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Lord Attilio
20-06-18, 20:50
Sul governo M5S-Lega e i compiti dei comunisti


Lo scontro istituzionale sulla formazione del governo si è concluso ormai da settimane, e il nuovo governo targato Cinque Stelle – Lega si è insediato con il beneplacito del Presidente della Repubblica. Quella che segue è l’analisi del Partito Comunista sulle vicende delle ultime settimane, sul carattere del governo M5S-Lega e i compiti dei comunisti nella fase attuale.

COSA C’È DIETRO LA CRISI ISTITUZIONALE?

Di questa crisi istituzionale, creatasi dopo il rifiuto del Presidente della Repubblica Mattarella di nominare ministro dell’economia Paolo Savona, ciò che dovrebbe far riflettere non è tanto l’azione esercitata dal Capo dello Stato nel decretare un’esclusione dal punto di vista politico, quanto la giustificazione che, per bocca dello stesso Mattarella, è arrivata a sostegno di questa decisione.

Il rigetto della prima proposta dell’allora Presidente del Consiglio in pectore Giuseppe Conte è stata motivata con l’intento di evitare le fluttuazioni sui mercati finanziari, l’impennata dello spread, e di rassicurare i grandi investitori stranieri, insomma, il grande capitale, rendendo evidente ciò che i comunisti dicono da sempre: le scelte della politica sono fortemente piegate agli interessi dei settori economicamente dominanti. Sono più attuali che mai le parole che Lenin scriveva un secolo fa: “La potenza del Capitale è tutto, la Borsa è tutto. Il parlamento, le elezioni sono un gioco da marionette, di pupazzi”. Il Presidente della Repubblica ce ne ha dato una prova lampante.

Sarebbe un errore, però, ritenere che nello scontro in atto, che si è riflesso in Italia nella crisi istituzionale, ci siano attori più o meno vicini agli interessi delle classi popolari e dei lavoratori. Quello a cui abbiamo assistito in queste settimane è una prova di forza del tutto interna alla classe borghese, nella quale si consuma uno scontro fra settori con interessi economici differenti se non addirittura contrapposti, che si ripercuotono in differenti prospettive politiche rispetto al rapporto con i mercati internazionali e con gli attuali schieramenti imperialisti. La crisi economica ha accentuato le fratture esistenti nel campo borghese, in senso verticale tra la grande impresa, i monopoli internazionali e la piccola e media produzione nazionale e in senso orizzontale tra le diverse fazioni del grande capitale. La Lega e il Movimento 5 Stelle, seppur ancora timidamente, sono espressione di queste contraddizioni.

Comprendere lo sviluppo di questi processi nel contesto più generale della crisi economica e del mutamento degli equilibri internazionali è fondamentale per evitare l’errore di porsi semplicemente alla coda degli interessi di uno dei settori oggi in competizione.

L’attuale fase politica in Italia è caratterizzata dalla crisi di consenso di quelli che per anni sono stati i tradizionali partiti di riferimento delle classi dominanti. È questa la prima chiave di lettura per comprendere la natura del nuovo Governo targato M5S-Lega e lo scontro ancora in corso in seno alla borghesia italiana.

Le elezioni politiche dello scorso 4 marzo avevano fotografato un sentimento diffuso a livello di massa di sfiducia verso la classe politica “tradizionale”, responsabile dell’attacco ai diritti e del tradimento dei lavoratori. A farne le spese è stato principalmente il Partito Democratico e con esso tutte le forze di sinistra o percepite come tali, a prescindere dalle effettive responsabilità politiche (che comunque nella gran parte dei casi erano presenti). A prevalere, invece, è stato il voto di protesta, che premia le forze percepite come “alternative” allo stato attuale delle cose. Su questa base elettorale, quella di un voto contro l’establishment e la politica, poggia l’illusione del governo “del cambiamento”, legato alla percezione di novità di queste forze politiche, abilmente alimentata dalla retorica politica degli annunci roboanti di Di Maio sulla nascita della “Terza Repubblica”.

Se per anni il Partito Democratico è stato il principale partito di governo, e per questo il principale riferimento per le grandi imprese, per il grande capitale italiano ed europeo, oggi diventano forze egemoni del panorama istituzionale due forze politiche che in questi anni hanno costruito il proprio consenso in modo interclassista nei settori popolari e tra il ceto medio, modellando, però, le principali proposte politiche sulle parole d’ordine della piccola e media borghesia schiacciata dalla crisi e trascinando i settori popolari alla coda di questi interessi. Il consenso che questi partiti sono riusciti a intercettare tra i settori popolari emerge incontrovertibilmente dalla distribuzione territoriale del voto, con una differenza enorme – ad esempio – fra le periferie, i quartieri popolari e le aree benestanti. Questo dato si è fatto ancora più evidente nel caso della Lega, nell’ultima tornata elettorale amministrativa del 10 giugno. Ma di per sé questo non indica un cambiamento radicale nell’indirizzo politico del paese.

UN PROGRAMMA DI GOVERNO ANTIPOPOLARE

Dal “contratto” stipulato tra il Movimento 5 Stelle e la Lega, base programmatica per la formazione del governo, oltre ad essere elemento di privatizzazione della politica anche nelle forme, si evince chiaramente quale è e sarà l’indirizzo di queste forze politiche nei confronti dei lavoratori, delle loro tutele e dei loro diritti. È proprio sui temi sociali che si evidenzia il carattere inevitabilmente antipopolare di questi partiti.

Sul tema del lavoro, ad esempio, non si parla mai di abolizione del Jobs Act, e non è un caso se la Confindustria si sia mossa chiedendo a gran voce che non venissero toccate le misure del governo Renzi. Le timide dichiarazioni di Di Maio, che non è andato oltre una generica affermazione per cui il “Jobs Act va rivisto”, confermano questo indirizzo. Non si mette mai davvero in discussione il sistema di lavoro precario costruito in Italia a partire dal “Pacchetto Treu” e proseguito con la Legge Biagi; in compenso si spazia dalla reintroduzione dei voucher (o di una forma giuridica analoga) alla “riduzione del cuneo fiscale” per le imprese che assumono, slogan che per decenni si è tradotto nel semplice trasferimento di risorse dallo Stato alle imprese private, mentre la precarietà non solo non veniva eliminata in modo strutturale, ma al contrario cresceva sempre più. Misure analoghe furono approvate dal governo Renzi negli anni passati con il solo risultato che una volta terminati gli incentivi all’assunzione, per l’appunto gli sgravi fiscali, i lavoratori venivano licenziati. Quella che doveva essere una misura per incentivare l’occupazione si è tradotta nell’ennesima manovra di precarizzazione. Ulteriori alleggerimenti nella tassazione per le imprese erano poi presenti nelle ultime due finanziarie approvate con Renzi come Presidente del Consiglio. Insomma, la continuità con le politiche antipopolari degli ultimi decenni è in questo caso evidente.

Ben poco sul contrasto alla precarietà, mentre si rilancia la flat tax con aliquota doppia, una misura che comporterebbe la drastica riduzione delle tasse per i ricchi, ma non per i lavoratori. Salvini ha detto candidamente che è giusto che i più facoltosi paghino meno tasse, giustificando questa posizione con la classica favoletta del ricco che investe e fa girare l’economia. L’unico effetto della flat tax sarebbe, al contrario, l’aumentare dei profitti per i pochi che continuano ad arricchirsi andando a penalizzare tutti i settori popolari colpiti dai tagli ai servizi o dall’aumento ventilato dell’IVA, tassa sul consumo che non avendo carattere di proporzionalità colpisce con più forza le fasce economicamente più deboli. Una riforma liberista, esattamente come il reddito di cittadinanza, manovra macroeconomica di sostegno alla domanda che servirà a incentivare il consumo, consentire nuovo deficit e mantenere tollerabile proprio quella situazione di precarietà e insicurezza lavorativa creata dalle riforme sul lavoro di questi anni. Una misura da cui i primi a trarre giovamento saranno i padroni (non a caso la stessa Confindustria ha dato più volte pareri positivi su una manovra di questo tipo), che vedranno una crescita dei loro profitti grazie ai maggiori consumi e potranno continuare a imporre una competizione al ribasso su salari e diritti.

Non si parla del diritto alla casa e di come garantirlo a tutti, ma in compenso si parla di velocizzare le procedure di sgombero degli immobili occupati. Nulla sulle delocalizzazioni che stanno trasformando l’Italia in un deserto di fabbriche chiuse lasciando migliaia di lavoratori per strada, ma in compenso si propone di istituire un Ministero del Turismo per valorizzare il patrimonio culturale senza spiegare con quali deleghe e quali politiche (mentre risulta chiaro che il patrimonio produttivo viene trasferito all’estero dai grandi capitalisti). Anche sulla scuola, mascherata da critica alle “inefficienze” e ai malfunzionamenti delle riforme del precedente governo, si ritrova nel “contratto” una sostanziale continuità con le politiche di asservimento dell’istruzione agli interessi delle imprese, non si parla mai esplicitamente di abolizione della Buona Scuola o dell’alternanza scuola lavoro ed anzi, Conte ha dichiarato apertamente che non vi saranno stravolgimenti per quanto riguarda la scuola italiana.

Insomma, dal punto di vista degli attacchi al mondo del lavoro la prospettiva delle forze “populiste” è in piena continuità con le manovre poste in essere da tutti i governi precedenti. Queste posizioni riflettono l’unità della borghesia in quanto classe che ritrova una totale comunanza d’interessi nelle manovre di abbattimento del costo del lavoro nella propria lotta per la massimizzazione dei profitti. Ad accompagnare tutto questo, le derive reazionarie, se non apertamente autoritarie, che già si profilano sui temi della “sicurezza”, dell’immigrazione e persino dei diritti civili, con un ministro che afferma di voler contrastare ideologicamente il diritto all’aborto e le unioni civili.

LO SCONTRO IN SENO ALLA BORGHESIA E LE FRIZIONI FRA UE, BRICS e USA

Le principali divergenze rispetto ai governi precedenti riguardano gli ambiti in cui la crisi economica ha prodotto (o accentuato) in seno alla borghesia fratture e contraddizioni di cui Lega e Cinque Stelle sono espressione. Questi contrasti non si concretizzano unicamente tra piccola e media impresa con i monopoli internazionali: esiste una divisione interna ai principali settori del grande capitale stesso, tanto in Italia quanto a livello europeo, che si riflette tra le altre cose nella scelta delle alleanze internazionali.

A fronte di gruppi dominanti che restano saldamente ancorati alla prospettiva del mercato comune europeo e della fedeltà all’Alleanza Atlantica, esistono settori che oggi vedono come vantaggiosa la prospettiva della cooperazione dell’Italia con la Russia, la Cina, e più in generale con l’area dei c.d. paesi “Brics”. Del resto, la “linea dura” promossa dal presidente USA Donald Trump contro la Russia e l’Iran colpisce in primo luogo gli interessi di una parte del capitale europeo, che a causa delle sanzioni contro questi paesi rischia di vedersi costretto a rinunciare a incassi miliardari. È proprio a causa di questi interessi, non del tutto coincidenti con quelli dei grandi monopoli USA, che nel capitale italiano ed europeo lo scontro verte sempre più sui temi del rapporto del mercato europeo, con Russia, Cina, Iran ecc. La recente apertura della Francia di Macron nei confronti della Russia è un sintomo evidente di questo processo come le parole pronunciate dal Presidente Conte durante il discorso per la fiducia in cui si ribadiva la “permanenza dell’Italia nella NATO con gli Stati Uniti come alleato privilegiato” ma si auspicava un riavvicinamento dell’Italia alla Russia e la volontà di una “revisione nel sistema delle sanzioni”. A queste parole non è poi tardata ad arrivare la risposta della cancelliera tedesca Angela Merkel e del segretario generale della NATO Jens Stoltenberg che hanno invece riaffermato che il regime delle sanzioni deve essere mantenuto.

In Italia, infatti, la bussola di alcuni settori della grande impresa oscilla sempre di più verso mercati diversi da quello USA, e non è un caso: l’Italia, ad esempio, è il primo partner commerciale dell’Iran in Europa con un volume di interscambio di 1,2 miliardi di euro all’anno e questo è un dato con cui ogni governo nei prossimi anni dovrà fare i conti. La posizioni di disallineamento dalle alleanze tradizionali è ancora minoritaria fra i settori dominanti del capitale italiano, ma avanza a gran velocità fra la media e piccola borghesia schiacciata dalla crisi, che in assenza di un movimento operaio capace di esprimere una posizione autonoma trascina con sé anche ampie fasce di proletariato.

Lo scontro nel grande capitale internazionale, però, è ben lontano dall’essersi assestato in uno confronto bipolare e anzi presenta elementi di frizione e instabilità interni alle alleanze imperialiste stesse, tra settori differenti in una stessa nazione e tra i monopoli sul piano internazionale. Anche all’interno del campo dello schieramento atlantico, infatti, esistono fratture sull’indirizzo economico e politico da perseguire. Se da un lato gli USA hanno bisogno di un’Europa unita nello scontro commerciale con gli altri principali attori economici non necessariamente sono avvantaggiati dalle politiche di austerità imposte da Bruxelles e dai rapporti di forza esistenti nel quadro dell’Unione Europea. Lo scontro tra i monopoli statunitensi e quelli tedeschi è sempre più forte e si è già manifestato in passato nell’arenarsi delle trattative del TTIP, mai andato in porto proprio per la contrarietà della Germania, a cui ha fatto seguito l’introduzione negli USA dei dazi doganali per l’acciaio e l’alluminio. Le politiche protezioniste USA hanno colpito tutti gli esportatori europei alle cui rimostranze Trump rispose con un tweet dai toni accesi: “L’Unione europea, Paesi meravigliosi che trattano gli Usa molto male sul commercio, si stanno lamentando delle tariffe su acciaio e alluminio. Se lasciano cadere le loro orribili barriere e tariffe su prodotti Usa in entrata, anche noi lasceremo cadere le nostre”.

La possibilità di una guerra commerciale tra USA e Unione Europea (con un ruolo di primo piano che sarebbe giocato da Germania e Francia), paventata pochi giorni fa anche dall’europarlamentare Guy Verhofstadt durante una seduta del Parlamento Europeo, produce una maggiore intransigenza delle classi dominanti europee rispetto a possibili disallineamenti, e contrariamente un interesse della borghesia USA verso la prospettiva di una UE che non sia completamente a trazione tedesca, contribuendo all’instabilità dei campi imperialisti a livello internazionale con riflessi nella dialettica politica interna ai diversi Stati. È sullo sfondo di questo scontro di portata internazionale, della competizione fra i grandi monopoli capitalisti dei diversi schieramenti, che si sviluppano le discussioni relative all’indirizzo che prenderanno i governi dei diversi paesi europei.

In questo quadro si può spiegare l’azione operata da Mattarella nel rifiuto di Savona come ministro dell’economia che, pur non essendo meccanicamente interpretabile – come tanti hanno fatto – come una ingerenza di uno Stato terzo nella politica italiana, è certamente espressione di una tensione internazionale realmente esistente ed ha rappresentato un elemento di compensazione tra gli interessi contrapposti della borghesia. Quello in campo infatti non è uno scontro tra realtà statuali (al cui interno sono rappresentati interessi di classe tra loro inconciliabili) quanto semmai il confronto degli interessi di differenti settori del capitale che utilizzano gli Stati per il perseguimento dei propri profitti, e non si tratta di certo di una novità.

In questo contesto gli appelli di carattere nazionalistico e “patriottico” diventano, nelle mani dei settori che ambiscono a svincolarsi dai legami univoci imposti dal sistema di alleanze atlantico, un’arma potente per la costruzione del consenso. Non è un caso che nel “contratto di governo” ricorra frequentemente lo slogan dell’interesse nazionale, né sono stati casuali i tentativi di strumentalizzare politicamente la giornata del 2 giugno, con gli appelli a manifestare e ad esporre il tricolore italiano. Gli slogan nazionalisti strizzano l’occhio agli interessi di una piccola e media impresa intenta ad invertire il proprio processo di proletarizzazione e che si sente schiacciata all’interno di un mercato comune che oltre ad asfissiarla con la concorrenza spietata dei grandi monopoli le impedisce di ampliare gli orizzonti commerciali per le proprie merci. Ma soprattutto, il nazionalismo diventa un arma per costruire il consenso fra i lavoratori, proiettando il sentimento di rivalsa verso “l’esterno”, celando la responsabilità della borghesia italiana nelle politiche di attacco ai diritti delle classi popolari.

Sarebbe un errore pensare che sia in atto uno scontro fra il neoliberismo e la sudditanza alla UE, da un lato, e la “sovranità” e l’interesse dei popoli dall’altro, così come intravedere nelle politiche di carattere protezionistico un recupero di “sovranità” a vantaggio delle classi popolari. È vero, al contrario, che politiche di questo tipo corrispondono agli interessi di una fetta del capitale italiano e alla volontà di questi settori di tutelarsi – questo sì – dalla concorrenza del capitale estero, ma solo per poter applicare più a fondo e con maggiori profitti una nuova stagione di politiche di rapina ai danni dei lavoratori.

IL RUOLO DEL GOVERNO M5S-LEGA RISPETTO ALLO SCONTRO IN SENO ALLA BORGHESIA

La politica, però, non può spingersi oltre quello che è l’effettivo livello di rottura dei vari settori del capitale. Il fatto che sul panorama politico si affaccino posizioni che sono espressione delle contraddizioni presenti nel campo borghese non significa automaticamente che queste contraddizioni siano pronte per scoppiare. Le posizioni definite “sovraniste”, seppur abbracciate da larghissime fasce della piccola e media produzione, possono esprimersi concretamente solo laddove incontrino il favore di importanti settori del grande capitale o laddove le contraddizioni internazionali si siano spinte a tal punto da far venir giù l’impianto istituzionale esistente, condizioni che il campo europeo e italiano ancora non presentano.

È all’interno di questo contesto che avviene un ammorbidimento delle posizioni più “radicali” di Movimento 5 Stelle e Lega, con innumerevoli dichiarazioni di conciliazione, spesso contraddittorie con le posizioni che quei partiti hanno sostenuto fino a poco tempo fa. L’espressione di una linea sempre più conciliatoria è progredita in crescendo, di pari passo con l’avvicinarsi della prospettiva concreta del governo. Sono stati evidenti i tentativi di rassicurare i poteri forti circa la capacità del nuovo governo di garantire gli interessi in ballo. Già in campagna elettorale, fu emblematico il modo in cui entrambe le forze hanno modificato, se non addirittura rinnegato, le loro precedenti posizioni “sovraniste” sull’Unione Europea, in favore di una linea più morbida che si guarda bene dal parlare di rottura con la UE e l’euro.

Nel già citato contratto di governo, ad esempio, sulla politica estera compaiono affermazioni morbide che, in proporzione, sono più di continuità che di svolta: “Si conferma l’appartenenza all’Alleanza atlantica, con gli Stati Uniti d’America quale alleato privilegiato, con una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico e commerciale potenzialmente sempre più rilevante. A tal proposito, è opportuno il ritiro delle sanzioni imposte alla Russia, da riabilitarsi come interlocutore strategico al fine della risoluzione delle crisi regionali (Siria, Libia, Yemen)”. Sarà interessante, ad esempio, capire come se la caverà il ministro Di Maio, firmatario in fase elettorale dell’ICAN Parliamentary Pledge (che sottoscrive e aderisce al trattato ONU di non proliferazione delle armi nucleari) con la sostituzione di decine di bombe nucleari in Italia con le nuovissime e ancor più distruttive B61-12.

Nel punto sull’Unione Europea, è scomparsa ormai da tempo la critica “sovranista” sostituita da enunciati sulla necessità di migliorare e riformare la UE, addirittura elogiando i trattati europei esistenti con affermazioni come “l’Italia chiederà la piena attuazione degli obiettivi stabiliti nel 1992 con il Trattato di Maastricht, confermati nel 2007 con il Trattato di Lisbona”. Per molti dei punti elencati nel programma, gli obiettivi politici vengono declinati nei termini dell’attività nelle sedi UE per promuovere gli interessi delle imprese italiane. Sull’agricoltura, ad esempio, si afferma che “È necessaria una nuova presenza del Governo italiano a Bruxelles per riformare la politica agricola comune (PAC)”.

Questo processo di riallineamento però non è bastato, e il governo M5S-Lega sembra aver suscitato comunque preoccupazioni. I settori dominati del capitale italiano e europeo che, volenti o nolenti, si vedono costretti ad avere come riferimento per la tutela dei loro interessi due partiti “diversi” (almeno in parte) da quelli che hanno governato negli ultimi anni. È a partire da questa preoccupazione che si spiega la pressione esercitata da gran parte dei mezzi di comunicazione, le dichiarazioni delle autorità europee sul carattere “populista” del nuovo governo, fino ad arrivare allo scontro con il Presidente della Repubblica in merito al veto posto su Paolo Savona come Ministro dell’Economia.

D’altra parte, il rifiuto nella nomina del ministro dell’economia da parte di Mattarella ha rischiato di tramutarsi in un vero e proprio passo falso e di trasformare una ipotetica nuova tornata elettorale in plebiscito per Lega e 5 Stelle.

In queste vicende si intravedono i sintomi evidenti di una fase di assestamento, in cui forze politiche che hanno fondato il loro consenso sul voto “di protesta”, e che hanno fatte proprie molte delle parole d’ordine proprie della media e piccola borghesia schiacciata dalla crisi, devono ancora entrare in totale sintonia con le volontà e le esigenze dei settori dominanti del grande capitale, i cui precedenti partiti di riferimento sono passati in secondo piano nella scena politica. Un assestamento che deve necessariamente arrivare in questa fase se non si mettono in discussione i paradigmi su cui si basa questo sistema, come accaduto in Grecia dove supino il governo Tsipras ha adottato tutte le misure antipopolari richieste, o tutt’al più, in un contesto europeo in mutamento, una frattura politica nell’eurozona porterebbe ad una ricomposizioni degli equilibri e delle alleanze internazionali lasciando inalterati i destini dei popoli.

I COMPITI DEI COMUNISTI IN ITALIA NELLA FASE ATTUALE

In questo quadro, è di fondamentale importanza la riflessione sul ruolo dei comunisti nella fase attuale. Diverse voci, anche a sinistra, sono finite a spezzare una lancia in favore del governo M5S-Lega, a partire proprio dall’idea che si tratti di un (potenziale?) governo di “rottura” e di un’opportunità di recupero di “sovranità” dell’Italia. Questa visione è profondamente errata, perché viziata dall’idea di fondo che esistano settori del grande capitale “migliori” (o “meno peggio”, che è lo stesso) di altri, che esista una borghesia “sovranista” più favorevole ai popoli, contrapposta a quella fautrice di un legame esclusivo e privilegiato con il mercato nordamericano ed europeo. Ma assumere questa posizione significa accettare che i lavoratori e le classi popolari siano trascinati alla coda degli interessi di questa o quella fazione del grande capitale, di questo o quello schieramento imperialista.

