal, Lo Yoga della potenza, Il libro del Principio e della sua azione. In più, un libro in cui le principali correnti (neospiritualiste) sono state sottoposte ad una breve analisi critica e discriminatrice, seguendo lo stesso ordine di idee formulato in queste pagine: Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo.

* * *

Tratto da Julius Evola, Cavalcare la tigre.


La seconda religiosità | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/secondareligiosita.html)

Majorana
24-08-10, 09:13
La realtà della palingenesi

Prima di passare a trattar partitamente dell’«Arte Regia», è opportuno fissare nei termini più netti il suo carattere di realtà.

Sarebbe assai lontano dal comprendere l’essenza di quest’Arte colui che, sulla base dell’analogia con espressioni mistiche e religiose, quali «morte e resurrezione», «rinascita», «mortificazione», ecc., venisse all’idea, che il tutto si riduca a qualcosa di «morale», di vagamente spiritualistico e, appunto, di «mistico». È ad un simile piano, difatti, che quasi tutti sono subito portati a pensare da termini del genere. Senonché noi, al principio, abbiamo già rilevato che il fatto stesso dell’ininterrotto, impenetrabile travestirsi della dottrina ermetica in un periodo in cui parlar di palingenesi in quel senso «mistico» non costituiva una eresia, indica che in realtà si trattava di cosa diversa: di cosa, per la quale si imponeva quella legge del silenzio, che già era stata rigorosamente osservata dai Misteri pagani.

Aver indicato la derivazione della tradizione ermetica da una vena «regale» e «eroica» di quella primordiale è, sì, un punto per comprendere l’occultamento nel periodo del cristianesimo dominante. Ma esso non è il solo. Ve ne è un altro, cui si potrebbe riferire la massima, che «il Saggio con la sua sapienza non deve turbare la mente di coloro che non sanno»: massima, che doveva valere in modo tanto più rigoroso in un periodo in cui il numero di «coloro che non sanno» era quasi divenuto quello della totalità.

Per spiegarci, occorre rifarsi ad un insegnamento tradizionale fondamentale, del resto già accennato: a quello concernente le due nature.

Vi è la natura degli immortali e vi è la natura dei mortali; vi è la regione superiore di «coloro-che-sono» e vi è la regione inferiore del «divenire». L’idea, che i due rami in origine possano esser stati una sola cosa — come secondo il detto esiodeo, che «una è la schiatta degli uomini, una quella degli Dei, entrambe scaturite da una stessa madre» — e che la dualità sia sorta da un precipitar degli uni, da un ascender degli altri — come secondo la concezione ermetico-eraclitea del dio quale «uomo immortale» e dell’uomo quale «dio mortale» — una tale idea non escludeva che la differenziazione esistesse di fatto, e che due fossero dunque le nature.

Julius Evola, La Tradizione Ermetica Il passaggio dall’una all’altra era considerato possibile — ma a titolo eccezionale e sotto la condizione di una trasformazione essenziale effettiva, positiva, da un modo di essere ad un altro modo di essere. Siffatta trasformazione era conseguita a mezzo dell’iniziazione nel senso più stretto del termine. Attraverso l’iniziazione alcuni uomini sfuggivano all’una natura e conquistavano l’altra, cessando così di essere uomini. Il loro apparire nell’altra forma di esistenza costituiva, nell’ordine di quest’ultima, un avvenimento rigorosamente equivalente a quello della generazione e della nascita fisica. Essi dunque ri-nascevano, erano ri-generati. Come la nascita fisica implica la perdita della coscienza dello stato superiore, cosi la morte implica quella della coscienza dello stato inferiore. Pertanto, nella misura in cui si è perduta ogni coscienza dello stato superiore — cioè, nei termini a noi ormai noti, nella misura in cui è avvenuta l’«identificazione» (l’immedesimazione) — in quella stessa misura la perdita della coscienza dello stato inferiore (quella umana), provocata dalla morte e dal disfarsi del sostegno di tale coscienza (il corpo), equivarrà alla perdita di ogni coscienza in senso personale. Al sonno eterno, all’esistenza larvale nell’Ade, alla dissoluzione pensata come destino di tutti coloro per i quali le forme di questa vita umana costituirono il principio e la fine — non scamperebbero dunque che quelli che già in vita abbiano saputo orientare la loro coscienza verso il mondo superiore. Gli Iniziati, gli Adepti stanno al limite di tale via. Conseguito il «ricordo», l’anamnesis, secondo le espressioni di Plutarco essi divengono liberi, vanno senza vincoli, coronati celebrano i «misteri» e vedono sulla terra la folla di coloro che non sono iniziati e che non sono «puri», schiacciarsi e spingersi nel fango e nelle tenebre (1).

A dir vero, l’insegnamento tradizionale circa il post-mortem ha sempre sottolineato la differenza esistente fra sopravvivenza ed immortalità. Possono esser concepite varie modalità, più o meno contingenti, di sopravvivenza per questo o quel principio o complesso dell’essere umano. Ma ciò non ha a che fare con l’immortalità, la quale può essere solo pensata come «immortalità olimpica», come un «divenir dèi». Tale concezione permase in Occidente fino all’antichità ellenica. Dalla dottrina appunto delle «due nature» procedeva la conoscenza del destino di una morte, o di una precaria, larvale sopravvivenza per gli uni, di una immortalità condizionata (condizionata dall’iniziazione) per gli altri. Fu la volgarizzazione e l’abusiva generalizzazione della verità valida esclusivamente per gli iniziati — volgarizzazione che prese inizio in alcune forme degeneri dell’orfismo ed ebbe poi ampio sviluppo col cristianesimo — a dar nascita alla strana idea dell’«immortalità dell’anima», estesa a qualsiasi anima e sottratta ad ogni condizione. Da allora sino ad oggi, l’illusione continua nelle varie forme del pensiero religioso e «spiritualistico»: l’anima di un mortale è immortale — l’immortalità è una certezza, non una possibilità problematica (2).

Stabilito cosi l’equivoco, pervertita in tal senso la verità, l’iniziazione non poteva più apparire necessaria: il suo valore di operazione reale ed effettiva non poteva più esser compreso. Ogni possibilità veramente trascendente fu a poco a poco obliata. E quando si continuò a parlar di «rinascita», il tutto di massima si esaurì in un fatto di sentimento, in un significato morale e religioso, in uno stato più o meno indeterminato e «mistico». Far capire, in secoli dominati da questo errore, che qualcosa d’altro è possibile; che ciò che gli uni tenevano per un sicuro possesso e gli altri per una gratuita speranza è un privilegio, legato ad un’Arte segreta e sacra; far capire che, come nel mondo dei determinismi della materia e dell’energia, così pure nelle operazioni di quest’Arte la morale, la fede, la devozione e il resto sono elementi inefficaci rispetto alla caducità umana [«agli dèi bisogna farsi simili, non già agli uomini da bene: non l'esser esenti dal peccato, ma l'essere un dio «è il fine» — aveva già detto Plotino (3)]; dichiarar dunque la relatività di tutto ciò che è religione, speculazione e morale umana per additare il punto di vista della realtà nella sua trascendenza rispetto ad ogni costruzione mortale (4); parlar di Dio come di un simbolo per l’altro stato di coscienza; dell’attesa del Messia come della melior spes nutrita da chi tentava l’iniziazione; della «resurrezione della carne» come di un altro simbolo per una rigenerazione nei principi stessi dell’organismo, la quale può compiersi già in vita — darsi a tentativi di questo genere, sarebbe stato ormai vano. E come sarebbe stato possibile evitare il più triste degli equivoci usando le stesse parole, gli stessi simboli primordiali? Molto meglio parlar dunque di Mercurio e di Solfo, di metalli, di cose sconcertanti e di operazioni impossibili, ottime per attrarre l’avidità e la curiosità di quei «soffiatori» e di quei «bruciatori di carbone» dai quali doveva nascere la chimica moderna, e per non lasciar sospettare agli altri, nelle rare ed enigmatiche allusioni, che si trattasse, nell’essenza, di un simbolismo metallurgico per cose dello spirito, per far credere invece (come ancor oggi gli spiriti positivi che fanno la storia della scienza lo credono) che si trattasse di un allegorismo mistico per cose metallurgiche e per opere di una scienza da dirsi naturale e profana di fronte al dominio sovrannaturale della fede e del dogma.

Per conto nostro, su tale base giungiamo a comprendere l’opportunità dell’occultamento, anzi sino al punto di deplorare che esso non sia poi stato tale, da render impossibili, al giorno d’oggi, certe interpretazioni «spiritualistiche» dell’alchimia, le quali, non sottraendola all’incomprensione inoffensiva degli storici della scienza che per portarla sul piano mistico-moralistico e persino psicanalitico (5), fanno davvero peggio di chi non togliesse dalla padella che per gittar nella brace.

Invece è colui che sia stato portato positivisticamente a ritenere che ogni facoltà psichica e spirituale è condizionata e determinata da fattori empirici (organici, di eredità, d’ambiente, ecc.) e che dal nichilismo nietzschiano sia stato condotto al senso della relatività di tutti i valori e alla grande rinuncia, alla «rinuncia a credere» — è forse una tale persona quella che oggi si trova nella disposizione più favorevole per poter comprendere l’effettiva portata del compito ermetico e iniziatico.

Julius Evola, The Hermetic Tradition Qui la «rinascita» non è dunque un sentimento o una allegoria, ma un fatto preciso, che non può esser compreso da chi non sia passato attraverso il Mistero. Il suo senso vero, se mai — come lo nota giustamente il Macchioro — lo si può adombrare abbandonando le concezioni spiritualistico-religiose e venendo a quanto è ancora presente, al titolo di residui degenerescenti di un insegnamento superiore primordiale, nei popoli primitivi. «In essi — scrive il Macchioro — la palingenesi non «è allegoria, ma realtà, ed è tanto reale, che spesso essa è ritenuta fatto fisico e materiale. Il Mistero non ha lo scopo di insegnare, ma rinnova l’individuo. Non vi è nessuna ragione che giustifichi od imponga questo rinnovamento: la palingenesi occorre, ecco tutto» (7). E come se le condizioni necessarie per il prodursi di un fenomeno fisico sono presenti, questo fenomeno avviene in modo certo; cosi pure se le condizioni necessarie per il prodursi dell’iniziazione sono presenti, la rinascita avviene, in modo altrettanto certo e altrettanto indipendente da ogni merito. È cosi che ad Eleusi si poteva coerentemente sostenere che un bandito, se iniziato, partecipa all’immortalità, mentre un Agesilao e un Epaminonda, se non iniziati, non avrebbero avuto dopo la morte un destino migliore di quello di un qualsiasi altro mortale. Se già a quel tempo un Diogene poteva trar scandalo da siffatta veduta, oggi naturalmente saranno assai di più coloro che possono imitarlo. Chi invece, avendo abbandonato la concezione irrealistica circa ciò che non è corporale, si sia fatto capace di considerare anche lo spirito come una forza oggettiva — forza agente, reagente, necessitante, determinata e determinante — non troverà la cosa più contro natura, di quel che non sia il fatto, che se un bandito, Epaminonda e Agesilao fossero oggi messi in contatto con un circuito ad alta tensione, la corrente non risparmierebbe di certo Epaminonda e Agesilao per la loro «virtù», fulminando invece il bandito per le sue colpe.

È proprio dunque all’Arte ermetica, come ad ogni altra forma di metodo iniziatico, orientale o occidentale, distaccar l’individuo dai valori «umani» per porgli invece il problema dello spirito in termini di realtà. Ma l’individuo si trova allora di fronte al proprio corpo, nodo fondamentale di tutte le condizioni del suo stato. La considerazione del rapporto fra il principio-io, nella doppia forma di conoscenza e di azione, e la corporeità (del senso completo di questo termine), e la trasformazione di siffatto rapporto a mezzo di operazioni o atti ben determinati, efficaci e necessitanti, per quanto essenzialmente interiori, costituisce l’essenza dell’Arte Regia dei Maestri ermetici. La quale si intenderà per primo a conquistare il principio dell’immortalità, poi a trasporre nella natura stabile, non più caduca, gli elementi e le funzioni su cui si basava l’apparizione umana nella regione del divenire. Flamel dice: «La nostra Opera è la conversione e il cangiamento di un essere in un altro essere, come di una cosa in un’altra cosa, della debolezza in forza… della corporeità in spiritualità» (8). Ed Ermete: «Converti e cambia le nature, e troverai ciò che cerchi» (9).

Note

1 In Stobeo, Flor., IV, 107. Secondo il Corpus Hermeticum (XXII, 3) l’uomo ha la speranza dell’immortalità; è detto che non tutte le anime umane sono immortali, ma solo quelle che divengono dei «dèmoni» (X, 7, 19). Ciò che decide, è il loro grado di identificazione ad essi. Pitagora avrebbe ammesso che «l’anima in certi casi può divenire mortale, quando si lascia dominare dalle Erinni, cioè dalle passioni, e ridivenire immortale una volta sfuggita alle Erinni, che son sempre le passioni» (apud Ippolito, Philos., VI, 26).

2 Circa il cristianesimo, nelle origini esso presentò un aspetto di dottrina tragica della salvazione che in una certa misura conserva l’eco dell’antica verità: è l’idea — esasperatasi poi con Lutero e Calvino — che l’uomo terreno si trova al bivio fra etema salvazione e eterna perdizione.

3 Enneadi, I, ii, 7; I, ii, 6.

4 Nei riguardi delle discipline profane così si esprime un testo alchemico arabo: «Chi conosce questa [nostra] Scienza, per poco che sia, meritando di essere uno dei suoi adepti, è superiore agli spiriti che più si sono distinti in tutte le altre scienze. Infatti ogni uomo istruito in una scienza qualunque, e che non ha consacrato una parte del suo tempo allo studio di uno dei principi dell’Opera, in teoria o in pratica, possiede una cultura intellettuale assolutamente inferiore. Tutto ciò che può fare è allinear parole, combinar frasi o concrezioni della sua imaginazione, e ricercar cose che non hanno esistenza propria, e che tuttavia egli crede esistere al di fuori di lui» (Trattato sul Mercurio Occidentale, CMA, III, 214). Lo stesso Aristotele, sebbene considerato come «il più brillante degli esseri non luminosi», non avrebbe nulla a che fare con gli esseri che hanno conseguito lo stato incorporeo (CMA, Testi siriaci, II, 264). E nel Corp. Herm., XVI, 2: «I Greci, o Rè, hannoforme nuove di linguaggio per produrre delle prove e la loro filosofia è un rumore di parole. Noi invece non usiamo parole, ma la gran voce «delle cose».

5 È quel che ha fatto in modo sistematico lo psicanalista C.G. Jung nella sua opera Psicologia e Alchimia, a base di « inconscio » di «proiezioni dell’inconscio», e simili.

6 V. Macchioro, Eraclito, Bari, 1922, pp. 119-120.

7 Ibid.

8 N. Flamel, Dés. désiré.

9 Ibid.

Il presente scritto costituisce l’introduzione alla Parte Seconda del libro di Julius Evola La tradizione ermetica nei suoi simboli, nella sua dottrina e nella sua “Arte regia”, Edizioni Mediterranee(4), Roma 1996.
Tratto dalla newsletter “BFT” – Bollettino_FT : Bollettino FT (http://groups.yahoo.com/group/Bollettino_FT)


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Majorana
24-08-10, 09:14
Le “Napolas”

Crediamo interessante dare un ragguaglio circa alcune nuove iniziative germaniche, intese ad assumere in una particolare forma politica quei compiti di educazione “qualitativa”, che nell’epoca precedente venivano essenzialmente affidati ad alcuni istituti privati. E cominceremo con un cenno circa la cosiddette “Napolas”.

Napolas è l´abbreviazione di National politische Erziehungsanstalten, cioè, traducendo, di “Istituti di educazione nazional-politica”. Esse hanno avuto la seguente origine. In seguito al trattato di Versaglia la Germania era stata costretta ad abolire alcune scuole di allievi ufficiali; dal Governo tedesco dell´immediato dopoguerra esse furono allora trasformate nelle cosiddette Staatliche Bildungsanstalten, cioè in istituti educativi statali destinati ad accogliere dei giovani bisognosi, ovvero trascurati delle famiglie. Erano, queste, scuole medie pareggiate, ove l´educazione seguiva dei criteri prevalentemente liberalistici e apolitici, completandosi con un addestramento sportivo abbastanza sviluppato.

Patricia Chiantera Stutte, Julius Evola. Dal dadaismo alla rivoluzione conservatrice (1919-1940) Una volta venuto al potere il nazionalsocialismo, questi istituti vennero di nuovo trasformati e dettero appunto luogo alle Napolas. Le Napolas, controllate dal nuovo Stato, hanno finalità strettamente politico-selettive. Esse intendono accogliere giovani particolarmente dotati e sviluppare in essi le qualità che possono renderli atti ad esercitare funzioni direttive, non necessariamente nell’Esercito o nel Partito, ma in qualsiasi dominio della vita. Così concetto totalitario e con particolare riguardo a che il rafforzamento delle qualità virili si accompagni ad una sensibilità “sociale”, ad una abitudine a considerare la propria azione in relazione ad una comunità.

Sono anzi caratteristiche le dichiarazioni che ebbe personalmente a farci – durante una nostra visita – uno degli ispettori generali di tali istituti. Egli ha sottolineato il distacco che deve esistere fra l´educazione familiare privata e quella politica. Ha contestato che l’educazione politica possa considerarsi come un ulteriore sviluppo di quella stessa, “naturalistica”, che il giovane può ricevere nell´ambito della famiglia. Si tratta invece di una fase distinta che ha altri presupposti e segue altri principi, essenzialmente quello della soldatische Gemeinschaft, della comunità e della solidarietà che può esistere fra un gruppo guerriero. In tal senso vogliono eminentemente agire le Napolas: non come copie, o continuazioni della famiglia. È ad un ordine diverso e più vasto che il giovane deve sentire di appartenere ordine che ha una legge e una morale sua propria.

Julius Evola, Fascismo e Terzo Reich Mentre l´ammissione alle Staatliche Bildungsanstalten, cioè alle precedenti forme liberalistiche degli istituti in questione, era libera, dipendeva solo dal desiderio degli allievi, nelle Napolas vengono invece accolti solo quei giovani che siano stati segnalati nelle scuole inferiori e dai capi delle organizzazioni giovanili del Partito per le loro particolari e privilegiate disposizioni. L´ammissione può avvenire o ai 10, o ai 14 anni, e il corso completo nell’un caso dura otto anni, nel secondo sei.

Non vi è retta fissa da corrispondere per l´ammissione a queste scuole-collegio. Vi è una offerta libera, secondo le possibilità della famiglia del giovane riconosciuto degno di essere ammesso. Non vi è possibilità di ripetere una classe. Se nello studio o in un altro ramo dell´educazione il giovane si dimostra insufficiente, egli viene senz’altro licenziato.

Anche nelle Napolas, nei riguardi delladdestramento fisico e della fortificazione del carattere, vi sono quelle “prove di coraggio”, cui già si è fatto cenno parlando di istituti simili in Germania. Ad esempio, anche dai più piccoli allievi, di quelli sui 10 anni, si chiede di gettarsi in acqua da una certa altezza, anche se non sanno nuotare, ai più grandi p. es. di montare un cavallo vivace senza sella; si osserva attentamente il loro comportamento in “prove di combattimento” e così via. Questo, per il lato individuale. Circa il singolo nei riguardi del gruppo, si guarda particolarmente sia alle doti di camerateria, sia alle capacità di comando sui compagni e al relativo senso di responsabilità. Per facilitare lo sviluppo di tali doti, nelle Napolas ha un largo margine il principio dell’autodisciplina, cioè dell´ordine affidato ai giovani stessi, cui si dà, secondo le qualità, un potere su un certo gruppo di compagni.

Gordon Williamson, Storia illustrata delle SS strumento del terrore di Hitler Anche in base a queste doti si giudica se il giovane è degno o no di restare negli istituti in parola. La conferma dell´ammissione avviene, di principio, dopo un anno di prova. Ma la prova si sviluppa successivamente e il giovane deve sapere che può essere sempre rinviato qualora non si dimostri all´altezza degli ideali delle Napolas.

Quanto all’insegnamento tecnico, esso non vuol esser da meno di quello che si impartisce nelle altre scuole. In conformità all´idea di un´educazione totalitaria, non si trascura nemmeno l´elemento estetico, l´insegnamento non solo del disegno e della pittura ad impressione, ma anche del canto che ha, qui, un non indifferente posto. Vige poi il principio di affidare gli allievi ad insegnanti giovani, tali che, per prestanza fisica, possano anche essere i loro maestri o competitori o capi nel campo sportivo e nelle esercitazioni tattiche d´insieme, che ha luogo periodicamente e, una volta per anno, col concorso degli allievi di tutte le venti scuole circa che esistono nel Reich.

In fatto di educazione politica viene adottato il cosiddetto metodo “casistico”. Si evita la esposizione di concetti astratti, bensì si espongono ai giovani dei casi concreti e si esamina il giudizio che essi sono tenuti a dare. Si tende, così, a far agire e raffinare più una data sensibilità che ad inculcare schemi generici di idee politiche o sociali.

Julius Evola, Oriente e Occidente Una iniziativa singolare e audace delle Napolas sta nell’inviare gli allievi a far vita comune, i più giovani con famiglie di contadini, i più anziani con famiglie di operai industriali, per un periodo dalle sei alle otto settimane. In tale periodo il giovane viene assunto da quelle famiglie come un lavoratore salariato, vive con esse, col suo salario deve mantenersi, essendogli proibito di ricevere danaro, o pacchi dalle famiglie. In una tale vita comune il giovane deve poter affinare il suo sentimento sociale e rendersi direttamente conto dei problemi dell’esistenza. Egli deve giungere perfino a servir di esempio, con la sua condotta, alle famiglie e ai lavoratori fra cui si trova, non deve trascurare di illuminarli su problemi politici e su quanto egli ha imparato ha sentire in modo vivente delle idee del nazionalsocialismo.

Tutto ciò avviene mediante un accordo delle Napolas con l’Arbeitsfront, cioè col cosiddetto “Fronte del Lavoro tedesco”, organizzazione del Partito che controlla il lavoro nazionale e in questo caso pensa di distribuire i singoli allievi in ambienti adatti per questo nuovo tirocinio. Negli ultimi anni dell’istituto vengono organizzati viaggi di istruzione all’estero.

Julius Evola, L'arco e la clava A corso compiuto, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, il giovane non riceve nessun titolo di studio speciale, o privilegiato. Si trova ciò nelle identiche condizioni di chi avesse invece frequentato una scuola comune, non ha la sua via agevolata in un qualche modo. E’ che si pensa che il giovane deve poter far fruttare da sé, nella lotta per la vita, le superiori qualità che questa speciale e complessa e rigorosa educazione d’élite ha saggiate, confermate e sviluppate. Da sé queste qualità debbono sapersi imporre, virilmente e realisticamente, per via della loro stessa natura, senza il minimo favoreggiamento, e condurre il giovane al posto di comando al quale esse, in via di principio, lo rendono degno.

Non è senza importanza rilevare il fatto che, i principali elementi che presiedono alla formazione dei giovani nelle Napolas e che le controllano sono forniti dalle SS (abbreviazione di Schutz-Staffeln), cioè da quel corpo “nero” germanico, che ha l´ambizione di essere una guardia e quasi un Ordine – nell’antico senso di organizzazione ascetico-guerriera – della rivoluzione nazionalsocialista.

* * *

Tratto da Il Regime Fascista del 27 maggio 1941.


Le 'Napolas' | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/napolas.html)

Majorana
24-08-10, 09:16
Lettera a Ernst Jünger


Stimato Signore,

Il mio nome dovrebbe esserLe noto, perché per il tramite del dr. Mohler ho ricevuto un esemplare di Heliopolis con dedica e anche perché nel Reich noi abbiamo avuto molte conoscenze in comune – p. es. il prof. C. Schmitt e il barone Von Gleichen.