Allo stesso modo, sarebbe assolutamente fallimentare riproporre “fronti antifascisti”, come abbiamo sperimentato negli anni dell’anti-berlusconismo, legati alle forze di sinistra e centro-sinistra che in questi anni hanno governato portando avanti politiche di macelleria sociale. Il Partito Democratico è stato il principale riferimento politico del grande capitale italiano e internazionale negli ultimi anni, è un nemico di classe e la nostra lotta dovrà essere sempre diretta tanto nei confronti del nuovo governo quanto nei confronti di quelle forze politiche che fino a ieri hanno governato e che adesso cercano di rifarsi una verginità politica stando all’opposizione. Il modo migliore per contrastare l’avanzata delle forze reazionarie, specialmente nella fase attuale, è il radicamento dei comunisti nei luoghi di lavoro, nei quartieri popolari e di periferia, per costruire una reale alternativa di lotta. Fare opposizione al fianco di quel centro-sinistra che è stato fino a ieri responsabile delle peggiori politiche antipopolari è il più grande favore che oggi si possa fare alle forze reazionarie e di destra più o meno estrema.

Il compito dei comunisti, quindi, è quello di promuovere in ogni momento una politica autonoma della classe operaia e dei lavoratori, una visione politica indipendente da quella del nemico. Uno sviluppo della fase attuale in senso autoritario e reazionario non è una prospettiva irrealistica, nelle attuali condizioni che vedono i comunisti impreparati dinanzi agli eventi che, come la storia insegna, possono svilupparsi con brusche accelerazioni. Dalla nostra capacità di ricostruire l’unità della classe lavoratrice, di dare coscienza e organizzazione alla lotta delle classi popolari, di rompere la saldatura oggi esistente fra gli interessi di settori della borghesia e ampi strati popolari trascinati alla loro coda, dipenderà il futuro del nostro paese nei prossimi decenni. Renderci complici di questa saldatura sarebbe l’errore più grande che potremmo fare. Lavoriamo, quindi, ogni giorno al rafforzamento politico, ideologico e organizzativo del Partito Comunista per dotare i lavoratori di una forte organizzazione di classe che rappresenti, per dirla con Gramsci, quel campo autonomo e impenetrabile alle idee del nemico, che lotti in maniera indipendente per gli interessi dei lavoratori.

Sappiamo bene che oggi il sentimento diffuso nelle ampie fasce di elettorato che hanno votato il M5S e la Lega è quello di una generica fiducia che si esprimerà anche in un appoggio a questo governo. Il Partito Comunista non alimenterà illusioni. Non staremo a guardare, né perderemo tempo, porteremo nelle piazze e sui luoghi di lavoro la nostra analisi, smascherando tutti gli interessi che si celano dietro questo scontro politico. Metteremo fin da subito in campo le nostre forze contro il governo 5 Stelle – Lega, rivendicando l’autonomia della lotta della classe operaia e delle fasce popolari contro l’UE, la NATO. Lavorando instancabilmente nella costruzione di un’alternativa di classe che possa esprimere i reali interessi delle classi subalterne, che ponga il potere nelle mani dei lavoratori. Questa alternativa si chiama socialismo.

Lord Attilio
30-06-18, 18:14
Iniziativa Comunista Europea: «Giù le mani dal diritto di sciopero»

Lo scorso 26 giugno, l’Iniziativa dei Partiti Comunisti e Operai d’Europa ha rilasciato una dichiarazione relativa agli attacchi contro il diritto di sciopero che si susseguono in Europa (ultimo caso in Svezia). La dichiarazione rammenta i proclami formali sui diritti umani fatti nell’ambito della democrazia borghese che sono negati nella pratica ogni volta che entrano in conflitto con gli interessi di classe della borghesia e la massimizzazione dei profitti. E il diritto di sciopero, che è formalmente riconosciuto da molte costituzioni borghesi, non fa eccezione. La dichiarazione asserisce che il duro attacco lanciato con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il consolidamento del riformismo all’interno dei sindacati sta diventando più profondo e acuto portato avanti in modo pianificato e coordinato da parte degli organi dell’UE e dai governi borghesi.

Pianificato e coordinato a livello UE con «la complicità attiva dei sindacati collaborazionisti ufficiali, nuovi e vecchi socialdemocratici e opportunisti nel movimento operaio», si legge nella dichiarazione dell’organizzazione internazionale che raggruppa 29 partiti comunisti. La strategia adottata dall’UE, dal capitale e governi per limitare il diritto di sciopero è interpretato come «parte di un più generale attacco del capitale contro la classe lavoratrice al fine di garantire alla borghesia piena governabilità e controllo del processo di ristrutturazione capitalista».

I partiti della Iniziativa Comunista Europea, tra cui il Partito Comunista per l’Italia, invitano la classe operaia e le classi popolari a lottare per:


Giù le mani dal diritto di sciopero e dall’attività sindacale
Abolire di ogni pratica contro gli scioperi ed esporre e isolare i leader riformisti compromessi nel movimento sindacale
Rafforzare la lotta contro l’UE, il capitale e i governi borghesi a favore dei contratti collettivi di lavoro e dei diritti dei lavoratori.

Credendo che le leggi anti-lavoro non saranno mai in grado di abolire le lotte operaie o fermare scioperi e azioni collettive, la dichiarazione termina come segue:

«Le restrizioni legali e la repressione non sconfiggeranno la classe operaia e la loro resistenza, fino alla vittoria finale, finché la classe lavoratrice non diventerà padrone della ricchezza che produce!»

Iniziativa Comunista Europea: «Giù le mani dal diritto di sciopero» | La Riscossa (http://www.lariscossa.com/2018/06/30/iniziativa-comunista-europea-giu-le-mani-dal-diritto-sciopero/)

Lord Attilio
30-06-18, 18:16
Ministro Trenta: «Nessun taglio agli F-35 e impegno a incrementare spesa NATO»

In una intervista rilasciata al portale americano Defense News, tra le riviste più accreditate a livello internazionale in materia di difesa, il Ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha rassicurato che il nuovo governo M5S-Lega non intende tagliare l’ordine dei discussi caccia F-35, ulteriormente rimpinguato recentemente dal ministro uscente Pinotti (30 in totale per un costo di circa 150mln l’uno). «E’ un programma che abbiamo ereditato e su cui abbiamo molte domante; per questo valuteremo il programma considerando i vantaggi industriali e tecnologici per l’interesse nazionale, visto che siamo il nuovo governo», ha affermato precisando però che «cercheremo di allungare le consegne ma non di tagliare l’ordine».

Inoltre ha annunciato che nel corso dell’incontro con il Consigliere per la sicurezza nazionale degli USA, John Bolton, avvenuto lo scorso 26 giugno in visita a Roma, ha garantito l’impegno dell’Italia a raggiungere l’obiettivo di spesa della NATO del 2% del Prodotto Interno Lordo (come già assicurato anche dal ministro degli Esteri, Moavero), che significa quasi un raddoppio dell’attuale spesa corrispondente all’1.1% del PIL sottraendo ulteriori risorse alla spesa sociale. «Ma vorremmo anche che la nostra forte presenza nelle missioni militari fosse riconosciuta come valore aggiunto», ha precisato, ribadendo inoltre che «gli Stati Uniti sono il nostro storico alleato, non ne abbiamo mai dubitato».

Tra queste missioni viene confermato anche l’impegno in Afghanistan (come in Libano e Iraq), particolarmente richiesto dagli USA. «Non vogliamo ridurre la stabilità o ridurre il sostegno per gli afghani» ha affermato il Ministro Trenta. «Vogliamo iniziare un cambio di passo, come già stabilito dal precedente governo, mantenendo allo stesso tempo operativa la missione». Si parla di un piano di riduzione del personale italiano da 900 a 700 unità ma solo se altre nazioni sono disponibili a rimpiazzarli, rassicura il Ministro affermando che «non vogliamo indebolire la missione, quindi cercheremo altri partner per assumere compiti come la logistica».

In cambio del mantenimento dell’impegno in Afghanistan, il Ministro Trenta ha dichiarato di aver richiesto sostegno agli USA per lanciare una missione militare italiana pianificata in Africa, e precisamente in Niger, con il pretesto della lotta al traffico di migranti che attraverso il Sahara giungono in Libia da dove si imbarcano verso l’Europa. Una missione che lo scorso anno era stata pianificata dal governo Gentiloni ma bloccata dal governo del Niger e che aveva ricevuto l’opposizione da parte del M5S in parlamento (mentre la Lega si era astenuta) cambiando radicalmente posizione adesso che è al governo. Secondo l’Istituto di Studi di Politica Internazionale (Ispi), la missione italiana in Niger come pianificata dal precedente governo si concretizzerebbe nello schieramento di un contingente di 470 militari, 130 mezzi terrestri, due aerei ed equipaggiamenti logistici affiancando la missione già in atto in Libia composta da circa 300 militari di stanza a Misurata e a quella NATO in Tunisia a cui prenderanno parte 60 soldati italiani.

Proseguendo con l’intervista, la Trenta dichiara di aver chiesto a Bolton di “aiutare” l’Italia anche ad assumere un ruolo di “leadership” in Libia per accrescere la sua influenza nella competizione con la Francia (che ha circa 4.000 militari dislocati nel Sahel con basi sparse dalla Mauritania al Ciad) in particolare sulla “torta petrolifera”, come avrebbe ribadito anche nella telefonata all’omologa francese Florence Parly riportata dall’Huffington Post.

L’Italia vuol rafforzare il governo di Tripoli guidato da Fayez al-Serraj, di contro la Francia supporta l’uomo forte di Bengasi, il generale Khalifa Haftar che lunedì scorso, dopo aver riconquistato i terminal petroliferi, delle navi cisterna e dei grandi serbatoi di Ras Lanuf e Sindra in Cirenaica, con una battaglia vinta sul campo a caro prezzo (184 soldati morti, 300 vittime in meno di due settimane di combattimenti e 800 milioni di dollari di danni) contro i mercenari del Ciad al comando dell’ex capo delle guardie petrolifere Ibrahim al Jadhran, ha annunciato che il suo governo (non riconosciuto dalla comunità internazionale) avrebbe iniziato a vendere il petrolio autonomamente da Tripoli, cosa che comporterebbe la riduzione di circa il 40% delle entrate del bilancio statale del governo di al-Serraj. Progetto bloccato immediatamente dal messaggio inviato dal segretario generale della Nazioni Unite Antonio Guterres per cui «tutte le risorse naturali, la loro produzione e i loro introiti devono rimanere sotto il controllo delle autorità libiche riconosciute», ossia la Noc con sede a Tripoli capitanata da Mustafa Sanallah.

Nel recente viaggio in Libia, il Ministro degli Interni Salvini, pur senza citare la Francia, ha ipocritamente criticato «l’occupazione economica» della Libia enfatizzando come il vicepremier libico abbia insistito nel dire che «la Libia vuole rafforzare il rapporto con l’Italia e non con qualche altro paese». L’Italia attualmente è il paese che mantiene la posizione migliore nel saccheggio del settore energetico libico, la cui produzione di greggio è tornata quasi ai livelli dell’ultimo periodo di Gheddafi (1.5 milioni) a un milione di barili al giorno, con l’ENI che possiede importanti investimenti e attività nella regione del Fezzan, a sud di Tripoli, con contratti fino al 2046-2047. Un ruolo che verrebbe minacciato dall’indebolimento del governo di Tripoli nei confronti di quello della Cirenaica, dove fra l’altro si trovano i giacimenti petroliferi più ricchi sotto il controllo di Haftar, mentre soffiano sempre più forti i venti di una guerra civile.

Il governo di al-Serraj ha chiesto al governo italiano di completare l’opera di costruzione dell’autostrada di 1700 km dal confine tunisino a quello egiziano sul tracciato della vecchia Via Balbia per il costo di 5miliardi di euro da finanziaria lotto per lotta nel periodo di vent’anni con fondi dell’ENI, e della cui costruzione si dovrebbe occupare la Impregilo, come promesso da Berlusconi nel 2008 a Gheddafi. Altri progetti nel cassetto pronto ad esser aperto per gli affari dei monopoli italiani sono i lavori della Piacentini al porto di Zawara e quelli della ristrutturazione dell’aeroporto internazionale di Tripoli da parte del consorzio italiano Aeneas.

Nell’intervista, il Ministro Trenta, ha evidenziato la contrarietà italiana alle azioni della diplomazia francese sul sostegno ad Haftar e al progetto per un processo elettorale entro la fine dell’anno. «Non è la cosa migliore da fare», – ha dichiarato Trenta in rifermento al piano elettorale – «gli Stati Uniti hanno visto in Iraq cosa succede quando si affrettano le cose».

Sulla pelle dei migranti si gioca la grande partita del conflitto d’interessi economici, e non solo, sia in Europa che in Africa con alla base il profitto dei monopoli e il coinvolgimento, più o meno diretto, dei grandi centri imperialisti interessati alla spartizione delle risorse energetiche, vie di comunicazione e zone d’influenza geostrategiche. «Come richiesto dal governo di quel paese, la NATO è pronta ad “aiutare” la Libia a costruire le sue istituzioni di sicurezza, sotto il controllo civile del governo, in coordinamento con l’Unione europea e in accordo con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu e gli sforzi bilaterali», ha dichiarato il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, in un’intervista del 24 giugno a Repubblica. «Gli esperti Nato– aggiunge Stoltenberg- restano in contatto con le autorità libiche per vedere come assisterle al meglio. Darei il benvenuto a ogni offerta di supporto da parte dell’Italia, ma la decisione spetta al governo italiano».

Il nuovo governo italiano, con il forte mantello ideologico della retorica anti-immigrati del ministro Salvini ma parecchio debole e eclettico al suo interno, tenta la contrattazione all’interno dei conglomerati imperialistici di UE e NATO (non opponendosi come aveva minacciato nemmeno alle sanzioni alla Russia relativi agli accordi di Minsk così come già fu per quelli relativi alla Crimea) per assumere maggior peso nel cosiddetto fronte Sud con il supporto degli Stati Uniti e spingendo al rafforzamento dell’alleanza atlantica nell’ampia regione del Mediterraneo e Nord Africa. In questo ambito va letta la disputa sui criminali hot spot da installare in nord africa, precisamente in Niger, Ciad, Mali e Sudan con una rimodulazione dell’intervento militare anche in Libia, che vede contrario in primis la Francia come evidenziato nel vertice di ieri sull’immigrazione del Consiglio Europeo dove, al di là dei toni trionfalistici, quasi nulla è stato “conquistato” dall’Italia in termini di redistribuzione dei rifugiati, con un ulteriore stretta criminale e reazionaria nella gestione dei flussi migratori.

Principalmente dal prossimo vertice NATO dell’11-12 luglio, ma anche dall’incontro a Washington tra il premier italiano Conte e quello statunitense Trump del 30 luglio, si delineiranno meglio gli scenari nel contesto della sempre più esacerbata competizione interimperialista. Quello che è certo è che il governo M5S-Lega, in continuità con il precedente, proseguirà nel coinvolgere il nostro paese nei pericolosi piani imperialisti, guerre, interventi e militarizzazione del nostro territorio che trovano l’ambiente ideale infiammando la questione immigrazione e con la retorica dell’”interesse nazionale” che sempre in bocca al governo come all’opposizione non vuol dir altro che la salvaguardia dei profitti delle grandi imprese e dei suoi azionisti legati al capitalismo transnazionale, in altre parole dell’oligarchia finanziaria, sul sangue e sudore dei lavoratori e dei popoli.

Ministro Trenta: «Nessun taglio agli F-35 e impegno a incrementare spesa NATO» | La Riscossa (http://www.lariscossa.com/2018/06/30/ministro-trenta-nessun-taglio-agli-f-35-impegno-incrementare-spesa-nato/)

Lord Attilio
04-07-18, 18:03
La dignità dei lavoratori non può esser elargita da un governo dei padroni. Solo l’organizzazione e la lotta paga

Il governo Lega-5 Stelle, dopo essersi smascherato in politica estera (vedi qui e qui), ora mostra il suo vero volto antipopolare anche in politica economica – e non poteva essere diversamente. Vediamo in dettaglio cosa prevede il “decreto dignità”.


Contratti a tempo determinato. Le aziende non potranno prorogare più di 4 volte queste tipologia di rapporto di lavoro (mentre prima il limite era 5), fino a un massimo di 24 mesi (contro i 36 di prima). Ma solo il 22% dei contratti a termini e l’1% in somministrazione hanno in realtà durata superiore ai 365 giorni. A fronte di un aggravio dello 0,5% in più di spese contributive (per finanziare la Naspi), se un’azienda vorrà rinnovare un contratto oltre i 12 mesi, dovrà darne “giustificazione”. Le imprese non faticheranno comunque ad adattarsi, licenziando i precari dopo 12 mesi. Ciò significa semplicemente che si creerà una rotazione dei lavoratori, confermando quello che abbiamo sempre detto: il lavoro non è precario, quello è stabile, sono i lavoratori ad essere precari!
Aumento degli indennizzi per i licenziamenti senza giusta causa previsti dal Jobs Act: +50% e comunque non oltre un tetto massimo di 36 mensilità. Ciò, oltre a non mettere in discussione il “licenziamento senza giusta causa”, costituisce solo fumo negli occhi ai lavoratori. Infatti questa forma di licenziamento è raramente usata, mentre quella più pratica per l’azienda, che vuole disfarsi di un dipendente, è “licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, senza contestazione disciplinare e dove le cosiddette “ragioni aziendali” non devono necessariamente consistere in una situazione di crisi (per esempio è stata considerata valida la decisione del datore di lavoro di sopprimere un posto perché poco produttivo; così come è legittimo affidare le mansioni del dipendente a una azienda esterna (“esternalizzazione”). Inoltre, tutti i nuovi assunti sono senza la tutela dell’articolo 18, cioè il loro contratto a tempo indeterminato in realtà è un contratto precario, possono essere licenziati in qualsiasi momento.
Su delocalizzazione e incentivi, le aziende che ricevono qualsiasi tipo di aiuto di stato dovranno restituirlo da due a 4 volte se delocalizzano, sia in Europa che fuori, entro 5 anni (dimezzato dagli annunciati 10). Revoca anche per le imprese che, senza delocalizzare l’impianto, riducono l’occupazione nelle unità interessate dal contributo (sempre entro i 5 anni). A parte il fatto che non è specificata la soglia minima di licenziamenti né il momento dell’entrata in vigore e che una norma similare era stata già approvata nella scorsa legislatura all’interno della legge di Stabilità del 2014, i fondi europei e le esenzioni fiscali non sono considerati aiuti di stato. Si dovrà vedere alla fine cosa resterà di questa norma dopo il passaggio parlamentare e come esso verrà realmente applicato, in particolare in riferimento ai paesi all’interno dell’UE, e quanto la sanzione possa esser realmente un freno rispetto ai benefici che il padrone trae dalla delocalizzazione. Quindi anche qui possiamo parlare senz’altro di fumo buttato negli occhi dei lavoratori.
Pubblicità del gioco d’azzardo vietata sui media. Un divieto che non si applicherà sui contratti in essere, né su lotterie a estrazione in differita (una su tutti, la Lotteria Italia). Esclusi, inoltre, tutti quei giochi che hanno ottenuto il logo “Gioco sicuro e responsabile”, sul resto si applicherà una risibile multa del 5%. Insomma, salvato il gettito fiscale proveniente da gratta e vinci e altri “giochi” gestiti dallo Stato.
Le nuove norme sul fisco. L’esecutivo ha ridotto infatti il redditometro e ha allungato i termini dello spesometro (misure entrambe introdotte contro l’evasione dell’IVA). Quindi, la strada del tutto opposta alla lotta all’evasione promessa.
Salta la prevista abolizione dello staff leasing, ossia la possibilità concessa alle agenzie di lavoro di assumere persone a tempo indeterminato, collocando poi queste ultime presso i propri clienti attraverso la stipula di contratti a somministrazione (con unico paletto inserito del tetto del 20% massimo per impresa). Questo è il meccanismo più utilizzato per rendere flessibile il mercato del lavoro in Italia.
Salta la compensazione universale automatica tra crediti e debiti nei confronti della pubblica amministrazione, che costituisce il più grosso peso (31 miliardi) a carico delle piccole imprese
Saltano le nuove norme sui riders, sui quali lunedì è partito al Ministero del Lavoro il tavolo negoziale con le società di food delivery, le quali metteranno in campo tutte le solite argomentazioni. Dall’altro lato i sindacati concertativi hanno avanzato proposte del tutto arretrate (contratti co.co.co.) mentre i rappresentanti dei lavoratori non sono stati neanche ricevuti.

Le reazioni di Confindustria amplificano come solito le lagnanze dei padroni, che non sono mai contenti delle regalie pubbliche, e quelle del PD, ovviamente in perfetta sintonia con quelle di Confindustria, confermando come questo partito cerca ancora di proporsi come il più fedele interprete degli interessi padronali.

D’altro lato, Di Maio si affrettato a tranquillizzare i padroni dicendo che il governo individuerà «le coperture per abbassare il costo del lavoro in modo selettivo su professioni, tipi di impresa e investimento che hanno un margine di crescita» nella prossima legge di Bilancio, confermando anche in questo la porzione della borghesia di cui M5S intende essere riferimento.

***

Possiamo quindi avanzare un commento ai primi passi del governo giallo-verde, in piena sintonia con quello che ci si aspettava da un governo filo-padronale:

1) la distanza enorme tra quello promesso, per quanto in modo molto fumoso, in campagna elettorale (cancellazione del Jobs Act, del lavoro somministrato e precario, ripristino dell’art.18, salario minimo ecc.) e quanto mantenuto.

2) Sui riders, si è individuata una categoria nuova, priva di ogni diritto, per farne un simbolo di propaganda del governo con il quale far passare il messaggio delle «tutele minime» come il massimo delle conquiste, con una contrattazione che deve eliminare il conflitto, confidando nella “sapienza” del governo/ministro. Un capolavoro di manipolazione degli interessi dei lavoratori: si parte da una esigenza giusta e sentita, anche se investe una parte minima dei lavoratori, si finge di farla propria e alla fine si propone una soluzione che in realtà nega il vero problema e anzi pone artificialmente tutto il resto della classe operaia su un piano di “privilegio”.