Da tempo seguo la Sua attività con particolare interesse e ho avuto spesso l’occasione di fare riferimento alle Sue opere. Tra queste, mi sono propriamente vicine quelle del primo periodo, diciamo fino alle Scogliere di marmo. Ed è a tale proposito che mi permetto di rivolgermi a Lei. Spero di poter far fare una traduzione italiana di Der Arbeiter. Data l’analogia del primo dopoguerra con il secondo, la problematica prospettata in quel libro è a mio avviso nuovamente attuale; d’altronde le soluzioni che nel frattempo si era sperato di trovare nel Reich e in Italia erano per lo più soltanto soluzioni fittizie, surrogati e manifestazioni effimere. Inoltre spero che il libro possa ancor oggi esercitare un effetto “di risveglio”.

Ernst Jünger, Heliopolis Ora abbiamo da lottare con un ostacolo, perché io non posseggo il libro suddetto ed è molto difficile da reperire. Il dr. Mohler mi ha addirittura scritto che anche presso di Lei ne è disponibile soltanto un esemplare di archivio. Forse però Le sarà possibile trovare qualcuno, nell’ambito delle Sue conoscenze, che possa o vendere il libro o semplicemente prestarlo per il periodo dell’analisi e della relativa traduzione, sotto formale e personale assicurazione della restituzione di esso.

Inoltre: a chi ci si dovrebbe rivolgere per i diritti della traduzione?

La prego di scusare questo approccio: mi ci sono trovato costretto a causa del continuo rinvio della circostanza in cui avrei avuto l’onore di prender contatto con Lei personalmente.

Julius Evola, L'Operaio nel pensiero di Ernst Juenger Con particolare considerazione,

Suo devoto

J. Evola

J. Evola

Corso Vittorio Emanuele 197

Roma


Lettera a Ernst Jünger | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/letteraevolajuenger.html)

Majorana
24-08-10, 09:18
Considerazioni sull’uomo obliquo

Nel precedente periodo avemmo a formulare una teoria delle “razze dello spirito”, che s’intendeva ad individuare tipi e atteggiamenti fondamentali dell’essere umano. Per il che ci riferimmo anche ad antiche tradizioni, le quali misero determinati caratteri in relazione simbolica con pianeti, divinità ed elementi: così noi parlammo delle razze dell’uomo solare, dell’uomo tellurico, lunare, afroditico, dionisiaco e via dicendo.

Se oggi dovessimo riprendere tale ordine di studi ci accorgeremmo di aver dimenticato un tipo speciale, attualmente diffuso quanto mai, tipo che potremmo chiamare dell’uomo mercuriale o, più intelligentemente, razza dell’uomo sfuggente (è la stessa cosa perché il “mercurio” andrebbe preso come simbolo di una natura labile, inafferrabile, sfuggente).

Quale azione corrosiva gli avvenimenti degli ultimi anni – fine guerra e dopoguerra – abbiano esercitato sull’animo umano, è cosa abbastanza nota e, purtroppo, da noi in Italia perfino più visibile che altrove. Ma, in questo dominio, si può andar ancor oltre. Si potrebbero individuare vere e proprie variazioni psicopatologiche del tipo umano del periodo attuale, variazioni generali ed uniformi, riscontrabili un po’ dappertutto fra i popoli europei e altresì in America U. S., tanto da potersi quasi parlare di una nuova razza: appunto di quella dell’uomo sfuggente.

Per cominciare, a caratterizzare in genere il nuovo tipo del dopoguerra basta una “anestesia morale”. La preoccupazione di “non perdere la faccia”, il senso elementare di rispetto verso se stessi son quasi scomparsi. Precisando, non è che in precedenza si potesse riconoscere in ciascuno un “carattere”. Ma anche in coloro che non lo avevano, sussisteva il sentimento di quel che essi avrebbero dovuto essere e che un tipo umano normale, in genere, è. Ebbene, proprio questo, in un gran numero di persone, ormai manca: esse sono di fatto labili, oblique, informi, sfuggenti. Non hanno più una misura per se stesse. La loro sensibilità morale è appunto “anestetizzata”.

Anzi, rispetto a dei principi ad una esigenza di coerenza, di linea, essi manifestano spesso una insofferenza quasi isterica.

Julius Evola, Gli uomini e le rovine Peraltro, l’accennata inconsistenza non riguarda quei problemi in senso superiore, che non si presentano ad ogni momento della vita. Essa è caratteristica fin nelle piccole cose della esistenza ordinaria. Si tratta, ad esempio, della incapacità di mantenere un impegno, la parola data, la direzione presa, un dato proposito (scrivere, telefonare, rispondere, occuparsi di una certa cosa). Rispetto a tutto ciò che lega, che implica qualcosa di impegnativo di fronte a se stessi, il tipo in questione è insofferente. Cioè: dice, ma non fa, o fa un’altra cosa, sfugge – e il comportarsi così gli sembra naturale, ineccepibile. Si meraviglia perfino, quando qualcuno da ciò si sente urtato e glielo rinfacci.

La generalità di una tale attitudine è preoccupante. Nei tempi ultimi essa ha fatto presa in strati sociali, nei quali fino ad ieri predominava una linea abbastanza diversa: come fra l’aristocrazia e l’artigianato. Lo sfuggire, il promettere senza mantenere, la non puntualità, l’evasione anche in cose piccole e stupide, si riscontrano anche qui, frequentissime. E vale notare un punto importante: non è che si sia così deliberatamente, ad esempio, per seguire senza scrupoli il proprio tornaconto. No, si è così in via spontanea, talvolta perfino a proprio danno, per un vero cedimento interiore. È per tal via che molti che ieri ci si illudeva di conoscere a fondo, e che ci erano amici, oggi non si riconoscono quasi più. È, si potrebbe dire, un fatto “esistenziale” più forte di loro, tanto che spesso essi non se ne rendono nemmeno conto.

Il fenomeno potrebbe esser seguito anche nelle sue ripercussioni in sede di struttura psichica. L’uomo della “razza sfuggente” accusa infatti una vera e propria alterazione psicologica. Nel riguardo, potrebbero essere utilizzate le considerazioni fatte dal Weininger circa il nesso esistente fra eticità, logica e memoria. In un tipo normale, le tre cose sono unite insieme, perché il carattere esprime quella stessa coerenza interna, che si manifesta altresì nel rigore logico e in quella unità di vita, che permette di ricordarsi, di mantenersi in una mèmore, cosciente connessione col proprio passato. Secondo il Weininger, proprio questa unità delle facoltà caratterizza la psicologia maschile di fronte a quella femminile, la quale di massima è invece fluida, poco logica, incoordinata, fatta di impulsi più che di rigore logico ed etico.

Ebbene a tale riguardo “l’uomo della razza sfuggente” appare più donna che uomo. Ulteriori suoi tratti caratteristici psicologici, che fanno da controparte all’accennata “anestesia morale”, sono la menomazione della memoria, la facilità di dimenticarsi, la difficoltà di concentrarsi, spesso perfino di seguire un ragionamento serrato e stringente, la distrazione,il pensare a balzi. Sono visibilmente, gli effetti di una parziale disgregazione che, dal piano dei principii e del carattere, son passati a ripercuotersi perfino in quello delle facoltà in se stesse.

Da un lato, il fenomeno di collasso che suole seguire ad una prolungata tensione (quella imposta in molti dalla guerra), dall’altro, il crollo dei valori e degli ideali a cui fino a ieri si credette, son forse questi due fattori che oltre a quelli generali di ogni dopoguerra, han propiziato la formazione del tipo umano sfuggente. Il fenomeno, purtroppo, è reale, ed ognuno, guardando intorno a se, può convincersene. La constatazione non è certo edificante. I tempi che si stanno preparando non sono proprio tali che dei popoli, nei quali una simile incrinatura, ha saputo diffondersi ed assumere tratti quasi costituzionali, possono essere all’altezza di essi. Speriamo che qualche energico processo reintegratore e profilattico intervenga prima che sia troppo tardi.

* * *

Tratto da “Rivolta ideale” del 29 Maggio 1952.


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Majorana
24-08-10, 09:19
Religione e sesso

In ogni grande religione si possono distinguere due parti. La prima, che si può chiamare mistica o eterna, è rivolta verso l’alto, mira a stabilire un certo rapporto fra l’uomo e il modo spirituale, trascendente. La seconda parte la si può chiamare “sociale” o morale, e consiste in un complesso di norme per la condotta di vita. Mentre la prima parte è quella essenziale e forma il nucleo imperituro di ogni religione, la seconda è, in un certo modo accidentale e mutevole, perché risente sia delle diversità dei popoli e delle società, sia delle contingenze storiche.

Fare questa distinzione è importante, per orientamento generale, e altresì nell’interesse della stessa tradizione religiosa. Infatti essa impedisce che nei momenti di crisi, quando la critica mostra la relatività e la mutevolezza di certe norme e di certi precetti a cui era stata già attribuita l’assolutezza di una legge divina, tale critica vada a colpire anche la parte superiore, veramente rivolta verso l’alto, di una religione.

Julius Evola, Metafisica del sesso Questa premessa è necessaria per il problema al quale qui vogliamo dedicare qualche breve considerazione, cioè a quello della concezione del sesso propria alla religione venuta a predominare in Occidente. Tale concezione risente di una confusione di domini, che nel cristianesimo è caratteristica e che gli sforzi dei teologi sono riusciti ad ovviare solo in parte. Si tratta di una confusione fra le norme che hanno una finalità ascetica, e che come tali si rivolgono ad una piccola minoranza di vocati, e le norme che debbono invece valere pel mondo e per la gran massa. Se noi consideriamo altre religioni – fra le quali si può considerare l’Ebraismo, l’antica religione persiana, l’Islam, il Brahamanesimo – nei riguardi del secondo dominio sono state lungi dal predicare e a condannare tutto ciò che riguarda l’ordine naturale. Poiché qui la natura veniva concepita come opera divina, la legge data a coloro che vivono nel mondo mirava alla sacralizzazione di ogni attività, di ogni impulso e di og ni istituzione, cioè ad un riferimento verso l’alto che, in un certo modo, trasfigurasse e desse uno sfondo spirituale a tutto ciò che si fa. Quel che l’apologetica cristiana dice sul “paganesimo” delle religioni non-cristiane o pre-cristiane, attribuendo loro una soggiacenza a tutto quanto è “natura”, è semplice fantasia, essendo noto ad ogni studioso di scienza delle religioni che, in quei culti, riti e norme sacre accompagnavano ogni manifestazione della vita, sia individuale che collettiva. E ciò vale anche per tutto quanto ha attinenza col sesso e con la donna.

Nel cristianesimo, specie a quest’ultimo riguardo le cose sono andate diversamente. In esso è ben visibile che si è cercato di introdurre nella vita nel mondo norme, che hanno una validità e un senso unicamente sul piano ascetico. A voler indicare degli esempi, non vi sarebbe che l’imbarazzo della scelta. Così il precetto di amare il proprio nemico, di porgere l’altra guancia a chi vi ha schiaffeggiati, di non curarsi del domani e di imitare i fiori nei campi e gli uccelli del cielo, e via dicendo, fino a quegli spunti in cui certi cattolici di oggi in vena di “aperture a sinistra” hanno voluto vedere una giustificazione cristiana del pacifismo, del socialismo, se non dello stesso comunismo. Tutte queste norme possono valere in sede di disciplina per che abbia vocazioni ascetiche e per la “santità”, non certo per chi vive nel mondo. Con esse non si ordina una società, ma, semplicemente, si rende impossibile ogni società. E, in effetti, se sono esistiti Stati cristi ani, ancora non è esisti to nessuno Stato cristiano, cioè informato praticamente e rigorosamente ai principi sovramondani della morale evangelica. Ebben, la stessa cosa vale nei riguardi del sesso. Si può condannare il sesso, e porre come ideale la continenza, dal punto di vista ascetico. Fare di ciò una norma per la vita nel mondo, è invece un assurdo. Di nuovo, vi è confusione fra due domini distinti. In vari modi i teologi si sono sforzati di attenuare quel dualismo fra mondo naturale e mondo sovrannaturale che fu caratteristico nel cristianesimo delle origini. Ma nei riguardi del sesso si è rimasti in una posizione ibrida e paralizzante: il pregiudizio moralistico nei riguardi della sessualità, anzi una specie di “odio teologico” per essa (Pareto), la stretta relazione fra sessualità e peccato è una caratteristica mai perduta nella religione venuta a predominare in Occidente, la quale la mette in contrasto con le altre religioni creazionistiche dianzi ricordate. In effetti, come accennammo, queste si int esero a sacralizzare la sessualità, non a reprimerla e a bollarla a fuoco.

Julius Evola, Lo Yoga della Potenza Spesso la funzione procreatrice fu da esse glorificata come un riflesso nell’uomo del potere creatore divino. Cosa che per ogni cristiano apparirebbe blasfema, l’Islam contempla invocazioni divine durante l’atto sessuale, l’antico Iran giunse a promettere grazie divine a che desse il massimo ardore nell’amplesso, note formule indù nell’unione dei sessi fanno intervenire simboli cosmici e sacri, e via dicendo. E ciò, a tacere di correnti, come il dionisismo, che all’estasi del sesso riconobbero possibilità mistiche. Si sa che lo stesso Platone mise il trasporto eros vicino a specie varie di entusiasmo divino, profetico e iniziatico.

Se dicessimo che di tutto ciò nel cristianesimo non si trova traccia, udremmo solo ribattere che esso conosce il matrimonio come sacramento. Ma proprio qui si vede l’ibridismo cui abbiamo accennato poco fa. Anzitutto il matrimonio come sacramento è cosa tardiva, nella tradizione cattolica. Prese questa forma solo verso il XIII secolo e fu obbligatorio come tale solo col Concilio di Trento. Ma, in più, il matrimonio è concepito dal cristianesimo come un pis aller, come un ripiego dovuto alla fragilità umana, perché come dice San Paolo, “è meglio prender moglie che ardere”. Se no, è la castità, l’astinenza, che è l’ideale: non il “Sacro connubio” ma il “casto connubio”. Che non si sa più che connubio sarebbe.

Ciò si conferma nell’idea, che l’unico fine del matrimonio sarebbe la procreazione, ossia quel di più naturalistico e di biologico presenta la sessualità: indulgere a questa per altro scopo, perfino fra coniugi, sarebbe peccato. Si vede perciò che il carattere di sacramento conferito al matrimonio non porta a nessun mutamento di piano, non dà – come nel già accennato orientamento delle antiche sacralizzazioni – dimensioni diverse, spirituali, all’esperienza sessuale presa in se stessa, la lascia tale e quale come una mera necessità della natura e ha alla fine, una portata sociale: sancisce il regime di una società trovatasi ad essere monogamica (anche qui si vede la relatività della parte puramente sociale e morale della religione, perché notoriamente l’Antico Testamento sanzionava la poligamia), cercando di rafforzarlo attraverso il principio della indissolubilità del matrimonio.

La consegna di tutto ciò è stato, nel mondo cristiano, un inselvatichimento per repressione di tutto quanto è proprio al sesso, con molta ipocrisia, finchè lo sbarramento è saltato. Così oggi si assiste ad una specie di scatenamento di tutto ciò che si lega a sesso e a donna, nel senso più primitivistico, pandemico e pericoloso. Per questo, delle revisioni dei rapporti fra spiritualità e sesso si impongono.

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Da Il Popolo Italiano, 8 settembre 1957.

Trascrizione di “Federico Barbarossa”.


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Majorana
24-08-10, 09:20
Il significato delle SS. Ordini ed élites politiche

In Italia delle “SS” germaniche si conoscono generalmente solo alcuni aspetti contingenti, che si legano alle tragiche vicende della seconda guerra mondiale e che non sono i più adatti a far penetrare il vero spirito di questa organizzazione, unica nel suo genere. Anche a prescindere dalla sinistra farsa di Norimberga, ove l’intera “SS” è stata bollata come “associazione criminale”, gli stessi simpatizzanti sanno sopra tutto delle qualità che la “SS” ha mostrato come truppa scelta di combattimento, ignorando quasi il significato politico che essa ebbe nel terzo “Reich”. Qualche cenno in proposito non sarà dunque privo di interesse, giacché con la “SS” si realizzò una esigenza, il cui significato va di là dai quadri del semplice hitlerismo.

L’origine delle “SS” risale ad un piccolo gruppo scelto (Stabswache) formatosi a protezione della persona di Hitler nel primo periodo della sua lotta. È nel 1932 che esse furono organizzate come un vero e proprio corpo, il cosiddetto “corpo nero” (Schwarzkorps) distinto dalle semplici “camicie brune” o “SA”, corpo il quale al momento della conquista del potere contava già centomila uomini. Il comando allora passò da J. Schreck a Heinrich Himmler, che ne restò il capo supremo, dipendente solo dal Führer. Per via della loro azione energica e decisiva sia contro il comunismo, sia all’interno del partito (specie nelle repressioni del 30 giugno 1934), le “SS” assunsero figura di “guardia della rivoluzione nazionalsocialista”; ad esse furon dati ampi poteri e un larghissimo margine di autonomia, il che permise ad Himmler di sviluppare un’azione sistematica selettiva e organizzativa. La sigla “SS”, come molti sanno, deriva dalle iniziali di Schutz-Staffeln, che vuol dire più o meno “staffette o squadre di protezione”. In realtà, le “SS” dovevano divenire la spina dorsale del terzo “Reich”, l’“Ordine” del nazionalsocialismo, una specie di Stato nello Stato, se non pure al di sopra dello Stato.

Julius Evola, Fascismo e Terzo Reich Lo stesso Himmler indicò nei seguenti termini lo spirito e l’origine ideale della sua organizzazione. In tutti gli antichi Stati — egli dice — è sempre esistita una élite formata da uomini pronti a dar tutto per il loro principe, a difenderlo e proteggerlo, in ciò sentendo un particolare orgoglio ed onore. Tale fu la nobiltà ereditaria, la quale, già sostegno del puro principio della sovranità politica, nell’epoca dell’illuminismo, del liberalismo e del capitalismo decadde, non fu più all’altezza dei suoi antichi compiti. Il problema oggi è di riprendere lo stesso principio e di trarne una applicazione adeguata al nuovo tipo di Stato. Occorreva dar nuovamente forma a una élite che garantisse la stabilità e la continuità del nuovo ordine rivoluzionariamente affermatosi, che ne rafforzasse le strutture, che, in base ad una incondizionata fedeltà, fosse pronta a stroncare tutto ciò che lo minacciasse o avesse carattere di deviazionismo.

Tale è la genesi ideale della “SS”. Himmler teneva molto ad ascrivere ad essa il carattere di un Ordine, con vari tratti che ricordano appunto gli antichi Ordini cavallereschi, compreso un carattere, in un certo modo, ereditario. Per venire a tanto, egli seguì i seguenti princìpi selettivi.

Anzitutto quello razziale. Si sa che per il razzismo moderno non tutti gli elementi etnici compresenti in una data nazione hanno lo stesso valore e la stessa dignità. Fra di essi, uno è quello centrale, che ha una funzione formatrice, tanto che il suo prevalere o decadere condiziona anche l’ascesa o il declino dell’intero popolo. Secondo l’ideologia tedesca, per la Germania questa “superrazza” corrisponderebbe al sangue e al tipo nordico. La prima cura degli organizzatori della “SS” fu, pertanto, che essa accogliesse uomini di origine “aria” ben certa (senza ascendenti nemmeno lontani ebraici o di razza di colore), i quali nei loro tratti somatici si avvicinassero particolarmente al puro tipo nordico.

Ciò, come criterio selettivo di primo grado. Date le mescolanze avvenute nel corso della storia di ogni popolo, è certo impossibile che il fisico corrisponda esattamente al morale; così se le qualità morali di tipo “nordico” è più probabile ritrovarle in un uomo fisicamente nordico che non in quello con tratti di altre razze, pure si impongono ulteriori considerazioni. Pertanto, gli aspiranti alla “SS” oltre ad essere in ordine quanto al tipo somatico, avevan da superare delle prove, in cui le qualità interne ascritte al sangue dell’uomo nordico fossero tenute a manifestarsi. Si trattava, per così dire, di prove di carico: l’aspirante veniva messo non di rado in situazioni speciali, nelle quali egli non poteva non mostrare quel che era il suo vero carattere.

A tale riguardo, come primo requisito da dimostrare valeva appunto la fedeltà. Lo stesso Himmler, in occasione dei fatti del 30 giugno 1934, aveva dato alla “SS” come parola d’ordine: «Uomo della SS, il tuo onore è la tua fedeltà», con evidente relazione con una massima dell’antico codice sassone: «Tutto può essere perdonato, eccetto il tradimento». La fedeltà qui viene intesa in senso lato: si tratta della fedeltà rispetto al Capo e alla causa, ma altresì rispetto alla razza e a dei princìpi fondamentali della condotta, come già fu di norma nell’antica Cavalleria. È ancora Himmler che scrisse, a tale riguardo, le seguenti parole, che poco confortano l’immagine distorta e sinistra che alcuni hanno della “SS” in genere:

«Si pecca contro la fedeltà e l’onore non solo quando si lede il proprio onore o quella di un’altra SS, ma anche e sopra tutto quando non si rispetta l’onore di altri, quando si scherniscono cose ad altri sacre, o quando non si interviene virilmente in favore di chi è assente, di chi è debole, di chi è indifeso».

Come base per la formazione dell’uomo della “SS”, dopo la fedeltà, veniva l’obbedienza, che doveva essere piena ed incondizionata, non meno che nei più severi Ordini monastici. Fu detto che quando l’ufficiale prussiano giurava sulla sua bandiera, egli non apparteneva più a sé stesso. Tale tradizione federiciana era stata ripresa dalla “SS”. In nome del Capo e della Idea, l’uomo della “SS” doveva esser pronto a tutto,

«anche a sacrificare il proprio orgoglio, gli onori esteriori, e tutto ciò che personalmente ci può essere caro e prezioso».

Doveva potersi frenare quando tutto lo avrebbe spinto ad agire, così come doveva poter agire, senza esitare, anche nei casi in cui a ciò avesse sentito i più forti ostacoli interni. Questo requisito dell’obbedienza assoluta Himmler lo considerava, fra l’altro, come un correttivo per l’accentuato senso dell’Io e della libertà come l’uomo nordico ha in proprio, e che spesso in lui ha agito in senso negativo. È chiaro tuttavia che da ciò può procedere una certa linea di inesorabilità, la quale è forse fra le cause che, in determinate circostanze obbligate, han fatto apparire l’agire della “SS” sotto una luce non del tutto favorevole.

Altre qualità richieste all’uomo della “SS” erano la leale schiettezza, il dominio di sé (specie quanto ad espressione visibile dei sentimenti e ai gesti), la capacità di attenersi inflessibilmente a ciò che si sia deciso o che si sia promesso. A tale riguardo, non si mancava eventualmente di metter alla prova l’aspirante. Ad esempio, se si sapeva che egli indulgeva all’alcool o al fumo, gli si chiedeva di rinunciare, per un tempo più o meno lungo, a tale abitudine, esigendo la sua parola d’onore. Se non la dava, era espulso; ma se, avendola data, la tradiva, «non gli restava più che la pistola», cioè che ammazzarsi (espressione testuale di Himmler).