3) Ai proclami trionfalistici di Di Maio, per cui questo decreto sarebbe la «Waterloo del precariato», si associa la “narrazione” forviante dei sostenitori del governo secondo cui “è pur sempre un miglioramento e un cambio di tendenza” (magari cooptando anche qualche settore sindacale accomodato sul collaborazionismo, come abbiamo visto all’ultimo congresso UIL e le dichiarazioni di Barbagallo e di Cofferati). Ma qual è in realtà il piano? Niente conflitto, niente conquiste, niente organizzazione di classe, ma qualche “concessione” del presunto “governo amico” nel quadro della comunione di intenti tra imprenditori e lavoratori assimilando questi ultimi alla tesi della fine delle contrapposizioni nella difesa dell’“interesse nazionale”. Mentre la narrazione di PD/FI/FdI è che si tratterebbe di un attacco alle imprese e quindi in ultima analisi agli interessi dei lavoratori, che alla fine coinciderebbero anche in questo caso con quella dei padroni. Un gioco delle parti con Confindustria che prepara il depotenziamento delle già misere misure del decreto in parlamento e a far cassa con gli annunciati “tagli del costo del lavoro” in nome della competitività.

Le cose stanno andando da subito molto peggio di come si poteva prevedere a partire da un’analisi sulla natura di classe del governo (vedi qui la posizione del Partito Comunista). Quelle briciole che potrebbero arrivare si sono perse per strada. E del resto, mancando una forte opposizione di massa alle scelte del governo, perché i padroni dovrebbero concederle?

Dopo questi primi provvedimenti, molti lavoratori che – dopo essere stati platealmente traditi dal PD e delusi dalle sirene berlusconiane – per disperazione si erano rivolti, al nord e al sud, a questi due partiti, Lega e M5S, possono già vedere la reale natura di questo governo.

Occorre smascherare la natura di questo governo, che utilizzando la demagogia “populista” (qualunque cosa ciò possa significare), è in piena continuità con le scelte filo-padronali del passato, da Berlusconi al PD. Pertanto solo una presa di posizione indipendente della classe operaia, che non la collochi sotto questa o quella bandiera della borghesia, può costituire il primo passo per la ricostruzione di un fronte di classe in Italia per delle vere conquiste e non elemosine.

La dignità dei lavoratori non può esser elargita da un governo dei padroni. Solo l'organizzazione e la lotta paga | La Riscossa (http://www.lariscossa.com/2018/07/04/la-dignita-dei-lavoratori-non-puo-esser-elargita-un-governo-dei-padroni-solo-lorganizzazione-la-lotta-paga/)

Lord Attilio
08-07-18, 15:43
Russia, dopo 90 anni il governo di Putin smantella il sistema pensionistico sovietico

Mentre l’attenzione è tutta rivolta ai mondiali di calcio, il governo borghese russo guidato da Putin-Medvedev, sta portando avanti una riforma del sistema pensionistico che aumenta l’età pensionabile di 5 anni per gli uomini e di 8 per le donne, insieme ad altre misure antipopolari come l’incremento del 2% dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) dal prossimo 1° gennaio 2019, del costo della benzina, degli alloggi e dei servizi comunali. Come in tutti paesi capitalistici, prosegue anche in Russia una aggressiva politica antipopolare che assesta un altro duro colpo per la distruzione dello Stato sociale ereditato dall’era socialista nel processo di restaurazione capitalistica, continuando a violare i diritti e le libertà dei lavoratori e degli sfruttati con una diseguaglianza sociale che ha raggiunto dimensioni gigantesche con 200 famiglie (biznesmeny) che possiedono oltre il 90% della ricchezza nazionale. Lo scorso anno, secondo Forbes Russia il patrimonio di costoro è cresciuto di 100 miliardi di dollari rispetto al 2016, raggiungendo la cifra di 460 miliardi, con al primo posto il coproprietario della compagnia di gas privata “Novatäk”, Leonid Mikhelson (18,4 mld $), mentre i salari del 29% dei lavoratori russi sono al di sotto della soglia di sopravvivenza.

Il Consiglio dei Ministri ha introdotto nella Duma di Stato lo scorso 16 giugno la proposta sui cambiamenti nel sistema pensionistico che entreranno in vigore gradualmente a partire dal 2019 fino al 2028 per gli uomini e 2034 per le donne, e riguarderà gli uomini nati dal 1959 e le donne dal 1964, mantenendo il diritto al pre-pensionamento per l’industria pesante. Mentre la pensione sociale sarà erogata a 70 anni per gli uomini e 68 per le donne. La motivazione adottata dal primo ministro Medvedev è relativa all’aumento dell’aspettativa di vita, ma i dati ufficiali di Rosstat rilevano anche che in 62 (su 85) entità federali della Federazione Russa l’aspettativa di vita media è di 65 anni e addirittura in 3 sotto i 60 anni. Alcuni studi riportati dalla Confederazione del Lavoro della Russia rilevano che l’aspettativa di vita del 40% dei lavoratori russi sarebbe prossima ai limiti di età previsti dalla riforma.

La decisione, relazionata con la necessità della “stabilità del bilancio statale”, sta suscitando grandi preoccupazioni e proteste tra le classi popolari russe, e secondo varie inchieste 9 cittadini su 10 sono contrari alla riforma. Il livello reale delle pensioni, da ottobre 2014 è calato del 6,9%, mentre i prezzi al consumo, di prodotti alimentari e non, da novembre 2014 sono cresciuti in media del 25,7%, con una diminuzione del volume di circolazione di beni e servizi del 19,4%.

La questione dell’innalzamento dell’età di pensionamento fu sollevata per la prima volta nel 1997, per esser poi fortemente dibattuta nel 2010-11. Nel gennaio 2015, fu l’allora ministro delle finanze Ulyukaev ad annunciare una riforma delle pensioni che adesso sembra giungere in porto. Il sistema pensionistico vigente in Russia è quello introdotto nel 1928 dal governo sovietico di Stalin che stabilì l’età pensionistica più bassa al mondo: 60 anni per gli uomini e 55 per le donne, inoltre per i lavoratori che svolgevano lavori usuranti e pericolosi l’età era di 50-55 per gli uomini e 45-50 per le donne, che si associava alla drastica riduzione dell’orario di lavoro.

Il Partito Comunista Operaio Russo, membro della Iniziativa Comunista Europea, evidenzia come la «riforma delle pensioni sia un chiaro esempio del risultato della controrivoluzione borghese con la quale la nostra società è andata verso i rapporti capitalistici di sfruttamento e oppressione». «I lavoratori russi stanno oggi lavorando più che in qualsiasi cosiddetto paese sviluppato, con salari molto più bassi e un’aspettativa di vita più breve», denunciano i comunisti. «Ma questo non è abbastanza per i padroni, vogliono ancora più profitti, più plusvalore creato dal lavoro per accrescere i conti di oligarchi e funzionari», prosegue il PCOR, sottolineando come la riforma pensionistica serva anche ad incrementare il livello di asservimento dei lavoratori, incrementando la paura e sottomissione all’arbitrarietà dei padroni aumentando la competizione tra i lavoratori che di conseguenza permette di abbassare i salari. Evidenziando la superiorità del sistema socialista, il PCOR afferma che «il sistema sovietico, che ha posto l’accento sullo sviluppo globale di tutti, compresa la previdenza, ha liberato la persona. Il sistema borghese, volto ad appropriarsi del lavoro della maggioranza da parte di uno stretto gruppo di parassiti, rende schiava la persona, privandola anche del suo diritto al riposo». Per i comunisti la riforma ha pertanto un inequivocabile carattere antipopolare che mira ad aumentare il grado di sfruttamento dei lavoratori, ad aumentare i profitti dei capitalisti e a rafforzare lo stato borghese a spese dei lavoratori.

In migliaia stanno partecipando alle azioni e manifestazioni di protesta che si susseguono in varie città del paese, blindato per i mondiali di calcio e con il divieto di protesta nelle città coinvolte. Attive le organizzazioni della sinistra di classe russa, del Rot Front (Fronte Unito del Lavoro Russo), del PCOR e RKSM(b) che aderiscono al comitato “Il popolo contro l’innalzamento dell’età pensionabile”, con il compagno Alexander Batov, segretario del Rot Front di Mosca che, annunciando la manifestazione nella capitale del prossimo 18 luglio (alla vigilia della discussione alla Duma della riforma), ha dichiarato che «non ci possono esser concessioni, né scambi con le autorità sulla riforma delle pensioni. Solo cancellazione!».

L’offensiva del capitale non conosce confini e parla la stessa lingua. L’unica barriera è la lotta organizzata dei lavoratori sulle cui spalle viene caricato il peso della ristrutturazione capitalista e della competizione interimperialista.

Russia, dopo 90 anni il governo di Putin smantella il sistema pensionistico sovietico | La Riscossa (http://www.lariscossa.com/2018/07/08/russia-90-anni-governo-putin-smantella-sistema-pensionistico-sovietico/)

Lord Attilio
08-07-18, 15:43
Putin vuole fare la fine di Forza Italia e PD?

Lord Attilio
14-07-18, 12:52
L’Iniziativa Comunista Europea contro il Vertice NATO a Bruxelles

L’11 e 12 luglio si terrà a Bruxelles, in Belgio, un vertice dei capi di Stato e di governo della NATO, con un pericoloso programma a danno dei popoli.

Vertici precedenti di questo tipo sono stati usati per introdurre nuove politiche reazionarie e ammettere nuovi membri nella NATO. Negli ultimi anni, la NATO ha avanzato decisioni per la creazione di formazioni militari multi-tentacolari intorno alla Russia, un nuovo corpo di intervento rapido imperialista, una più profonda cooperazione con l’UE nonostante le rivalità sempre più intense tra USA e UE, per l’assegnazione del 2% del PIL degli stati membri alle spese militari. L’incontro dello scorso anno è coinciso con la controversa integrazione del Montenegro nell’alleanza contro la volontà popolare dei montenegrini, mentre a margine dell’intenzione di espandere il controllo euro-atlantico dei Balcani occidentali e del Mar Nero sta adesso preparando l’integrazione della FYROM, così come dell’Ucraina e della Georgia. L’accordo tra i governi della Grecia e della FYROM viene utilizzato come lasciapassare ai fini dell’integrazione della FYROM, che promuove i pericolosi piani UE-NATO nei Balcani.

Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, la NATO si è costantemente espansa in Europa e oltre, il che contrasta con le sue affermazioni sul rafforzamento la stabilità, ha ulteriormente aggravato le contraddizioni inter-imperialiste e incoraggiato i suoi Stati associati, membri a pieno titolo o meno, a promuovere e intensificare le misure anti-popolari. I governi allineati alla NATO sono stati in grado di perseguire politiche che alimentano conflitti etnici come nei Balcani, negli Stati baltici, in Georgia o in Ucraina, per servire gli interessi dei monopoli nel loro obiettivo di controllare le risorse energetiche, le loro vie di trasporto, i mercati.

I paesi della NATO si sono recentemente impegnati a erogare il 20% delle loro spese per la difesa nelle principali spese di equipaggiamento, fornendo una notevole fonte di reddito ai suoi monopoli. Il recente annuncio della Colombia come “partner globale” della NATO, implica non solo un rafforzamento degli Stati Uniti nel continente sudamericano, ma anche nuove ampie opportunità economiche per i monopoli nei mercati del Centro e Sud America.

Attualmente si evidenziano serie competizioni all’interno dell’alleanza imperialista, che si vedono in pratica nel sorgere di una guerra commerciale principalmente tra gli Stati Uniti e altri membri dell’organizzazione. In questo contesto, l’intensificazione della militarizzazione dell’UE con la sua politica di sicurezza e di difesa comune e la “Strategia internazionale” dell’UE che prevedono pericolosi piani come la Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO), l’Iniziativa Europea d’Intervento e la cosiddetta Mobilità Militare, nel quadro della cooperazione con la NATO, ma che vedrà a loro volta gli imperialisti dell’UE portar avanti i propri interessi in modo indipendente, con il continente Africano e il Medio Oriente come obiettivi specifici del coinvolgimento militare dell’UE e dei suoi stati membri.

Alla luce di questi sviluppi, è chiaro che le alleanze imperialiste stanno diventando sempre più instabili, che non possono esser permanenti e che il sistema capitalista alla loro base sta diventando sempre più reazionario e pericoloso. Il reiterato mito borghese dell’UE come progetto di pace si è rilevato in realtà l’esatto opposto.

Rafforziamo la lotta contro la guerra imperialista, l’UE, la NATO e tutte le alleanze imperialiste!

Mettiamo fine al sistema capitalista che genera guerre, crisi, rifugiati, sfruttamento!

Viva il socialismo!

L?Iniziativa Comunista Europea contro il Vertice NATO a Bruxelles (http://ilpartitocomunista.it/2018/07/13/liniziativa-comunista-europea-contro-il-vertice-nato-a-bruxelles/)

Lord Attilio
31-07-18, 11:30
Attacco incendiario contro il presidio No Muos. Attivisti: «Sospetti su militari statunitensi»

Un attacco incendiario è avvenuto nel tardo pomeriggio di ieri contro il presidio No Muos in c.da Ulmo a Niscemi (Caltanissetta) nelle vicinanze della base della marina USA dove è installato il contestato sistema di comunicazione satellitare. Le fiamme hanno lambito la struttura (bruciando all’esterno anche uno striscione appeso alla recinzione) in cui sono in corso i preparativi per il campeggio antimperialista che si svolgerà dal 2 al 5 agosto e la manifestazione del 4 agosto che giungerà ai cancelli della base americana.

«Erano quasi le sette quando una macchina bianca in transito — del tutto simile a quelle in uso agli appartenenti alla US Navy, la marina degli Stati Uniti — ha lanciato un innesco incendiario contro il tendone del presidio No Muos dove in questi giorni è in via di allestimento il campeggio che si terrà fino al cinque agosto», denunciano gli attivisti No Muos in un comunicato. «Gli attentatori hanno atteso che tutte le macchine degli attivisti si allontanassero prima di passare all’azione. Non avevano però considerato che un piccolo gruppo di militanti No Muos, non visto, fosse rimasto “di guardia” all’interno del presidio. Questi nostri compagni, uomini e donne, sono riusciti a domare l’incendio mentre i Vigili del fuoco davano forfait perché impegnati su altri fronti», prosegue il comunicato, sottolineando come potevano esser ben più gravi le conseguenze se le fiamme avessero colpito le strutture del presidio propagandosi alla confinante Sughereta (Riserva naturale).

«È inaccettabile che fatti del genere succedano impunemente nella contrada Ulmo di Niscemi: la zona più militarizzata della Sicilia e una fra le più militarizzate del mondo», denuncia infine il movimento evidenziando come «le pattuglie di strade sicure presenti al momento dell’incendio erano due, dopo che una terza si era appena allontanata. I militari, incalzati dagli attivisti, hanno affermato di non aver visto niente, e di non potere essere utili per testimoniare contro gli attentatori, andando subito via e rifiutandosi altresì di avvertire la forestale».

Condanna e solidarietà da parte della federazione siciliana del Partito Comunista che in un comunicato rilancia la denuncia del movimento affermando che «questo vile atto provocatorio e intimidatorio, che poteva avere conseguenze ben più gravi, dimostra ancora una volta l’arroganza e il crimine della presenza militare statunitense nel nostro territorio e la collusione delle istituzioni borghesi italiane. Dimostra ulteriormente le ragioni della lotta No MUOS. Non è la prima volta che accadono episodi simili, la risposta è nel rafforzare la lotta per smantellare il MUOS e chiudere tutte le basi e installazioni USA-NATO nel nostro territorio, per sabotare i piani che trasformano la nostra isola in una piattaforma strategica per le guerre e interventi imperialisti contro i popoli e i lavoratori».

La manifestazione è in programma per il 4 agosto ore 15 dal presidio in c.da Ulmo di Niscemi (CL) fino al cancello 1 della base americana.

Attacco incendiario contro il presidio No Muos. Attivisti: «Sospetti su militari statunitensi» | La Riscossa (http://www.lariscossa.com/2018/07/30/attacco-incendiario-presidio-no-muos-attivisti-sospetti-militari-statunitensi/)

Lord Attilio
19-08-18, 17:18
DISASTRO AUTOSTRADA A10 GENOVA, NESSUNA FATALITÀ MA PRECISE RESPONSABILITÀ. (Dichiarazione di Marco Rizzo segretario del Partito Comunista)

Prima di tutto vogliamo fare le condoglianze alle famiglie delle vittime del disastro, che però non è certo il frutto dell’imponderabilità della natura. Le cause generali sono dovute ai processi di privatizzazione delle infrastrutture strategiche. Nel particolare, quel tratto autostradale è tra quelli a massimo pedaggio e a massima redditività. Per chi? Per i privati che gestiscono le autostrade. E cioè per chi aveva e ha l’obbligo di compiere le manutenzioni straordinarie ed anche le sostituzioni (i ponti quando sono vetusti si ricostruiscono). Solo l’ingordigia del capitalismo (oggi globalizzato) può imporre un modello in cui i servizi fondamentali di una nazione (trasporti, sanità, istruzione ecc.) debbano esser vincolati al profitto di privati e non al benessere pubblico. Il problema è che, da almeno trent’anni, la maggioranza degli italiani (colpevole soprattutto la finta sinistra che ha sposato in pieno il liberismo) credono a questa favola. Forse tragedie come quella di Genova possono iniziare a fare riflettere. La soluzione non è quella di nuovi padroni (buoni, meno voraci ed efficienti) bensì l’espropriazione, la collettivizzazione e una gestione puntuale di questi settori, insieme a quelli della produzione industriale strategica (grande manifattura, acciaio, alluminio…). Pare che su quel maledetto ponte passassero 25 milioni di utenti all’anno. Quanti miliardi di € si sono intascati i privati infischiandosene evidentemente della sicurezza? La tragedia è simile a quella occorsa nelle Marche nel 2017. Questi “signori del mercato” privatizzano i loro profitti scaricando pericoli e insicurezza su tutto il popolo. A volte non sono neanche multinazionali ma, come in questo caso, “padroni” italiani, a riprova che il problema non è la sovranità bensì il mercato. Il problema è il capitalismo. Bisogna appunto espropriare, nazionalizzare e, con le risorse riacquisite, allestire un grande piano di manutenzione (anche del territorio) che garantisca sicurezza e centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro, rompendo tutti i vincoli di compatibilità UE. Riprendiamoci il maltolto. Per fare questo serve lo Stato.Uno Stato diverso da quello borghese.Per fare questo serve il Socialismo.Chissà se il “cambiamento” passerà anche da Genova?

DISASTRO AUTOSTRADA A10 GENOVA, NESSUNA FATALITÀ MA PRECISE RESPONSABILITÀ. (Dichiarazione di Marco Rizzo segretario del Partito Comunista) (http://ilpartitocomunista.it/2018/08/19/6605/)

Lord Attilio
05-09-18, 13:38
Incontro Merkel-Putin tra scontri e interessi imperialistici

*di Lorenzo Vagni

Lo scorso 18 agosto si è tenuto presso il castello di Meseberg, a Gransee, in Germania, un incontro tra Angela Merkel e Vladimir Putin. Il vertice segna una riapertura del dialogo tra i due capi di stato dopo l’inasprimento dei rapporti a seguito delle sanzioni economiche imposte alla Russia dall’Unione Europea in risposta all’annessione della Crimea. Nell’incontro si sono trattate varie tematiche di politica internazionale: dalla guerra del Donbass, per la quale la Merkel chiede l’applicazione degli accordi di Minsk, a quella in Siria. Si è parlato inoltre della possibile estensione del Nord Stream, il gasdotto che collega la Russia alla Germania attraverso il mar Baltico.

Il progetto Nord Stream, chiamato inizialmente North Transgas e in seguito North European Gas Pipeline, risale al 1997, anno in cui il colosso russo Gazprom e la compagnia finlandese Neste decidono la costruzione di un gasdotto che non transitasse per altri paesi nel tragitto tra Russia e Germania. Nel 2005 Gazprom rilevò le quote di Fortum (nome assunto nel frattempo da Neste) della società per la costruzione del gasdotto, divenendone unico proprietario, e iniziò i lavori di costruzione sulla terraferma. In seguito subentrarono acquistando quote altre grandi imprese europee, mentre le italiane Snamprogetti e Saipem parteciparono alla progettazione e alla costruzione del gasdotto. La prima linea del Nord Stream fu ultimata nel 2011, mentre l’anno successivo fu terminata una seconda conduttura.

Dal 2011 si iniziò ad ipotizzare l’espansione del Nord Stream, chiamata appunto Nord Stream 2, che prevedeva la realizzazione di altre 2 linee che portassero la capacità del gasdotto dai 55 miliardi di metri cubi attuali a 110 miliardi di metri cubi. La costruzione degli impianti terrestri in Germania è iniziata a maggio, e si prevede che il Nord Stream 2 possa essere operativo entro il 2020.

Il progetto, fortemente sostenuto da Putin, ha visto l’opposizione da parte di Polonia, Slovacchia e Ucraina, che temono di rimanere tagliate fuori dai collegamenti del gas tra UE e Russia, la quale al contrario sarebbe meno esposta a pressioni da parte degli stati attraversati dai gasdotti rafforzando i collegamenti via mare. Si sono inoltre espressi sfavorevolmente alla realizzazione del Nord Stream 2 Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, secondo cui il progetto sarebbe contro gli interessi dell’UE in quanto «il Nord Stream 2 non aiuta la diversificazione, né riduce la nostra dipendenza energetica», e Donald Trump, secondo il quale l’accordo renderebbe la Germania «totalmente controllata dalla Russia». Perfino Matteo Renzi, durante la sua presidenza, si era scagliato con veemenza contro la decisione della Germania di raddoppiare il gasdotto, definendo tale decisione incoerente con le sanzioni.

La posizione di opposizione al Nord Stream 2 da parte degli Stati Uniti è di facile lettura, in quanto gli USA temono che la Germania aumenti la propria dipendenza dalla Russia, a scapito proprio degli stessi Stati Uniti che, per tale motivo, promuovono invece il progetto del Trans Adriatic Pipeline (TAP) che dall’Azerbaijan giunge in Italia in funzione di “diversificare le fonti di approvvigionamento dell’UE” (limitando la Russia) insieme all’esportazione del suo gas naturale liquefatto (GNL) in Europa. La Germania è già peraltro il maggior importatore di gas dalla Russia, acquistando il 27,5 % delle esportazioni di Gazprom. Nel primo semestre del 2018 le importazioni di gas russo sono aumentate del 12,2 % (ovvero 3,5 miliardi di metri cubi), e l’espansione del Nord Stream potrebbe aumentare ulteriormente tali cifre. Questo ha portato Trump ad affermare che «la Germania è prigioniera della Russia sull’energia e poi noi dovremmo proteggerla dalla Russia».

La Germania al contrario guarda con interesse allo sviluppo del commercio con la Russia, seppur in forma limitata e senza rinunciare alle sanzioni, a causa della possibile instabilità dei rapporti tra UE e USA a seguito delle politiche di Trump sui dazi e dalla differente strategia a livello internazionale di quest’ultimo. In tal senso, la Russia di Putin rappresenta un partner commerciale ritenuto affidabile, ma l’interesse tedesco si estende anche per tutta un’area considerata “spazio vitale” dalla Russia, il Caucaso meridionale. La Merkel, insieme ad una delegazione di imprese tedesche, ha fatto infatti visita anche in Georgia, Armenia e Azerbaijan (che fanno parte del partenariato orientale dell’UE), dove ha evidenziato l’intenzione tedesca di assumere “maggiore responsabilità” nei conflitti dell’area (oltre quello Ucraina-Russia anche quello tra Armenia- Azerbaijan) sottolineandone l’importanza geostrategica (come avamposto verso l’Iran e l’Asia centrale) per la Germania e l’UE, dimostrando il suo interesse anche per il cosiddetto “corridoio meridionale” di trasporto del gas attraverso TAP e TANAP (Trans-Anatolian Natural Gas Pipeline, che dall’Azerbaijan passa dalla Turchia per finire in Europa) e firmando diversi accordi commerciali. Significativo il caso dell’Armenia che ha firmato un accordo con l’UE (Trattato di partenariato globale e rafforzato – CEPA) negli ultimi mesi pur essendo membro dell’Unione Economica Eurasiatica a guida russa. A tal proposito la Merkel, sottolineando il ruolo tedesco nel buon esito dell’accordo, ha dichiarato: «L’Armenia può essere un esempio di come si possa trovare una buona cooperazione con la Russia e l’UE allo stesso tempo».[1]

Reclamando una maggiore autonomia commerciale dagli USA, la Germania intende inoltre porsi come capofila di un’Unione Europea che abbia ulteriore peso nel contesto internazionale, come testimoniato dalle parole di Heiko Maas, ministro degli Esteri tedesco[2]:

«Il fatto che l’Atlantico è diventato politicamente più largo non è dovuto solamente a Donald Trump. Gli Stati Uniti e l’Europa si stanno allontanando da anni. L’intersezione di valori e interessi che ha plasmato il nostro rapporto per due generazioni è in declino. […] È giunto il momento di rivedere la nostra partnership – non di metterla da parte, ma di rinnovarla e preservarla. Come progetto, abbiamo l’idea di una partnership equilibrata, in cui assumiamo la nostra parte della responsabilità. In cui facciamo da contrappeso quando gli Stati Uniti superano certi limiti. In cui mettiamo il nostro peso, quando l’America si ritira. E in cui iniziamo un nuovo dialogo. Da soli, falliremmo in questo compito. L’obiettivo principale della nostra politica estera è quindi quello di costruire un’Europa forte e sovrana. Solo in stretta collaborazione con la Francia e gli altri paesi europei è possibile raggiungere un equilibrio con gli Stati Uniti. L’Unione Europea deve diventare un cardine dell’ordine internazionale, un partner per tutti coloro che si sono impegnati in esso. […] In nessun altro tema il legame transatlantico è indispensabile per noi quanto lo è per la sicurezza. Sia come partner nella NATO o nella lotta contro il terrorismo, abbiamo bisogno degli Stati Uniti. Ma da ciò dobbiamo trarre le giuste conclusioni. È nel nostro stesso interesse rafforzare il pilastro europeo dell’Alleanza del Nord Atlantico. Non perché Donald Trump stabilisca sempre nuovi obiettivi percentuali, ma perché non possiamo contare su Washington come prima.»

Gli fa eco il 27 agosto il presidente francese Emmanuel Macron [3], dicendo davanti agli ambasciatori di Francia riuniti a Parigi che intende varare «nei prossimi mesi» un progetto di rafforzamento della sicurezza in Europa e che gli europei «non possono più far affidamento esclusivamente sugli Stati Uniti». «Dobbiamo trarre tutte le conseguenze della fine della guerra fredda. Sta a noi prenderci le nostre responsabilità e garantire la sicurezza e la sovranità europea.» La sicurezza, ha detto Macron, dovrà coinvolgere «tutti i partner dell’Europa, fra cui la Russia». A condizione, però di «progressi sostanziali verso la soluzione della crisi ucraina e il rispetto del quadro Osce».

Ovviamente sono in ballo anche scottanti temi economici. Il ministro dell’Economia Bruno Le Maire ha confermato ieri che Berlino e Parigi stanno studiando il modo di aggirare le sanzioni Usa contro paesi come l’Iran. «Voglio che l’Europa sia un continente sovrano – ha detto – non un vassallo. E questo significa avere strumenti finanziari indipendenti che non esistono oggi».

Queste dichiarazioni di affermazione di una maggiore autonomia dell’Unione Europea dagli Stati Uniti rappresentano la volontà di imporre il proprio imperialismo in forma più autonoma da quello americano e non possono essere interpretate positivamente. Nulla di buono la classe operaia europea può aspettarsi da tutto ciò. Un’Unione Europea totalmente subalterna agli USA, o un imperialismo europeo che scalpita per risalire nel rango della piramide imperialista, sarà sempre a spese dei lavoratori europei. Nel secondo caso infatti questi dovranno pagarne il conto, a cominciare dall’incremento delle spese militari che comporteranno, mentre gli eventuali profitti che ne dovessero scaturire per “l’Europa”, saranno sempre a beneficio dei capitalisti europei.

Il Partito Comunista aveva intuito già dal 2016 la possibilità che una tale esigenza da parte dei monopoli europei si sarebbe manifestata. Infatti, come afferma il documento politico del II Congresso del PC [4]:

«Oggi l’asse tra USA e UE si mantiene per interessi dei settori maggioritari del capitale monopolistico europeo e statunitense. È possibile che in futuro tale asse venga ad allentarsi, come in alcuni casi già si intravede, nel contesto della competizione interimperialistica e di maggiori guadagni da una politica più autonoma. Ciò non muterebbe il carattere imperialistico del ruolo della UE né il carattere degli interessi che essa difende e delle politiche che attua.»


[1] https://armenpress.am/eng/news/944907.html

[2] https://global.handelsblatt.com/opinion/making-plans-new-world-order-germany-us-trump-trans-atlantic-relations-heiko-maas-europe-956306

[3] http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-08-27/sicurezza-europea-macron-non-possiamo-piu-fare-affidamento-solo-usa-143650.shtml?uuid=AEHQyrfF

[4] http://ilpartitocomunista.it/wp-content/uploads/DOCUMENTO-II-CONGRESSO-PC-2017.pdf

http://www.lariscossa.com/2018/08/28/incontro-merkel-putin-scontri-interessi-imperialistici/

Lord Attilio
05-09-18, 13:40
Test medicina. «Non c’è meritocrazia senza uguaglianza». Proteste del FGC in tutta Italia

Fronte della Gioventù Comunista

In occasione delle prove di accesso alla facoltà di Medicina, il Fronte della Gioventù Comunista (FGC) si sta mobilitando con azioni di protesta in tutta Italia contro il numero chiuso nell’università. Manifestazioni di protesta ci sono state nelle università di Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Firenze, Cagliari, Bologna e decine di atenei in capoluoghi di provincia e regione.

«A determinare il risultato dei test ci sono sempre più le disuguaglianze economiche, altro che meritocrazia» – ha affermato Luca Paolucci, responsabile università del FGC – «Non tutti vengono da scuole prestigiose o possono spendere migliaia di euro per prepararsi con corsi privati. Se non c’è uguaglianza e non si parte dalle stesse condizioni, come si può parlare di merito? In Italia – ha aggiunto Paolucci – c’è un saldo negativo fra i nuovi medici e chi va in pensione. In 7 anni abbiamo perso 9mila medici e mancano all’appello 50mila infermieri. Di fatto questi test servono solo ad avallare i tagli alla sanità pubblica a vantaggio del privato.»

«L’università – conclude – non ha bisogno di questi test, ma di essere davvero gratuita e accessibile a tutti indipendentemente dalle condizioni economiche. Serve una pianificazione razionale dell’accesso dei giovani laureati al mondo del lavoro per combattere la precarietà. Questo numero chiuso invece non serve ai giovani».

Test medicina. «Non c?è meritocrazia senza uguaglianza». Proteste del FGC in tutta Italia | Fronte della Gioventù Comunista (http://www.gioventucomunista.it/test-medicina-non-ce-meritocrazia-senza-uguaglianza-proteste-del-fgc-in-tutta-italia/)

Lord Attilio
05-09-18, 13:41
[FIRENZE] TEST MEDICINA. FGC: «DA QUESTURA ATTO INTIMIDATORIO. SOLIDALI CON MILITANTI FERMATI»

Fronte della Gioventù Comunista

*Comunicato della segreteria nazionale del Fronte della Gioventù Comunista in seguito al fermo di sei militanti del FGC, colpevoli di manifestare contro i test d’ingresso di medicina all’università di Firenze. I sei militanti sono stati portati in Questura e perquisiti. Un minorenne è stato condotto in una stanza separata e sottoposto a interrogatorio.

«Il fermo di sei militanti della gioventù comunista che distribuivano volantini contro i test d’ingresso operato oggi dalla polizia fiorentina è un atto intimidatorio che non fermerà la lotta della nostra organizzazione» Così in una nota la segreteria nazionale del FGC commentando i fatti di oggi. «Perquisizioni e interrogatori separati, per il solo fatto di aver distribuito un volantino che inneggiava all’uguaglianza sociale e alla difesa del sistema sanitario nazionale. Questa è la risposta di una polizia sempre più autoritaria, forte di un Ministro dell’Interno pronto ad istaurare un clima di repressione e di vero e proprio arbitrio. In ogni caso sempre più studenti si rendono conto dell’assurdità di questi test e anche oggi hanno dimostrato la loro solidarietà con la nostra lotta. Tutta la nostra organizzazione – conclude la nota – è solidale con i militanti fermati e darà battaglia al loro fianco, continuando a lottare per i diritti e il futuro della gioventù»

[FIRENZE] TEST MEDICINA. FGC: «DA QUESTURA ATTO INTIMIDATORIO. SOLIDALI CON MILITANTI FERMATI» | Fronte della Gioventù Comunista (http://www.gioventucomunista.it/firenze-test-medicina-fgc-da-questura-atto-intimidatorio-solidali-con-militanti-fermati-2/)

Sparviero
05-09-18, 23:50
I test d'ingresso sono sacrosanti, il problema è che sono fatti a cazzo di cane.

Lord Attilio
05-09-18, 23:58
I test d'ingresso sono sacrosanti, il problema è che sono fatti a cazzo di cane.

Ma se mancano medici, inoltre così selezioni solo quelli che hanno più tempo e mezzi per prepararsi lasciando fuori gli altri sulla base di un metodo arbitrario. In anni e anni di laurea e specializzazione c'è tutto il tempo di selezionare i competenti.

Sparviero
06-09-18, 00:06
Ma se mancano medici, inoltre così selezioni solo quelli che hanno più tempo e mezzi per prepararsi lasciando fuori gli altri sulla base di un metodo arbitrario. In anni e anni di laurea e specializzazione c'è tutto il tempo di selezionare i competenti.

Non ha senso far entrare uno che ha un QI di 95 all'università, per dire.

Bisogna certamente aumentare i posti disponibili e far sì che i test abbiano un senso e non siano domande sulla grattachecca.
In Giappone fanno tutti il test per entrare all'università e viene preso estremamente sul serio (a ragione).
Loro esagerano, però il concetto è correttissimo.

Lord Attilio
06-09-18, 00:25
Non ha senso far entrare uno che ha un QI di 95 all'università, per dire.

Bisogna certamente aumentare i posti disponibili e far sì che i test abbiano un senso e non siano domande sulla grattachecca.
In Giappone fanno tutti il test per entrare all'università e viene preso estremamente sul serio (a ragione).
Loro esagerano, però il concetto è correttissimo.

Uno con il QI di 95 non dura molto in un università di Medicina. Ci sono altri metodi oltre al test per scremare i palesi incompetenti.

Lord Attilio
10-09-18, 16:33
Accordo ILVA. La FLMU-CUB chiama a votare NO. «Delitto perfetto»

Pochissime sono le voci politiche e sindacali che si sono smarcati dagli univoci toni trionfalistici intorno all’accordo siglato al MISE lo scorso 6 settembre tra CGIL, CISL, UIL e USB da un lato e la nuova proprietà Am Investco, sotto la regia del governo, prima a guida PD e oggi a guida M5S-Lega, che ha portato alla cessione dell’ILVA al colosso mondiale leader del settore dell’acciaio, ArcelorMittal, col plauso di Confindustria.

Venduto da tutti gli attori protagonisti come “il migliore degli accordi possibili”, in realtà cela l’ennesimo accordo peggiorativo per i lavoratori chiamati da oggi fino a giovedì ad esprimersi con un referendum che si tiene sotto il tremendo e consueto ricatto dell’“unica alternativa possibile” per conservare il posto di lavoro amplificato dalle menzogne diffuse da tutti gli organismi del capitale.

“Se Ilva vuole produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio lo deve fare senza aumentare di nulla le emissioni che ci sono”, affermano i rappresentanti del governo M5S-Lega, spacciando ciò come un grande risultato a difesa della salute e dell’ambiente, dimenticando che già in queste condizioni gli infortuni e i morti sul lavoro sono all’ordine del giorno, sia fra gli operai costretti a lavorare senza sicurezza che tra i loro famigliari e la popolazione.

Ad opporsi fermamente a questo accordo, la FMLU-CUB che chiama gli operai dell’ILVA a votare NO per rilanciare la lotta a garanzia del lavoro e della salute.

Nel suo comunicato il sindacato conflittuale dei metalmeccanici afferma che si tratta del «peggior risultato possibile» e che «a perdere sarà tutta la classe lavoratrice per le condizioni di sicurezza, di salute, di altri diritti a cui dovrà rinunciare pur di sperare in un posto di lavoro. A perdere saranno tutti i cittadini, non solo quelli di Taranto, perché questo accordo ratifica la limitazione al diritto alla salute e ad un ambiente salubre, sacrificati all’altare del profitto».

Smontati punto per punto i termini dell’accordo, sia sul fronte propriamente lavorativo che ambientale. Al contrario di quanto affermato su tutti i media, dal governo, in particolare il ministro Di Maio, e dalle forze politiche e sindacali filo-padronali, «non si fermano le fonti inquinanti, sequestrate dalla magistratura già nel 2012», non è previsto «nessun piano per rimuovere l’enorme quantità di amianto, ancora presente nel sito ILVA di Taranto», e si mantiene «l’immunità penale» – sia per i commissari che per i nuovi proprietari – che vuol dire «nessun colpevole per malattia e morte che potranno continuare a colpire lavoratori e cittadini del territorio».

Inoltre, sono «confermati circa 3000 esuberi, già dichiarati e accettati dai sindacati con la Cassa Integrazione un anno fa», con «10.700 lavoratori, suddivisi nei vari stabilimenti ILVA a livello nazionale» che «riceveranno una proposta di assunzione ex novo da MITTAL o dalle altre società collegate». «I lavoratori che intenderanno accettarla, dovranno procedere alle “dimissioni consensuali” con ILVA – prosegue il comunicato della federazione dei metalmeccanici CUB – e accettare un nuovo rapporto di lavoro, rinunciare al diritto di continuità lavorativa, garantito dalla legge nei casi di cessione di ramo d’azienda dall’art. 2112 del Cod. Civ., che garantirebbe stesso livello, mansioni, luogo di lavoro e retribuzione. Devono accettare tutte le condizioni di AM investCo (luogo di lavoro, anche in altre sedi del gruppo; livello e inquadramento del CCNL sulla base del contratto applicato da MITTAL o dalle altre società del gruppo)».

Smontata anche la narrazione intorno al mantenimento dell’art. 18. Secondo quanto analizzato dalla FMLU-CUB, i lavoratori «rinunciano di fatto all’applicazione dell’art.18 poiché accettano di instaurare un nuovo rapporto di lavoro, con applicazione del Jobs Act. Ciò vuol dire che, se MITTAL o associate non rispetteranno l’accordo ed in seguito licenzieranno un lavoratore proveniente dall’ILVA, il sindacato potrà soltanto denunciare un atteggiamento antisindacale. Il lavoratore, che intenda invocare l’applicazione dell’art. 18 contro il licenziamento, non potrà pretendere che il giudice sia vincolato ad esprimersi, poiché con l’instaurazione del nuovo rapporto di lavoro ha rinunciato alla continuità lavorativa.»

Inoltre i lavoratori, con questo accordo, rinunceranno sia nei confronti della nuova società che dell’ILVA, all’art. 2087 Cod. Civ. «cioè a qualsiasi causa che potrebbe instaurare per malattie o danni derivanti da mancanza di misure necessarie per tutelare l’integrità fisica che il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare», e all’art. 2116 Cod. Civ. «che riguarda l’eventuale mancato versamento dei contributi previdenziali». Tali rinunce «valgono anche per chi accetta l’incentivo al licenziamento (da 15.000 euro a 100.000 euro lordi, in base ai tempi entro cui deciderà di uscire)» e per chi «rimarrà parcheggiato in Cassa Integrazione per 7 anni, con salario ridotto, sperando che entro agosto 2025 gli arrivi la proposta di assunzione».

In conclusione la FMLU-CUB sostiene che il pesantissimo attacco sferrato «alle condizioni di vita e di lavoro non colpisce soltanto i lavoratori ILVA ed i cittadini di Taranto. Le parti che hanno sottoscritto questo accordo hanno condannato i lavoratori tutti a sottomettere alle esigenze produttive i diritti fondamentali e irrinunciabili. Hanno condannato un’intera città, che tanto ha già pagato e tanto sta pagando, per colpa di fonti inquinanti che non verranno chiuse, per bonifiche reali che non verranno realizzate».

Insieme al sindacato conflittuale dei metalmeccanici anche il Partito Comunista si è espresso contro l’accordo con una nota del Segretario Generale, Marco Rizzo nel quale afferma che «il cambio di linea del M5S è strepitoso. Il decreto governativo viene mantenuto e permane anche l’immunità penale per gli inquinatori. Nessun piano ambientale, tanto meno di riconversione, restano gli impianti fuori norma e il lavoro viene comunque umiliato. Dei 13522 dipendenti di Taranto, se il lavoro è assicurato per 10.700 ne mancano all’appello 2822 che sarebbero parcheggiati in cassa integrazione, riceverebbero un incentivo o dal 2023, l’anno che verrà, verrebbero riassorbiti sulla base di un aumento della produzione (e della tossicità?) da parte della Mittel. Plaudono i sindacati concertativi corresponsabili del disastro. Esultano Calenda e Di Maio ovvero la continuità tra PD e M5S. Un vero capolavoro di ipocrisia».

La lotta dei lavoratori nella sua lunga storia ha visto il punto più alto quando si è smarcata dal ricatto occupazione-salute, non accettando la “monetizzazione” del peggioramento delle condizioni di lavoro, sia dal punto di vista dei diritti sindacali che da quello ambientale. La salute dei lavoratori e di tutti i cittadini non deve essere oggetto di mercificazione. Qualunque accettazione di “compromessi” al ribasso su questi temi non può fare altro che ridurre la capacità di lotta dei lavoratori e finisce per “abbellire” il capitalismo. Al contrario, la rivendicazione del rispetto di questi diritti inalienabili smaschera l’aspetto barbarico del capitalismo, la sua natura predatoria finalizzata in verità solo all’ottenimento del massimo profitto.

Accordo ILVA. La FLMU-CUB chiama a votare NO. «Delitto perfetto» | La Riscossa (http://www.lariscossa.com/2018/09/10/accordo-ilva-la-flmu-cub-chiama-votare-no-delitto-perfetto/)

Sparviero
10-09-18, 23:39
Uno con il QI di 95 non dura molto in un università di Medicina.

Certo, ma se lo tieni fuori fin da subito puoi riprogettare tutto il sistema universitario pensandolo per soggetti intelligenti, ne uscirebbe un gioiellino.



Ci sono altri metodi oltre al test per scremare i palesi incompetenti.

Certo. Proposte?

Lord Attilio
18-09-18, 16:28
Intensifichiamo la lotta contro la Nato e la guerra.

IL PARTITO COMUNISTA

Dichiarazione dell’Iniziativa Comunista Europea

“Intensificare la lotta contro le guerre e gli interventi imperialisti, contro la NATO e l’UE, per l’immediata rimozione di tutte le basi militari straniere dai nostri paesi, contro la partecipazione delle Forze armate dei nostri paesi alle missioni all’estero”.

L’imperialismo ha una lunga storia di aggressioni, ingerenze, occupazioni e guerre.

L’imperialismo ha rovinato la vita di milioni di persone nell’interesse dei monopoli. La crescente aggressività dell’imperialismo nelle attuali condizioni rappresenta una minaccia reale e imminente per gli interessi di tutta l’umanità. La militarizzazione della società capitalista, la presenza di massicci eserciti e un crescente complesso militare-industriale – che assicura che le conquiste scientifiche e tecnologiche vengano utilizzate su scala senza precedenti per lo sviluppo e la creazione di terrificanti armi di distruzione di massa – ha prodotto l’aumento delle aggressioni da parte degli stati capitalisti per l’attuazione dei loro pericolosi piani e interessi e profitti senza precedenti per il capitale anche attraverso la produzione militare e la guerra.

La NATO è un’alleanza militare aggressiva che agisce negli interessi dell’imperialismo, le classi borghesi dei suoi stati membri. La storia della NATO non può esser separata dallo sfruttamento, dall’oppressione, dall’ingerenza e dalla guerra.

Sia con il pretesto dell’esistenza degli stati socialisti in Europa, sia dopo il loro rovesciamento controrivoluzionario, la NATO ha sempre costituito uno strumento militare dell’imperialismo. La NATO con le decisioni anche del suo più recente vertice a Bruxelles promuove la militarizzazione e la continuazione della corsa agli armamenti. Opera e mantiene una vasta rete di basi militari in territori stranieri in tutto il mondo.