Un altro caso. Si è accennato che la “SS” tendeva a svilupparsi come un corpo od Ordine ereditario, come un Sippenorden. Risultato di una selezione somatica e morale, si voleva che le sue qualità di élite nordica si trasmettessero in una adeguata discendenza. Da ciò derivava una ulteriore prova di carico per l’uomo della “SS”. Egli non era libero di sposare chi voleva. Egli doveva subordinare il fatto personale, sentimentale o sessuale, ad un interesse d’ordine già superindividuale, portando la propria scelta solo su donne che presentassero sufficiente garanzia per una discendenza non degenere o alterata. Per il che esisteva, nella “SS”, un apposito ufficio. Se l’uomo della “SS” non sapeva o non voleva impegnarsi in tal senso, veniva parimenti espulso.

Il periodo di prova durava in genere un anno e mezzo, essendo naturalmente compreso anche l’addestramento militare. Poi, mediante giuramento solenne e consegna del “pugnale d’onore della SS”, si veniva aggregati al corpo. Una legge del 1936 disponeva che ogni capo della “SS” garantisse, sotto la sua responsabilità:

1) che nessun aspirante fosse accettato quando mancassero i requisiti indicati, si trattasse anche di un suo figlio o parente;

2) che ogni anno un quarto dei nuovi elementi non provenisse da famiglie di “SS”.

Con la seconda disposizione si voleva prevenire il cristallizzarsi della élite in un gruppo artificialmente chiuso, che potesse lasciar cadere fuori di sé elementi qualificati. Si teneva cioè conto delle leggi studiate dal Pareto, a che una «circolazione delle élites garantisse, oltre che la continuità, la vitalità e la freschezza del nucleo centrale.

Marco Zagni, Archeologi di Himmler. Ricerche, spedizioni e misteri dell'Ahnenerbe Una curiosa definizione (dovuta all’Heydrich) della “SS” è quella di «truppa di rottura nel dominio della visione del mondo» (weltanschauliche Stosstrupp). Per il lato negativo, si trattava dell’attacco contro la visione della vita avente per espressione precipua il marxismo e il bolscevismo, «antitesi di tutti i valori dell’uomo ario e nordico»; mentre, per il lato positivo, ciò aveva riferimento a un modo di “ritorno alle origini” che fu tratto caratteristico per la “SS”. La “SS”, infatti, intese rievocare le tradizioni nordiche primordiali, precristiane, nei loro simboli, nella loro metafisica, nella loro visione della vita; e per gli studi al riguardo fu incaricata una speciale sezione culturale, detta Ahnenerbe. Tale “dimensione” fu caratteristica per la “SS”. Già la sigla con le due esse, stilizzata in un doppio segno a zig-zag, fu identificata con le cosiddette “rune della vittoria”, antico segno nordico il quale, con allusione alla folgore, aveva simboleggiato un potere magico, una forza dall’alto. E questo fu appunto il ben noto segno portato dagli stendardi e dalle uniformi del “corpo nero”. Invero, l’interesse che nelle alte gerarchie della “SS” (a partire da Himmler) si ebbe per il mondo dei simboli e delle tradizioni primordiali, fu spiccato. Si può accennare che Himmler favorì gli studi di H. Wirth (*), noto ricercatore nel dominio del simboli e dei miti, e che J. Evola fu ripetutamente invitato a parlare su tali argomenti, in ambienti di capi della “SS”, trovando una preparazione e un interessamento maggiori di quelli che incontrò nell’Italia fascista, dove, a parte una mera vernice, si continuò con le routines di una intellettualità di tipo deteriore e tendenzialmente “neutro”, borghese o antifascista (**). Christopher Hale, Himmler's Crusade L’articolazione della “SS” è più o meno nota. Vi era la “polizia segreta di Stato” (Gestapo) come un organismo di controllo politico sopraordinato a qualsiasi autorità o persona particolare; in un aspetto speciale, essa aveva figura di SD (iniziali di “servizio di sicurezza”). Vi erano inoltre le formazioni della “Testa di morto” e, infine, le Waffen SS, formazioni puramente militari, divisioni scelte che seppero imporre l’ammirazione agli stessi avversari. Ma, nel complesso e riferendoci al periodo prebellico, il carattere fondamentale della “SS” fu quello di un “Ordine”, di una nuova nobiltà politica razzialmente, moralmente e — nell’accennato settore della “visione del mondo” — anche spiritualmente selezionata, che ambiva a costituire la spina dorsale del nuovo Stato antimarxista e antidemocratico, controllandolo e sorreggendolo con una specie di tessuto capillare: poiché uomini della “SS” erano disseminati in ogni dominio, nella diplomazia, nella burocrazia, nelle università, nell’industria, la qualifica valendo non di rado come una specie di investitura, spesso onoraria e segreta, conferita a persone che si ritenevano degne di essere aggregate al nucleo centrale, fedele custode dell’idea. L’Ordensstaatsgedanke, cioè l’ideale di uno Stato retto non da un “partito” e ancor meno da politicanti democratici o dagli esponenti marxisti del lavoro, ma da un “Ordine”, stava dunque alla base della “SS”, facendo di essa un tentativo audace, il cui significato, a parer nostro, non è limitato all’ultima storia tedesca e ai quadri dell’hitlerismo.

* * *

(*) Su Herman Wirth, cfr. Ricerche moderne sulla tradizione nordico-atlantica; J. Evola, Aspetti del movimento culturale della Germania contemporanea, in I saggi della “Nuova Antologia”, Padova, 1982, pp. 18-24, nonché i Cenni bio-bibliografici, a cura di M. Eemans e R. del Ponte, in Arthos, XII-XIII, 27-28 (1983-1984), pp. 43-45.

(**) Sui rapporti fra Evola e l’ambiente delle “SS”, vedi ora sopra tutto, a cura della “Fondazione J. Evola”, il Quaderno n. 33 dedicato a Julius Evola nei rapporti delle SS, Roma, 2000, nonché il “dossier” dedicato a Weisthor-Wiligut, in Arthos, n.s., IV, 7-8 (2000), pp. 241-265.


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Majorana
24-08-10, 09:22
Le ragazze italiane

[…] La donna mediterranea, quasi senza eccezione, ha la propria vita orientata nel modo più unilaterale e, diciamo pure, più primitivo verso l’uomo. Noi siamo ben lungi dall’esaltare la donna mascolinizzata o la “compagna”: fatto è però che la donna mediterranea trascura quasi sempre di formarsi una vita propria autonoma, una sua personalità, indipendentemente dalla preoccupazione del sesso, tanto da potersi permettere poi, nel campo del sesso, quella libertà, e mantenere in esso quella spregiudicatezza unita a linea, che si riscontrano, ad esempio, in una berlinese, in una viennese, in una danese.



La vita interiore della gran parte delle nostre ragazze si esaurisce, invece ed appunto, nella preoccupazione pel sesso e per tutto ciò che può servire per ben “apparire” e per attrarre l’uomo nella propria orbita. È così che noi vediamo spesso donne e giovanissime, tenute ancora dalla famiglia in una specie di recinto di protezione, tutte pittate ed attrezzate come, nei paesi del Nord non lo sono nemmeno le professionals. E basta esaminarle un momento per accorgersi che, malgrado tutto, l’uomo e i rapporti con l’uomo sono l’unica loro preoccupazione, tanto più palese, per quanto è mascherata da ogni specie di limitazioni borghesi ovvero da una sapiente, razionalizzata amministrazione dell’abbandono. Al che, subito si aggiungono complicazioni ben comprensibili, data la corrispondente attitudine dell’uomo.



Julius Evola, L'arco e la clavaSi può vedere ogni giorno, in una via di grande città, che cosa succede quando una ragazza appena desiderabile passa dinanzi ad un gruppo di giovani: questi la scrutano e la seguono con lo sguardo “intenso”, come se fossero tanti Don Giovanni o degli affamati tornati dopo anni di Africa o di Artide; l’altra mentre nelle pitture, nell’incedere, nelle vesti e così via non fa mistero di tutta la sua qualificazione femminile, affetta un’aria di sovrana indifferenza e di “distacco” (anche quando si tratta di una mezza calzetta, ove sarebbe difficile trovar dell’altro, oltre la qualità biologica di esser nata, per caso, donna); tanto che l’osservatore di simili scenette è portato a chiedersi seriamente se l’una e gli altri non abbiano davvero nulla di meglio da pensare per compiacersi di una simile commedia.



Col carattere immediato e, diciamo pure, grezzo delle sue inclinazioni erotiche, un certo tipo umano, purtroppo da noi molto diffuso, allarma la donna, la mette sulle difese, favorisce ogni specie di complicazioni dannose: dannose, in primo luogo, proprio per lui. La donna, mentre da un lato non pensa che a possibili rapporti con l’uomo e all’affetto che essa può produrre sull’uomo, dall’altro si sente come una specie di preda desiderata e inseguita, che deve star bene attenta ad ogni passo falso e “razionalizzare” adeguatamente ogni relazione ed ogni concessione.



Julius Evola, Metafisica del sessoMa a parte queste circostanze esteriori, di cui ha colpa l’uomo, devesi accusare un atteggiamento effettivamente falso proprio ad un diffuso tipo femminile. Si può affermare che, nel 95% dei casi, una ragazza può aver già detto interiormente “si”, ma che essa si sentirebbe avvilita nel comportarsi risolutamente di conseguenza, senza sottoporre l’uomo a tutta una trafila di complicazioni, ad una via crucis erotico-sentimentale. Temerebbe, altrimenti di non esser considerata come una “persona seria” o “per bene”, laddove da un punto di vista superiore, proprio una tale insincerità e artificialità sono segno di poca serietà. Su base analoga si svolge la prassi ridicola di flirts, il rituale dei “complimenti”, del “fare la corte”, della obbligata “galanteria” del “forse che si, forse che no”. E che in tutto ciò l’uomo non si senta offeso nella sua dignità, quasi come per una prostituzione psichica che, alla fine, dovrebbe fargli chiedere si le jeu vaut la chandelle – ciò dimostra l’influenza che sul nostro sesso hanno componenti razziali poco felici.



Ciò che una donna potrà essere conformisticamente e, diciamo così, su di un piano naturalistico, come “sposa” e “madre”, qui non entra propriamente in discussione. Certo è però che, sotto ogni altro riguardo, la ragazza italiana molto avrebbe bisogno di esser “rettificata” secondo uno stile di sincerità, di chiarezza, di coraggio, di libertà interiore. Cosa naturalmente impossibile, se l’uomo non la aiuti, in primo luogo facendole sentire che, per quanto importanti, amore e sesso non possono avere che una parte subordinata rispetto a più alti interessi; in secondo luogo, smettendola di atteggiarsi continuamente come un Don Giovanni o come una persona, che mai abbia visto una donna: perché, in via normale, dei due è la donna che deve cercare e chiedere l’uomo, non viceversa. […]



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Brani tratti dall’articolo Le ragazze italiane apparso sul quotidiano Il Roma il 24 agosto 1952.


Le ragazze italiane | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/evolaragazze.html)

Majorana
24-08-10, 09:23
Il mondo è piombato in un’età oscura

È più o meno noto che mentre l’uomo moderno ha creduto e, in parte tuttora crede al mito dell’evoluzione, le civiltà antiche quasi senza eccezione e perfino le popolazioni selvagge riconobbero invece l’involuzione, il graduale decadere dell’uomo da uno stato primordiale concepito non come un passato semiscimmiesco ma come quello di un’alta spiritualità.



La forma più nota di tale insegnamento è il mito di Esiodo circa le quattro età del mondo – dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro – le quali corrispondono a gradi successivi dell’accennata discesa o decadenza. Del tutto analogo è l’insegnamento indù circa gli yuga, cicli complessivi e successivi che sono ugualmente in numero di quattro e che da una “età dell’essere” o “della verità” – satya yuga – vanno fino ad una “età oscura” – kali yuga. Secondo tali tradizioni, i tempi attuali corrispondono all’epicentro proprio di quest’ultimo periodo: noi ci troveremmo nel bel mezzo della “età oscura”.



Benché la formulazione di tali teorie sia antichissima, di fatto i caratteri previsti per “l’età oscura” corrispondono in modo abbastanza sconcertante alle caratteristiche generale dei tempi nostri. Se ne può giudicare da alcuni passi che traiamo dal Vishnu-purana, testo che ci ha conservato gran parte del tesoro delle antiche tradizioni e degli antichi miti dell’India. Noi ci siamo limitati ad aggiungere, fra parentesi, alcune delucidazioni e a sottolineare le corrispondenze più evidenti.



Per incominciare:



“Razze di servi, di fuori casta e di barbari si renderanno padroni delle rive dell’Indo, del Darvika, del Candrabhaga e del Kashmir… I capi che regneranno sulla terra, come nature violente… si impadroniranno dei beni e dei loro soggetti. Limitati nella loro potenza, i più sorgeranno e precipiteranno rapidamente. Breve sarà la loro vita, insaziabili i loro desideri ed essi quasi ignoreranno cosa sia la pietà. I popoli dei vari paesi, ad essi mescolandosi ne seguiranno l’esempio.” (Si tratta di quelle nuove invasioni barbariche con conseguente immissione del virus del materialismo e della selvaggia volontà di potenza propria all’Occidente moderno in civiltà ancora fedeli e millenarie, sacre tradizioni. Tale processo, come si sa, in Asia è in pieno sviluppo).



“La casta prevalente sarà quella dei servi” (epoca proletario-socialista: comunismo). “Coloro che posseggono diserteranno agricoltura e commercio e trarranno da vivere facendo servi o esercitando professioni meccaniche” (proletarizzazione e industrializzazione).



“I capi invece di proteggere i loro sudditi, li spoglieranno e sotto pretesti fiscali ruberanno le proprietà alla casta dei mercanti” (crisi della proprietà privata e del capitalismo, statizzazione comunista della società).



“La sanità (interiore) e la legge (conforme alla propria natura) diminuiranno di giorno in giorno finché il mondo sarà completamente pervertito. Solo gli averi conferiranno il rango. Solo movente della devozione sarà la preoccupazione per la salute fisica, solo legame fra i sessi sarà il piacere, sola via al successo nelle competizioni sarà la frode. La terra sarà venerata solo per i suoi tesori minerali” (industrializzazione ad oltranza, morte della religione della terra). “Le vesti sacerdotali terranno il luogo della dignità del sacerdote. La debolezza sarà la sola causa dell’obbedire (fine degli antichi rapporti di lealismo e di onore). “La razza sarà incapace di produrre nascite divine. Deviati da miscredenti, gli uomini si chiederanno insolentemente: “Che autorità hanno i testi tradizionali? Che sono questi Dei, che è la casta detentrice dell’autorità spirituale? (Brahmana)”. “Il rispetto per le caste, per l’ordine sociale e per le istituzioni (tradizionali) verrà meno nell’età oscura. I matrimoni in questa età cesseranno di essere un rito e le norme connettenti un discepolo ad un maestro spirituale non avranno più forza. Si penserà che chiunque per qualunque via possa raggiungere lo stato di rigenerati (è il livello democratizzante delle pretese moderne della spiritualità) e gli atti di devozione che potranno ancora esser eseguiti non produrran no più alcun risultato. Ogni ordine di vita sarà uguale promiscuamente per tutti” (conformismo, standardizzazione). “Colui che distribuirà più danaro sarà signore degli uomini e la discendenza familiare cesserà di essere un titolo di preminenza” (superamento della nobiltà tradizionale). “Gli uomini concentreranno i loro interessi sull’acquisizione, anche se disonesta, della ricchezza. Ogni specie di uomo si immaginerà di essere pari ad un brahmana” (pretese prevaricatrici della libera cultura accademica; arroganza dell’ignoranza). “La gente quanto mai avrà terrore della morte e paventerà l’indigenza: solo per questo conserverà forma (un’apparenza) di culto. Le donne non seguiranno il volere dei mariti o dei genitori. Saranno egoiste, abiette, discentrate e mentitrici e sarà a dei dissoluti che si attaccheranno. Esse diventeranno semplici oggetti di disfacimento sessuale”.



Se l’attualità di tale profezia del Vishnu-purana ha tratti difficilmente contestabili, per il significato complessivo di esso bisognerebbe aver un senso del punto di riferimento, ossia di ciò che sarebbero state le origini, lo stato da cui via via l’umanità sarebbe decaduta. Ma che significato oggi potrebbero avere, per i più, termini come “età dell’essere” e “età dell’oro”? Purtroppo si ridurranno a semplici, vuote reminiscenze mitologico-letterarie.



Nel testo in questione varrebbe la pena di notare due motivi ulteriori che mitigano alquanto le tetre prospettive dell’età oscura. Vi accenneremo soltanto. Il primo è l’idea che chi, essendo nato nel Kali-yuga, malgrado tutto sa riconoscere i veri valori e la vera legge, raccoglierà frutti sovrannaturali difficilmente raggiungibili in tempi più facili. “Pessimismo eroico” direbbe un Nietzsche e questa idea non è estranea allo stesso cristianesimo. Il secondo punto è che lo stesso Kali-yuga, per rientrare in uno sviluppo ciclico cosmico più vasto, avrà esso stesso una fine. Per via di un fatto non semplicemente umano si produrrà un mutamento generale. Ne seguirà una specie di rigenerazione, un nuovo principio. Speriamo che sia così e soprattutto che, prima, non si debba giungere proprio sino in fondo alla china, con le delizie che “l’era atomica” ci riserva.



* * *



Da Il Roma, 14 gennaio 1954.



Trascrizione di “Federico Barbarossa”.


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Majorana
24-08-10, 09:24
Che cos’è il Natale?

Vi sono riti e feste, sussistenti ormai solo per consuetudine nel mondo moderno, che si possono paragonare a quei grandi massi che il movimento delle morene di antichi ghiacciai ha trasportato dalla vastità del mondo delle vette giù, fin verso le pianure.

Tali sono, ad esempio, le ricorrenze che come Natale ed anno nuovo rivestono oggi prevalentemente il carattere di una festa familiare borghese, mentre esse sono ritrovabili già nella preistoria e in molti popoli con un ben diverso sfondo, compenetrate da un significato cosmico e universale. Di solito, passa inosservato il fatto che la data del Natale non è convenzionale e dovuto solo ad una particolare tradizione religiosa, ma è determinata da una situazione astronomica precisa: è la data del solstizio d’inverno.

Manlio Triggiani, Storia del Natale. Culti, miti e tradizioni di una festa millenaria E proprio il significato che nelle origini ebbe questo solstizio andò a definire, attraverso un adeguato simbolismo, la festa corrispondente. Si tratta, tuttavia, di un significato che ebbe forte rilievo soprattutto in quei progenitori delle razze indoeuropee, la cui patria originaria si trovava nelle regioni settentrionali e nei quali, in ogni caso, non si era cancellato il ricordo delle ultime fasi del periodo glaciale. In una natura minacciata del gelo eterno l’esperienza del corso della luce del sole nell’anno doveva avere un’importanza particolare, e proprio il punto del solstizio d’inverno rivestiva un significato drammatico che lo distinguerà da tutti gli altri punti del corso annuale del sole. Infatti, nel solstizio d’inverno, il sole, essendo giunto nel suo punto più basso dell’eclittica, la luce sembra spegnersi, abbandonare le terre, scendere nell’abisso, mentre ecco che invece essa di nuovo si riprende, si rialza e risplende, quasi come in una rinascita. Un tale punto valse, perciò, nei primordi, come quello della nascita o della rinascita di una divinità solare.

Oriente e Occidente Nel simbolismo primordiale il segno del sole come “Vita”, “Luce delle Terre”, è anche il segno dell’Uomo. E come nel suo corso annuale il sole muore e rinasce, così anche l’Uomo ha il suo “anno”, muore e risorge. Questo stesso significato fu suggerito, nelle origini, dal solstizio d’inverno, a conferirgli il carattere di un “mistero”. In esso la forza solare discende nella “Terra”, nelle “Acque”, nel “Monte” (ciò in cui, nel punto più basso del suo corso, il sole sembra immergersi), per ritrovare nuova vita. Nel suo rialzarsi, il suo segno si confonde con quello de “l’Albero” che sorge (“l’Albero della Vita” la cui radice è nell’abisso), sia “dell’Uomo cosmico” con le “braccia alzate”, simbolo di resurrezione. Con ciò prende anche inizio un nuovo ciclo, “l’anno nuovo”, la “nuova luce”. Per questo, la data in questione sembra aver coinciso anche con quella dell’inizio dell’anno nuovo (del capodanno). È da notare che anche Roma antica conobbe un “natale solare”: proprio nella stessa data, ripresa successivamente dal cristianesimo, del 24-25 dicembre essa celebrò il Natalis Invicti, o Natalis Solis Invicti (natale del Sole invincibile).

In ciò si fece valere l’influenza dell’antica tradizione iranica, da tramite avendo fatto il mithracismo, la religione cara ai legionari romani, che per un certo periodo si disputò col cristianesimo il dominio spirituale dell’Occidente. E qui si hanno interessanti implicazioni, estendendosi fino ad una concezione mistica della vittoria e dell’imperium.

Come invincibile vale il sole, per il suo ricorrente trionfare sulle tenebre. E tale invincibilità, nell’antico Iran, fu trasferita ad una forza dall’alto, al cosiddetto “hvareno”. Proprio al sole e ad altre entità celesti, questo “hvareno” scenderebbe sui sovrani e sui capi, rendendoli parimenti invincibili e facendo si che i loro soggetti in essi vedessero uomini che erano più che semplici mortali. Ed anche questa particolare concezione prese piede nella Roma imperiale, tanto che sulle sue monete, spesso ci si riferisce al “sole invincibile”, e che gli attributi della forza mistica di vittoria sopra accennata si confusero non di rado con quelli dell’Imperatore.

Tornando al “natale solare” delle origini, si potrebbero rilevare particolari corrispondenze in ciò che ne è sopravvissuto come vestigia, nelle consuetudini della festa moderna. Fra l’altro un’eco offuscata è lo stesso uso popolare di accendere sul tradizionale albero delle luci nella notte di Natale. L’albero, come abbiamo visto, valeva infatti come un simbolo della resurrezione della Luce, di là della minaccia delle notte. Anche i doni che il Natale porta ai bambini costituiscono un’eco remota, un residuo morenico: l’idea primordiale era il dono di luce e di vita che il Sole nuovo, Il “Figlio”, dà agli uomini. Dono da intendersi sia in senso materiale che in senso spirituale.

[…]

Avendo ricordato tutto ciò, sarà bene rilevare che batterebbe una strada sbagliata chi volesse veder qui una interpretazione degradante tale da trascurare il significato religioso e spirituale che ha il Natale da noi conosciuto, riportando all’eredità di una religione naturalistica e per ciò primitiva e superstiziosa. […] Una “religione naturalistica” vera e propria non è mai esistita se non nella incomprensione e nella fantasia di una certa scuola di storia delle religioni […] oppure è esistita in qualche tribù di selvaggi fra i più primitivi. L’uomo delle origini di una certa levatura non adorò mai i fenomeni e le forze della natura semplicemente come tali, egli li adorò solo in quanto e per quel tanto che essi valevano per lui come delle manifestazioni del sacro, del divino in genere. […] la natura per lui non era mai “naturale”. […] Essa presentava per lui i caratteri di un “simbolo sensibile del sovrasensibile”. […] Un mondo di una primordiale grandezza, non chiuso in una particolare credenza, che doveva offuscarsi quando quel che vi corrispose assunse un carattere puramente soggettivo e privato, sussistendo soltanto sotto le specie di feste convenute del calendario borghese che valgono soprattutto perché si t ratta di giorni in cui si è dispensati dal lavorare e che al massimo offrono occasioni di socievolezza e di divertimento nella “civiltà dei consumi”.

* * *

Brani tratti dall’articolo Natale solare ed Anno nuovo apparso sul quotidiano Roma del 5 gennaio 1972.