La ratifica del Trattato di Lisbona da parte dell’Unione Europea nel 2009 nel mezzo di tante contrapposizioni ha segnato un ulteriore sviluppo nel processo di integrazione Europea degli stati membri dell’UE in una alleanza imperialista attraverso la cosiddetta Politica di Sicurezza e di Difesa Comune (PSDC). L’Unione Europea ha partecipato alle guerre imperialiste in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq e Libia insieme agli Stati Uniti e alla NATO, e ha svolto un ruolo di primo piano negli interventi, bombardamenti e minacce contro la Siria e l’Iran. La cooperazione tra la NATO e l’UE, unitamente alle richieste di un Esercito Europeo, è concepita per aumentare la capacità di intervento militare.

Molte missioni PSDC e UE sono pianificate e condotte in una crescente collaborazione con la NATO. Vi è una massiccia espansione del finanziamento dell’UE per la ricerca militare e lo sviluppo dei piani imperialisti. Il Fondo Europeo per la Difesa, l’Organizzazione Europea per la Difesa, il meccanismo per la valutazione della promozione della militarizzazione negli stati membri CARD, il Servizio Europeo per l’Azione Esterna, i programmi di finanziamento come gli apparati “Athina”, “Orizzonte 2020” e altri apparati dell’Unione Europea si stanno sviluppando con miliardi di euro per promuovere gli interessi imperialisti a spese dei popoli, che nello stesso momento vengono colpiti da dure misure antioperaie, tagli, pesanti tasse.

L’UE è un grande sostenitore del commercio di armi e gli stati membri dell’UE esportano grandi quantità di armi per i loro pericolosi piani imperialisti. Questa pericolosa linea perseguita dall’UE è stata aggiornata attraverso il suo accordo formale per stabilire la Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO) nel 2017.

Contemporaneamente, la NATO si è ampliata rapidamente e in modo significativo, progettando un mandato globale per le sue operazioni. Si sforza costantemente di espandere la sua influenza sia in termini di ampiezza dei suoi programmi che della sua portata globale, concentrandosi sull’accerchiamento della Russia nel quadro degli intensi antagonismi internazionali. Il ruolo della NATO e dell’UE, attraverso il dispositivo della PSDC, pone sempre nuovi pericoli per l’Europa e oltre.

La crisi del capitalismo intensifica l’aggressione imperialista, la competizione sull’energia, sulle sue rotte di trasporto, le quote di mercato. Il capitalismo non ha la volontà né la capacità di risolvere i problemi che esso stesso crea. Aumento della disuguaglianza, povertà, privazioni, disoccupazione, mancanza di abitazioni, di protezione contro le inondazioni, incendi e terremoti, decadimento ambientale insieme a una miriade di problemi sociali, economici e politici che il capitalismo non è in grado di risolvere fanno parte della barbarie capitalista. Mentre gli stati capitalisti hanno un interesse strategico comune, cioè la riproduzione del sistema capitalista, la storia ha mostrato le feroci rivalità imperialiste tra i gruppi monopolistici e la loro volontà di imporre i loro interessi con la forza.

I partiti della Iniziativa Comunista Europea chiamano all’intensificazione della lotta contro l’imperialismo e gli interventi e guerre imperialiste. Ciò necessita un’intensificazione delle dimostrazioni attraverso mobilitazioni e iniziative in ogni paese contro la NATO e l’UE e il cosiddetto Partenariato per la Pace (PfP), per:

- Il diritto dei popoli di scegliere il percorso in base ai loro interessi, compreso il diritto di ritirarsi da queste unioni imperialiste;

- Il rifiuto della PESCO e ripudio di ogni partecipazione alle missioni imperialiste nell’ambito della PSDC;

- La chiusura di tutte le basi militari nei territori stranieri e lo smantellamento dei sistemi anti-missile USA e NATO; la fine delle spese militari per i piani di guerra della NATO; l’abolizione delle armi nucleari e altre armi di distruzione di massa; il ritiro immediato di tutte le forze NATO/UE coinvolte nell’aggressione e nell’occupazione militare; fine delle minacce, intimidazioni, destabilizzazione e interventi imperialisti e guerre contro i popoli.

Intensifichiamo la lotta contro la Nato e la guerra. (http://ilpartitocomunista.it/2018/09/18/intensifichiamo-la-lotta-contro-la-nato-e-la-guerra/)

Lord Attilio
20-09-18, 21:33
12 OTTOBRE: STUDENTI IN PIAZZA CONTRO IL GOVERNO

Fronte della Gioventù Comunista

In questi giorni è suonata la prima campanella per milioni di studenti delle scuole superiori. Un’apertura dell’anno scolastico all’insegna della repressione e della continuità rispetto agli anni precedenti. Infatti, fin dalle primissime ore di lezione in centinaia di scuole si sono svolti blitz della polizia. Una stretta repressiva che, sotto lo slogan “Scuole Sicure”, si inserisce nella politica securitaria promossa dal Ministro Salvini e costruisce un clima asfissiante, che ci abitua a un ambiente scolastico sempre più autoritario. La ricetta del governo di fronte alle mille carenze e contraddizioni del sistema educativo sta nel sorvegliare gli studenti con nuove telecamere e controlli di polizia, sfruttando queste misure a scopo di propaganda. Uno sviluppo coerente con le basi poste dalla Buona Scuola, che vuole presidi-manager autorizzati a gestire in tutto e per tutto la vita scolastica, e che oggi si manifesta nel suo volto più preoccupante.

Mentre il governo insiste con la propaganda razzista sull’immigrazione per alimentare una guerra tra poveri, i problemi reali che vivono gli studenti delle classi popolari restano irrisolti e crescono ogni giorno che passa. L’emergenza dell’edilizia scolastica, nonostante i proclami dei governi, mette quotidianamente in pericolo milioni di studenti, costretti a studiare in strutture fatiscenti e prive dei materiali strettamente necessari. I costi spropositati dei libri di testo e dei trasporti alzano una barriera economica insostenibile per migliaia di famiglie. L’alternanza scuola-lavoro, ormai entrata a regime, garantisce alle aziende la presenza costante di studenti non pagati, che spesso sostituiscono con mansioni di base il ruolo dei lavoratori. Una vera occasione per anticipare la formazione aziendale e risparmiare sui costi, a discapito di un’educazione complessiva dei giovani. Non è un caso che negli ultimi mesi si siano verificati numerosi infortuni a danno dei ragazzi impegnati nei progetti di scuola-lavoro, esposti al rischio e privi di tutele effettive.

Di fronte a tutte queste problematiche reali il ministro dell’Istruzione Bussetti conferma l’intenzione di proseguire nel solco tracciato dalla Buona Scuola di Renzi e delle precedenti riforme. La proposta di aumentare le ore di alternanza negli istituti tecnici e professionali è una dimostrazione evidente di questo indirizzo, che esige una ferma risposta degli studenti. Se esiste il cambiamento tanto sbandierato dal governo Lega-M5S, questo finora si è dimostrato soltanto in peggio.

Questa scuola di classe nega a milioni di studenti un futuro dignitoso, e il governo decide di incatenare il nostro presente. Sappiamo bene che la colpa di questa situazione non è dei nostri compagni di banco immigrati, come vorrebbe farci credere la propaganda razzista, che punta a dividerci e a creare falsi nemici. A questo inganno dobbiamo rispondere uniti, perché gli studenti italiani e immigrati vivono la stessa condizione e hanno un solo nemico contro cui battersi: questo sistema e i suoi servi che ci vogliono divisi e a testa bassa. Di fronte a tutto questo non possiamo restare a guardare, perché ogni minuto passato in silenzio significa stringere le nostre catene. Vogliamo dire con forza che non è questa la scuola di cui abbiamo bisogno, che questo modello di istruzione piegato al profitto di pochi non lascia spazio alle nostre aspirazioni e necessità reali.

Per questo lanciamo un appello alla mobilitazione, rivolto a tutti gli studenti che sentono sulla loro pelle il peso di questa situazione, le barriere imposte da una scuola sempre più esclusiva. Ci rivolgiamo a tutti i giovani che non sono disposti ad accettare l’ennesimo furto sul proprio futuro.

Il 12 ottobre costruiamo una grande mobilitazione studentesca in tutte le città d’Italia, per smascherare questo governo e lottare per una scuola diversa. Alziamo la voce contro lo sfruttamento in alternanza, chiedendo una giusta paga per le ore lavorate e tutele reali agli studenti. Battiamoci per poter studiare in strutture adeguate e attrezzate, con laboratori e materiali al passo coi tempi. Lottiamo per eliminare ogni finanziamento alle scuole private, per la piena copertura statale dei costi dell’istruzione pubblica. Perché tutti abbiano la possibilità di studiare senza dover spendere migliaia di euro l’anno tra libri e tasse mascherate. Scendiamo in piazza contro la repressione e i tentativi di militarizzare le nostre scuole.

Contro il governo e la scuola di classe, riprendiamoci il futuro!

12 OTTOBRE: STUDENTI IN PIAZZA CONTRO IL GOVERNO | Fronte della Gioventù Comunista (http://www.gioventucomunista.it/12-ottobre-studenti-in-piazza-contro-il-governo/)

Lord Attilio
09-10-18, 23:20
Lottare per rivendicare il controllo della produzione


Riportiamo alcuni passaggi estratti dall’intervento del compagno Alessandro Mustillo (ufficio politico PC) all’iniziativa organizzata a dal Partito Comunista a Terni lo scorso 30 settembre. La conferenza si è svolta alla presenza di lavoratori e delegati sindacali con lo scopo di sensibilizzare i lavoratori sulla necessità di mantenere alta la vigilanza sui piani della ThyssenKrupp in relazione all’AST facendo avanzare fin da ora la consapevolezza della necessità di una lotta politica nei prossimi mesi per tutelare occupazione e condizioni di lavoro. Di seguito alcuni passaggi dell’intervento.



In questi anni troppo spesso è accaduto che i lavoratori abbiano iniziato a lottare quando ormai era già troppo tardi. Penso a casi di delocalizzazioni, ristrutturazioni aziendali, esuberi. Anche a causa di mancanze politiche e sindacali, e soprattutto per la fiducia mal risposta nelle organizzazioni politiche e sindacali sbagliate, i lavoratori si sono trovati disarmati ad appuntamenti fondamentali. Per questa ragione il Partito Comunista ha cercato oggi un confronto con gli operai dell’AST di Terni, con la consapevolezza che fin da ora è necessario iniziare a preparare la lotta e a diffondere tra i lavoratori la coscienza di ciò che potrebbe accadere nei prossimi mesi […]

Recentemente la Confindustria ha salutato con toni entusiastici un modesto incremento della produzione dell’acciaio in Italia, che nel 2018 ha segnato un +3% circa sul dato dell’anno precedente, con conseguente reingresso dell’Italia nei primi dieci paesi produttori di acciaio al mondo. Senza dubbio i capitalisti – italiani e stranieri – fanno grandi profitti sull’acciaio prodotto in Italia, grazie anche alla costante compressione dei diritti dei lavoratori e alla scarsa attenzione alle questioni ambientali. Ma questo dato è rassicurante per la Confindustria, per i profitti privati delle aziende, ma non per i lavoratori, né per il futuro della produzione di acciaio in Italia e il mantenimento dei livelli occupazionali attuali.

In realtà l’Italia oggi produce la stessa quantità di acciaio che produceva nel 1980, circa 24 milioni di tonnellate. La produzione mondiale dell’acciaio però è più che raddoppiata passando dai 707 milioni di tonnellate del 1980 alle 1.689 di oggi, con una chiara redistribuzione dei rapporti di forza tra i grandi monopoli internazionali e gli stati. Parto da quest’ultimo dato.

Nel 1980 gli USA erano il secondo produttore del mondo – dopo l’URSS – con 109 milioni di tonnellate annue. Oggi ne producono poco più di 81 e sono al quarto posto dietro Cina, Giappone e India. La Cina da sola produce il 49,6% dell’acciaio mondiale. In Europa dopo la Germania (43 milioni) c’è l’Italia (24) seguita a distanza da Francia e Spagna. In sostanza il fabbisogno di acciaio è aumentato in quelli che venivano definiti paesi in via di sviluppo, che hanno accresciuto i propri settori industriali a tal punto da ridurre la crescita nei paesi a capitalismo avanzato, che hanno iniziato a importare acciaio a basso costo dismettendo la propria produzione. Tutto questo processo è ovviamente nelle mani di grandi gruppi monopolistici. Arcelor Mittal, il primo gruppo al mondo, noto in Italia per aver comprato l’ILVA grazie all’accordo siglato da Calenda prima e Di Maio poi, da sola produce circa 100 milioni di tonnellate, ossia più della produzione degli Stati Uniti. Questi dati spiegano perché l’acciaio sia divenuto uno dei settori oggetto dei dazi voluti da Trump, nell’ottica di riportare una parte della produzione “delocalizzata” negli USA.

L’analisi generale può apparire lontana dalle questioni che riguardano Terni nell’immediato, ma in realtà non lo è. Dietro le scelte aziendali ci sono le previsioni e la lettura di quanto accade a livello generale, vista la stretta connessione dei mercati a livello internazionale. Confindustria si è affrettata a dire che i dazi USA non avranno serie ripercussioni sulla produzione italiana, dal momento che il mercato statunitense copre appena il 2% delle esportazioni di acciaio dall’Italia, e che il prezzo dell’acciaio italiano resta ancora competitivo sul mercato statunitense nonostante il peso dei dazi. È possibile che questa previsione sia in parte corretta per quanto riguarda il rapporto diretto con gli USA, tuttavia è assolutamente parziale, perché non tiene conto degli effetti indiretti dei dazi sul mercato globale e le ripercussioni nel consumo interno europeo. Il mercato europeo potrebbe essere ancora più esposto all’ingresso di acciaio dagli altri paesi produttori, deviati dal commercio verso gli USA a causa dei dazi, con ripercussione sulla produzione interna. In poche parole Cina e India potrebbero scaricare una parte rilevante del surplus produttivo non più diretto verso gli USA proprio sul mercato europeo. È un’ipotesi, che però appare assai probabile.

L’Italia – come detto – produce 24 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Di queste ogni anno ne esporta ben 18 milioni, mentre ne importa dall’estero 20 milioni. Anche il mercato interno italiano è tutt’altro che legato strettamente alla produzione di acciaio nazionale e quindi può risentire molto delle vicende internazionali. In secondo luogo nell’area del mercato comune europeo – come in gran parte del settore industriale – la competizione tra paesi, tra cui Germania e Italia è un dato di fatto. Il contrasto tra i grandi gruppi infine incrementerà i processi di concentrazione aziendali, con ristrutturazioni e inevitabili ricadute sull’occupazione: solo incrementando lo sfruttamento del lavoro, diminuendo i costi di produzione e accorpandosi i grandi monopoli riusciranno a competere sul mercato internazionale, compreso quello interno all’area europea.

La Thyssen non fa eccezione. In questo quadro di possibile competizione che la proprietà dell’AST faccia capo alla società tedesca non è certo un fatto rassicurante. La Thyssen da una parte sta portando a compimento il progetto di fusione con l’indiana Tata, da cui nascerà il secondo gruppo mondiale di produzione dell’acciaio, e su cui è attesa la pronuncia della Commissione Europea il 30 ottobre. Dall’altra ha stabilito una divisione in due tronconi della società con la creazione di Thyssen Industries e Thyssen Materials (AST finirà nella seconda, da tutti giudicata meno importante). La direzione dell’azienda tedesca ha sempre dichiarato che il sito di Terni «non costituisce un asset strategico aziendale». Due più due fa quattro. Solo chi vuole illudersi non vede la probabilità di una ristrutturazione aziendale già a partire dai prossimi mesi, sia essa in termini di vendita o di riarticolazione dei processi produttivi, con ricadute occupazionali o nuovi accordi peggiorativi sulla pelle dei lavoratori. D’altronde l’esperienza di questi anni ha dimostrato che la competizione sui mercati viene scaricata direttamente sui lavoratori: se tutto dipende dal prezzo della merce finale i tagli ai salari e l’incremento della produttività sono da sempre la prima risposta che i capitalisti danno per mantenere i propri margini di profitto. Nel settore dell’industria metallurgica l’altra partita è sui costi ambientali: scaricare sulla collettività il peso di ristrutturazioni del processo produttivo che sarebbero necessarie è un modo per non caricare quei costi sulla merce finale, ma il prezzo è il danno per la salute dei lavoratori e delle popolazioni locali […]

Che fare? Nel dibattito collettivo prende forma l’idea che l’importante sia tutelare o riportare sotto la nazionalità italiana la proprietà delle imprese. I capitalisti italiani stanno giocando a diffondere un senso comune di perdita di posizioni alimentando un sentimento nazionalista, che punta a unire lavoratori e imprenditori in ottica corporativa. Ma per i lavoratori la questione non è la nazionalità del proprio padrone, se la logica di sfruttamento resta invariata. Thyssen dice di non voler vendere l’AST, ma il gruppo Marcegaglia si fa avanti per l’acquisto. Può essere la vendita a Marcegaglia una soluzione stabile per il futuro dei lavoratori? Certo che no. È assolutamente impensabile che oggi una industria – sebbene di importanti dimensioni – da sola sia in grado di competere in un settore tanto polarizzato. Oltre alla Marcegaglia ci saranno quindi accordi e compartecipazioni, con altre società, fondi, banche. In ogni caso anche una società italiana non farebbe altro che applicare le regole del mercato capitalistico.

La proposta della nazionalizzazione è quindi l’unica in grado di assicurare l’occupazione dei lavoratori, il mantenimento della produzione dell’acciaio in Italia, la risoluzione del conflitto con l’ambiente e la salute, liberando risorse da sottrarre al profitto privato per il reinvestimento nelle politiche sociali. Si tratta ovviamente di una lotta assolutamente politica, che va oltre una visione meramente sindacale, ma unica in grado di ottenere risultati significativi e duraturi. La nazionalizzazione non muta di per sé il carattere dei rapporti di produzione in uno stato a capitalismo avanzato: non è l’obiettivo finale della nostra azione, la creazione di una società socialista, ma è un risultato ottenibile nell’immediato, che allo stesso tempo caricherebbe quella lotta di nuova forza.

Un forte movimento dei lavoratori che in casi come quello dell’AST lottasse per la nazionalizzazione, aprirebbe un varco anche sotto il profilo culturale nella percezione collettiva, contrastando nei fatti il pensiero dominante sull’efficienza del privato. La dimostrazione contraria è sotto gli occhi di tutti, dai settori produttivi, all’acciaio appunto, basti pensare all’Ilva, alla telefonia per non parlare delle autostrade. Il Ministero dei Trasporti ha diffuso i dati della propria commissione d’inchiesta secondo cui di tutta la manutenzione fatta sul Ponte Morandi dal 1982 ad oggi ben il 98% dell’importo è stato stanziato quando le autostrade erano pubbliche. Anche i tagli sulla sicurezza hanno fatto parte della strategia di incremento dei margini di profitto per i privati. E così lo vediamo ogni giorno nei trasporti pubblici privatizzati, dove stanno peggio i lavoratori e sono peggiori i servizi, nella sicurezza sui luoghi di lavoro, nel ricorso alle esternalizzazioni per comprimere i costi.

Nazionalizzare l’AST significherebbe poter utilizzare quegli 87 milioni di profitti netti fatti dall’azienda nello scorso anno sottraendoli al controllo privato: reinvestendoli in maggiore sicurezza, migliori condizioni di lavoro, potenziamento delle tecnologie per ridurre ulteriormente l’impatto ambientale e così via. Significherebbe riunificare la produzione, eliminando le esternalizzazioni e garantendo a tutti i lavoratori – compresi quelli a cui proprio oggi è scaduto l’appalto – una garanzia di futuro stabile. Una lotta che andrebbe accompagnata dalla richiesta di un controllo diretto da parte dei lavoratori della produzione dell’azienda, evitando che lo stato ponga al vertice delle società gli stessi manager che entrano e escono da società private, vanificando di fatto ogni reale diversità nella gestione. Questa lotta, partendo da grandi distretti produttivi, metterebbe davvero nuovamente la classe operaia al centro di un movimento più largo e vasto nella società italiana, unico a poter contrastare l’attuale deriva […]

In conclusione due sono le questioni che dobbiamo tenere a mente. In primo luogo non è possibile riporre alcuna fiducia in questo governo, che gioca a presentarsi come “governo del popolo” ma in realtà rappresenta interessi di una parte dei capitalisti italiani. Prova ne è l’appoggio esplicito dato alla Lega da Confindustria. Un governo che gioca a costruire mediaticamente l’idea di uno scontro con le istituzioni europee ma propone un deficit di appena lo 0,1% superiore a quello del 2017. Annunciano la revoca della concessione ad Autostrade ma poi nel decreto per Genova prospettano addirittura l’anticipo delle spese per la ricostruzione del Ponte Morandi da parte dello stato. Non facciamoci prendere in giro!

La seconda questione è l’attualità di un diverso modello di società. I lavoratori hanno tutte le capacità per portare avanti le proprie aziende senza padroni, senza che qualcuno si appropri del prodotto del loro lavoro. Sappiamo che questa prospettiva appare oggi distante dal pensiero collettivo: è un problema di coscienza, non di possibilità oggettive. Per questo è necessario lavorare in questa direzione, per far avanzare la consapevolezza che il socialismo è possibile, attuale ed è la vera e definitiva risposta alle contraddizioni di questa società. Una società socialista è la sola in cui la produzione e tutta l’economia possa essere realmente posta al servizio dello sviluppo sociale, del miglioramento delle condizioni di vita di tutti.

Rivendicando che lo Stato strappi ai privati la proprietà delle più grandi industrie del Paese, lottando per il controllo diretto della produzione, si avanzerebbe davvero verso questa direzione. Accettando l’ennesimo accordo al ribasso i margini di compromesso anche temporanei andranno a ridursi sempre di più e il futuro dei lavoratori sarà solo un incremento del loro sfruttamento.

Lottare per rivendicare il controllo della produzione | La Riscossa (http://www.lariscossa.com/2018/10/02/lottare-rivendicare-controllo-della-produzione/)

Lord Attilio
09-10-18, 23:21
La nascita della CECA: marchio d’origine dell’Europa contro i lavoratori

di Tiziano Censi

Il dibattito sull’UE è ormai da anni al centro dell’agenda politica italiana e la Manovra alla base della legge di bilancio ha riaperto le polemiche, spesso pretestuose, tra i partiti di governo e di opposizione che, fuori dalla rappresentazione che essi danno di questo scontro, hanno sostanzialmente mantenuto, in questi anni, una linea di completa continuità tra le loro politiche e nel rapporto con gli organismi sovranazionali. Il rapporto deficit/PIL al 2,4% non fa eccezione come abbiamo già spiegato qui.