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Majorana
24-08-10, 09:26
Il mistero del Graal

“Venerdì santo. Nella cappella dei Cavalieri del Graal, sul “Montsalvat”, Parsifal, il “puro eroe” o “puro folle”, fa ritorno. Egli ha superato l’inconsapevolezza inerente alla sua stessa innocenza primitiva. Egli ha resistito alla lusinghe “delle fiori” e di Kundry, la bella creatura del mago Klingsor, che ottiene redenzione attraverso l’amore. La lancia del Graal che il re Amfortas aveva perduto peccando, egli l’ha riconquistata nel castello di Klingsor: è la lancia per la cui ferita sgorgò il sangue di redenzione di Gesù ma che anche piagò Amfortas, l’indegno e il lussurioso che volle accostare il Graal. Questa lancia, ora Parsifal la riporta dunque alla roccia del Graal. Al suo tocco, la ferita ardente di Amfortas scompare e il prodigio del venerdì santo si compie ancora una volta. Il Graal – che è coppa in cui Gesù bevve nell’ultima cena e che raccolse il suo sangue divino – si fa luminosa. Dall’alto scende una bianca colomba – lo Spirito Santo – fra la mistica esaltazione dei Cavalieri del Montsalvat”.

Questa – come tutti sanno – è la trama del dramma mistico di Riccardo Wagner: solo attraverso il quale i più sanno qualcosa circa la leggenda del Graal. Dramma mistico al cento per cento, di un devoto languore cristiano che già provocò l’aspra rivolta del Filosofo del “superuomo” della “volontà di potenza”, di Federico Nietzsche, contro il suo amico, Riccardo Wagner. Ma quali sono le fonti da cui Wagner ha tratto il suo dramma? E quali sono le corrispondenze effettive tra tale dramma e quelle fonti?

J. Evola, Il mistero del GraalA tale riguardo s’impone un riconoscimento suscettibile ad estendersi anche al rapporto fra le opere della “Trilogia” wagneriana col contenuto effettivo dell’antica mitologia nordica. Non vi è adeguazione. Non vi è corrispondenza. Wagner ha preso degli spunti per formar arbitrariamente un mondo d’arte e di musica che sta per sé e che, fuor dal suo valor estetico, sotto vari riguardi, fuorvia, più che non propizi, la comprensione vera dei significati più profondi celati nei miti e nelle leggende originarie.

Ciò vale anche per il Mistero del Graal. Le fonti effettive di questa leggenda, provenzali e germaniche, non concordano che scarsamente con i tratti più salienti del dramma wagneriano. Parsifal non è un “puro”, egli ha già conosciuto, e “tecnicamente”, Banchefleur e, in nome della sua vocazione cavalleresca, ha lasciato morire sua madre. Kundry non è una bella creatura demonica strumento di Klingsor ma una vecchia al servigio degli stessi cavalieri del Graal. La lancia non è mai stata rapita. In Wolfram Von Eschenbach il Graal non è una coppa, ma una pietra, e una pietra “luciferina”: in altri testi, è un singolare oggetto che appare e sparisce ed è dotato di proprio movimento senza che nulla nemmeno da lontano possa richiamare il calice dell’Eucaristia. Simboli essenziali, come la spada spezzata e la prova della spada, il re morto o in letargo e la sua resurrezione, sono stati tralasciati da Wagner. E così via. Ma oltre a tutto questo è da dirsi che il contesto dei testi ci mostra che quella del Graal non è una leggenda cristiana che alla superficie, che i suoi elementi costitutivi sono di ben altra natura e retrocedono ben più lontano.

La tradizione cattolica, infatti, nulla sa circa il Graal, e lo stesso dicasi per i primi testi del cristianesimo in genere.

La letteratura cavalleresca fiorita intorno al Graal si affolla inesplicabilmente in un breve periodo, suscita un intenso interesse e poi scompare subitamente: nessun testo è anteriore al primo quarto del XII secolo e nessuno è posteriore al primo quarto del XIII secolo. Onde, l’impressione che si ha è quella di qualcosa di sotterraneo affiorato momentaneamente, ma subito respinto e soffocato da un’altra forza: quasi al titolo di una tradizione segreta che sotto “spoglie strane” tramandava un insegnamento poco riconducibile a quello della Chiesa allo stesso modo che la posteriore letteratura dei cosiddetti Fedeli d’Amore (secondo quanto è risultato dalle ricerche del compianto Luigi Valli), o la stessa letteratura ermetico-alchemica o, infine la tradizione stessa dei Templari. E – si noti – Wolfram Von Eschenbach chiama esattamente i cavalieri del Graal “templeise”, cioè i templari…

David Hatcher Childress, Le città perdute di Atlantide, Europa antica e MediterraneoQuando agli oggetti che figurano nella leggenda del Graal: una lancia, una coppa che da “nutrimento di vita”, o una pietra che ha il potere di designare i cavalieri atti a rivestire dignità regale – tali oggetti si ritrovano già in tradizioni precristiane. Tutti e tre, ad esempio, figurano già fra gli oggetti simbolici che, secondo una leggenda irlandese, la “razza divina” preistorica dei Tuatha avrebbe portati seco in Irlanda venendo da Avallon, un’enigmatica terra occidentale che forse è la stessa Atlantide del racconto di Platone. Vi è di più. La stessa antica tradizione romana presenta singolari corrispondenze. Numa costituì il collegio sacerdotale dei Salii a custodire un pegno, concesso dal Cielo, della grandezza dell’impero, pegnum imperii. Questi sacerdoti erano dodici – come dodici sono i principali cavalieri che custodiscono il Graal. Essi recavano una hasta o lancea, che è l’alto oggetto custodito, insieme alla coppa, da quei cavalieri. E di tale coppa, o anche della pietra regale, che è il Graal, essi hanno l’equivalente, in quanto ché ciascuno dei Salii ha, insieme alla hasta, un ancile, cioè uno scudo che però il Dumézil ha dimostrato avere il significato di recipiente che fornisce l’ambrosia, cioè un mistico nutrimento, proprio come la coppa del Graal o il recipiente dei Tuatha. E poiché, secondo questa leggenda romana, l’ancile sarebbe stato ricavato da un aerolito, o pietra divina discesa dal cielo, in ciò non solo vi è corrispondenza con la pietra regale o “fatidica” dei Tuatha (pietra che ancora oggi si conserva a Westmister e che è nera, nera come il misterioso lapis niger dei romani), ma vi è anche un motivo che riporta alla versione della leggenda del Graal secondo la quale lo stesso Graal sarebbe stato ricavato da una pietra caduta dal cielo, da uno smeraldo che ornava la fronte di Lucifero prima della sua rivolta. In più, la leggenda riferisce che, sotto tale forma, il Graal fu anche perduto da Adamo, fu riconquistato da Seth, passò in fine nelle mai di Giuseppe di Arimatea, un cavaliere ai servigi di Ponzio Pilato, il quale, dopo la morte di Gesù, lo portò in una regione che in alcuni testi reca enigmaticamente proprio il nome della regione atlantica misteriosa, patria originaria dei Tuatha, la razza divina che già aveva gli oggetti equivalenti a quelli della leggenda del Graal: nell’Avallon, insula Avallonis, l’isola bianca, ille blanche. Da qui si sviluppa un nuovo ciclo di leggende, ove le vicende dei “cavalieri celesti” alla ricerca del Gral si intrecciano con quelle della corte di Re Artù, cioè con motivi che provengono da antichissime tradizioni celtiche, se non anche druidiche.

In tutto ciò si hanno corrispondenze e connessioni che, per chi sa della logica segreta che sempre presiede alla formazione dei simboli tradizionali, non sono affatto casuali o stravaganti. La sostanza originaria della leggenda del Graal si mantiene anche nella sua successiva forma cristianizzata, in quanto ché suo motivo centrale non è più il “peccato” di Amfortas, né la “tentazione” del “puro folle”, non qualcosa di “mistico” bensì qualcosa di essenzialmente “regale” e guerriero: è il motivo del re morto e della spada spezzata da rinsaldare in connessione ad un’impresa pericolosa e mortale proposta ad un eroe, che, riuscendo, si eleva ad una dignità trascendente, contrassegnata da questa singolare formula, che si trova nell’antico testo del Merlin: “Onore e gloria e potenza e gioia sempiterna al distruttore della morte!”

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Articolo intitolato Il Mistero del Graal e apparso sul quotidiano Il Popolo di Roma il 30 marzo 1934.


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Majorana
24-08-10, 09:28
Legionarismo ascetico. Colloquio col capo delle “Guardie di Ferro”

Rapidamente la nostra auto lascia dietro di se quella curiosa cosa che è la Bucarest del centro: un insieme di piccoli grattacieli e di edifici modernissimi, prevalentemente di tipo “funzionale”, con mostre e magazzini fra la parigina e l’americana, l’unico elemento esotico essendo i frequenti cappelli di astrakan degli agenti e dei borghesi. Raggiungiamo la stazione del Nord, imbocchiamo una polverosa strada provinciale costeggiata da piccoli edifici del tipo della vecchia Vienna, che con rigorosa rettilineità raggiunge la campagna. Dopo una buona mezz’ora, l’automobile svolta improvvisamente a sinistra, prende una via campestre, si arresta di fronte ad un edificio quasi isolato fra i campi: è la cosiddetta “Casa Verde”, residenza del Capo delle “Guardie di Ferro” romene.

“L’abbiamo costruita con le nostre stesse mani” ci dicono con un certo orgoglio i legionari che ci accompagnano. Intellettuali e artigiani si sono associati per costruire la residenza del loro capo, quasi nel significato di un simbolo e di un rito. Lo stile della costruzione è romeno: ai due lati, essa si prolunga con una specie di portico, tanto da dar quasi l’impressione di un chiostro. Entriamo, raggiungiamo il primo piano. Ci viene incontro un giovane alto e slanciato, in vestito sportivo, con un volto aperto, il quale dà immediatamente una impressione di nobiltà, di forza e di lealtà. E’ appunto Cornelio Codreanu, capo della Guardia di Ferro. Il tipo è caratteristicamente ariano-romano: sembra una riapparizione dell’antico mondo ario-italico. Mentre i suoi occhi grigio-azzurri esprimono la durezza e la fredda volontà propria ai Capi, nell’insieme dell’espressione vi è simultaneamente una singolare nota di idealità, di interiorità, di forza, di umana comprensione. Anche il suo modo di conversare è caratteristico: prima di rispondere, egli sembra assorbirsi, allontanarsi, poi, ad un tratto, comincia a parlare, esprimendosi con precisione quasi geometrica, in frasi bene articolate ed organiche.

“Dopo tutta una falange di giornalisti, di ogni nazione e colore, che altro non sapevano rivolgermi se non domande della politica più legata al momento, è la prima volta, e con soddisfazione” dice Codreanu “che viene da me qualcuno che si interessa, prima di tutto, all’anima, al nucleo spirituale del mio movimento. Per quei giornalisti avevo trovato una formula per soddisfarli e per dire poco più che nulla, cioè: nazionalismo costruttivo.

“L’uomo si compone di un organismo, cioè di una forma organizzata, poi di forze vitali, poi di un’anima. Lo stesso può dirsi per un popolo. E la costruzione nazionale di uno Stato, benché riprenda naturalmente tutti e tre gli elementi, pure, per ragioni di varia qualificazione e varia eredità, può soprattutto prendere le mosse da uno particolare di essi.

“Secondo me, nel movimento fascista predomina l’elemento Stato, che equivale a quello della forma organizzata. Qui parla la potenza formatrice dell’antica Roma, maestra del diritto e dell’organizzazione politica, della quale d’Italiano è il più puro erede. Nel nazionalsocialismo viene invece in risalto quanto si connette alle forze vitali; la razza, l’istinto di razza, l’elemento etnico-nazionale. Nel movimento legionario romeno l’accento cade soprattutto su quel che, in un organismo, corrisponde all’elemento anima: sull’aspetto spirituale e religioso.

“Da ciò sorge la caratteristica dei vari movimenti nazionali, per quanto essi, alla fine, comprendano tutti e tre questi elementi, e non ne trascurino nessuno. Il carattere specifico del nostro movimento ci viene da una remota eredità. Già Erodoto chiamava i nostri progenitori: “I Daci immortali”. I nostri antenati getotraci avevano per fede, già prima del cristianesimo, l’immortalità e l’indistruttibilità dell’anima, ciò che prova il loro orientamento verso la spiritualità. La colonizzazione romana ha aggiunto a questo elemento lo spirito romano di organizzazione e di forma. Tutti i secoli successivi hanno fatto miserabile e disgregato il nostro popolo: ma come anche in un cavallo malato e frustro si può riconoscere la nobiltà della sua razza, così anche in ciò che ieri e oggi è il popolo romeno si possono riconoscere gli elementi latenti di questa doppia eredità.

Julius Evola, Fascismo e Terzo Reich “Ed è questa eredità che il movimento legionario vuole destare” continua Codreanu. “Esso parte dallo spirito: vuole creare un uomo spiritualmente nuovo. Realizzato come “movimento” questo compito, ci attende il risveglio della seconda eredità, cioè della forza romana politicamente formatrice. Così lo spirito e la religione sono per noi il punto di partenza, il “nazionalismo costruttivo” è il punto di arrivo e quasi una conseguenza. A congiungere l’un punto con l’altro sta l’etica ascetica e simultaneamente eroica della “Guardia di Ferro”".

Chiediamo a Codreanu in che rapporto stia la spiritualità del suo movimento con la religione cristiano-ortodossa. La risposta è: “In genere, noi tendiamo a vivificare nella forma di una coscienza nazionale e di una esperienza vissuta ciò che, in questa religione, molto spesso si è mummificato ed è diventato il tradizionalismo di un clero sonnolento. Noi poi ci troviamo in una condizione felice per il fatto che alla nostra religione, articolata nazionalmente, è estraneo il dualismo tra fede e politica ed essa può fornirci elementi etici e spirituali senza imporsi come una entità comunque politica. Dalla nostra religione il movimento delle Guardie di Ferro riprende poi un’idea fondamentale: quella della ecumenicità. Questo è il superamento positivo di ogni internazionalismo e di ogni universalismo astratto e razionalistico. L’idea ecumenica è quella di una societas come unità di vita, come organismo vivo, come un vivere insieme non solo col nostro popolo, ma anche con i nostri morti e con Dio. L’attuazione di una simile idea in forma di esperienza effettiva è il centro del nostro movimento; politica, partito, cultura, ecc. per noi non sono che conseguenze e derivazioni. Noi dobbiamo rivivificare questa realtà centrale, e rinnovare per tal via l’uomo romeno, per poi procedere e costruire anche la nazione e lo Stato. Un punto particolare è che, per noi, la presenza dei morti nella nazione ecumenica non è astratta, ma reale: dei nostri morti e soprattutto dei nostri eroi. Noi non possiamo separarci da essi; essi, come forze divenute libere dalla condizione umana, compenetrano e sostengono la nostra vita più alta. I legionari si radunano periodicamente in piccoli gruppi, chiamati “nidi” [cuib, n.d.c.]. Queste adunanze seguono riti speciali. Quello con cui si apre ogni riunione è l’appello a tutti i nostri compagni caduti, al quale i convenuti rispondono con “Presente”. Ma ciò per noi non è una pura cerimonia e una allegoria, bensì una evocazione reale.

“Noi distinguiamo l’individuo, la nazione e la spiritualità trascendente” continua Codreanu “e nella dedizione eroica consideriamo ciò che porta dall’uno all’altro di tali elementi, fino ad una superiore unità. Noi neghiamo in ogni sua forma il principio dell’utilità bruta e materialistica: non solo sul piano del singolo, ma anche su quello della nazione. Di là dalla nazione noi riconosciamo dei principi eterni ed immutabili, in nome dei quali si deve esser pronti a combattere, a morire e a tutto subordinare almeno con la stessa decisione in nome del nostro diritto di vivere e di difendere la nostra vita. La verità e l’onore sono, per esempio, dei principi metafisici, che noi poniamo più in alto della nostra stessa nazione”.

Noi abbiamo saputo che il carattere ascetico del movimento delle Guardie di Ferro non è generico, ma anche concreto e, per dir così, praticante. Ad esempio, vige la regola del digiuno: tre giorni alla settimana circa 800.000 uomini praticano il cosiddetto “digiuno nero”, cioè l’astinenza da ogni specie di cibo, da bevande, da tabacco. Del pari, la preghiera ha nel movimento una parte importante. In più, per il corpo scelto di assalto che porta il nome dei due capi legionari caduti in Spagna, Mosa e Marin, vige la regola del celibato. Chiediamo al Codreanu che ci indichi il senso preciso di tutto ciò. Egli sembra concentrarsi un momento, poi risponde: “Vi sono due aspetti, per chiarire i quali bisogna tener presente il dualismo dell’essere umano, composto di un elemento materiale naturalistico e di un elemento spirituale. Quando il primo domina il secondo, è l’”inferno”. Ogni equilibrio fra i due è cosa precaria e contingente. Solo il dominio assoluto dello spirito sul corpo è la condizione normale e il presupposto di ogni vera forza, di ogni vero eroismo. Il digiuno viene da noi praticato perché propizia una tale condizione, allenta i vincoli corporei, propizia l’autoliberarsi e l’autoaffermarsi della pura volontà. E quando a ciò si aggiunge la preghiera, noi chiediamo che forze dall’alto si uniscano alle nostre e ci sostengano invisibilmente. Il che conduce al secondo aspetto: è una superstizione pensare che in ogni combattimento solo le forze materiali e semplicemente umane siano decisive; in esso entrano invece in giuoco anche delle forze invisibili, spirituali, almeno altrettanto efficaci quanto le prime. Noi siamo coscienti della positività e dell’importanza di tali forze. Per questo diamo al movimento legionario un preciso carattere ascetico. Anche negli antichi ordini cavallereschi vigeva il principio della castità. Rilevo tuttavia che esso da noi è ristretto al Corpo di Assalto, anche sulla base di una giustificazione pratica, cioè che chi deve votarsi interamente alla lotta e non deve temere la morte è bene non abbia gli impedimenti della famiglia. Del resto, in quel corpo si resta solo fino ai 30 anni compiuti. Ma, in ogni caso, resta sempre una apposizione di principio: vi sono da un lato coloro che conoscono solo la “vita” e che quindi non cercano che la prosperità, la ricchezza, il benessere, l’opulenza; dall’altro lato vi sono coloro che aspirano a qualcosa più che la vita, alla gloria e alla vittoria in una lotta interiore quanto esteriore. Le Guardie di Ferro appartengono a questa seconda schiera. E il loro ascetismo guerriero si completa con una ultima norma: col voto di povertà a cui è tenuta l’élite dei capi del movimento, con i precetti di rinuncia al lusso, ai vuoti divertimenti, agli svaghi cosiddetti mondani, insomma con l’invito ad un vero cambiamento di vita che noi facciamo ad ogni legionario”.

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Tratto da Il Regime Fascista del 22 marzo 1938.


Legionarismo ascetico. Colloquio col capo delle "Guardie di Ferro" | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/evolalegionarismoascetico.html)

Majorana
24-08-10, 09:30
Così diceva Codreanu

Fra le molte figure di dirigenti di movimenti nazionali da noi conosciute nei nostri viaggi in Europa, poche, per non dire nessuna, ci fecero un’impressione più viva di Cornelio Codreanu, il capo della “Guardia di Ferro” romena. Ricordiamo l’incontro con lui, nel marzo del 1938, nella “Casa Verde”, sede centrale che i legionari stessi si erano costruita con le proprie mani, a Bucarest.

Egli ci si fece incontro: un giovane di alta statura, aitante, con una espressione di nobiltà, di lealtà e di coraggio impressa nel volto dai tratti del puro tipo dacio-romano, ci si mescolava qualcosa di contemplativo, di ispirato. Fra noi due si stabilì subito una spontanea simpatia; in effetti, molte delle nostre idee concordavano, specie quanto all’esigenza di dare ai movimenti di rinnovamento nazionale una autentica base spirituale.

Il livello dell’organizzazione che Codreanu aveva creato e con la quale si proponeva di rinnovare la Romania, era notevolmente alto. Il movimento complessivo aveva un orientamento originale; si affiancava idealmente ai movimenti nazionali affermatisi in Italia e in Germania, ma con una propria, specifica fisionomia. In un colloquio, lo stesso Codreanu ci indicò questa direzione particolare, usando un’immagine. Egli disse: “L’essere umano è composto dal corpo, dall’energia vitale e dall’anima. Così anche ogni nazione, e un moto di rinnovamento, può far leva su uno o sull’altro di tali elementi e investire il resto partendo da esso. Ora il fascismo italiano mi sembra che parta dall’elemento corpo, cioè dall’elemento forma, riprendendo ideale romano dello Stato quale forza formatrice. Il nazionalsocialismo tedesco, col risalto dato a tutto ciò che è razza e sangue parte invece dall’elemento vita. Quanto alla Guardia di Ferro romena, essa per raggiungere lo stesso scopo vorrebbe agire partendo dall’elemento spirituale, dall’anima”.

Julius Evola, Fascismo e Terzo Reich Nel caso del movimento di Codreanu, quest’ultima espressione assumeva però un significato peculiare. Per Codreanu, più che di una lotta politica per la semplice conquista del potere, si trattava di creare un uomo nuovo. Egli riteneva che la sostanza del popolo romeno fosse così guasta, che senza un rinnovamento dall’interno, dal profondo, nulla di valido avrebbe potuto essere raggiunto. L’opera di formazione doveva realizzarsi a tutta prima in una minoranza, a che essa facesse poi da spina dorsale alla nazione.

L’orientamento spirituale, religioso, come controparte di quello militante, si palesava già nella designazione che la prima organizzazione aveva avuto: “Legione dell’Arcangelo Michele”. Quando questa divenne la Guardia di Ferro, vi si mantennero tratti di una specie di ascetismo guerriero, analoghi a quelli di alcuni antichi ordini cavallereschi. Così per gli appartenenti ad uno speciale corpo che si fregiava dei nomi di Moza e Marin (due capi della Guardia caduti nella guerra di Spagna) vigeva la clausola del celibato: nessuna cura mondana e familiare doveva diminuire, in loro, la capacità di consacrarsi assolutamente alla causa. Ci si doveva anche astenere dal frequentare balli e cinematografi, si doveva evitare ogni sfoggio di ricchezza e di lusso. Doveva essere amata una certa tenuta spartana di vita. In più, era contemplata la pratica del digiuno, due volte alla settimana. Codreanu era il primo a sottoporvisi.

Particolare importanza veniva poi attribuita alla preghiera intesa come una vocazione. “La preghiera è un elemento decisivo – diceva Codreanu. Vince chi sa attrarre dall’etere, dai cieli, le forz e misteriose del mondo invisibile e assicurarsene il concorso”. Per lui fra tali forze vi erano le anime degli antenati e dei morti. E nei “nidi” (così venivano chiamati i centri della Guardia) ogni riunione s’iniziava e si terminava con una preghiera invocativa rivolta a coloro che lungo i secoli erano caduti per la difesa della patria e della fede e che si riteneva essere rimasti invisibilmente uniti alla stirpe.

[...] Si sa della tragedia della Guardia di Ferro e della fine di Codreanu. [...] Alla fine Codreanu fu arrestato e processato [...] “si tagliò corto” e si ricorse all’assasinio mascherato.

* * *

Brani tratti dall’articolo Così diceva Codreanu apparso sul quotidiano Roma il 12 dicembre 1958.


Così diceva Codreanu | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/evolacodreanu.html)

Majorana
24-08-10, 09:31
Il barone sanguinario

Il libro di F. Ossendowsky Bestie, uomini e dèi, della cui traduzione italiana si sta preparando una ristampa, ebbe già una vasta notorietà quando uscì, nel 1924. in esso hanno interessato il racconto delle peripezie del viaggio movimentato che l’Ossendowsky fece nel 1921-22 attraverso l’Asia centrale per sfuggire ai bolscevichi, ma anche ciò che egli riferisce sia circa un personaggio d’eccezione da lui incontrato, il barone Von Ungern Sternberg, sia su ciò che ebbe a udire sul cosiddetto “Re del Mondo”. Qui vogliamo riprendere sia l’uno che l’altro punto.



Intorno all’Ungern Sternberg si era creato quasi un mito, nella stessa Asia, al segno che in alcuni templi della Mongolia egli sarebbe stato adorato come una manifestazione del dio della guerra. Di lui, è stata anche scritta una biografia romanzata in tedesco, dal tiolo “Io comando” (“Ich befehle”), mentre dati interessanti sulla sua personalità forniti dal comandante dell’artiglieria del suo esercito sono stati pubblicati dalla rivista francese “Etudes Traditionelles”. Noi stessi avemmo da udire dello Stenberg da suo fratello che doveva essere vittima di un tragico destino: scampato dai bolscevichi e raggiunta l’Europa via Asia dopo ogni specie di vicissitudini romanzesche, lui e sua moglie furono uccisi da un portinaio impazzito quando Vienna fu occupata nel 1945.



Ungern Sternberg proveniva da un’antica famiglia baltica di ceppo vichingo. Ufficiale russo, allo scoppiare della rivoluzione bolscevica comandava in Asia dei reparti di cavalleria, i quali a poco a poco si ingrossarono fino a divenire un vero e proprio esercito. Con esso, Ungern s’intese a combattere fino all’ultima possibilità la sovversione rossa. È dal Tibet che egli operava: e il Tibet egli liberò dai Cinesi che ià allora ne avevano occupato una parte, entrando in intimi rapporti col Dalai Lam, da lui liberato.



Julius Evola, Augustea (1941-1943). La Stampa (1942-1943) Le cose si svilupparono a tal segno da preoccupare seriamente i bolscevichi che, ripetutamente sconfitti, furono costretti ad organizzare una campagna in grande stile, utilizzando il cosiddetto “Napoleone Rosso”, il generale Blucher.



Dopo alcune alterne vicende, Ungern doveva venire sopraffatto, il tracollo essendo stato provocato dalla defezione proditoria di alcuni reggimenti cecoslovacchi. Circa la fine di Ungern, vi sono versioni contrastanti; non si sa nulla di preciso. In ogni modo, si vuole che egli conoscesse con esattezza il termine della sua vita, come pure alcuni articolari circostanze ad esempio: che egli sarebbe stato ferito, come lo fu, durante l’attacco a Durga.



Qui, dello Sternberg, interessano due aspetti. Il primo riguarda la sua stessa personalità, nella quale tratti singolari erano mescolati. Uomo di un prestigio eccezionale e di un ardire senza limiti, egli era anche di una crudeltà spietata, di una inesorabilità nei confronti dei bolscevichi, suoi nemici mortali. Donde il nome che gli venne dato: “il barone sanguinario”.



Si vuole che una grande passione avesse “bruciato” in lui ogni elemento umano, non lasciando sussisteree in lui che una forza incurante della vita e della morte. In pari tempi, in lui erano presenti tratti quasi mistici. Già prima di recarsi in Asia egli professava il buddismo (il quale non si riduce affatto ad una dottrina morale umanitaria), e le relazioni che egli ebbe con i rappresentanti della tradizione tibetana non si limitavano al dominio esteriore, politico e militare, nel quadro degli avvenimenti dianzi accennati. Alcune facoltà sovranormali erano presenti in lui: si parla ad esempio, di una specie di chiaroveggenza che gli permetteva di leggere nell’animo altrui secondo una percezione esatta quanto quella delle cose fisiche.



Il secondo punto riguarda l’ideale che Ungern accarezzava. La lotta contro il bolscevismo avrebbe dovuto essere la diana per un’azione assai più vasta. Secondo Ungern, il bolscevismo non era un fenomeno a sé, ma l’ultima, inevitabile conseguenza dei processi involutivi realizzatisi da tempo in tutta la civiltà occidentale. Come già Mettternich, egli credeva – giustamente – una continuità delle varie fasi e forme della sovversione mondiale, dalla rivoluzione francese in poi. Ora secondo Ungern, la reazione avrebbe dovuto partire dall’Oriente, da un Oriente fedele alla proprie tradizioni spirituali e coalizzato contro l’incombente minaccia, insieme a quanti fossero capaci di una rivolta contro il mondo moderno. Il compito primo avrebbe dovuto essere spazzar via il bolscevismo e liberare la Russia.



Peraltro è interessante che, secondo alcune fonti abbastanza attendibili, Ungern, quando si era fatto il liberatore e il protettore del Tibet, in relazione con un tale piano avrebbe avuto contatti segreti con esponenti delle principali forze tradizionali, non soltanto dell’India ma anche del Giappone e dell’Islam. A poco a poco si sarebbe dovuti giungere a questa solidarietà difensiva e offensiva di un mondo non ancora intaccato dal materialismo della sovversione.



Passiamo ora al secondo argomento, a quello del cosiddetto “Re del Mondo”. L’Ossendowsky riferisce quel che Lama e capi dell’Asia centrale ebbero a raccontargli circa l’esistenza di un misterioso centro-iniziative chiamato l’Aghartta, sede del “Re del Mondo”. Esso sarebbe sotterraneo e per mezzo di “canali” sotterranei sotto i continenti ed anche gli oceani avrebbe comunicazioni con tutte le regioni della terra. Come Ossendowsky ebe ad udirle, tali notizie presentarono un carattere fantasioso. È merito di René Guénon l’aver messo in luce, nel suo libro “Le Roi du Monde”, il vero contenuto di questi racconti, non senza rilevare il fatto, significativo, che nell’opera postuma di Saint-, significativo, che nell’opera postuma di Saint-Yves d’Alveydre intitolata “La mission des Indes” uscita nel 1910, di certo non conosciuta da Ossendowsky, si fa cenno allo stesso centro misterioso.



Ciò che va, anzitutto chiarito è che l’idea di una sede sotterranea (difficile da concepire già per il problema degli alloggiamenti e degli approvvigionamenti, se non abitata da puri spiriti) deve essere resa piuttosto con quella di un “centro invisibile”. Quanto al “Re del Mondo” che vi risiederebbe, si è riportati alla concezione generale di un governo o controllo invisibile del mondo o della storia, e il riferimento fantasioso ai “canali sotterranei” che fanno comunicare quella sede con vari paesi della terra va parimenti smaterializzato nei termini di influenze, per così dire, da dietro le quinte, esercitate da quel centro.



Però assumendo tutto ciò in codesta forma più concreta, sorgono vari problemi ove si consideri la attualità. Vi è che lo spettacolo offerto dal nostro pianeta in modo sempre più preciso conforta assai poco l’idea dell’esistenza di questo “Re del Mondo” con le sue influenze, se questi debbono essere concepite come positive e rettificatrici.



Ad Ossendowsky i Lama avrebbero detto: “Il Re del Mondo apparirà dinanzi a tutti gli uomini quando per lui sarà venuto il momento di guidare tutti i buoni nella guerra contro i malvagi. Ma questo tempo non è ancora venuto. I più malvagi dell’umanità non sono ancora nati”. Ora, questa è la ripetizione di un tema tradizionale noto anche in Occidente fin dal Medioevo.



L’interessante propriamente è che, come si è detto, all’Ossendowsky un simile ordine di idee sia stato presentato nel Tibet da dei Lama e da dei capi dei paesi, con riferimento ad un insegnamento esoterico. E il modo piuttosto primitivo con cui Ossendowsky riferisce ciò che egli ebbe ad udire, innestandolo nel racconto delle sue peregrinazioni, fa pensare che non si tratta di una sua escogitazione.



* * *



Articolo intitolato Il barone sanguinario, apparso sul quotidiano “Roma” il 9 febbraio 1973.


Il barone sanguinario | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/evolabarone.html)

Majorana
24-08-10, 09:36
Superamento dell’attivismo

Visioni evoliane sul mondo moderno: la demonìa dell’azione

Presentiamo su questo dodicesimo numero di Algiza un importante scritto di Julius Evola che abbiamo recentemente scoperto: si tratta di Superamento dell’attivismo, apparso il 18 gennaio 1933 nella terza pagina del quotidiano cremonese Il regime fascista diretto da Roberto Farinacci. Questo scritto, estremamente significativo, costituisce una novità per gli studii evoliani, dal momento che non è neppure segnalato nella più completa bibliografia evoliana sinora pubblicata – peraltro l’unica sinora che abbia tentato con una qualche pretesa di completezza di indicare tutti gli articoli di Evola apparsi su riviste italiane.

Si tratta, come si è accennato, di uno scritto di particolare interesse; la quale cosa, se certo non stupirà chi già legga e conosca Evola, converrà indicare a quanti ancora poco ne sappiano. L’articolo che proponiamo si compone di una pars denstruens e di una pars construens, come spesso avviene nella costruzione polemica evoliana: il moderno “demonismo” dell’azione priva di un centro e di una direzione è analizzato con particolari efficacia e incisività. Potrà forse stupire la estrema attualità delle considerazioni, svolte quasi settanta anni orsono: quando Evola scrive dell’azione materiale e passiva, spinta dall’esterno e volta verso l’esterno pare descrivere la nostra società contemporanea, e ancora più attuale pare il suo riferimento a quell azione segreta che non crea più macchine, banche e società, ma uomini, asceti e guerrieri, esseri superbi dominatori delle proprie anime, svincolati da ogni sete, liberati . Quel tipo di azione, cioè, svincolata e liberata dal giogo delle passioni e del divenire, che si fa fine di sè stessa, propria ormai di pochi rari individui. L’azione cui, nel mondo di rovine che egli stigmatizza, vale unicamente dedicarsi, e in funzione della quale davvero vale il vivere.

J. Evola, L'Operaio nel pensiero di Ernst Juenger Come il suo pensiero sia stato d’avanguardia, è facile indicarlo. Analoghe considerazioni, su un piano leggermente diverso, aveva svolto l’anno precedente Ernst Juenger nel suo prezioso saggio Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, che non a caso interessò particolarmente Evola, per la consonanza di vedute, e al quale nel secondo dopoguerra dedicò un saggio, che di recente è stato riproposto al pubblico italiano.

Significativamente affini sono le visioni juengeriane sull Età della Tecnica, sull’Arbeiter che mobilita il mondo tramite la tecnica, alle indicazioni che Evola fornisce circa l’atteggiamento da tenere dinanzi a quest’epoca in cui la velocità è portata alle estreme conseguenze, l’azione si fa parossistica, ogni senso pare smarrito. E su queste basi, ci pare, le più brillanti conseguenze sono quelle che dal pensiero di Evola (e anche di Juenger) trasse Adriano Romualdi, senza dubbio il migliore esegeta del filosofo italiano, quando scrisse:

“La storia cambia pagina e il mondo della tecnica conquista il suo spazio. Dirne bene, o male, ciò non esaurisce il problema: v’è nella realtà della età tecnica un’ignoranza di ogni altra prospettiva, ma anche uno spirito di razionalità e di padronanza che si inquadra nel contesto d una tradizione europea [...]. V’è nella scienza e nella tecnica un aderenza allo stile interiore dell’uomo bianco che non si può disconoscere. Uno stile ormai ottuso, una vocazione decaduta ad abitudine meccanica, ma dominata da una volontà di chiarezza [...]. Possiamo semplicemente disfarci del gravoso fardello della civiltà bianca?”

La risposta che Evola dà è semplice, e consiste nella vera liberazione dell’azione dai suoi vincoli, nell’essenzializzazione, che passa attraverso la riscoperta di uno stile e di un modo di vivere tradizionale: in quello che egli definisce “nuovo classicismo dell’azione e del dominio”.

La speranza è che il riproporre oggi gli scritti di Evola possa avere la funzione, davvero preziosa e significativa, di trasmettere a qualcuno – anche a un’unica persona – l’interesse per quel Mondo della Tradizione che Evola ci ha insegnato ad amare.

Alberto Lombardo

* * *

Speciale Julius Evola E’ un fatto difficilmente contestabile, che l’attivismo costituisca la parola d’ordine dell’ultima civiltà. L’esaltazione e la pratica dell’azione, quindi di tutto ciò che è sforzo, slancio, lotta, divenire, trasformazione, perenne ricerca, inesausto movimento, si vede affiorare da ogni dove. E non solo noi oggi abbiamo il trionfo dell’azione, ma abbiamo anche una filosofia sui generis al servigio di essa, che con una critica sistematica e con un forte apparecchio speculativo volge a crearsi alibi d’ogni genere e a gittare a piene mani il disprezzo sui valori proprii a ogni diverso punto di vista. Così, nelle cose l’occhio del moderno si abitua a trascurare sempre più l’aspetto “essere” per affissarsi invece sull’aspetto “divenire”, “sviluppo”, “storia”: “storicismo” e “divenirismo” vanno a battere il ritmo all’”attivismo” e noi vediamo che nelle stesse scienze i principii che ieri si ritenevano immutabilmente validi e intrinsecamente evidenti oggi vengono considerati come assunzioni ipotetiche da controllarsi in funzione del divenire della conoscenza scientifica; noi vediamo che nelle stesse religioni un’esegesi di tipo nuovo non tiene nessun conto delle pretese di assolutezza e di trascendenza che i dogmi e le “rivelazioni” presentavano e tende a non vedere in tutto ciò che dei momenti di un divenire, di una storia immanente dell’aspirazione religiosa, non esitando, su questa base, a procedere alle umanizzazioni più contaminatrici.

In filosofia la cosa è ancora più evidente. Pragmatismo, volontarismo, attualismo, ecc., sono correnti che, sia pure in forma varia, convergono tutte in un unico motivo il quale non fa che tradurre in sede speculativa il motivo stesso della vita immediata d’oggi, il suo tumulto, la sua febbre di velocità, la sua meccanizzazione volta a contrarre ogni intervallo di spazio e di tempo, il suo ritmo congestivo e privo di respiro che nei popoli anglosassoni e soprattutto americani giunge poi al suo limite. Qui il tema attivistico perviene realmente a un acme parossistico e quasi diremmo pandemico, assorbe la totalità della vita secondo un’accelerazione che sembra non conoscere più freno, mentre gli orizzonti si riducono sempre più sensibilmente a quello buio e impuro di realizzazioni affatto temporali e contingenti, dove la demonìa del collettivo si fa onnipotente su esseri privi di ogni sostegno tradizionale, tetanizzati da una irrequietudine che oltrepassa tutti i limiti, dominati da forze scatenate sotto molti aspetti subpersonali e prive di volto che li sospingono verso l’”ideale animale” di una nuova civiltà arimànica.

L'arco e la clava Per tale via, le cose sono giunte a un punto tale, che per coloro, i quali non sono ancora del tutto dimentichi di quelle antiche tradizioni, che fecero la nostra vera nobiltà spirituale, l’arrestarsi e il rendersi un conto preciso della situazione col riportarsi a un punto di vista più alto si impone. E in realtà è possibile muovere una critica e una reazione contro l’accennato orientamento del mondo moderno non in nome della stasi o dell’astrazione intellettualistica o estetizzante, bensì proprio in nome della stessa azione: mostrando che il mondo moderno, in fondo, di ciò che sia veramente azione non sa quasi più nulla – quel che esso esalta, è soltanto una forma inferiore d’azione – e che appunto in ciò stanno la deviazione e il pericolo.

In realtà, vi è azione e azione; vi è un attivismo sano e un attivismo che è semplicemente febbre, esaltazione, vertigine senza centro, tanto che, lungi dal testimoniare una forza, come volgarmente si crede, esso indica soltanto un’impotenza e un’incapacità. Oggi, sotto specie delle varie filosofie della “vita”, del “divenire” e dell’”irrazionale”, è appunto di questa seconda specie di attivismo che trattasi; e per questo occorre che il ritorno a una più alta concezione dell’azione ristabilisca l’equilibrio e arresti un processo, le cui deleterie conseguenze son già fin troppo visibili.

Noi abbiamo perduto il senso di ciò che nelle nostre tradizioni classiche significava spiritualmente l’opposizione fra mondo “naturale” e mondo “intelligibile”. Il movimento – in tali dottrine – era considerato come il principio delle cose di natura inferiore, però il movimento come la “perenne fuga delle cose che sono e non sono” (Plotino), come impotenza a compiersi e a possedersi in una legge e in un limite, a realizzarsi come atto perfetto. L’altro mondo – il “mondo intelligibile” – non era il mondo della non azione, ma era invece quello dell’azione perfetta, quello di un azione che si differenziava dal modo proprio alla “natura” in quanto era priva di desiderio e sufficiente a sè stessa: in quanto azione assoluta, avente in sè stessa il proprio oggetto e il proprio principio. Un ideale sovrannaturale, aristocratico dell’azione faceva dunque da anima a tale visione antimoderna: né a essa soltanto. Chi prendesse contatto con alcuni insegnamenti tradizionali dell’Oriente ariano si stupirebbe forse dinanzi all affermazione, che tutto ciò che è movimento, attività, divenire, cangiamento, è proprio a un principio passivo e feminile, mentre al principio virile e “solare” vien riferita l’immobilità, l’immutabilità, la fissità. E così non si renderebbe nemmeno troppo conto di che cosa possa significare l’altra affermazione, che “il Saggio discerne la non-azione nell’azione e l’azione nella non-azione”.

In ciò non si esprime affatto un quietismo, ma appunto la stessa consapevolezza di un ideale superiore, aristocratico dell’attività, rispetto al quale l’azione comune diviene quasi un non-agire. E’ l’idea che in termini metafisico-teologici si ritrova poi nella stessa dottrina aristotelica del motore immobile. Chi è causa e signore effettivo del moto, non si muove egli stesso. Egli suscita e dirige il moto, desta l’azione ma, egli, non agisce, nel senso che non è “trasportato”, non è preso dall azione, non è azione, bensì una superiorità calmissima, impassibile e imperativa, da cui l’azione procede e dipende. Ecco perché‚ il suo comando possente e invisibile si è potuto chiamare un “agire-senza-agire”. Dinanzi a questo ideale di azione dominata, chi agisce preso dallo slancio, dalla passione, dall’immedesimazione, dal desiderio, dall’inquieto bisogno non agisce veramente, ma è un agito. Per quanto paradossale possa sembrare questa espressione, il suo è un agire passivo. Ecco perché, rispetto al mondo trascendente, superiore, regalmente freddo, puramente determinativo, “immobile” dei “Signori del moto” lo si assomiglia appunto a femina: egli si muove, fa, crea, corre ma la ragione, la causa assoluta della sua azione cade fuori di lui.

Orbene, una volta compreso questo ideale tradizionale dell’azione e della non-azione, se si esamina il senso proprio alle dottrine attivistiche, diveniristiche, bergsoniane, ecc. in voga al giorno d oggi, di massima ci troviamo dinanzi precisamente a questa forma inferiore e passiva di azione: ciò che oggi si esalta, è uno slancio cieco e istintivo, onde si va senza sapere perché si vada, senza avere potere di essere diversamente da quel che si è, di dominarsi, di crearsi in sè stessi un centro, un limite, una luce, una ragione assoluta. E’ l’agire per agire, come era spontaneità e “elan vitae”, come necessità immediata e mai risolvibile – quand’anche il tutto non si riduca a una volontà più o meno consapevole di stordirsi e di distrarsi, a un’agitazione e a un rumore che tradisce la paura per il silenzio, per il distacco interno, per l’assoluto essere degli individui superiori – mentre dall’altra parte essa sostiene e fomenta in ogni modo la rivoluzione dell’uomo contro l’eterno.

Per quanto necessariamente tronche, queste considerazioni bastano per dare il senso del punto centrale di riferimento. Al tumulto della vita moderna, alla molteplicità scatenata delle forze e delle passioni che essa ha evocate sia nell’ordine della società che in quello stesso della natura su cui, attraverso la tecnica, l’uomo oggi fa sempre più profonda presa, dovrebbero corrispondere forze di centralità: di ascesi, di comando, di assoluto dominio spirituale, di assoluta individualità e di assoluta visione – forze che oggi meno che in qualsiasi altro tempo ci è dato di constatare d’intorno. E questo difetto è vano sperare che possa essere veramente rimosso, quando si continui a ridurre l’azione all’unico tipo dell azione materiale e “passiva”, spinta dall’esterno e volta verso l’esterno; quando non si veda altro che essa e si ritenga che l’azione interiore, l’azione segreta che non crea più macchine, banche e società, ma uomini, asceti e guerrieri, esseri superbi dominatori delle proprie anime, svincolati da ogni sete, liberati, non sia azione ma rinuncia, astrazione, perditempo. Finché tale sia il criterio non c’è da aspettarsi che una sempre più alta vertigine sempre più lontana da qualsiasi centro e a qualsiasi controllo che non sia quello della reciproca dipendenza di parti di un mostruoso ingranaggio lanciato a vuoto, senza nessuno che possa più nulla.

Se nella sua febbre di correre, di andare sempre più in là come degli assetati o degli inseguiti il mondo moderno non realizza che le estreme conseguenze del romanticismo, ciò che di nuovo potrà stabilire un equilibrio e non estinguere, ma integrare, centralizzare, rendere maschia, solare e attiva l’azione, non può essere che una rievocazione di quel che, in senso lato, si può chiamare l’esperienza classica: amore del cosmos contro il caos; della forma contro l’informe, dell’ethos contro il pathos, della chiarità contro la penombra, del distinto e del “dorico” contro il promiscuo, l’inquieto e il senza limite.

L’ideale di un nuovo classicismo dell’azione e del dominio, animato da nuovi contatti col supertemporale, preparato dai valori di un ascesi virile e di una superiorità aristocratica al semplice “vivere”, è ciò che oggi ci occorre. Esso varrà a creare lentamente centri, qualità e individualità nuove – nuove per essere “tradizionali” nel senso più profondo e vivo del termine – dinanzi a cui, per una legge naturale irresistibile, non potranno non piegarsi e non subordinarsi in un migliore futuro le forze senza centro, senza persona e senza luce emerse attraverso il mito dell’azione nei tempi ultimi.

* * *

Da Algiza 12 (1999), pp. 4-8.


Superamento dell'attivismo | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/evola12.html)

Majorana
24-08-10, 09:38
Eugenio di Savoia

È cosa singolare che la popolarità, di cui la figura del principe Eugenio di Savoia gode tuttora nell’Europa centrale e soprattutto in Austria non abbia quasi affatto riscontro in Italia, ove, se si prescinde da ambienti ristretti di storici e di tecnici dell’arte militare, ben poco si sa di lui. Eppure noi qui ci troviamo dinanzi non soltanto ad uno dei più nobili esponenti della stessa stirpe della nostra Casa regnante, ma altresì dinanzi ad un uomo che presenta in larga misura i caratteri di un simbolo: di un simbolo proprio oggi particolarmente significativo.