Il dibattito che si genera intorno alla questione Europa, però, specialmente a sinistra, rimane ammantato da un velo ideologico che riscrive il processo stesso di costruzione dell’Unione Europea per piegarlo ad una visione “comunitaria” dei popoli europei che nulla ha a che spartire con la costruzione effettiva dell’impianto istituzionale europeo.

Se è pur vero che molti partiti della sinistra extraparlamentare, in emorragia di consensi, hanno fatto dietrofront rispetto ad un marcato europeismo nella necessità di rincorrere un sentimento di sfiducia diffuso nei confronti dell’UE, è anche vero che le loro formulazioni rimangono contraddittorie, spesso volutamente ambigue, prive di quell’analisi dei processi concreti che a noi sta a cuore svelare.

Siamo convinti che per portare avanti un dibattito costruttivo sui compiti dei comunisti nella lotta contro l’UE serva fare chiarezza sulle basi da cui si parte, eliminando questo velo ideologico e riscoprendo le necessità di classe, le motivazioni e gli interessi che si celano dietro all’UE.

Già quattro anni fa, con tre articoli, avevamo mostrato la contrarietà del PCI, unica forza politica a votare contro, all’entrata dell’Italia nel MEC (Mercato Unico Europeo), riportando direttamente le parole che i parlamentari comunisti avevano pronunciato in aula e l’analisi, incredibilmente attuale, che il PCI faceva delle conseguenze che il trattato avrebbe comportato all’economia italiana e alla condizione dei lavoratori (potete ritrovare l’articolo a questo link). In questo articolo faremo un ulteriore passo indietro partendo dagli albori del progetto europeo.

La genesi del dibattito europeo

Il dibattito sulla possibilità di unire i paesi europei prese avvio a partire dai primi anni del secondo dopo guerra ma fu tutt’altro che popolare. L’opinione pubblica rimase a lungo estranea a questi processi, poco informata e per nulla considerata. Le classi popolari subirono gli effetti del nuovo impianto sovranazionale ma non ebbero mai nessuna voce in capitolo. Furono infatti circoli intellettuali e politici, con l’attenzione della borghesia “illuminata” e più lungimirante a dar vita alla discussione guidata da personalità quali Winston Churchill, Alcide De Gasperi e Adriano Olivetti. Nel giro di pochi anni questi circoli iniziarono a darsi una strutturazione e nacquero così alcuni gruppi federalisti transnazionali. Anche questo dibattito tra élite, però, sarebbe rimasto sterile ed inconcludente se la prospettiva europea non avesse cominciato a far gola agli industriali e di rimando ai governi nazionali.

Sarà in particolare la Francia a dare l’impulso iniziale, secondo quello che verrà definito il metodo “funzionalista”, proponendo la costituzione del Consiglio d’Europa (1949) e della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, 1951) che diedero vita alle prime istituzioni europee, embrioni del mercato comune e dell’UE per come li conosciamo oggi.

Dalla fine della guerra per la Francia rimaneva scottante il tema sulle sorti della Germania con la quale si contendeva importanti giacimenti minerari nel territorio della Sarre. In Germania, inoltre, si estendeva il bacino della Ruhr in cui ogni anno venivano prodotte 114,5 milioni di tonnellate di carbon fossile corrispondenti a circa la metà della produzione europea. Uno sviluppo tedesco incontrollato avrebbe minacciato i mercati francesi. Le proposte di smembramento della Germania Ovest, però, erano naufragate per l’opposizione degli Stati Uniti e dell’Inghilterra interessati a creare un argine forte sulla linea di confine con il blocco sovietico. L’unica via praticabile, dunque, per cercare di contenere lo sviluppo tedesco sembrava potesse essere quella di imbrigliarlo all’interno di un meccanismo di controllo comune. Nacque così, con la benedizione degli Stati Uniti d’America, la CECA che univa i mercati carbosiderurgici di Francia, Germania, Italia, Belgio, Lussemburgo e Olanda prevedendo regolamentazioni comuni, l’abolizione dei dazi interni e la standardizzazione della tassazione sui prodotti importati, un controllo sui prezzi e meccanismi per la liberalizzazione della manodopera del settore.

L’accordo era visto con favore dalle classi dominanti europee e americane per motivi economici e politici. Per la Germania questo rappresentava a tutti gli effetti un processo di pacificazione e di elevamento della nazione sconfitta al pari degli altri paesi. Permetteva, inoltre, di trovare potenziali mercati alla propria potenza carbosiderurgica. Per l’Italia dal punto di vista politico le motivazioni erano simili con la differenza però che il settore produttivo italiano era molto indietro rispetto agli altri Paesi e questo comporterà effetti catastrofici sul livello occupazionale. Per tutti i Paesi, poi, un legame più stretto rappresentava un importante tassello nello scontro contro il blocco sovietico e con i partiti comunisti europei. Gli USA da tempo spingevano in questa direzione (nel 1949 era stata costituita la NATO) e salutarono con grande favore la nascita della CECA. Parole entusiaste arrivarono anche dagli ambienti vaticani, per Papa Pio XII il processo europeo si accordava con la vocazione universalistica della chiesa cattolica ed era fondamentale per frenare l’espansione del comunismo.

Ad opporsi alla firma dei trattati nei vari paesi furono solamente i partiti comunisti, in particolare di Francia ed Italia, preoccupati per gli effetti che questi avrebbero avuto sulle condizioni di vita dei lavoratori e poiché leggevano il carattere anticomunista ed antiprogressista di tutto il processo. Il contesto della guerra fredda è, infatti, fondamentale per comprendere gli ulteriori sviluppi. A partire dalla 1950, con lo scoppio della guerra di Corea e l’inasprirsi della contrapposizione tra blocchi, in Europa si inizia a parlare del Piano Pleven, dal nome del primo ministro francese, che avrebbe dovuto costituire una Comunità Europea di Difesa (CED), passo ulteriore dell’unificazione europea. La proposta francese anche in questo caso era finalizzata ad evitare un riarmo tedesco incontrollato e mirava ad una nuova unificazione settoriale: quella delle forze armate e dei sistemi di difesa. Le forze armate dei vari paesi sarebbero state inglobate all’interno delle “Forze Europee di Difesa” a loro volta subordinate alla NATO, rafforzando non solo il legame tra i Paesi europei ma costituendo a tutti gli effetti una saldatura definitiva del vecchio continente al campo imperialista statunitense.

Il carattere antisovietico di questa operazione era evidente al punto che il naufragio della CED corrispose proprio da un allentamento della tensione internazionale, con la fine della guerra di Corea nel luglio del 1953 e con la morte di Stalin, il 5 marzo dello stesso anno, che fece prevalere gli interessi nazionali delle borghesie europee sulla paura dell’estendersi del comunismo. Altiero Spinelli, oggi osannato da una certa sinistra, arrivò a sostenere che “nell’interesse della costruzione dell’unità europea sarebbe stato bene che Stalin fosse vissuto ancora un anno.”

Tutto ciò avvenne senza alcun coinvolgimento delle classi popolari che rimasero spettatrici impotenti del riassestamento degli equilibri tra le varie borghesie europee che, uscite dalla guerra, si dotavano degli strumenti sovranazionali per l’esercizio del proprio dominio e per la difesa dei propri interessi. Nessuna spinta ideale mosse gli Stati ma solamente calcoli economici e politici in cui ciascuna borghesia nazionale cercava di far valere i propri interessi pur nella necessità comune a livello europeo di unirsi per non rimanere schiacciati economicamente e politicamente dal contesto della guerra fredda.

Un processo tutt’altro che democratico: l’esclusione dei comunisti.

La nascita del Consiglio d’Europa e della CECA fu accompagnata dalla costituzione di organismi di gestione e di controllo completamente slegati dal controllo popolare. L’organismo più importante della CECA era l’Alta Autorità composta da nove membri svincolati da qualsiasi legame di dipendenza dagli Stati di provenienza, con il compito di gestire il nuovo impianto economico, garantire prestiti, orientare gli investimenti, occuparsi della sicurezza sul lavoro, indirizzare gli Stati verso la liberalizzazione degli scambi e verso la libera circolazione della manodopera. Al suo interno gli interessi degli imprenditori (in particolare di quelli francesi) erano ben rappresentati dalla presenza di Léon Daum, industriale siderurgico. L’Alta Autorità, come era facile immaginarsi, negli anni della sua attività ebbe mano molto leggera nel contrastare l’azione dei cartelli industriali, come la GEORG che controllava tutta la produzione del bacino della Ruhr; l’Oberrheininsche Kohlenunion, monopolista delle vendite in Germania del sud; il Comptoir belge des charbons e l’Association technique de l’importation, che controllavano il settore carbonifero nei rispettivi paesi. Questi cartelli industriali furono i veri beneficiari del mercato comune appena creato. Con ancor meno risolutezza, poi, l’Alta Autorità agì in difesa dei posti di lavoro e delle condizioni lavorative ma di questo ne parleremo più avanti.

Con carattere consultivo e di controllo ma con poteri estremamente limitati era previsto l’insediamento di un’Assemblea Comune che rappresenta il primo passo verso la costituzione del Parlamento Europeo. I membri dell’Assemblea Comune non erano eletti dai cittadini ma scelti tra i parlamentari di ogni paese, ad eccezione dei comunisti. Per una conventio ad excludendum praticata in tutti i paesi dell’Europa a sei i comunisti erano esclusi dall’essere rappresentati in qualsiasi assise europea. Questo avveniva tanto nel Consiglio d’Europa quanto in tutte le successive assemblee fino al 1969, con il risultato che la componente democristiana risultò sempre preponderante, contrastata solo da una timidissima opposizione socialista, nei venti anni iniziali della costruzione europea.

L’arbitraria esclusione dei comunisti dalle assemblee europee contraddiceva i dettami contenuti negli articoli dei trattati stessi della costruzione europea ma in questi casi gli impianti normativi passano in secondo piano. Il carattere anticomunista di tutto il progetto europeo non poteva rischiare di essere messo in crisi dalla presenza di una vera opposizione all’interno delle assemblee europee. Nessun velo copriva le aspirazioni della borghesia in quegli anni: il mercato comune doveva favorire la crescita produttiva e gli industriali, i comunisti si sarebbero opposti, il carattere di argine al blocco socialista assunto dall’Europa a sei ne sanciva la definitiva esclusione.

L’attenzione nell’estromissione dei comunisti fu enorme anche quando, nella fase di trattativa della CED (che poi abbiamo visto non andrà in porto), i delegati europei si trovarono ad affrontare il problema di un’elezione diretta da parte dei cittadini dei parlamentari europei. Pierre-Henri Teigen espresse il pensiero di tutti: “Se per esempio su 40 seggi attribuiti alla Francia, 8 fossero detenuti dai comunisti, la delegazione francese sarebbe ridotta a 32.” Bisognava dunque trovare un modo per “eliminare i comunisti” attraverso il metodo di scrutinio. L’assemblea convenne dunque per un sistema elettorale maggioritaria che avvantaggiava fortemente le coalizioni, molto simile alla “legge truffa” in Italia che avrebbe garantito così una forte sottorappresentazione dei comunisti.

D’altra parte, i comunisti, pur fuori dalle istituzioni europee portavano avanti la loro opposizione a contatto con gli operai che subivano sulla propria pelle gli effetti dei nuovi trattati.

Un’Europa contro i lavoratori

Per capire la portata generale che ebbe la nascita delle nuove istituzioni sovranazionali basta vedere che al momento della ratifica dei trattati istitutivi della CECA erano impiegati nel settore carbosiderurgico dei paesi coinvolti 1.850.000 lavoratori. La nuova comunità prevedeva la liberalizzazione nella circolazione della manodopera nei paesi aderenti con il risultato di mettere questi lavoratori in concorrenza tra loro con ripercussioni sui ritmi di lavoro, sulle condizioni di sicurezza e sui salari.

Ad essere più penalizzati furono i lavoratori dei paesi con i comparti industriali più arretrati. Il fenomeno del livellamento a ribasso dei salari, più manifesto al giorno d’oggi, fu meno evidente, ma ciò si dovette al fatto che la crescita del mercato comune andò di pari passo con la ricostruzione del dopoguerra, e al boom economico degli anni ’50 finanziato con gli ingenti investimenti americani: dal Piano Marshall ai prestiti concessi direttamente alle istituzioni europee. Gli effetti della libera circolazione della manodopera si fecero sentire, in particolare, nella crescita dei fenomeni migratori verso i paesi che potevano garantire una maggiore occupazione e la speranza, spesso disillusa, di salari più alti. L’Italia fu fortemente interessata da fenomeni emigratori, diretti specialmente verso le miniere belghe dove le condizioni di lavoro erano terribili e la sicurezza inesistente.

L’emigrazione italiana fu sostenuta fortemente dal governo italiano che sperava in questo modo di ridurre la disoccupazione. Grazie ad accordi bilaterali con il Belgio, inoltre, l’Italia riceveva determinati quantitativi di carbone ogni scaglione di mille operai inviati a lavorare nelle miniere. Questo fenomeno fu così favorito che solo in Belgio nel 1951 erano presenti 50.000 minatori italiani, la maggior parte dei quali versava in condizioni abitative del tutto precarie, molti lavoratori, addirittura, alloggiavano nelle baracche costruite dai nazisti per i prigionieri sovietici adibiti al lavoro nelle miniere durante la seconda guerra mondiale.

Le condizioni di lavoro erano, se possibile, ancora peggiori: i ritmi erano tenuti elevati dal largo utilizzo del pagamento a cottimo e gli incidenti all’ordine del giorno. Solo nel 1952 ci furono 122.000 incidenti. Gli italiani che persero la vita nelle miniere belghe furono più di 500 ma nell’Assemblea Comune si cercava di minimizzare poiché intervenire sulla sicurezza avrebbe prodotto un aumento dei prezzi e la messa in discussione del lavoro a cottimo in Belgio avrebbe potuto produrre effetti anche negli altri Paesi. Secondo il parlamentare della CDU George Pelster era conveniente che questi dati non divenissero pubblici per evitare che potessero esser impiegati dai comunisti per un “uso sovversivo”. L’Alta Autorità si decise ad agire con decisione solo dopo l’8 agosto 1956 quando nella miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle, in Belgio un incendio uccise 262 operai, 136 dei quali italiani.

Anche la concorrenza tra le imprese ebbe effetti deleteri sulla condizione dei lavoratori. Molte delle aziende meno competitive applicarono piani di modernizzazione che causarono forti licenziamenti. Questo avvenne ampiamente in Italia negli stabilimenti dell’Ilva di Savona, ad esempio, l’occupazione scese tra il 1948 e il 1953 da 4.300 a 2.200 unità e nelle acciaierie di Terni da 7.900 a 5.300. Il piano di licenziamenti produsse una forte risposta operaia, a Terni si organizzarono una serie di scioperi che in alcuni casi sfociarono in violenti scontri con le forze dell’ordine schierate per reprimere la protesta operaia. Stessa cosa successe a Piombino nello stabilimento “La Magona d’Italia” che era stato occupato dagli operai. La fabbrica fu sgomberata con la forza dalla polizia e tutto il personale licenziato in blocco. L’azienda riassunse in seguito solamente gli operai che non avevano partecipato all’occupazione.

Questo è il clima in cui si svilupparono le premesse e si costruirono le fondamenta dell’Unione Europea. La retorica dell’Europa dei Popoli e dei grandi ideali da riscoprire decade di fronte alla realtà storica. I trattati europei nacquero con il preciso scopo di favorire gli interessi degli industriali, restringere i diritti dei lavoratori e porre un freno alla spinta progressiva del blocco socialista. Essi furono applicati attraverso la sistematica esclusione dell’opposizione comunista e con la forza della repressione poliziesca contro gli operai.

Nessun’altra Europa è possibile all’interno della gabbia di queste istituzioni nate per servire interessi tutt’altro che popolari.

La nascita della CECA: marchio d'origine dell'Europa contro i lavoratori | La Riscossa (http://www.lariscossa.com/2018/10/08/la-nascita-della-ceca-marchio-dorigine-delleuropa-lavoratori/)

Lord Attilio
16-10-18, 10:59
A chi appartiene l’Africa?

Tratto dall’intervento di Carlo Bonaccorso al dibattito “La guerra tra poveri la vincono i padroni” alla IV Festa regionale del Partito Comunista fed. Sicilia, Palermo, 13/10/2018

Il fenomeno migratorio è senza dubbio uno dei temi, anzi IL TEMA che oggi occupa spazio nei media e nei dibattiti politici. Ma di cosa si parla? Un po’ di tutto e un po’ di niente.

Sì perché andare a pescare dentro tanta retorica una posizione coerente e soprattutto utile a comprendere realmente il fenomeno, è cosa difficile. Il decreto sicurezza e immigrazione promosso dal Ministro dell’Interno Matteo Salvini e fresco di firma da parte del Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, rappresenta in pieno quel pensiero anti immigrazionista di chiaro stampo repressivo, utile solo a scatenare una guerra tra poveri.

Grazie ad una sinistra incapace di uscire dagli slogan pro immigrazione, sorda alle richieste di aiuto da parte di una classe lavoratrice ridotta ormai allo stremo, ci ritroviamo oggi un governo M5S-Lega che alla fin fine continua a perseguire quelle politiche favorevoli solo al capitalismo.

Di fatto, la classe lavoratrice continua a essere vittima di un sistema che la priva delle conquiste ottenute negli anni passati. Aziende che delocalizzano, lasciando per strada migliaia di lavoratori, oppure, per rimanere nel tema accoglienza, basta andare a vedere la situazione in cui versano i tanti operatori sociali, costretti a lavorare senza vedere stipendi e spesso in condizioni vergognose, tutto per colpa di una gestione che fa acqua da tutte le parti. Tanto per fare degli esempi.

Eppure, in Italia, la causa principale dei problemi, sembra risiedere nell’immigrato brutto, sporco e cattivo che, “abituato alla schiavitù”, arriva in Italia ingrossando le file di coloro che favoriscono il caporalato nelle campagne.

La cultura occidentale, senza cadere nella retorica da due soldi, ha da sempre considerato l’Africa e l’africano come una merce. Quei migranti economici, tanto osteggiati dal vecchio continente, sono in realtà le prime vittime di una colonizzazione che oggi più che mai, tiene in catene i popoli africani.

L’ITALIA IN AFRICA

Oltre alle missioni militari (di cui l’ultima denominata “Misin”, in Niger, è partita a settembre [vedi qui, N.d.R.]) giustificate con prestesti quali “lotta al terrorismo” o “ai trafficanti di esseri umani”, ma che in realtà mirano ad accrescere la propria influenza su un territorio, il nostro paese in Africa è abbastanza attivo grazie alla presenza di aziende che fatturano milioni e milioni di euro. Petrolio, gas liquido, armi, costruzioni, tutti settori proficui e redditizi.

L’ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, è presente in 14 paesi africani (Algeria, Egitto, Nigeria, Angola, Repubbluca del Congo, Ghana, Libia, Mozambico, etc). In particolare, in Africa Orientale, Mozambico nello specifico, l’azienda ha siglato un contratto di cinque anni nell’area 4 del bacino di Rovuma con capacità di 140/180 trilioni cubici di piedi, per lo sviluppo di siti off-shore ai fini di estrazione di gas liquido. La vendita del 25% di interessi indiretti alla Exxon Mobil (USA), conferma il primato che l’azienda ha nella zona. Altro contratto in Algeria, nell’area Berkine (sud est) per esplorazioni di gas e petrolio.

Tra l’altro, l’ENI è sotto processo insieme alla Royal Dutch Shell per l’affare OPL 245; entrambe vengono accusate di versamento di fondi illeciti (circa 1 miliardo di dollari) per il tentativo di acquisizione di un blocco petrolifero in Nigeria.

Altro settore redditizio, quello delle armi, vede un’altra azienda italiana la Leonardo – Finmeccanica, fortemente impegnata nel continente africano. Vendita appunto di armi, ma anche servizi di sicurezza, come l’appalto vinto in Congo dalla IA4P (Italian Alliance for Ports, gruppo di compagnie attive nella logistica ci cui la Leonardo è leader) per la creazione di un sistema di sicurezza marittima integrato nel porto di Pointe Noire (vedi qui).

In barba alla legge 185/90 (che vieta la vendita di armi da parte di aziende italiane a paesi in guerra o in alte spese militari), questo settore cresce sempre di più.

Angola, Congo, Marocco, Sudafrica, Kenya, Mali, Ciad, Namibia, Etiopia, Nigeria, Ghana, Senegal, Mozambico, tutti paesi che hanno acquistato armi da imprese italiane (dati al 2016).

Ma non finisce qui. Il nostro paese è pienamente coinvolto anche nel fenomeno del Land Grabbing, ovvero, l’accaparramento delle terre fertili da parte di stati e multinazionali. Secondo il rapporto di Focsiv (qui) in collaborazione con Coldiretti, dagli inizi di questo millennio, 88 milioni di ettari di terre sono stati “acquistati” in tutto il mondo.

Nello specifico, l’Italia ha investito su un milione e 100 mila ettari con 30 contratti in 13 stati (di cui la maggior parte africani) in special modo, nell’agro industria. Il gruppo Tozzi, ad esempio, possiede più di 50mila ettari, la Senathonol, joint venture italo senegalese, che ne possiede 26mila.

Questo triste fenomeno, che vede coinvolti diversi stati occidentali in ogni parte del mondo, mira all’acquisizione e alla espropriazione di terre per lo sfruttamento e la realizzazione di aree turistiche o industriali. Oppure, come nel caso del Mozambico (cui arriveremo tra poco), per la trasformazione in grandi piantagioni a monocoltura dove i contadini, una volta espropriati, lavorano a cottimo.

Tra gli investitori maggiori, oltre l’Italia, ci sono USA, Gran Bretagna, Olanda, Cina, Emirati Arabi, ma anche paesi emergenti come India e Brasile. Tali investimenti avvengono in Africa, Asia, America Latina (dove tale fenomeno viene chiamato estrattivismo).