Julius Evola, Oriente e Occidente Infatti in Eugenio di Savoia si è dimostrata la possibilità di un’integrazione dell’elemento italiano e latino con quello germanico, assumente senz’altro un valore europeo. Dopo il Medioevo dantesco e ghibellino, il principe Eugenio è una delle poche figure, nelle quali è apparso chiaro ciò che un tale incrocio può significare ai fini, appunto, di un’idea supernazionale occidentale, legata al simbolo dell’impero. Nato dal ramo dei Savoia Carignano, apparentato con la casa reale di Francia, il principe Eugenio, più che la Francia in cui era nato, va a sentire come patria adottiva sempre più l’Austria, la quale pertanto, in quel periodo, non si presentava come una particolare nazione, bensì come l’erede dell’idea supernazionale del Sacro Romano Impero e quindi come il custode della stessa tradizione europea di là dalla crisi rappresentata dalla Riforma. Più tardi, questa conversione compiuta dal principe Eugenio come individuo, in stretta relazione con l’azione sua, dove compierla la stessa Casa di Savoia, staccandosi, nella guerra della successione spagnola, dalla Francia e passando essa stessa dalla parte dell’Impero e della idea europea. Così, non è forse troppo azzardato dire, che in quel periodo proprio con riferimento alla figura del principe Eugenio, fu anticipato qualcosa del significato superiore contenuto nel simbolo dell’«Asse». Di là dalle fratellanze effimere legate al mito «latino», si affermò la forza di un’idea più alta e si dovette appunto al genio di un esponente della Casa dei Savoia che, per un momento, la precedente tradizione romano-germanica riprese vita e prestigio e sembrò costituire il principio di una nuova unità europea. E ciò sarebbe forse riuscito, senza l’egoismo e il tradimento dell’Inghilterra, nuova anticipazione, questa, di significati sin troppo attuali…



Franz Herre, Eugenio di Savoia. Il condottiero, lo statista, l'uomo La prima azione «europea» del principe Eugenio fu la guerra contro i Turchi, in un momento critico, nel quale egli apparve veramente agli occhi dei suoi contemporanei come un salvatore dell’Occidente. Ciò che prima avevano rappresentato gli Unni e che oggi può rappresentarci il pericolo bolscevico, ciò significò a quel tempo l’incalzare delle orde islamiche verso il cuore dell’Europa. E al genio militare del principe Eugenio si deve appunto la distruzione di un tale pericolo, in due campagne, aventi per centro la prima la battaglia di Zenta, la seconda la presa di Belgrado. Furono vittorie da lui conseguite, come tante altre che gli dovevano dare una fama di invincibilità, con forze assolutamente inferiori a quelle dell’avversario, per mezzo di una meditata audacia di stile tipicamente romano e di una strategia, stante almeno alla pari di quella napoleonica.



Dopo l’azione difensiva realizzata dalla prima di queste due campagne, al principe Eugenio si deve il più importante contributo al tentativo di conseguire una concentrazione positiva e creativa di forze europee. Questo tentativo sembrò avere reali possibilità con la conclusione dell’alleanza fra l’Impero, l’Inghilterra e l’Olanda (settembre 1701), alleanza nella quale l’Impero tendeva a far da centro di gravitazione delle cose continentali, mentre le altre due nazioni avrebbero dovuto avere soprattutto per compito un corrispondente, necessario dominio sui mari. La quistione sollevata dalla successione al trono di Spagna alla morte di Carlo II doveva escludere la possibilità di ogni sviluppo pacifico in tale senso. La Francia, nella persona di Luigi XIV, raccoglie intorno a sé tutte le forze antagoniste e così scoppia la lunga e sanguinosa guerra della successione.



Julius Evola, Il mistero del Graal In essa il principe Eugenio sta nuovamente in prima linea come un genio della guerra e come uno strenuo difensore dell’idea imperiale. Qui è inutile ricordare la serie delle vittorie da lui conseguite nei vari teatri delle operazioni, in Italia, sul Reno e nella Germania meridionale. È piuttosto importante rilevare che, in tutte queste imprese, tanto era forte nel principe Eugenio il sentimento lealistico verso il suo sovrano, quanto la sua persuasione, che il centro di una simile lotta era meno il possesso della Spagna, quanto la difesa dell’idea dell’Impero quale idea europea. Al sogno egemonistico della Francia, già sviluppatasi nel senso di un centralismo assolutistico, il principe Eugenio opponeva un’idea gerarchico-federale avente ancora, in larga misura, dei caratteri tradizionali in senso superiore.



Giorgio Ravegnani, Bisanzio e Venezia Dopo alterne vicende di combattimenti e di tregue, la vittoria definitiva sembrò esser vicina quando, nel maggio 1712, dinanzi a Cambrai, quasi per la prima volta in tutta la sua vita, il principe Eugenio si trovò a disporre di truppe notevolmente superiori a quelle francesi, che egli avrebbe potuto facilmente travolgere tanto da aprirsi la via fino a Parigi. Ma qui si manifestò il tradimento dell’Inghilterra. Le truppe britanniche, connesse al principe Eugenio, ricevettero l’Ordine di non combattere e, prima ancora che questi lo sapesse, i Francesi furono avvertiti dell’intenzione dell’Inghilterra di stipulare un’inaspettata pace separata. L’Inghilterra era divenuta gelosa del prestigio dell’Impero e si era curata a perseguire solo il proprio interesse egoistico, staccandosi da ogni idea superiore. Proprio a Winston Churchill, autore di una biografia del suo antenato, il duca di Malborough, che aveva combattuto al fianco del principe Eugenio, si deve la stigmatizzazione di un simile atto con le parole: «Nella storia dei popoli civili nulla ha mai superato un simile oscuro tradimento». Quanto al principe Eugenio, in una sua lettera al duca di Ormond, disse che l’Inghilterra con una tale condotta non aveva esitato a compromettere l’intera Europa, esponendosi essa stessa ad un grave pericolo. E la storia doveva dargli ragione.



Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno Dopo la pace di Utrecht, alla quale l’Impero restò come estraneo, le forze di interna disgregazione si affermarono sempre di più nella compagine delle nazioni europee. Lo sforzo di difendere l’Europa e di riportarla all’unità che essa aveva già goduto nel Medioevo ecumenico fu di nuovo spezzato, dopo la breve culminazione, la quale è essenzialmente legata alla figura simbolica di Eugenio di Savoia.



Franco Cardini, Sergio Valzania, Le radici perdute dell'Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali «Il vero imperatore – doveva dire Federico il Grande – fu lui». Anche nella sua umanità si palesarono i frutti fecondi dello spirito italico con quello germanico. Germanico fu il suo senso rigoroso dell’onore e della fedeltà, una severità e una serietà che, come qualcuno ha detto di lui, in altri tempi, avrebbero fatto il creatore di un Ordine ascetico-guerriero come quello dei Templari, dei Giovanniti o dei Cavalieri teutonici. Ma italica e latina fu parimenti la sua audacia illuminata, il suo senso di equilibrio, la sua rapidità di visione che gli faceva subito scorgere i limiti del possibile e dell’impossibile – e poi una humanitas traducentesi in uno stile di signorilità, in un amore per le arti, in un interesse per la speculazione (si possono ricordare, fra l’altro, gli stretti rapporti che esistettero fra il principe e Leibnitz). Debole originariamente di costituzione, egli seppe imporsi a sé stesso con l’energia di un Ignazio di Loiola fino a rendersi completamente padrone di un organismo, che non risparmiò nelle imprese di guerra, ove sempre figurò primo fra i primi. Morì silenziosamente, nella pienezza delle sue facoltà, il 21 aprile 1736 – fu trovato presso il suo tavolino di lavoro con le mani sul volto, la sera prima avendo continuato a trattare problemi dell’Impero. La sua salma riposa nel Duomo di Santo Stefano a Vienna. Il suo soprannome fu «il nobile Cavaliere», der Edle Ritter. Come abbiamo detto, forse oggi quanto mai la sua figura presenta un valore simbolico di simbolo europeo italico-germanico, dimostrando tutto ciò che possono le forze delle due razze quando esse trovano le vie per un incontro creativo.



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Tratto da La Stampa del 21 maggio 1943 – XXI.


Eugenio di Savoia | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/eugeniodisavoia.html)

Majorana
24-08-10, 09:40
La caduta dell’idea di Stato

Per potere studiare non nei suoi aspetti esteriori e consequenziali, bensì nelle sue cause profonde e in tutta la sua portata, il processo di caduta che ha subito nei tempi ultimi l’idea di Stato, ci è d’uopo prender per punto di riferimento una visione generale della storia che ha per centro la constatazione di un fenomeno fondamentale: il fenomeno della regressione delle caste.

Julius Evola, Imperialismo pagano. Il fascismo dinnanzi al pericolo euro-cristiano. Quarta edizione corretta e con due appendici. Heidnischer Imperialismus. Seconda edizione riveduta E’ una visione, questa, interessante, per la sua doppia caratteristica, di esser attuale da un lato, e simultaneamente tradizionale. Essa è attuale, inquantoché sembra corrispondervi una sensazione più o meno precisa che oggi si è preannunciata significativamente per vie diverse e quasi contemporaneamente in scrittori di diverse nazioni. Già la dottrina del Pareto circa la «circolazione delle élites» contiene in germe questa concezione. E mentre noi stessi l’accennavamo nello specifico riferimento allo schema delle caste antiche in un nostro libro di battaglia (Imperialismo Pagano), in forma più definitiva e sistematica essa è esposta in Francia da René Guénon ed in Germania, sia pure con esagerazioni estremistiche, dal Berl. Infine, è significativo che non diversa concezione oggi ha fornito ad un’opera animata da schietto spirito «squadrista» le premesse per denunciare le « vigliaccherie del secolo XX».

Ma vi è un secondo e più generico titolo di attualità per il nostro argomento, dovuto al nuovo «clima» spirituale subentrato, in tema di filosofia della cultura, ai grevi miti positivistici di ieri. Come si intuisce facilmente, la nozione di una regressione delle caste ha presupposti nettamente antitetici rispetto a quelli delle ideologie progressistiche ed evoluzionistiche che la mentalità razionalistico—giacobina ha introdotti fin in sede di scienza e di metodologia storica, elevando a verità assoluta quella che, in fondo, solo saprebbe convenire ad un parvenu: la verità, che il superiore deriva dall’inferiore, la civiltà dalla barbarie, l’uomo dalla bestia, e così via, fino a sboccare nei miti dell’economia marxista e nei vangeli sovietici del «messianismo tecnico». In parte sotto la spinta di tragiche esperienze, che hanno dissipato i miraggi di un ingenuo ottimismo, in parte per un effettivo rivolgimento interiore, oggi fra le forze più consapevoli e rivoluzionarie simili superstizioni evoluzionistiche, almeno nei loro aspetti più unilaterali e pretenziosi, possono considerarsi liquidate. Con il che si affaccia virtualmente la possibilità di riconoscere una diversa, opposta concezione della storia, che è nuova, ma ad un tempo remota, «tradizionale», e di cui la dottrina della regressione delle caste nelle sue relazioni con la caduta dell’idea di Stato è sicuramente una delle espressioni fondamentali.

Sta invero di fatto che al luogo del mito recente, materialistico e «democratico», dell’evoluzione, le più grandi civiltà del passato avevano concordemente riconosciuto il diritto e la verità dell’opposta concezione, che analogicamente possiamo chiamare «aristocratica», affermante invece la nobiltà delle origini e constatante, nello scorrere dei tempi ultimi, più una erosione, una alterazione ed una caduta, che non una qualunque acquisizione di valori veramente superiori. Ma qui, per non avere l’aria di passare da una unilateralezza ad un’altra, bisogna anche rilevare che nelle concezioni tradizionali cui accenniamo il concetto di una involuzione quasi sempre figura solo come momento di una più vasta concezione «ciclica»; concezione, che, sia pure dilettantescamente ed in un orizzonte assai più ristretto e ipotetico, ha fatto oggi riapparizione nelle teorie circa le fasi aurorali ascendenti e le fasi crepuscolari discendenti del «ciclo» delle varie civiltà, come quelle di uno Spengler, di un Frobenius o di un Ligeti.

Julius Evola, Oriente e Occidente Questa osservazione non è priva d’importanza anche in relazione all’intenzione stessa del presente scritto. Infatti noi qui non ti intendiamo affatto sottolineare tendenziosamente vedute, quali per caso converrebbero a «sinistri profeti del futuro»: intendiamo invece precisare oggettivamente alcuni degli aspetti della storia della politica, che si impongono non appena ci si metta da un punto di vista superiore. E se per tal via avremo da constatare fenomeni negativi nella società e nelle formazioni politiche dei tempi ultimi, in ciò non intendiamo tanto riconoscere un destino, quanto individuare i tratti di quel che si deve anzitutto realisticamente e virilmente riconoscere per procedere poi ad una eventuale, vera ricostruzione. Così il nostro studio si dividerà in tre parti.

Anzitutto considereremo gli antecedenti «tradizionali» della dottrina in parola, consistenti essenzialmente nella «dottrina delle quattro età». Passeremo poi ad esaminare lo schema dal quale trae il suo senso specifico l’idea della regressione delle caste, per poter individuare storicamente tale idea sì da considerare in tutti i suoi gradi ed aspetti la progressiva caduta dell’idea di Stato. Infine, svolgeremo delle considerazioni in ordine agli elementi che la concezione precisata ci offrirà sia per la comprensione generale dei fenomeni politico-sociali più caratteristici ai nostri giorni, sia per la determinazione delle vie atte a condurre verso un migliore avvenire europeo, verso la ricostruzione dell’idea di Stato.

Snorri Sturluson, Edda La sensazione tradizionale di un processo involutivo in atto di realizzarsi nei tempi ultimi, processo per il quale il termine più caratteristico è quello èddico di «ragnaròkkr» (oscuramento del divino), lungi dal restare vaga ed incorporea, determinò una dottrina organicamente articolata, ritrovantesi un pò dappertutto con larghissimo e strano margine di uniformità: la dottrina delle quattro età. Un processo di decadenza spirituale graduale attraverso quattro cicli o «generazioni» —in questi termini fu tradizionalmente concepito il senso della storia. La forma più nota di tale dottrina è quella propria alla tradizione greco-romana.

Esiodo parla appunto di quattro ere, contrassegnate simbolicamente dai quattro metalli, oro, argento, bronzo e ferro, lungo le quali da una vita “simile a quella degli dèi” l’umanità sarebbe passata a forme di una società sempre più dominata dall’empietà, dalla violenza e dall’ingiustizia. La tradizione indoariana ha la stessa dottrina nei termini di quattro cicli, l’ultimo dei quali ha il nome significativo di «età oscura» — kaliyuga — insieme all’immagine del venir meno, in ciascuno di essi, via via di ciascuno dei quattro «piedi» o sostegni del Toro, simboleggiante il dharma, cioè la legge tradizionale d’origine non-umana, la quale in via particolare è quella da cui ciascun essere trae il suo giusto luogo nella gerarchia sociale definita dalle caste. La concezione iranica è affine a quella indoariana e ellenica, e lo stesso si dica per quella caldaica. Per quanto in una trasposizione particolare, la stessa idea trova eco nella tradizione ebraica, nel profetismo parlandosi di una statua splendente, la cui testa è d’oro, il cui petto e le cui braccia sono d’argento, il ventre di rame e i piedi di ferro e di argilla: statua, che nelle sue parti così divise (e tale divisione ha — come vedremo singolare corrispondenza con quella che nell’uomo primordiale, secondo la tradizione vèdica, determina le quattro principali caste) rappresenta quattro «regni» che si succederanno a partir da quello «aureo» del «re dei re ricevente dal dio del cielo, potenza, forza e gloria».

Non solo in Egitto si riproduce un tale motivo con certe varianti che qui non è il caso di esaminare e spiegare, ma perfino oltre l’Oceano, nelle antiche tradizioni imperiali azteche. La relazione fra la dottrina delle quattro età — che in una certa misura si proietta nel mito o fra le penombre della più alta preistoria— e la dottrina della regressione delle caste e della relativa caduta dell’idea di Stato si stabilisce per una doppia via. Anzitutto per questo: per la concezione stessa che del tempo e dello sviluppo degli eventi nel tempo aveva l’uomo tradizionale.

Julius Evola, L'arco e la clava Per l’uomo tradizionale il tempo non scorreva uniformemente e indefinitamente, ma si fratturava in cieli o periodi, ciascun punto dei quali aveva una sua individualità costituendo, insieme con gli altri, la completezza organica di un tutto. Per tal via, la durata cronologica di un ciclo poteva anche esser labile. Periodi quantitativamente diseguali potevano esser assimilati, una volta che ciascuno di essi riproducesse tutti i momenti tipici di un ciclo. Su questa base, valeva tradizionalmente una corrispondenza analogica fra grandi cicli e piccoli cicli, che permetteva di considerare uno stesso ritmo, per così dire, su ottave di diversa ampiezza. E così che esistono delle effettive corrispondenze fra il ritmo «quattro» quale figura in universale a chiave della dottrina delle quattro età e il ritmo «quattro» quale figura in un ambito più ristretto, più concreto e più storico, in relazione alla discesa progressiva dell’autorità politica dall’una all’altra delle quattro antiche caste.

E i punti caratteristici che nella prima dottrina si presentano come miti, epperò superstoricamente, possono per ciò stesso introdurci nel senso di rivolgimenti storici concreti analogicamente corrispondenti. La seconda giustificazione del nostro metter in relazione le due dottrine sta in questo: che nella gerarchia delle quattro caste principali, quale fu tradizionalmente concepita, troviamo fissati, per così dire, in immobile coesistenza, come strati sovrapposti del tutto sociale, i valori e le forze che, attraverso la dinamica di un divenire storico, sia pure regressivo, avrebbero preso a dominare via via in ciascuno dei quattro grandi periodi.

Ci limiteremo a rilevare che nei riguardi della suprema delle caste, quella che corrisponde alle stirpi dei Re Divini, e nel concetto stesso della funzione da questi incarnata, dovunque essa si sia manifestata, sono ricorrenti espressioni, simboli e figurazioni che corrispondono sempre e in modo uniforme a quelle che, nel mito, vengono riferite alle generazioni del primo ciclo, dell’età aurea. Se noi abbiamo già visto che nella tradizione ebraica la prima epoca, aurea, entra direttamente in relazione coi concetto supremo della regalità — nelle tradizioni classiche è significativa la relazione leggendaria fra il dio di tale èra, e Giano, poiché questi in un suo aspetto valse come simbolo per una funzione simultaneamente regale e pontifìcale; nella tradizione indo—ariana l’età dell’oro è quella in cui la funzione regale, interamente desta, opera secondo verità e giustizia, mentre l’età oscura è quella in cui essa “dorme”; nella tradizione egizia la prima dinastia è quella stessa che ha gli attributi dei Re Solari Osirificati, signori delle due corone, concepiti come esseri trascendenti — e fin nelle tradizioni dell’ellenismo iranizzato i sovrani assumevano non di rado le insegne simboliche di Apollo—Mithra, concepito come il Re Solare di “coloro dell’età aurea”. Per contro, sarebbe facile mostrare che nelle epoche ultime, nell’età oscura, o del ferro, o del «lupo», viene direttamente o indirettamente figurato un predominio di quelle forze «infere», promiscue, legate alla materia e al lavoro come ad un oscuro destino — ponos — alle quali nella gerarchia tradizionale corrispondeva la ultima delle caste (l’età oscura — viene detto esplicitamente — è quella contrassegnata dall’avvento al potere della casta dei servi, cioè del puro demos). Mentre, per una epoca intermedia, sia il suo riferimento all’epoca di semidei come eroi (Ellade), o a quella in cui il re ha per caratteristica solo l’azione energica (India), o in cui appaiono forze titaniche in rivolta (Edda, Bibbia) ci rimanda più o meno direttamente al principio proprio alla casta dei «guerrieri».

Julius Evola, Cavalcare la tigre E tanto basta per quel che concerne l’inquadramento «tradizionale» di quella veduta della storia, che adesso passeremo a considerare nei suoi tratti essenziali. Come premessa, siamo naturalmente tenuti a precisare e a giustificare ciò che abbiamo chiamato «gerarchia tradizionale» è la nozione stessa di casta. L’ideabase, è quella di uno Stato non pure come organismo, ma altresì come organismo spiritualizzato, tale da innalzare per gradi il singolo da una vita naturalistica prepersonale ad una vita supernaturale e superpersonale attraverso un sistema di «partecipazioni» e di subordinazioni atte a ricondurre costantemente ogni classe di esseri cd ogni forma di attività ad un unico asse centrale. Si tratta dunque di una gerarchia politico—sociale con fondamento essenzialmente spirituale, nella quale ciascuna casta o classe corrispondeva ad una determinata forma tipica di attività e ad una funzione ben determinata nel tutto.

Questo significato prese particolare risalto nella concezione indoariana secondo la quale, di là delle quattro principali caste, quelle superiori di fronte a quelle servili erano concepite come l’elemento «divino» di “coloro che sono rinati” — dvija — culminante in “coloro che sono simili al sole”, di contro all’elemento «demonico» — asurya — degli esseri oscuri krshna. Per tal via, come premessa uno degli autori moderni citati al principio, il Berl, parte da una concezione dinamico—antagonista della gerarchia tradizionale, quasi di lotta fra kosmos e chaos: l’aristocrazia sacrale incorporerebbe il «divino» nella sua funzione olimpica di ordine, e la massa il «demonico» (non nel senso morale cristiano, ma nel senso di puro elemento naturalistico): l’uno tenderebbe a trascinare con sé l’altro, e ciascuna delle forme intermedie corrisponderebbe ad una data mescolanza dei due opposti elementi. Quanto poi alla ragione della quadripartizione — quattro principali caste — essa procede dall’analogia con lo stesso organismo umano. Così per esempio nella tradizione vèdica le quattro caste sono fatte corrispondere a quattro parti fondamentali dcel «corpo» dell’uomo primordiale — e a tutti sono note le riprese di tali analogie per la giustificazione organica dello Stato, che si ebbero sia in Grecia (Platone) che a Roma. In realtà, ogni organismo superiore presenta in connessione gerarchica quattro funzioni distinte, seppure solidali: al limite inferiore vi sono le energie indifferenziate prepersonali della vitalità pura. Su di esse però già domina il sistema degli scambi vitali e dell’economia generale organica (sistema della vita vegetativa).

A questo sistema, peraltro, è soprordinata la volontà, come ciò che muove e dirige il corpo come tutto nello spazio e nel tempo. Infine, al sommo, una potenza di libertà e di intelletto, lo spirito quale principio sovrannaturale dell’umana personalità. Esattamente questa è, trasposta in termini di gerarchia sociale, la ragione analogica delle quattro antiche caste indoariane: in corrispondenza — rispettivamente — a vitalità subpersonale, economia organica, volontà e spiritualità, vi erano dunque le quattro caste distinte dei servi — sudra — della borghesia abbiente, agricola, commerciante e (nei limiti antichi) industriale — vaicya — dell’aristocrazia guerriera — kshatriya — e, infine, di una aristocrazia puramente spirituale che forniva i Re Divini, o le nature virilmente sacerdotali, gli «iniziati solari» i quali, concepiti come «più che uomini», apparivano agli occhi di tutti come coloro che irrepugnabilmente e più di ogni altro avevano il diritto legittimo al comando e la dignità dei Capi: e di quest’ultima casta i brahmana, in un certo senso (diremo poi perché solo «in un certo senso»), furono i rappresentanti nell’antica India ariana. Chiamiamo tradizionale, e non semplicemente indù, questa quadripartizione, perché essa effettivamente si lascia ritrovare, in forma più o meno completa, in varie altre civiltà: Egitto, Persia, Ellade (in una certa misura), Messico, fino a giungere al nostro Medioevo, che ci mostra parimenti la quadripartizione sociale supernazionale in servi, borghesia (Terzo stato), nobiltà, clero.

Julius Evola, La Tradizione Ermetica Qui si tratta di applicazioni più o meno complete, ora in sede di classi, ora in sede di caste vere e proprie, di uno stesso principio, il cui valore è indipendente dalle sue realizzazioni storiche e che, in ogni modo, ci presentano uno schema ideale atto a farci comprendere il vero senso dello sviluppo storico-politico dalle soglie dei cosiddetti tempi storici fino ai nostri giorni. In ordine al significato complessivo del sistema gerarchico, sarebbe inesatto, e condurrebbe all’equivoco, data l’accezione corrente della parola, il qualificarlo come «teocratico». Se in ciò si pensa al tipo di uno Stato retto da una casta sacerdotale, o clero, così come appare nelle forme più recenti di religione occidentale, non di questo è il caso nelle costituzioni in parola. Al vertice della gerarchia, nelle forme politiche veramente originarie troviamo invece una sintesi inscindibile dei due poteri, cioè del regale e del sacerdotale, del temporale e dello spirituale in un’unica persona, concepita quasi come incarnazione di una forza trascendente.