Il Land Grabbing mira principalmente alla produzione a monocoltura a costi bassi per il mercato internazionale, producendo un enorme danno ai lavoratori della terra di tutto il mondo. Migliaia di famiglie, comunità locali, piccole medie imprese agricole, sono vittime di questo sistema che impedisce loro di poter vivere dignitosamente. I governi locali spesso corrotti, vendono ettari a dieci euro ciascuno, senza farsi scrupolo di chi per anni quelle terre le ha coltivate.

In Uganda, l’inglese New Forest Company, azienda inglese di legname, ha costretto più di 26mila famiglie a lasciare le loro terre.

Il caso citato prima del Mozambico mostra chiaramente di cosa parliamo. Il governo di questo paese, tra il 2009 e il 2011 ha concesso al Consorzio Pro Savana 102mila km quadrati di terra arabile nella provincia di Nampula per l’introduzione di piantagioni in stile brasiliano. Composto da imprenditori giapponesi e brasiliani, con il coinvolgimento di imprenditori locali, il mega progetto prevede la trasformazione di tutta la zona in distese di soia e iatropha per l’agro business.

Grazie alla protesta attiva del movimento Nao ao ProSavana, composto da coltivatori e sindacalisti e con l’appoggio dei missionari comboniani, il progetto è rimasto congelato per un po’ ma adesso sembra sia ripartito. Per di più, questa zona è già stata presa di mira da altri colossi agro industriali che hanno tolto ettari di terre, lasciando in povertà la gente dei villaggi limitrofi. In un paese dove la varietà di coltivazione è una ricchezza (manioca, cocco, fagioli, banane, ecc.), produrre a monocoltura significa distruggere una economia locale, solo per il mercato internazionale. Così nascono i migranti economici. Grazie al neocolonialismo.

CONCLUSIONI

L’imperialismo dei paesi occidentali in Africa, di fatto, toglie ai popoli la possibilità di sopravvivere o comunque di non poter vivere dignitosamente. Quei migranti economici che l’Europa tanto odia, altro non sono se non il prodotto terrificante di queste politiche imperialiste. L’uso di manodopera a bassissimo costo da parte delle multinazionali e la quasi inesistenza di una concorrenza locale, impediscono uno sviluppo economico. Il colonialismo del passato ha lasciato posto ad un neocolonialismo economico e finanziario che strozza i paesi africani con i debiti e li costringe ad un perenne immobilismo.

Non c’è nessuna guerra, nessuna persecuzione, l’individuo “semplicemente” non ha di che vivere perché la sua terra appartiene agli imperialisti.

Thomas Sankara diceva:

«Le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico in comune».

A chi appartiene l'Africa? | La Riscossa (http://www.lariscossa.com/2018/10/15/a-chi-appartiene-lafrica/)

Lord Attilio
22-01-19, 13:16
RIZZO (PC): «ACCUSE ALLA FRANCIA VERE, MA PAROLE DI DI MAIO COLPEVOLMENTE PARZIALI»

«Da comunisti abbiamo sempre denunciato le politiche imperialiste e neocolonialiste dei paesi europei, Francia in testa, additandole come prime responsabili del terribile esodo migratorio. Solo il PD può pensare ancora una volta di difendere l’indifendibile, facendo blocco con la Commissione europea» Così Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista. «Quanto detto da Di Maio è innegabile, però le sue dichiarazioni sono colpevolmente parziali, e omettono di andare alla radice della questione. La critica alla Francia è giusta e sacrosanta, ma lo stesso deve essere fatto della politica imperialista statunitense, e anche di quella italiana. Anche il nostro paese è colpevole, quando difende gli interessi dell’Eni e delle grandi società italiane che spesso si sono macchiate delle peggiori nefandezze in Africa. Se non si fa questo, il rischio è di fare semplice nazionalismo, finendo per farsi portabandiera degli interessi di una parte dei monopoli nella spartizione africana. Le cause dell’immigrazione – conclude Rizzo – sono da ricercarsi nel sistema capitalistico, che ogni giorno impone la rapina delle risorse dei popoli e della ricchezza prodotta dai lavoratori per consegnarla nelle mani di un pugno di persone ricchissime. L’imperialismo è il vero responsabile della crisi dell’immigrazione. Bisogna rovesciare un sistema dove pochi supermiliardari hanno la stessa ricchezza di 3,8 miliardi di persone ridotte alla fame, non è sufficiente criticare un solo Paese. E questo i cinque stelle hanno dimostrato definitivamente con i fatti di non volerlo fare».

RIZZO (PC): «ACCUSE ALLA FRANCIA VERE, MA PAROLE DI DI MAIO COLPEVOLMENTE PARZIALI» (http://ilpartitocomunista.it/2019/01/22/rizzo-pc-accuse-alla-francia-vere-ma-parole-di-di-maio-colpevolmente-parziali/)

Lord Attilio
19-05-19, 13:42
https://www.youtube.com/watch?v=-lK6xpUZ5gM

Lord Attilio
28-05-19, 13:14
In risposta alla provocazione della FGCI

È davvero svilente leggere comunicati di attacco alla nostra organizzazione come quello pubblicato oggi dalla FGCI e ritrovarci a dover rispondere su una questione tanto pretestuosa, in un momento tra l’altro molto delicato per tutto il movimento comunista in Italia. La situazione ci impone però di fare chiarezza su quanto avvenuto. Non intendiamo spendere più delle poche parole necessarie.

Premettiamo che se i dirigenti della FGCI avessero perso mezz’ora del proprio tempo a leggere lo statuto della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica (WDFY-FMGD) avrebbero evitato l’imbarazzo suscitato oggi da questo comunicato, e nei mesi passati dalla loro spregiudicatezza nell’attività internazionale.

Il comunicato afferma che la nostra organizzazione avrebbe proposto l’espulsione della FGCI dalla Federazione Mondiale della Gioventù Democratica. Niente di più falso, forse i compagni dovrebbero tradurre con più attenzione la comunicazione inviata loro dalla FMGD.

Le premesse da fare sono due. La prima è che durante i primi mesi di quest’anno nella FMGD è stata eseguita una ricognizione delle organizzazioni affiliate in vista dell’Assemblea Generale, che si terrà alla fine di quest’anno. La seconda è che la FGCI dalla sua fondazione, con l’assemblea costituente del settembre 2016, non ha mai formulato nessuna richiesta di ammissione nella FMGD.

Durante l’ultima riunione del Consiglio Generale della FMGD, tenutasi a Caracas lo scorso aprile in concomitanza con la Missione di Solidarietà organizzata proprio dalla FMGD, si è semplicemente preso atto di ciò. Nessuna espulsione quindi, solamente la constatazione di un dato di fatto. Come è stato peraltro comunicato alla FGCI via mail dalla stessa direzione della FMGD.

È importante ricordare che questa constatazione è avvenuta nell’organo più ampio della FMGD, il Consiglio Generale, senza necessità di voto in quanto nessuna organizzazione ha potuto mettere in dubbio un punto fondamentale di fronte al quale è inutile discutere. La FGCI non ha mai presentato una domanda d’ammissione e avviato la procedura di adesione.

Questo elemento potrà forse sembrare meramente burocratico, ovviamente non è così. È una questione sostanziale, per mantenere il carattere antimperialista di un’organizzazione internazionale che conta centinaia di organizzazioni nel mondo è necessario stabilire concretamente un processo chiaro di adesione. Questo ovviamente non per decisione della nostra organizzazione, ma in quanto è il modo in cui si procede su un terreno di organizzazione e coordinamento così complesso. Già nel recente passato ci siamo ritrovati nella situazione di difendere il carattere antimperialista di una delle poche organizzazioni internazionali sopravvissute alla fine dell’esperienza sovietica (la FMGD è tutt’ora organo consultivo dell’ONU e una delle pochissime organizzazioni internazionali presenti con i suoi membri in tutto il mondo). Organizzazioni che nulla avevano a che fare con la lotta all’imperialismo hanno tentato di dichiararsi membri della FMGD utilizzando i vecchi nomi o i vecchi acronomi, per fini opposti a quelli che la FMGD si propone. Una questione che negli anni ha provocato non pochi problemi, ma questo ovviamente la FGCI non può saperlo in quanto è stata costantemente assente da tutti gli eventi internazionali (nota: un’organizzazione non membro della FMGD può partecipare alle sue attività internazionali, soprattutto se vuole entrarne a far parte).

La condotta del Fronte è stata corretta e trasparente al punto che i dirigenti della FGCI (in un incontro dove erano presenti l’ex segretario nazionale e quello attuale) sono stati informati in anticipo sulle problematiche relative al loro stato in seno alla FMGD, con estrema correttezza, affinché i loro delegati in una riunione all’estero non fossero colti di sorpresa dal fatto che ci trovavamo nella posizione di dover necessariamente difendere le procedure di adesione alla FMGD, e abbiamo spiegato loro che non stavamo muovendo un attacco alla loro organizzazione.

In quell’occasione abbiamo invitato la FGCI a fare semplicemente una richiesta di ammissione al WFDY. Se la FGCI lo avesse fatto, oggi sarebbe già membro della Federazione Mondiale, senza alcun tipo di problema. Il gruppo dirigente della FGCI, invece, ha consapevolmente cercato di evitare la procedura.

Procedura tra l’altro molto semplice da avviare e per la quale la FGCI non avrebbe trovato l’opposizione che invece noi trovammo nel 2014 dall’organizzazione giovanile del PdCI. Altra imprecisione presente nel comunicato, sulla quale consigliamo agli autori del comunicato di informarsi presso qualche ex-dirigente di quella organizzazione.

La decisione è stata condivisa dalla totalità delle organizzazioni, anche perché negli scorsi anni come detto ci sono stati equivoci di simile natura che hanno interessato altri paesi, e che si sono stati risolti allo stesso modo.

Evidentemente i dirigenti della FGCI, ormai diversi anni fa, hanno deciso di non accogliere il suggerimento e il nostro tentativo di spiegargli il contesto nel quale si stavano affacciando. Oggi ne colgono i frutti. Prendersela con altri per i pessimi risultati di scelte irresponsabili è una cattiva prassi della sinistra italiana, invitiamo la FGCI quindi ad assumersi la responsabilità delle scelte fatte senza attaccare con la menzogna chi da anni svolge il proprio lavoro con serietà all’interno del movimento internazionale.

Le “altre otto organizzazioni” che secondo il comunicato sarebbero state espulse in realtà sono state eliminate dalla lista delle organizzazioni affiliate in quanto non più attive da anni, al punto da non rispondere a plurimi tentativi di stabilire contatti da parte degli organismi dirigenti della FMGD.

A tal proposito, a dimostrazione della nostra buonafede nonostante gli attacchi ricevuti in questi anni, segnaliamo che durante un incontro con l’EDON (organizzazione giovanile del Partito cipriota AKEL e titolare della presidenza della FMGD) a margine di un evento internazionale a Cipro nello scorso gennaio è stata la nostra organizzazione a fornire i contatti telefonici della FGCI, dato che a quanto ci è stato comunicato non rispondeva da mesi alle comunicazioni via mail inviate per discutere proprio la questione della non affiliazione alla FMGD.

Ritrovata la comunicazione con la FMGD, grazie al nostro intervento, hanno pensato fosse per loro vantaggioso inviare un documento di attacco contro la nostra organizzazione al gruppo dirigente della FMGD, alle organizzazioni che coordinano il gruppo regionale europeo della FMGD e alla Federazione stessa. Così facendo, hanno creato molto imbarazzo tra le altre organizzazioni europee e a noi che avevamo appena offerto il nostro aiuto per stabilire le comunicazioni nei mesi precedenti.

In quel documento la nostra organizzazione è stata accusata dalla FGCI di percepire finanziamenti illegali dall’estero, affermazione che oltre a essere falsa è gravissima, perché può esporre al rischio della repressione i nostri compagni. Nello stesso documento si sostiene che “il Fronte esiste solo a Roma e Torino” mentre la FGCI è diffusamente radicata in tutta Italia; che avremmo rapporti con formazioni di centro-sinistra, che siamo “manovrati” ecc. Per senso di responsabilità, nel constatare che riportare la condotta della FGCI in quell’ambito non fosse in alcun modo utile ad un avanzamento dei comunisti in Italia, ci siamo astenuti dal divulgare in alcun modo queste accuse che abbiamo ricevuto, e ci troviamo costretti a farlo ora per via di un ulteriore attacco da parte della FGCI.

Ma ciò che forse è stato peggiore è l’attacco che la FGCI ha mosso a tutte le organizzazioni della WFDY all’interno del “documento” inviato.

La FGCI ha sostenuto che le organizzazioni europee fossero “manipolate”, “manovrate” o intimidite da altre, insultando non solo l’intelligenza dei delegati presenti ma anche la capacità di ciascuna organizzazione di elaborare una propria posizione autonoma relativa tanto alle questioni politiche quanto a quelle organizzative della Federazione. La FGCI ha sostenuto che vi fosse un attacco contro il WFDY, una “campagna di espulsioni promossa da alcune organizzazioni”. Dal nuovo comunicato della FGCI apprendiamo addirittura di essere praticamente i burattinai dell’intero movimento comunista giovanile a livello mondiale.

Queste affermazioni e questa condotta sono di una irresponsabilità inaudita, e come tali sono state percepite per il loro carattere estremamente provocatorio. Si tratta di una modalità di discussione del tutto estranea a ogni contesto di relazioni fra organizzazioni che cooperano e che sono unite nella lotta contro l’imperialismo e la società capitalistica, pur nel rispetto delle reciproche diversità.

In conclusione, la FGCI allo stato attuale non è membro della FMGD-WFDY, in quanto è stato chiarito – unanimemente – che è una nuova organizzazione che non ha ancora formulato una richiesta di ammissione. Allo stato attuale, l’unico ostacolo all’ammissione della FGCI alla FMGD è stata proprio la condotta dei suoi dirigenti, gli irresponsabili attacchi verso decine di organizzazioni e la pessima figura che ne è derivata.

L’invito che vogliamo fare loro è quello di leggere quantomeno lo statuto dell’organizzazione di cui vorrebbero far parte, come in precedenza gli avevamo consigliato di seguire la normale prassi di affiliazione, invece di cercare altre strade che non portano a nulla. Invitiamo la FGCI a informarsi meglio sulla loro stessa situazione, sulle attività e gli eventi della WFDY e sulla natura e le modalità della discussione al suo interno, prima di fare affermazioni così gravi. Questo li aiuterebbe a capire che non esiste alcuna situazione di “correnti”, ma che la Federazione Mondiale della Gioventù Democratica è un importante luogo di discussione e coordinamento tra organizzazioni con differenti posizioni interne, che condividono però una forte responsabilità unitaria sul tema della lotta all’imperialismo in tutto il mondo e in ogni continente.

In risposta alla provocazione della FGCI | Fronte della Gioventù Comunista (http://www.gioventucomunista.it/in-risposta-alla-provocazione-della-fgci/#more-2859)

Lord Attilio
28-05-19, 13:17
Per una prima analisi del voto, e prospettiva del Partito Comunista.


http://ilpartitocomunista.it/wp-content/uploads/60349997_2645174952183699_6938824888538890240_n-180x180.jpg

L’esito delle elezioni europee in Italia ha segnato un generale avanzamento delle forze di destra (Lega Nord e Fratelli d’Italia). I Cinque Stelle escono fortemente ridimensionati perdendo sia nei confronti del loro alleato di governo, che cannibalizza i consensi della coalizione, sia dal recupero del Partito Democratico, la cui strategia è evidentemente quella di accreditarsi come unica alternativa possibile a Salvini nel quadro di un rinnovato centrosinistra.

I consensi ottenuti da Lega e Fdi ricalcano comunque l’area di voti per anni tenuta dal centrodestra e dal Pdl ai tempi di Berlusconi. La radicalizzazione a destra di quest’area è frutto della strategia del centrosinistra e del Partito Democratico, frutto delle precise responsabilità del gruppo dirigente renziano e della funzione del Movimento Cinque Stelle che ha traghettato una parte dei suoi voti verso la Lega.

La Lega si è accreditata negli strati popolari con una propaganda anti-sistema, pur rappresentando specifici settori capitalistici. Ha utilizzato il tema dell’immigrazione come strumento di costruzione di un legame identitario, alimentando il nazionalismo con una strategia perfettamente riconducibile agli interessi di quei settori delle imprese italiane maggiormente penalizzate dal mercato unico europeo. Ha cavalcato il tema della sicurezza per introdurre una ulteriore stretta repressiva sulle lotte sociali e gli scioperi utile a colpire i lavoratori e le classi popolari.

Il Movimento Cinque Stelle paga il tradimento degli elementi più radicali della sua proposta che sono caduti ad uno ad uno di fronte alla contraddizione del governo nel sistema di compatibilità capitalistiche e con l’alleanza con la Lega.

La riarticolazione del peso delle forze di Governo spinge a ritenere probabile la futura caduta di questo esecutivo, prossimo a dover affrontare la finanziaria con clausole e politiche lacrime e sangue che i vertici europei e i settori del grande capitale italiano non ritengono più rimandabili per soddisfare le promesse elettorali.

L’aumento dell’astensione è un segnale e colpisce soprattutto il M5S, ma in termini generali è la fotografia di una realtà in cui importanti – probabilmente maggioritari – settori delle classi popolari oggi non trovano rappresentanza nel sistema politico.

L’esito del voto in Unione Europea

Il voto si polarizza ovunque nel continente tra forze europeiste, che, anche attraverso una maggiore diversificazione, registrano una complessiva tenuta e le forze nazionaliste che avanzano con picchi particolari in singoli Paesi (Italia, Francia, Ungheria…). La riarticolazione del fronte europeista penalizza i partiti socialdemocratici a vantaggio dei verdi e soprattutto dei liberali, che oggi si propongono come prima linea del fronte anti-nazionalista, incassando anche nuovi ingressi come quello del partito di Macron. Nel complesso il fronte europeista tiene inasprendo ulteriormente il suo carattere antipopolare, che vedrà proprio nei liberali la nuova forza trainante come pure appare accadere (sebbene con risultati più modesti) in Italia con Più Europa.

A uscire sconfitto è senza dubbio il Partito della Sinistra europea che perde consensi a favore di questa polarizzazione verso socialisti e verdi, e non riesce a intercettare minimamente la flessione dei socialdemocratici dove si registra, con il GUE/NGL che registra una marcata riduzione dei seggi. Calano fortemente la Linke tedesca, France Insoumise di Melenchon, Unidos Podemos di Iglesias. Calano marcatamente anche quei partiti comunisti, come il KSCM in Repubblica Ceca e il PCP (Portogallo) che appoggiano i rispettivi governi socialdemocratici, a dimostrazione del fatto che il sostegno ai governi di centrosinistra viene pagato a caro prezzo dai comunisti. Mantengono invece le posizioni quei partiti che sono all’opposizione (PCF, KKE, AKEL…), dato in sé significativo anche nella differenza di posizione tra i partiti citati.

A riassorbire il calo dei socialdemocratici sono i Verdi, che usufruiscono di un grande risalto mediatico che li accredita come voto nuovo, specialmente tra le nuove generazioni e che coniuga europeismo e rappresentanza diretta degli interessi di colossi industriali e finanziari legati alla green economy, forti, non a caso, proprio in Germania e nel nord Europa.

L’aumento dell’affluenza registrato in diversi Paesi dimostra che la strategia del capitale di polarizzare l’attenzione popolare sulla competizione tra europeisti e nazionalisti, è un’arma a favore della tenuta complessiva di questo sistema, legando i settori popolari a false alternative che non produrranno alcun reale cambiamento.

Il quadro della sinistra in Italia

Il Partito Democratico incassa il successo di una manovra tutta mediatica – la “svolta a sinistra” del neosegretario Zingaretti – tutt’altro che reale, ma assai percepita, recuperando una parte dei consensi perduti specialmente a scapito dell’ex area di Liberi e Uguali. L’utlizzo della logica del voto utile contro le destre e lo spettro del ritorno del fascismo agitato in campagna elettorale cannibalizza anche una parte dei consensi della Sinistra, i cui gruppi dirigenti sono già pronti a sposare la causa di un nuovo centrosinistra a guida Zingaretti.

La lista di Sinistra ottiene l’1,7% dei voti, con una flessione evidente rispetto all’area della sinistra extra-Pd alle scorse politiche. Un’ennesima prova del fallimento delle liste comuni di carattere elettoralistico, il cui unico scopo, a questo giro, era contarsi per le future trattative sui seggi uninominali con il Partito Democratico in vista delle prossime politiche. Una strategia, quella delle liste comuni, perdente e inconcludente, con la continua sostituzione di simboli e leader, tanto a livello nazionale quanto alle amministrative, che disorienta e non sedimenta alcuna reale ipotesi alternativa. Un disorientamento che è alimentato anche dalla strategia dei gruppi dirigenti che illudono sulla possibilità del raggiungimento del quorum la propria base militante e i propri sostenitori, sacrificando per la conquista di una manciata di voti in più, ogni residua credibilità, provocando ulteriore sconforto e disillusione che produce allontanamento e disimpegno.

Fascisti: riportare il dibattito sulla realtà.Per l’intera durata della campagna elettorale il tema principale è stato lo scontro tra fascismo e l’antifascismo. All’esito delle elezioni le due formazioni neofasciste hanno registrato risultati modestissimi e un fortissimo calo di consensi rispetto alle scorse tornate elettorali, conquistando insieme appena la metà dei consensi del Partito Comunista che ha superato entrambe queste formazioni a queste elezioni per numero di voti.

Tutto ciò smonta la bolla mediatica che per mesi ha dato visibilità e autorevolezza a queste organizzazioni, che sono costantemente sovraesposte e considerate ben otre il reale peso nella società. Ciò non significa sottovalutarne la presenza, spesso crescente, nei quartieri. Ma è assolutamente necessario impedire che l’argomento “fascismo”, ingigantito e strumentalizzato, si tramuti nell’ennesima chiamata al voto utile per il PD e il centrosinistra, veri responsabili dell’avanzata della destra.