Il Rex era simultaneamente Deus et Pontifex, e qui, quest’ultima parola va presa nella trasposizione analogica del suo senso etimologico di «facitore di ponti» (Festo, S. Bernardo): il Re, come Pontifex, era il facitore di ponti fra naturale e sovrannaturale, ed eminentemente in lui era riconosciuta la presenza della forza dall’alto capace di animare i riti e i sacrifici, concepiti, questi, come azioni oggettive trascendenti atte a sorreggere invisibilmente lo Stato e a propiziare la «fortuna» e la «vittoria» dì una stirpe. Se dall’antica Cina e dall’antico Giappone ci portiamo all’antico Egitto, alle prime forme regali ellenico—achee e poi romane, ai ceppi nordici primordiali, alle dinastie degli Inca e così via, noi vediamo sempre ripresentarsi questo concetto; non troviamo al vertice una casta sacerdotale o chiesa; vediamo che la «regalità divina» non riceve da altro (come quando subentrerà il rito dell’investitura) la sua dignità e autorità: essa — come si diceva nell’antica Cina e come si ripeterà nell’ideologia ghibellina del Sacro Romano Impero ha direttamente il «mandato del Cielo» e si presenta come una specie di «superumanità» virile e spirituale ad un tempo.

Fissar bene questo punto, è essenziale, per poter individuare dove, idealmente, si inizio il processo regressivo nei confronti dell’ideale politico tradizionalmente più alto. In tale ideale la gerarchia delle quattro classi o caste (qui non possiamo distinguere le due nozioni, nè indicare le premesse metafisiche con le quali si giustificava la chiusura endogamica) sensibilizzava dunque i gradi progressivi di una elevazione della personalità in corrispondenza ad interessi e forme di attività sempre più libere dal vincolo del vivere immediato e naturalistico. Poiché, rispetto all’anonimato delle masse intente al mero vivere, già gli organizzatori del lavoro, i possessori patriarcali di una terra, rappresentavano l’abbozzo di un tipo, di una persona.

Julius Evola, La dottrina del risveglio Ma nell’ethos eroico del guerriero è già chiara una forma di superamento attivo dei vincoli umani, la forza di un «più che vita» — intronata poi come calma dominazione nel capo, lex animata in terris. L’ideale della fedeltà— bhakti, dicevano gli Indo—ariani, fides dicevano i Romani, Treue, trust ripeterà nel Medioevo — nella doppia forma di fedeltà alla propria natura e di fedeltà alla casta superiore, faceva la saldezza della gerarchia ed era via per una partecipazione dignificante dell’inferiore al superiore attraverso il servigio, la dedizione, l’obbedienza di fronte ad un principio di autorità eminentemente spirituale: giacché là dove il regime delle caste — come nell’india — ebbe il suo massimo rigore, proprio là vediamo le caste più alte imporsi né attraverso la violenza, né attraverso la ricchezza, ma appunto attraverso l’intima dignità della funzione che corrispondeva alla loro natura.

Con ciò abbiamo tutti gli elementi per comprendere il corso dei tempi ultimi come una graduale discesa del potere, dell’autorità e dell’idea di Stato — come pure dei valori e degli ideali predominanti — dall’uno all’altro dei livelli corrispondenti alle quattro antiche caste. Infatti l’epoca del potere delle “regalità divine” retrocede già talmente fra le penombre della preistoria, che oggi ai più riesce estremamente difficile, se non impossibile, ricostruirne il giusto senso. O si crede di aver a che fare con miti e superstizioni, o ci si riduce all’accennata formuletta scolastica spicciativa: “teocrazia”. E quand’anche qualcuno ricordi ancora ciò che fino a ieri sussisté come residuo di siffatta concezione primordiale e sacrale — cioè la dottrina del diritto divino dei Re — quegli ne ignora del tutto le premesse effettive, né sa comunque reintegrarla nella visione complessiva della vita e del sacrum, da cui essa trasse originariamente la sua potenza e la sua «legittimità» in senso superiore e oggettivo.

E’ naturale che voler precisare storicamente le cause del discendere dell’idea di Stato da quel supremo livello sarebbe presuntuoso, tanto lontano retrocede tale fenomeno nel terreno malfermo della preistoria. Tuttavia, in sede ideale, qualcosa si lascia dire con sufficiente margine di probabilità attraverso le testimonianze concordanti che ci forniscono le tradizioni orali o scritte di tutti i popoli: noi troviamo gli indizi di frequente opposizione fra i rappresentanti dei due poteri, l’uno spirituale l’altro temporale, quali si siano le forme speciali rivestite dall’uno e dall’altro di questi due poteri per adattarsi alla diversità delle circostanze.

Julius Evola, Meditazioni delle vette Questo fenomeno che, peraltro, non saprebbe esser originario, segna idealmente l’inizio della decadenza. Possiamo dire che alla sintesi primordiale, espressa dalla nozione della Regalità Divina, subentrò allora la separazione e poi l’antitesi appunto di autorità spirituale e di potere temporale e, a dir vero, nei termini di una spiritualità che non è più regale ma sacerdotale, e di una regalità che non è più spirituale e sacrale ma semplicemente e materialmente «politica» e laica: la tensione gerarchica si allenta, l’apice frana, si produce come una frattura, che fatalmente dovrà prolungarsi fino ad intaccare dalle fondamenta l’integrità del tutto tradizionale.

Sotto tale riguardo, l’avvento al potere di una casta semplicemente sacerdotale esprime o una rinuncia dall’alto, o una usurpazione dal basso, o l’una e l’altra cosa insieme, e caratterizza il primo tratto di un arco discendente. Inutile dire, che qui ci troviamo di fronte ad un fenomeno relativamente recente. Lo stesso primato che in India guadagnò la casta sacerdotale brahmana è probabilmente da considerarsi come l’effetto dell’importanza che sempre più assunse il purohita, il sacerdote originariamente al servizio del re concepito come «un gran dio sotto forma umana» allorché l’originaria unità delle razze ariane subì la dispersione.

In Egitto sin verso la XXI dinastia il Re Solare solo eccezionalmente delegava un sacerdote per compiere i riti e l’autorità sacerdotale restò sempre un riflesso di quella regale — solo più tardi si costituì la dinastia sacerdotale di Tebe a detrimento di quella regale. E’ un rivolgimento che, peraltro, si affacciò anche nell’Iran, ma fu represso con la cacciata del sacerdote Gaumata, il quale aveva cercato di usurpare la dignità regale.

Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno A Roma, secondo la tradizione, il rex sacrorum non si sarebbe costituito che con la delega di un potere che, originariamente, fino a Numa, il re conservava per sé, e che il sovrano riprese per sé nel periodo imperiale — e fenomeni del genere si potrebbero certamente riscontrare anche altrove. In ogni modo, l’affermazione di Gelasio I, che “dopo il Cristo, nessun uomo può più esser ad un tempo re e sacerdote» e stigmatizzante come diabolica tentazione e creaturale superbia l’aspirazione dei re ad assumere dignità sacra, può valerci come conclusiva per lo sviluppo di detto fenomeno: allo stesso modo che, riconoscendo dietro alle rivendicazioni ghibelline degli imperatori medievali e al carattere stesso dei grandi Ordini cavallereschi crociati un tentativo ora palese, ora occulto, ma purtroppo in buona misura ormai anacronistico e incerto, di ricostituire la sintesi dei due poteri, del regale e del sacrale, dell’eroico e dell’ascetico — nella lotta fra Impero e Chiesa noi dobbiamo considerare l’ultimo episodio di una vicenda rifacentesi agli inizi stessi del processo di discesa ora esaminato. Ed è ben di un processo di discesa che qui si tratta, per questo: che dalla separazione dei due poteri prese inizio il dualismo, doppiamente distruttivo, di una spiritualità che si rende sempre più astratta, «ideale», incorporea, sovramondana in senso cattivo e rinunciatario, da una parte — e dall’altra, di una realtà politica che si rende sempre più materiale, secolarizzata, laica, agnostica, dominata da interessi e da forze che sempre più appartengono non pure al mero «umano», ma infine allo stesso subumano, all’elemento prepersonale del puro collettivo.

Franato l’apice, il primo fenomeno decisivo per questa discesa, con il quale il centro passa dalla prima alla seconda delle quattro caste, può definirsi come la “rivolta dei guerrieri”. Anche questo fenomeno ha tratti pressoché universali, e si esprime non solo nella storia, reale o leggendaria, ma anche nel mito: quasi tutti i popoli, in relazione spesso con la dottrina delle quattro età (la corrispondenza è sopra tutto con l’età del bronzo o del «lupo o dell’ascia» o degli «eroi» in senso ristretto) recando il ricordo di rivolte più o meno «luciferiche», di razze di «giganti» — i nephelim biblici — o di titani, o di non-dèi — i raksasa e gli asura indoariani — che insorgono contro figure simboliche per una spiritualità divina, spesso ad affermare il principio della guerra e della mera violenza — ossia una distorsione del principio proprio appunto alla casta dei guerrieri — o ad usurpare un fuoco simbolico, che però si trasforma in motivo di prometeico tormento. E quando non si tratta appunto di usurpazione (ossia, in termini concreti: del tentativo del potere semplicemente temporale di subordinare e ridurre a instrumentum regni l’autorità spirituale, sia pur divenuta, questa, soltanto «sacerdotale») — qui si tratta in ogni caso di una rivolta che è sinonimo, semplicemente, di abdicazione e di mutilazione. Il Guénon assai giustamente rileva che ogni casta, mettendosi in rivolta e pretendendo di costituirsi come autonoma, si degrada in un certo qual modo inquantoché perde con ciò stesso la partecipazione e la facoltà di riconoscimento di un principio superiore, perde il suo carattere proprio quale l’aveva nell’insieme gerarchico per assumere quello della casta immediatamente inferiore. Ad ogni modo, a questo punto, per riferirei agli orizzonti storici a noi più prossimi, siamo all’avvento dell’epoca dei «re guerrieri», quale è visibile sopra tutto in Europa.

Non più una aristocrazia virilmente spirituale, ma solo una nobiltà militare secolarizzata sta a capo degli Stati: fino alle ultime grandi monarchie europee. Qualità sopra tutto etiche vanno a definirla: quella certa nobiltà intima, quella certa grandezza e superiorità eroica connessa alla eredità di un sangue selezionato e anche a prestanza fisica e a naturale prestigio, che sono i contrassegni abituali del tipo più recente e già secolarizzato dell’aristocrate. E a tale livello il Guénon rileva giustamente che per lo Stato più che di autorità, è ormai il caso di parlare di potere, questa parola evocando quasi inevitabilmente l’idea di potenza o forza, e sopra tutto di una forza materiale, di una potenza che si manifesta visibilmente all’esterno e si afferma adoperando mezzi esteriori, mentre l’autorità spirituale, interiore per essenza, non si afferma che da se stessa, indipendentemente da ogni appoggio sensibile, e si esercita, in un certo senso, invisibilmente: sì che se si può ancora parlare qui di autorità, è solo in termini di analogia. Passando ora a considerare il secondo crollo, quello in forza del quale il centro dalla casta dei guerrieri si porta ancor più giù, fino alla casta dei mercanti, se ci riferiamo alla storia europea, esso si annuncia col tramonto del Sacro Romano Impero, anzi, già con l’opera iniziata da Filippo il Bello. L’autorità spirituale, trasformatasi in potere temporale, ha per sua caratteristica una ipertrofia materialistica e devastatrice del principio di centralizzazione statale. Il sovrano teme di perdere il suo prestigio di fronte a coloro che, in fondo, sono ormai suoi pari, cioè ai vari Principi feudali e, per consolidarlo, non si perìta ad avversare la stessa nobiltà, alleandosi col Terzo stato e non esitando ad appoggiare le rivendicazioni di questo contro la nobiltà: “E così che vediamo la regalità, per centralizzarsi e assorbire in sé i poteri che appartenevano collettivamente alla nobiltà tutta intera, entrare in lotta con questa e lavorare alla distruzione della feudalità, dalla quale purtuttavia era sorta: essa d’altronde non poteva farlo che appoggiandosi al Terzo stato, che corrisponde ai vaicya (la casta indù dei mercanti), ed è per questo che noi vediamo anche, appunto a partir da Filippo il Bello, i re di Francia circondarsi quasi costantemente della borghesia, sopra tutto coloro che, come Luigi Xl e Luigi XIV hanno spinto più lontano il lavoro di ‘centralizzazione’, di cui del resto la borghesia doveva in seguito raccogliere il beneficio quando essa si impadronì del potere con la rivoluzione” (Guénon).

Julius Evola, Gli uomini e le rovine A questo punto si inizia il processo di sostituzione del sistema nazionale a quello feudale. E nel XIV secolo che le nazionalità cominciano a costituirsi attraverso il detto lavoro di centralizzazione. Si ha ragione di dire che la formazione della “nazione francese”, in particolare, fu l’opera dei re; questi, per ciò stesso, prepararono senza volerlo la loro rovina. E se la Francia fu il primo paese europeo in cui la regalità fu rovesciata, è perché fu in Francia che la “nazionalizzazione” ebbe il suo punto di partenza. D’altronde, occorre appena ricordare quanto ferocemente la Rivoluzione francese fu “nazionalista” e “centralizzatrice”, ed anche, quale uso propriamente rivoluzionario e sovvertitore si fece, durante tutto il corso del XIX secolo, e fin nella prima guerra mondiale, del cosiddetto «principio delle nazionalità». Perciò, se già nei costituirsi delle repubbliche mercantili e delle città libere se nella rivolta dei Comuni contro l’autorità imperiale e poi nelle guerre dei contadini abbiamo i prodromi del gonfiarsi dal basso dell’onda sovvertitrice, l’assolutismo centralizzatore dei re guerrieri, in atto di costituire dei poteri pubblici in sostituzione materialistica del cemento puramente spirituale dato dal precedente ideale della fides, con abolizione di ogni privilegio e della stessa nozione dello jus singulare nel quale ancora si conservava qualcosa dell’antico principio delle caste un tale assolutismo apre dall’alto le vie e va incontro a quell’onda dal basso, alla demagogia: e i poteri pubblici saranno l’organo in cui, scalzata la monarchia, o ridottasi questa a vuoto simbolo con le costituzioni e con la famosa formula del Thiers: «Le roi règne, mais il ne gouverne pas», doveva incarnarsi il mero collettivo, la nazione, dapprima sotto specie di Terzo stato.

Attraverso la rivoluzione liberale abbassandosi l’idea della giustificazione dello Stato a quella mercantile e utilitaristica di un «contratto sociale», prende forma infatti il capitalismo moderno e, infine, l’oligarchia capitalistica, la plutocrazia, finisce col controllare e col dominare la realtà politica — il potere scende cioè a quel che in termini tradizionali corrisponde al livello della terza casta, all’antica casta dei mercanti. Con l’avvento della borghesia, l’economia viene a dominare su tutta la linea e la supremazia di essa viene apertamente proclamata nei riguardi di ogni sussistente resto dei principi non diciamo spirituali, ma semplicemente etici ancora vivi nel mondo politico occidentale. È la teoria paretiana dei «residui» e quella marxista delle «superstrutture». Per la forza di una logica piena di significato, la denominazione regale passa ai «re del dollaro», ai «re del carbone», ai «re dell’acciaio», e via dicendo.

Ma come l’usurpazione chiama l’usurpazione, dopo i borghesi sono ora i servi che, a loro volta, aspirano al dominio. Lo pseudoliberalismo della borghesia doveva richiamare fatalmente il «socialismo» in regime di masse e, questo, elementi ancor più inferiori, la pura «demonia» del collettivo. Fomentato dalle distruzioni internazionalistiche, antitradizionalistiche, illuministiche e democratiche inevitabilmente connesse al tipo moderno di civiltà e di cultura, con il marxismo, la terza internazionale, il manifesto del comunismo, la rivolta proletaria contro la borghesia capitalistica e, infine, con la rivoluzione russa e il nuovo ideale collettivistico bolscevico si assiste all’ultimo crollo, all’avvento della quarta casta: il potere passa nelle mani della mera massa priva di volto, la quale volge ad instaurare una nuova epoca universale dell’umanità sotto i rozzi segni di falce e martello. E qui il Berl forza le tinte: per lui con l’avvento del Quarto stato siamo al vestibolo del mondo subumano.

Julius Evola, Augustea (1941-1943). La Stampa (1942-1943) Il Quarto stato è disanimato e il suo scopo è la disanimazione della vita, della società, della stessa interiorità umana: e tali, dopo lo standardismo e il taylorismo americano, sono i fini perseguiti dalla cosiddetta “purificazione proletaria» dai residui dell’Io borghese e dal cosiddetto messianismo tecnico sovietico. D’altronde, estraendo dalla forma mitica il contenuto reale, rivolgimenti del genere furono preveduti in più di un insegnamento tradizionale. Se l’Edda profetizza «giorni amari» in cui gli esseri della terra — gli Elementarwesen proromperanno a travolgere le forze divine e i «figli di Muspell» spezzeranno l’arco Bifròst che unisce cielo a terra (si ricordi l’anzidetto simbolismo della funzione pontificale della sovranità quale facitrice di ponti), un tema analogo si trova per esempio nella leggenda che, da tempi remoti, giunse nel Medioevo e vi costituì una specie di leitmotiv: la leggenda delle genti «demoniche» di Gog e Magog che, spezzando la simbolica muraglia di ferro con cui una figura imperiale aveva loro sbarrata la via (simbolo per i limiti tradizionali e per l’ideale dello Stato quale kosmos vittorioso su chaos), proromperanno per cercar di vincere l’ultima battaglia impadronirsi di tutte le potenze della terra. D’altra parte, già accennammo che secondo la tradizione indoariana il kalìyuga, o età oscura, sarebbe caratterizzato dal predominare della casta dei servi, dal prorompere di una razza di barbari senza fede, «intenti a apprezzare la terra solo per i tesori che essa contiene» (VishnuPurana).

Togliendo a tutto ciò l’elemento coreografico-apocalittico, qui sarebbe difficile non riconoscere la corrispondenza della nuova «civiltà» sovietica della bestia senza volto senza volto perché composta da una moltitudine innumerevole — in atto di costruirsi razionalmente i più moderni strumenti di meccanica potenza. Se il contemporaneo Julien Benda profetizza come epilogo del fenomeno, da lui precisato, della trahison des clercs “l’umanità, e non più una certa frazione di essa, prenderà sé stessa per oggetto di religione. Si arriverà così ad una fratellanza universale che, lungi dall’abolire lo spirito di nazione con i suoi appetiti e i suoi orgogli, ne sarà la forma suprema, la nazione chiamandosi l’Uomo e il nemico Dio. E da quel momento, unificata in una armata immensa e in una immensa officina, non conoscendo più che discipline e invenzioni, infamando ogni attività libera e disinteressata e non avendo per Dio che sé stessa e i suoi voleri, l’umanità giungerà a grandi cose, cioè ad una presa veramente grandiosa sulla materia che la circonda”; se un Benda scrive ciò, qui vediamo proprio una specie di traduzione aggiornata dei termini dell’antica profezia tradizionale.

In realtà, se si è giunti a pensare che non pure l’idea di casta, ma anche quella di classe è una idea superata e se si è affacciata la convinzione che la stessa famiglia e la stessa personalità sono dei pregiudizi borghesi e, infine, che l’idea tradizionale di nazione non ha più un futuro, come più alto ideale ponendosi un conglomerato internazionale omogeneo, proletarizzato, avente per unico cemento il lavoro — è facile riconoscere che si sta facendo largo un concetto sociale conforme non più all’una o all’altra delle caste, ma addirittura al fuori casta, al paria: nel paria essendo stato considerato appunto chi è senza personalità, né culto: insomma, l’uomo libero.

È dunque alla glorificazione del paria e alla sua costituzione a modello universale presso ai miraggi di una potenza puramente arimanica, che sembra sbloccare il vantato progresso dell’Occidente, auspice prima la disgregazione individualistica e illuministica, poi il fermento barbarico connaturato nell’anima slava in connubio col materialismo storico dell’ebreo Carlo Marx.

Così è evidente che come senso generale di questo processo della regressione delle caste e della caduta dell’idea di Stato si ha il trapasso involutivo della personalità spirituale al collettivo prepersonale del quale, in forma mistica, era simbolo il totem delle società primitive. In realtà, solo aderendo ad una attività libera l’uomo può esser libero e sé stesso. Così nei due simboli dell’azione pura (eroismo, assunzione della vita a rito) e della conoscenza pura (contemplazione, ascesi) sostenuti da un regime di giusta diseguaglianza (suum cuique), le due caste superiori aprivano all’uomo vie di partecipazione a quell’ordine sovramondano, solo nel quale egli può appartenere a sé stesso e cogliere il senso integrale e universale della personalità. Nel distruggere ogni interesse per quell’ordine, nel concentrarsi sulla parte passionale e naturalistica del proprio essere, su scopi pratici e utilitari, su realizzazioni economiche e su ogni altro degli oggetti originariamente propri solo alle caste inferiori, l’uomo invece abdica, si discentra, si disintegra, si riapre a quelle forze irrazionali e prepersonali della vita collettiva, elevarsi al disopra delle quali costituì lo sforzo di ogni cultura veramente degna di questo nome. E così che, una volta avvenuta la disgregazione e la rivolta individualistica, nelle forme sociali dei tempi ultimi il collettivo acquista sempre più potenza, fino al punto di ridestare, in forma nuova, ma ancor più temibile, perché meccanizzata, razionalizzata, centralizzata e tradotta in termini di despotisrno sociale, economico o statale, il totemismo delle tribù primitive.

La nazione giacobinamente concepita, il «popolo», la società, o l’umanità assurgono ora ad una personalità mistica e esigono dai singoli, che di essa sono parte, dedizione e subordinazione incondizionate, mentre in nome della «libertà» viene fomentato demagogicamente l’odio per quelle individualità superiori e dominatrici, solo di fronte alle quali il principio della subordinazione e dell’obbedienza dei singoli era sacro e giustificato. E questa tirannide del gruppo non si limita ad affermarsi in ciò che nella vita del singolo ha carattere «politico» e «sociale»: essa si arroga un diritto morale e spirituale, e pretendendo che cultura e spirito cessino di esser forme disinteressate di attività, vie per l’elevazione e la dignifìcazione della personalità e quindi per la realizzazione dei presupposti stessi di ogni gerarchia vera e virile, e divengano organi al servigio dell’ente temporale collettivo; dando l’ostracismo ad ogni «movente sovrannaturale o comunque estraneo agli interessi della classe» (Lenin) e scoprendo, per tal via, «in ogni intellettuale un nemico del potere sovietico» (Zinoviev), essa bandisce proprio la morale di chi afferma che mente e volontà solo hanno valore, quando si riducano a strumenti a servigio del corpo. D’altronde, la regressione quadripartita non ha solo carattere politico-sociale e psicologico, ma è anche quella di una data etica in una inferiore, di una data concezione della vita in una inferiore. Infatti mentre all’epoca «solare» era proprio l’ideale della spiritualità pura e l’etica della liberazione attiva dalla caducità umana; mentre all’epoca dei «guerrieri» era proprio ancora l’ideale dell’eroismo, della vittoria e della signoria e l’etica aristocratica dell’onore, della fedeltà e della cavalleria — nell’epoca dei «mercanti» l’ideale è la ricchezza (prosperity) , l’economia pura, il guadagno concepito — secondo la deviazione puritana derivata dall’eresia protestantica — come segno dell’approvazione divina, l’ascesi del capitalismo, la scienza come strumento di sfruttamento tecnico-industriale propiziatore di produzione e di nuovo guadagno o di degradante razionalizzazione della vita — e infine con l’avvento dei «servi» sorge l’ideale del «servizio» anodino all’ente collettivo socializzato e l’etica universale proletaria del lavoro (“chi non lavora non mangia”) con degradazione di ogni forma superiore di attività appunto in assunzioni sotto specie di «lavoro» e «servizio», cioè di quel che solo era il «dovere», il «modo d’essere», dell’ultima delle caste.

E considerazioni analoghe, constatazioni di un ritmo quadripartito di caduta si potrebbero facilmente fare in ordine a molti altri domini: famiglia, arte, guerra, proprietà, ecc. La dottrina della regressione delle caste invero manifesta in ciò la sua fecondità: essa ci dà la possibilità di cogliere il senso complessivo di fenomeni vari, che di solito sono considerati separatamente, senza sospetto dell’intelligenza a cui obbediscono, e sono avversati confusamente dai più senza una sensazione nè delle linee nemiche vere nè delle posizioni, solo riferendosi alle quali è possibile una vera difesa e una radicale reazione ricostruttrice.

Ora, proprio questo punto deve attirare la nostra attenzione: il problema ricostruttivo, la restaurazione dell’idea vera di Stato. Il Guénon giustamente rileva che nella misura in cui ci si sprofonda nella materialità, l’instabilità cresce, i cambiamenti si producono in modo sempre più rapido.

Così il regno della borghesia non potrà avere che una durata relativamente breve in confronto di quella del regime a cui esso è succeduto, e se elementi ancor più inferiori accedono al potere in un modo o nell’altro — nelle varietà dell’avvento del mero collettivo — e da prevedersi che il loro regno sarà verosimilmente il più breve di tutti e segnerà l’ultima fase di un certo ciclo storico, dato che non si può scendere più in basso.


La caduta dell'idea di Stato | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/cadutaideadistato.html)

Majorana
24-08-10, 09:41
Arianità della dottrina del risveglio

Resta da dire qualcosa circa l’«arianità» della dottrina buddhista. Il nostro uso del termine «ario» in ordine a tale dottrina si giustifica anzitutto direttamente con i testi. Nel canone, ricorre dovunque il termine ariya (in sanscrito âriya), che vuole appunto dire «ario». Aria è detta la via del risveglio – ariya magga; arie sono le quattro verità fondamentali – ariya saccâni; ario il metodo di conoscenza – ariya-naya; ariya è detto l’insegnamento – in prima linea quello che accusa la contingenza del mondo – il quale a sua volta si rivolge agli ariya: si parla della dottrina, come di quella che non al volgare, ma solo agli ariya è accessibile ed intelligibile. Vi è chi ha voluto tradurre il termine ariya con «santo». Ma questa è una traduzione imperfetta, anzi sfasata, data la divergenza effettiva esistente fra ciò di cui si tratta, e tutto quello a cui sùbito si pensa in Occidente quando si parla di «santità». Anche la traduzione di ariya con «nobile» o «sublime» è poco adeguata. Si tratta di significati successivi assunti dal termine, i quali non corrispondono alla pienezza di quello originario, ad un tempo spirituale, aristocratico e razziale, significato che, malgrado tutto, nel buddhismo si è conservato in larga misura. È così che orientalisti, come per es. il Rhys Davids e lo Woodward, hanno ritenuto che sia meglio non tradurre affatto il termine ed hanno lasciato ariya dovunque ricorre nei testi, sia come aggettivo, sia come sostantivo designante una determinata classe di esseri. Gli ariya sono, nei testi del canone, lo Svegliato, gli svegliati e coloro che ad essi sono uniti perché intendono, accettano e seguono la dottrina ariya del risveglio.

Julius Evola, La dottrina del risveglioÈ opportuno sottolineare l’arianità della dottrina buddhista per varie ragioni. In primo luogo, per prevenire chi, contro di essa, volesse avanzare la pregiudiziale dell’esotismo e dell’asiatismo, e parlasse di una sua estraneità rispetto alle «nostre» tradizioni e alle «nostre» razze. Ebbene, va ricordato che l’unità primordiale di sangue e di spirito delle razze bianche che crearono le massime civiltà d’Oriente e d’Occidente, quella irànica e indù non meno di quelle ellenica, romana antica, germanica, è una realtà. Il buddhismo ha il diritto di dirsi ario, perché riflette in alto grado lo spirito delle comuni origini, perché ha conservato parti notevoli di un retaggio che, come si è già detto, gli Occidentali hanno invece via via dimenticato, sia per opera di processi involutivi endogeni, sia perché proprio essi – assai più che non gli Arii d’Oriente – hanno soggiaciuto, specie nel campo religioso, ad influenze estranee. Come si è accennato, tolti alcuni elementi periferici, l’ascesi del primo buddhismo nella sua chiarezza, nel suo realismo, nella sua precisione e nella sua salda e ben articolata struttura, ha effettivamente del «classico», riflette cioè il più elevato stile dell’antico mondo ario-mediterraneo.

E non è soltanto quistione di forma. Una intima congenialità si palesa fra lo spirito dell’ascesi annunciata dal principe Siddharta e quell’accentuazione dell’elemento intellettuale e olimpico, che contrassegna il platonismo, il neoplatonismo e lo stesso stoicismo romano. Altri punti di contatto si riscontrano là dove il cristianesimo fu rettificato appunto da un sangue ario conservatosi maggiormente puro, intendiamo nella cosidetta mistica germanica: si ricordi il Meister Eckhart della predica sul distacco, sull’Abgeschiedenheit, o della teoria dell’«anima nobile»; si ricordi anche un Tauler e un Silesio. Qui, come in ogni altro campo, l’insistere sull’antitesi di Oriente ed Occidente è frivolo. L’opposizione vera è in primo luogo quella che esiste fra le concezioni di tipo moderno e le concezioni di tipo tradizionale, siano, queste ultime, occidentali o orientali; in secondo luogo, è quella che esiste fra le creazioni schiette di uno spirito e di un sangue ario e quelle che, invece, in Oriente come in Occidente, hanno risentito di influenze non arie. Come è stato giustamente rilevato dal Dahlke, fra le tradizioni più grandi e più antiche il buddhismo è quella che piú si può dire di pura origine aria.

Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indianaE ciò vale anche in un senso specifico. Se il termine ario, generalizzando, lo si può applicare all’insieme delle razze indoeuropee con riguardo alla loro comune origine (la patria originaria di tali razze, l’airyanem-vaêjô, secondo il ricordo distintamente conservatosi nell’antica tradizione irànica, fu una regione iperborea o, piú genericamente, nordico-occidentale), pure in seguito esso è stato una designazione di casta. Come ârya valse essenzialmente una aristocrazia, opposta, nello spirito e nel corpo, sia a razze primitive, ibride e «demoniche» quali quelle delle popolazioni kosaliane e dravidiche trovate nei territori asiatici conquistati; sia, più in genere, al substrato corrispondente a quel che oggi si chiamerebbe probabilmente la massa proletaria e plebea, nata, in via normale, per servire, la quale, in India come nel mondo greco-romano, fu esclusa dai culti luminosi caratterizzanti le caste superiori, patrizie, guerriere e sacerdotali.

Ebbene, il buddhismo è da dirsi ario anche in questo senso quasi castale, malgrado l’attitudine, di cui diremo in séguito, da esso assunto di fronte al sistema delle caste dei suoi tempi. Chi poi venne chiamato lo Svegliato, cioè il Buddha, era il principe Siddharta, secondo alcuni figlio di re, secondo altri, almeno della più pura ed antica nobiltà guerriera della stirpe dei Çâkya, proverbiale per la sua fierezza – era un modo di dire: «fiero come un Çâkya». Questa schiatta, a sua volta, come le piú illustri ed antiche dinastie indú, si rifaceva alla cosidetta «stirpe solare» – sûrya vamça - e all’antichissimo re Ikçvâku. «Lui, di stirpe solare» – si legge, circa il Buddha. Ed egli lo dichiara: «Discendo dalla dinastia solare e sono di nascita un Çâkya» ed anche come asceta che ha rinunciato al mondo rivendica la dignità regale, la dignità di un re ariya. La tradizione vuole che in lui si ammirasse «una forma adorna di tutti i segni della bellezza e cinta da una aureola radiosa». Ad un sovrano che, senza conoscerlo, l’incontra, egli dà subito l’impressione di un suo pari: «Hai un corpo perfetto, sei risplendente, ben nato, di nobile aspetto, hai un colorito dorato, candidada dentatura, sei forte. Tutti i segni che sei di nobile nascita sono nella tua forma, tutti i segni dell’uomo superiore». Un temutissimo bandito si chiede stupefatto, incontrandolo, chi sia «questo asceta che viene solo, senza compagni, come un conquistatore». Non solo nel corpo e nella tenuta sono in lui palesi le caratteristiche di un kshatriya, di un nobile guerriero di alto lignaggio, ma la tradizione vuole che egli presentasse appunto i «trentadue attributi» che secondo un’antica dottrina brahmanica contrassegnerebbero l’«uomo superiore» – mahâpurisa-lakkhânâni - colui, per il quale «esistono soltanto due possibilità, senza una terza»: o, restando nel mondo, divenire un cakravatin, cioè un re dei re, un «sovrano universale», il prototipo ario del «Signore del mondo», ovvero rinunciando al mondo, divenire un perfetto svegliato, il Sambuddha, «colui che ha rimosso il velo». La leggenda vuole che al principe Siddharta si fosse già preannunciato, nella visione fatidica di una ruota turbinosa, un destino d’impero, da lui però respinto in nome dell’altra via, della via verso la pura trascendenza. Ed è parimenti significativo che, secondo la tradizione, il rito funerario per il Buddha, conformemente alla sua volontà, non sarebbe stato quello di un asceta, ma quello di un sovrano imperiale, di un cakravartin. Malgrado l’attitudine assunta dal buddhismo di fronte al problema delle caste, si vuole, del resto, che in genere i bodhisattva, coloro che potranno un giorno divenire degli Svegliati, non nascano mai in una casta contadinesca o servile, ma o in quella guerriera o in quella brahmana, cioè nelle due più alte caste della gerarchia aria: anzi si dice, in relazione ai tempi, essenzialmente in quella guerriera, fra i kshatriya.

Mircea Eliade, Tecniche dello Yoga Ora questa nobiltà aria e questo spirito guerriero si riflettono nella stessa dottrina del risveglio. L’assimilazione della ascesi buddhista alla guerra e delle qualità dell’asceta alle virtù del guerriero e dell’eroe sono ricorrentissime nei testi canonici: «lottante asceta con petto pugnante», «avanzata con i passi del combattente», «eroe vincitore della battaglia», «supremo trionfo della battaglia», «condizioni favorevoli pel combattimento», qualità di «un guerriero buono per il re, ben degno del re, che è un ornamento del re», ecc. – fino a massime, come questa: «morte in battaglia è pur meglio che vivere sconfitti». Quanto alla «nobiltà», essa qui si lega all’aspirazione verso una libertà sovrannaturalmente potenziata. «Come toro, ho spezzato ogni laccio» – dice lo stesso principe Siddharta. «Scaricato dal peso, ha distrutto i vincoli dell’esistenza» – è il tema ricorrente di continuo nei testi con riferimento a chi ne segue la via. Come «sommi di difficile accesso, simili a leoni solitari» sono designati i Compiuti. Lo Svegliato, quale «santo superbo è salito sulle cime piú eccelse dei monti, si è spinto nelle selve piú lontane, è disceso in abissi profondi». Egli può dire: «Non servo nessuno, non ho bisogno di servire nessuno», idea, che fa ricordare quella «razza autonoma e immateriale», «senza re» perché è essa stessa regale, di cui si ebbe a parlare anche in Occidente. È «asceta, puro, conoscitore, libero, sovrano».

Questi sono alcuni degli attributi che vedremo ricorrere già nei testi più antichi sia per il Buddha, sia per coloro che procedono sulla sua stessa via. La parte che in tali attributi ha l’abituale esagerazione di ogni glorificazione, non pregiudica il loro significato, almeno, di testimonianze in ordine alla idea generale che sempre si ebbe sia della via e dell’ideale indicati dal principe Siddharta, sia della di lui razza spirituale. Il Buddha è eminentemente il tipo dell’asceta regale e la sua naturale controparte, come dignità, è colui che, come un Cesare, poté dire comprendere, la propria stirpe, la maestà dei re cosí come la sacrità degli dèi, nel potere dei quali stanno anche coloro, che sono dominatori di uomini. Si è visto or ora che proprio questo senso ha, del resto, l’antica tradizione relativa all’essenziale identità della natura di colui che può essere soltanto o figura imperiale, o perfetto Svegliato. Ci troviamo presso gli àpici del mondo spirituale ario.

Per l’arianità dell’insegnamento buddhistico originario, una particolare caratteristica è l’assenza di quelle manie proselitarie, che quasi senza eccezione sono in ragione diretta col carattere plebeo, antiaristocratico, di una credenza. Uno spirito ario ha troppo rispetto per l’altrui persona e troppo spiccato il senso della propria dignità per cercar di imporre ad altri le proprie idee, anche quando sa che esse sono giuste. E non è senza relazione a ciò che nel ciclo originario delle civiltà arie, sia d’Oriente, sia d’Occidente, non troviamo nemmeno figure divine che si preoccupino troppo degli uomini, che quasi corrano dietro ad essi per attirarli e «salvarli». Le cosiddette religioni di salvazione – le Erlosungsreligionen, come si dice in tedesco – non appaiono, in Oriente come in Occidente, che tardivamente, presso ad un allentamento della tensione spirituale originaria, ad un offuscamento della coscienza olimpica e, non per ultimo, ad influssi di elementi etnico-sociali inferiori. Che le divinità poco possano per gli uomini, che sia fondamentalmente l’uomo l’artefice del proprio destino in ordine agli stessi sviluppi oltremondani di esso – questa veduta caratteristica del buddhismo originario ne mette bene in luce la diversità rispetto a molte forme tarde, soprattutto mahayâniche, nelle quali trovò modo di infiltrarsi il motivo di esseri mitici affaccendantisi intorno agli uomini per condurli tutti alla salvezza.

David Gordon White, Il corpo alchemico. Le tradizioni dei Siddha nell'India medievaleIn fatto di metodo e di insegnamento, nei testi originari vediamo dunque che il Buddha espone la verità come egli l’ha scoperta, senza imporsi a nessuno né ricorrere a mezzi estrinseci per persuadere o «convertire». «Chi ha occhi, vedrà le cose» – è la formula sempre ricorrente nei testi. «Venga da me un uomo intelligente – è scritto – non tortuoso, non simulatore, un uomo dritto: io l’istruisco, gli espongo la dottrina. Seguendo l’istruzione, dopo non molto tempo egli stesso riconoscerà, egli stesso vedrà, che così invero ci si libera completamente dai vincoli: dai vincoli, cioè, dell’ignoranza». Segue il paragone del bambino che si libera gradamente dagli impedimenti, paragone del tutto corrispondente a quello della «maieutica» platonica, dell’arte di aiutare le nascite. Ed ancora: «Io non vi sforzerò, come il vasaio con la creta cruda. Riprendendo riprendendo, io parlerò, premendo premendo. Chi è sano resisterà». Del resto, l’originaria intenzione del principe Siddharta, una volta conseguita la conoscenza della verità, era di non comunicarla a nessuno, non per malanimo, ma riconoscendone la profondità e prevedendo l’incomprensione dei più. Venuto poi a riconoscere che in fondo vi sono anche più nobili nature, menti meno offuscate, per compassione espone la dottrina, mantenendo però sempre distanza, distacco e rispetto. Che i discepoli vengano o meno a lui, che seguano o no i precetti ascetici, «sempre lo stesso egli rimane». Ecco il suo stile: «Conoscere la persuasione e conoscere la dissuasione; conoscendo la persuasione e conoscendo la dissuasione non persuadere e non dissuadere: esporre solo la realtà». «È mirabile – viene anche detto – è straordinario come nessuno esalti la propria e disprezzi l’altrui dottrina in un Ordine, in cui pur vi son tanti guidatori per mostrarla».

Anche questo è stile ario. Certo, la potenza spirituale vivente nel Buddha non poté non manifestarsi, talvolta, in modo quasi automatico, affermandosi direttamente e imponendo un riconoscimento. Perciò come «prima orma dell’elefante» viene per esempio indicato il fatto che dotti, esperti dialettici i quali aspettavano al guado il Buddha per stroncarlo con i loro argomenti, al suo apparire chiedono solo di udire la dottrina, o quello che, quando il Buddha affronta una discussione, la sua parola non può fare a meno di agire «come un furioso elefante o una fiammeggiante vampa». O si ha il caso dei suoi antichi compagni che, credendo che avesse abbandonata la via dell’ascetismo, si proponevano di non accoglierlo, ma poi sùbito gli vanno incontro; o quello del feroce bandito Angulimâyo al quale la figura maestosa del Buddha s’impone. Certo è tuttavia, che il Buddha, nella sua superiorità, si è sempre astenuto dall’usare mezzi indiretti di persuasione e, in ogni caso, mai di quelli che fanno leva sulla parte irrazionale, sentimentale o emotiva dell’essere umano. Anche questa regola è importante: «Voi non dovete, o discepoli, mostrare ai laici il miracolo dei poteri supernormali. Chi farà ciò è colpevole di una cattiva azione». Ciò comporta la rinuncia al «miracolo» come mezzo estrinseco per suscitare una «fede». La propria persona va messa da parte: «In verità, i nobili figli espongono le loro conoscenze superiori in modo simile, presentando la verità, senza riferirsi come che sia allo lora persona». «Che dunque? – dice il Buddha a chi da tempo anelava di vederlo – Chi vede la legge vede me e chi vede me vede la legge. In verità, vedendo la legge si vede me e vedendo me si vede la legge». Svegliato egli stesso, il Buddha vuole solamente propiziare il risveglio in chi ne è capace: risveglio, in primo luogo, di una dignità e di una vocazione, in secondo luogo, risveglio di una intuizione intellettuale. Chi è capace d’intuire – è detto – non può non approvare. Il miracolo nobile, «conforme alla natura aria» – ariyaiddhi - opposto a quello che si basa su di una fenomenologia estranormale e che vien giudicato non ario – anariyaiddhi - si riferisce proprio al primo punto, è il «miracolo dell’insegnamento» che desta la facoltà di discernere, che fornisce una nuova, giusta misura per tutti i valori, per la quale la formula canonica più tipica è: «Così è – egli intende – Vi è il nobile e vi è il volgare, e vi è una libertà più alta di questa percezione dei sensi». Per il secondo punto, ecco un passo caratteristico: «Il suo cuore [quello del discepolo] si sentì ad un tratto pervaso di sacro entusiasmo e tutta la sua mente si dischiuse pura, chiara, splendente come il disco luminoso della luna: e gli apparve intera la verità». Tale è la base dell’unica «fede», dell’unica «retta fiducia», che nell’ordine degli aríya è tenuta in conto: «fiducia motivata, radicata nella visione, salda», tale che «nessun penitente o sacerdote, nessun dio o diavolo, nessun angelo o chi altri nel mondo può distruggerla».

Julius Evola, The doctrine of awakeningForse ad un ultimo punto vale la pena di accennare brevemente. Il fatto che il Buddha nei testi pâli non appare come un essere sovrannaturale sceso in terra a diffondere una «rivelazione», ma come colui che espone una verità da lui stesso veduta e indica una via che lui stesso si è aperta, come colui che, giunto egli stesso all’altra riva, aiuta altri a passarvi, una tale traversata avendola compiuta con le proprie forze, senza un maestro che abbia dovuto illuminarlo – questo fatto non deve condurre ad umanizzare oltre misura la figura del Buddha. Anche a prescindere dalla teoria dei bodhisattva, la quale troppo spesso risente di un elemento fiabesco e si è definita solo in un periodo posteriore, nei testi originari la concezione del cosiddetto kolankola ci rende sempre possibile d’intendere nel Buddha la riemergenza di un principio luminoso già accesosi in precedenti generazioni: cosa che si accorderebbe con quanto diremo sul significato storico della dottrina buddhista del risveglio. In ogni caso, quali pur siano gli antecedenti, è arduo tracciare un limite fra quel che è umano e quel che non lo è più, quando si tratta di essere che ha realizzato in sé l’elemento libero da morte – amata -, che si presenta come incarnazione viva di una legge centrata in ciò che è assolutamente trascendente e che da nulla può esser «incluso» – apariyâ-pannam. Anche qui si può fare una quistione di differenza di natura. Dipende dalla distanza che i vari esseri sentono fra sé e la realtà metafisica il fatto, che una forza venga vissuta come «grazia», che una conoscenza si presenti con carattere di «rivelazione» nel senso divenuto prevalente in Occidente a partire dal profetismo ebraico, che l’annunciatore di una legge assuma tratti «divini» anziché presentarsi come colui che ha distrutto l’ignoranza e si è «ridestato». Questo divario non dice, in sé, assolutamente nulla in ordine alla dignità e al livello spirituale di un insegnamento, come pure della stessa persona del suo annunciatore. Certo è solo, che il primo caso – quello delle «rivelazioni» e degli dèi-uomini – non può non dare un senso di estraneità ad uno spirito ario, ad un «nobile figlio» – kula-putta - specie in una epoca in cui nell’umanità non si era ancor del tutto offuscato il ricordo delle origini.

Infine, una breve considerazione sul Buddha storico come modello. Se egli non si presenta dunque come un dio, pure, come si è detto, da tutta la tradizione originaria egli è stato considerato come un uomo giunto con le sue sole forze al risveglio, quindi al superamento del limite individuale. Come kshatriya, il principe Siddharta ebbe naturalmente la usuale iniziazione di casta, ma non è attestato nessun suo collegamento con qualche organizzazione esistente quale condizione per la sua realizzazione. Devesi dunque pensare ad uno di quei casi eccezionali nei quali un superamento della condizione umana e lo sbocco nella trascendenza sono avvenuti per via autonoma. Ci si potrebbe riferire alla violenza che, secondo il detto evangelico, la porta dei Cieli può subire, o anche al Parsifal di Wolfram von Eschenbach. Dal Buddha è nata una tradizione e probabilmente sono nate anche linee di trasmissione iniziatica fuor dalle semplici scritture. Ma se ci si riferisce al Buddha, la verità è quella ora accennata: egli fu principio a sé e attesta la possibilità di una ascesa autonoma, presso la quale una possibile, contemporanea discesa di forze superiori, dall’alto, fino ad una unità, deve essere considerata come da essa condizionata.

Avendo accennato all’eccezionalità di una simile congiuntura, l’esempio del Buddha non deve andar incontro alle fisime di «autoiniziazione» di certi spiritualisti moderni ma, nel contempo, deve porre anche un limite all’insistere, da parte di alcuni elementi tradizionalisti, sull’imprescindibilità di un collegamento «regolare» e quasi burocratico con organizzazioni per chiunque aspiri al superamento dell’esistenza condizionata. Il fatto è che un tale collegamento potrà essere per molti necessario, ma per un numero ancor più grande di persone esso è così poco sufficiente, da rendere legittima la domanda della misura in cui sia, dopo tutto, anche necessario. Qualcosa come lo spirito e l’atteggiamento del Buddha storico è una qualificazione essenziale per qualsiasi vera realizzazione iniziatica, cioè analoga a quella della via buddhista del risveglio.

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Il presente scritto costituisce il capitolo II del libro di Julius Evola La dottrina del risveglio. Saggio sull’ascesi buddhista, Edizioni Mediterranee (IV), 1995, pp. 29-37 (nella presente versione è stato pubblicato privo delle note a piè di pagina). Tratto da una e-mail della newsletter “FT” (Bollettino_FT : Bollettino FT (http://groups.yahoo.com/group/Bollettino_FT)) in data 7.IV.2004.


Arianità della dottrina del risveglio | Julius Evola (http://www.centrostudilaruna.it/arianitadottrinarisveglio.html)

Avamposto
12-10-10, 09:56
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Johann von Leers
16-01-11, 18:30
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Johann von Leers
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