Il voto al Partito Comunista

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In questo quadro generale, il voto al Partito Comunista registra un avanzamento che sebbene limitato numericamente è comunque un dato in controtendenza. Il PC aumenta in voti assoluti, passando da 106.000 a 235.000 voti (+ 129.000 voti, pari a un aumento del 120%,), nonostante la minore affluenza rispetto alle scorse politiche (55% rispetto a 72%). Sebbene si parli di numeri ridotti, l’incremento percentuale di voti assoluti del PC è superiore a quello di ogni altro partito (anche Lega e Fdi) e unico dato di controtendenza a sinistra negli ultimi anni. Questo avanzamento dipende solo parzialmente dalla presenza in tutto il territorio nazionale, dal momento che risulta marcato sia in termini assoluti che percentuali, anche nel confronto diretto in tutte le regioni dove il PC si era presentato alle scorse elezioni (es. Toscana da 22.166 a 31.425, in percentuale da 1,04% a 1,68%; Umbria da 4.521 a 7.001, in percentuale da 0,88% a 1,56%; Basilicata da 1.511 a 2.645, in percentuale da 0,48% a 1,11% ecc…). Anzi proprio in queste regioni si registra un aumento maggiore a conferma del fatto che la presenza costante nel tempo, produce un’accumulazione di massa critica attorno ai comunisti. Complessivamente il Partito Comunista ottiene lo 0,9% dei voti nazionali, che corrisponde al terzo risultato in numeri assoluti – senza tenere conto quindi della differente popolazione dei Paesi – dei Partiti comunisti in Europa, dopo PCF (Francia), KKE (Grecia) e superiore al PCP (Portogallo) e al KSCM (Rep. Ceca), e al terzo risultato in un Paese del G7 (dopo Giappone e Francia).

Il risultato del PC è in linea con le nostre previsioni di crescita e rafforzamento, e corrisponde allo stato attuale dei rapporti di forza nel nostro Paese. Abbiamo sfruttato ogni occasione per portare la nostra linea politica, non rassegnandoci alla farsa del dibattito da campagna elettorale, ma facendo avanzare le nostre idee di una società alternativa, esprimendo esplicitamente la nostra contrarietà alla Unione Europea, all’euro e alla Nato, ponendo al centro il conflitto capitale/lavoro e la prospettiva della conquista del potere politico da parte dei lavoratori.

I media borghesi non ci hanno regalato nulla. Al PC sono stati concessi solo lo 0.5% globale degli spazi mediatici, con la pressoché totale assenza da Rai3, Tg3, e trasmissioni di Formigli e Floris, neanche una menzione sul Manifesto sebbene si definisca “quotidiano comunista”. Abbiamo diffuso oltre un milione di volantini, attaccato decine di migliaia di manifesti cercando di arrivare ovunque, nonostante i pochi mezzi e le poche risorse disponibili. Abbiamo rilanciato una presenza di piazza dei comunisti, con iniziative e comizi.

Registriamo con rammarico che il nostro appello a una convergenza unitaria delle forze comuniste e antimperialiste sulla nostra candidatura non ha sempre ricevuto il sostegno sperato. Abbiamo visto “comunisti” sostenere “tatticamente” il Movimento Cinque Stelle, ossia il partito di governo; “comunisti contro l’Unione Europea” lasciare libertà di voto tra noi e una lista legata al partito della Sinistra Europea, ossia alla sinistra europeista e perno della distruzione del movimento comunista in Europa. Tutto ciò ha continuato ad alimentare confusione e disorientamento a livello di base, fattori che non giovano alla ricostruzione comunista. Nei giorni della campagna elettorale si sono moltiplicati verso il Partito Comunista attacchi di ogni tipo da parte di organizzazioni di sinistra e anche comuniste, con l’obiettivo di screditare la nostra organizzazione. Consideriamo la condotta di ciascuna organizzazione in questa circostanza un elemento dirimente per la valutazione sui rapporti futuri nell’ottica degli sforzi per l’unità comunista.

Ringraziamo invece i tanti compagni e le tante compagne di base, che hanno compreso l’importanza di questo passaggio, capendo che il rafforzamento del Partito Comunista era l’unico modo per tenere aperta in Italia la questione comunista, rafforzare un’opposizione di classe in questo Paese e mettere questo risultato a disposizione di un avanzamento collettivo. Ringraziamo quelle organizzazioni, quei collettivi e quelle formazioni politiche e sindacali che al PC hanno dato un sostegno anche attraverso legittime critiche propositive. A loro guardiamo per stringere maggiore collaborazione e avanzare nella necessaria unità comunista.

La nostra strategia per il futuro

Concepiamo il risultato ottenuto come una più ampia base di partenza per il lavoro di rafforzamento e radicamento del Partito Comunista. La linea che abbiamo tenuto fino ad ora è corretta e questa è la strada su cui proseguiremo. Necessita di tempo per produrre a pieno i suoi frutti, dopo anni di disastro, per riconquistare la fiducia dei lavoratori e delle classi popolari. La scelta peggiore sarebbe quella di non dare seguito e non proseguire con coerenza su questa strada, ma ricercare scorciatoie opportuniste già provate dalla sinistra in passato, che hanno prodotto la distruzione del movimento comunista in Italia.

Sull’argomento dell’unità intendiamo essere chiari. Noi ci adopereremo per la più vasta unità dei comunisti, sulla base di una linea rivoluzionaria e coerente. Praticheremo questo percorso attraverso la convergenza nelle lotte reali e lo sviluppo di iniziative politiche di approfondimento, dibattito e studio sulle principali questioni strategiche che oggi sono in discussione. Ci adopereremo per la massima unità sul terreno delle lotte sociali, con le forze sindacali di classe e conflittuali, con le organizzazioni del movimento studentesco, con i comitati di lotta per costruire un’opposizione sociale alle politiche antipopolari del governo.

Ma con altrettanta determinazione e chiarezza respingiamo sin da ora gli appelli all’unità con il centrosinistra. La storia degli ultimi anni ha dimostrato che non esistono margini per riforme in favore dei lavoratori e delle classi popolari, che il potere è saldamente nelle mani dei grandi gruppi finanziari, che il governo con forze di centrosinistra conduce solamente al tradimento dei lavoratori. L’unità con il centrosinistra non è utile a fermare la destra, e anzi la rafforza e radicalizza, aumentandone il consenso nei settori popolari.

Il PC continuerà la sua lotta politica e ideologica per far comprendere ai lavoratori e alle classi popolari che il Partito Democratico non è un partito in favore dei lavoratori; che non è migliorabile dall’interno; che non siamo tutti dalla stessa parte e che sui temi determinanti il PD è il partito più rappresentativo degli interessi del grande capitale. Lavoriamo per contrastare il tentativo del PD di accreditare una “svolta a sinistra” che non esiste, e che è solamente un espediente elettoralistico per riconquistare consensi. Allo stesso tempo spiegheremo che l’unità con la sinistra che cambia nome e sigla ad ogni elezioni, che è pronta ad accordi con il PD, porta all’immobilismo e all’estinzione; che è impossibile una unità con chi nei fatti difende l’Unione Europea e la Nato, con chi non si propone come orizzonte l’abbattimento del sistema capitalistico.

Le elezioni hanno dimostrato, sebbene con risultati ancora minimi, che una linea politica rigorosamente contro l’Unione Europea, in favore dei lavoratori e delle classi popolari, un’organizzazione che si radica nei luoghi di lavoro e nelle periferie, è l’unica che riesce a contendere spazi di consenso alla destra e a tornare a rappresentare settori popolari che legittimamente si sono astenuti in mancanza di una propria rappresentanza. Riconquistare astenuti e ammaliati dalle parole di cinque stelle e lega, è tanto importante quanto convincere quella parte delle classi popolari che continuerà a votare centrosinistra in nome del “meno peggio”.

Allo stesso tempo la strada dell’opposizione sociale contro questo governo è l’unica che può garantire risultati di radicamento e costruzione. Lottare per smascherare le contraddizioni che a mano a mano verranno alla luce, intercettando simpatie e consenso dei settori delle classi popolari tradite anche dalle promesse di Cinque Stelle e Lega, denunciandone il carattere reazionario e antipopolare. Solo questo, e senza nessuna confusione con il centrosinistra, potrà far avanzare il radicamento del Partito.

Per fare tutto questo è necessario un grande passo avanti. nella costruzione del Partito e alla sua attività, aprendo al contributo di quanti ci hanno manifestato sostegno in queste elezioni. Se il risultato elettorale del Partito Comunista è limitato è perché troppo limitato è ancora il nostro radicamento locale, troppo grande è l’assenza di canali di informazione che possano condurre ogni giorno una battaglia politica e teorica di controinformazione rispetto ai media capitalistici, troppo debole è ancora la nostra capacità di intervento nel conflitto sociale e la nostra presenza nei sindacati. Dotarci di strutture stabili all’altezza dei tempi e dei compiti da svolgere, radicarsi nei luoghi di lavoro e nelle periferie, praticare la lotta di classe nelle contraddizioni esistenti, incrementare la lotta politica e ideologica. Questi sono i nostri compiti immediati.

Proseguiremo il grande lavoro che il FGC realizza sulla gioventù, sostenendolo con ogni nostro sforzo. Il fattore dirimente nella ricostruzione comunista è già oggi il grande afflusso di giovani dalle scuole, dalle università e dai quartieri popolari, che sono la spina dorsale della ricostruzione comunista in Italia. Vedere piazze piene di giovani, mentre a sinistra si va verso l’estinzione, è la conferma della correttezza del lavoro che stiamo svolgendo. Organizzare, preparare questa gioventù sarà centrale nel nostro lavoro.

Allo stesso tempo continueremo a rafforzare i nostri legami internazionali in particolare con le organizzazioni comuniste e con il lavoro nella Iniziativa Comunista Europea, in Solidnet e nelle strutture del movimento comunista internazionale. Legami internazionali che hanno dimostrato la loro concretezza e necessità anche in queste elezioni. Siamo convinti di aver dato un contributo positivo alla ricostruzione internazionale del movimento comunista in questi anni, anche attraverso questo risultato elettorale, e andiamo fieri di questo.

Per fare tutto questo abbiamo bisogno del contributo diretto, in ogni forma e sostegno possibile, di ciascuno dei nostri sostenitori. Sappiamo che in Italia esistono 235.000 comunisti che hanno votato PC. Organizzare la parte maggiore possibile di quel numero perché diventino sostenitori, militanti, del partito e della gioventù comunista.

Per questo facciamo un appello a tutti coloro che ci hanno sostenuto a queste elezioni, a quanti guardano a noi: sappiamo che il nostro partito ha ancora tante insufficienze, dateci una mano a superarle. Sappiamo che scontiamo lacune, assenze territoriali e in situazioni di conflitto: dateci una mano a colmarle. La costruzione del Partito Comunista non chiede tifosi o spettatori, ma protagonisti attivi. Insieme possiamo realizzare tutto questo.

Ufficio Politico Partito Comunista

Lord Attilio
25-06-19, 21:30
+Europa propone libero scambio UE-Africa. Rizzo (PC): «Chiamiamolo col suo vero nome: imperialismo»

https://i0.wp.com/www.lariscossa.com/wp-content/uploads/2019/06/Rizzo-Africa.jpg?zoom=1.25&resize=678%2C381

Nella mattinata odierna sul sito del partito +Europa è stato pubblicato un articolo a firma di Marco Marazzi(1), nel quale l’autore, esponente liberale di spicco, ex coordinatore degli iscritti dell’ALDE in Italia e candidato con il suo partito alle scorse elezioni europee, senza ovviamente risultare eletto, auspica la stipula di un trattato di libero scambio tra l’Unione Europea e i paesi dell’Africa.

https://i2.wp.com/www.lariscossa.com/wp-content/uploads/2019/06/Senza-titolo-2.jpg?w=1440

Nell’articolo, vengono citati quali esempi “virtuosi” alcuni accordi analoghi stipulati dall’UE di recente, tra cui il JEFTA, ossia quello con il Giappone(2). Va notato come lo stesso articolo non escluda la possibilità di ricadute economiche negative per i paesi africani. La vera finalità che la proposta di un trattato di libero scambio nasconde è il tentativo di parte delle imprese europee di sfruttare ulteriormente il continenente africano, ancor più nel quadro geopolitico mondiale, che vede i grandi monopoli europei contendersi il predominio economico in Africa con potenze quali Cina, Russia e Stati Uniti.

https://i1.wp.com/www.lariscossa.com/wp-content/uploads/2019/06/Senza-titolo-4.jpg?w=584
Le dure reazioni social al post di +Europa

Un ipotetico accordo permetterebbe da un lato una sempre maggiore depredazione delle risorse naturali dell’Africa, con un conseguente impoverimento generalizzato dei paesi in questione, costretti a svendere ancor più le proprie ricchezze alle grandi imprese europee, e dall’altro la possibilità per le stesse di spostare la produzione laddove più conveniente e di livellare quindi al ribasso salari e diritti in entrambi i continenti.

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Il post di Marco Rizzo sul suo profilo social

Una dura reazione alla posizione espressa da +E è arrivata dal segretario generale del Partito Comunista, Marco Rizzo, secondo cui: «Le parole di +Europa in favore dell’accordo di libero scambio con l’Africa nascondono gli interessi di settori del grande capitale europeo che gioverebbero dell’accordo aumentando i proprio profitti, depredando i paesi dell’Africa e colpendo allo stesso tempo i lavoratori europei e quelli africani. Emblematico poi il fatto che il partito che si rende fautore di una simile ipotesi sia lo stesso che ha entusiasticamente sostenuto tutte le politiche antipopolari volte a colpire i lavoratori, i pensionati e i giovani delle classi popolari nel nostro paese. A tale proposito un grande politico africano, il comunista Thomas Sankara, diceva: “Le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune.” Una volta si chiamava colonialismo; oggi, e queste proposte di “libero scambio” lo rendono sempre più evidente, chiamiamolo col suo vero nome: imperialismo. Ed è, oggi come ieri, il nemico comune dei nostri popoli.»

Il partito +Europa era già stato bersaglio di accuse da parte del Fronte della Gioventù Comunista in relazione ai finanziamenti ricevuti in vista delle elezioni europee da esponenti della grande finanza quali George Soros e la famiglia Agnelli (3).

______________
1) La “Partnership di eguali” tra EU e Africa, +Europa, 23 giugno 2019

2) Per approfondire: Nuovo accordo internazionale tra capitalisti: ecco il JEFTA, La Riscossa, 9 luglio 2017.

3) Per approfondire: Chi finanzia i partiti? Da banche e miliardari finanziamenti da +Europa e Lega. Senza Tregua, 20 maggio 2019

+Europa propone libero scambio UE-Africa. Rizzo (PC): «Chiamiamolo col suo vero nome: imperialismo» | La Riscossa (http://www.lariscossa.com/2019/06/23/europa-propone-libero-scambio-ue-africa-rizzo-pc-chiamiamolo-col-suo-vero-nome-imperialismo/)

Lord Attilio
03-09-19, 18:17
UNIVERSITÀ, PROTESTE IN TUTTA ITALIA CONTRO I TEST D’INGRESSO. FGC: «NON C’È MERITOCRAZIA SENZA UGUAGLIANZA».

https://pbs.twimg.com/media/EDh7PrbWkAESyFg?format=jpg&name=360x360

In occasione delle prove di accesso alla facoltà di Medicina, il Fronte della Gioventù Comunista (FGC) si è mobilitato nelle università di tutta Italia contro il numero chiuso. Manifestazioni di protesta ci sono state nelle università di Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Firenze, Cagliari, Bologna e decine di atenei in capoluoghi di provincia e regione.

«L’estrazione sociale degli studenti è diventata la prima determinante dell’esito dei test. C’è chi viene da scuole prestigiose e paga corsi privati da migliaia di euro, e chi deve lavorare per pagarsi l’università, dov’è la meritocrazia?» così Luca Paolucci, responsabile università del FGC – «L’Italia soffre da anni una cronica mancanza di personale medico e sanitario, con un costante saldo negativo fra pensionati e nuovi assunti. In 7 anni abbiamo perso 9mila medici e mancano 50mila infermieri. Il numero chiuso serve solo ad assecondare lo smantellamento della sanità pubblica, dopo anni di tagli voluti dai diktat UE, tutto a vantaggio del privato».

UNIVERSITÀ, PROTESTE IN TUTTA ITALIA CONTRO I TEST D?INGRESSO. FGC: «NON C?È MERITOCRAZIA SENZA UGUAGLIANZA». | Fronte della Gioventù Comunista (http://www.gioventucomunista.it/universita-proteste-in-tutta-italia-contro-i-test-dingresso-fgc-non-ce-meritocrazia-senza-uguaglianza/)

Lord Attilio
03-09-19, 22:19
Sabato 5 ottobre in piazza contro il nuovo Governo. Appello ad una manifestazione unitaria.

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Con il voto favorevole degli iscritti al Movimento Cinque Stelle la nascita del nuovo governo Conte, è ormai questione di ore. Il Movimento Cinque Stelle insieme con il Partito Democratico e ciò che resta della “sinistra” in Parlamento (Liberi e Uguali e Sinistra Italiana) si apprestano a formare il nuovo esecutivo nel segno della piena continuità con i precedenti. Cambia il colore ma il quadro resta uguale.

Non sarà un governo di svolta, ma un governo che proseguirà le politiche antipopolari in favore della finanza e delle grandi imprese. Un governo dei poteri forti, delle banche, dei mercati, dell’Unione Europea, della Confindustria con il sostegno esplicito degli Stati Uniti, della Nato, del Vaticano. Le manifestazioni di sostegno di tutti questi settori e la valutazione positiva espressi dai mercati non lasciano alcuna ombra di dubbio. Noi comunisti vogliamo da subito denunciare il carattere antipopolare di questo governo, invitando i lavoratori e non cadere nella trappola dei “governi amici” e non riporre false speranze in questo esecutivo.

I giornali hanno definito questo governo “giallo-rosso”. Rifiutiamo questa definizione perché il nuovo governo Conte di “rosso” non ha assolutamente nulla. È l’ennesimo prodotto della rinuncia del Movimento Cinque Stelle alle istanze più radicali e di svolta dei suoi programmi. I cinque Stelle, dopo aver accettato l’alleanza con la Lega, rafforzando Salvini e la destra, oggi si alleano con il PD pur di mantenere il proprio ruolo di governo. Poche settimane fa con il loro voto determinante hanno permesso l’elezione di Ursula Von Der Leyen a Presidente della Commissione Europea, presentandosi a livello internazionale come nuovo partito della stabilità nel nostro Paese. “Rosso” non è certamente il Partito Democratico, alfiere delle politiche antipopolari, strenuo sostenitore dell’Unione Europea e della Nato, capace attraverso la propria influenza sui sindacati confederali di legittimare le peggiori politiche contro i lavoratori spegnendone l’opposizione sociale. “Rossa” non è neppure quella sinistra residuale presente in Parlamento (Liberi e Uguali, Sinistra Italiana) che subito si è accodata al nuovo esecutivo, tanto fondamentale per i numeri della maggioranza, quanto ininfluente nella definizione delle politiche di governo, spinta solo dall’autoconservazione dei propri gruppi dirigenti e priva di qualsiasi ruolo sociale.

Non sarà questo governo a fermare la crescita della Lega e della destra, i cui provvedimenti reazionari, repressivi e razzisti hanno giustamente destato sdegno e grande preoccupazione in ampi settori delle classi popolari. Chi crede che l’alternativa a una destra nazionalista possa essere il governo diretto dall’Unione Europea si illude e fa il gioco della destra. Proprio questo governo, fatto passare mediaticamente come governo “di sinistra”, sarà un nuovo e potentissimo sponsor della crescita della destra nel nostro Paese, che già oggi appare agli occhi distratti di molti, come l’unica alternativa possibile.

In questo quadro, dominato dalla finta alternativa tra nazionalisti e europeisti è dovere dei comunisti promuovere una forte opposizione politica al governo nascente e lavorare per la formazione di un vasto fronte sociale capace di unire i lavoratori e le classi popolari, le organizzazioni sindacali di classe e le forze politiche e di movimento. Un fronte di lotta che dimostri che l’unica vera alternativa possibile è quella in cui il potere è nelle mani dei lavoratori e delle classi popolari, che ha come presupposti l’uscita dell’Unione Europea e dalla Nato, e la rottura con le politiche e gli interessi capitalistici.

Per questa ragione il Partito Comunista convoca una grande manifestazione in piazza a Roma, sabato 5 ottobre, lanciando contestualmente un appello a tutte le forze sindacali e politiche che con noi condividono la necessità di costruire un’opposizione sociale a questo governo a partecipare e organizzare insieme a noi questa manifestazione.

Sabato 5 ottobre in piazza contro il nuovo Governo. Appello ad una manifestazione unitaria. (http://ilpartitocomunista.it/2019/09/03/sabato-5-ottobre-in-piazza-contro-il-nuovo-governo-appello-ad-una-manifestazione-unitaria/)

Lèon Kochnitzky
03-09-19, 23:15
UNIVERSITÀ, PROTESTE IN TUTTA ITALIA CONTRO I TEST D’INGRESSO. FGC: «NON C’È MERITOCRAZIA SENZA UGUAGLIANZA».

https://pbs.twimg.com/media/EDh7PrbWkAESyFg?format=jpg&name=360x360

In occasione delle prove di accesso alla facoltà di Medicina, il Fronte della Gioventù Comunista (FGC) si è mobilitato nelle università di tutta Italia contro il numero chiuso. Manifestazioni di protesta ci sono state nelle università di Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Firenze, Cagliari, Bologna e decine di atenei in capoluoghi di provincia e regione.

«L’estrazione sociale degli studenti è diventata la prima determinante dell’esito dei test. C’è chi viene da scuole prestigiose e paga corsi privati da migliaia di euro, e chi deve lavorare per pagarsi l’università, dov’è la meritocrazia?» così Luca Paolucci, responsabile università del FGC – «L’Italia soffre da anni una cronica mancanza di personale medico e sanitario, con un costante saldo negativo fra pensionati e nuovi assunti. In 7 anni abbiamo perso 9mila medici e mancano 50mila infermieri. Il numero chiuso serve solo ad assecondare lo smantellamento della sanità pubblica, dopo anni di tagli voluti dai diktat UE, tutto a vantaggio del privato».

UNIVERSITÀ, PROTESTE IN TUTTA ITALIA CONTRO I TEST D?INGRESSO. FGC: «NON C?È MERITOCRAZIA SENZA UGUAGLIANZA». | Fronte della Gioventù Comunista (http://www.gioventucomunista.it/universita-proteste-in-tutta-italia-contro-i-test-dingresso-fgc-non-ce-meritocrazia-senza-uguaglianza/)

Questa non la condivido. Considerando il livello medio di QI e testa, perchè abolire il test d'ingresso? Un conto è se fosse basato su privilegi di censo, diversamente, se parificato, non ne capisco il senso.

Lord Attilio
04-09-19, 00:08
Questa non la condivido. Considerando il livello medio di QI e testa, perchè abolire il test d'ingresso? Un conto è se fosse basato su privilegi di censo, diversamente, se parificato, non ne capisco il senso.

Non ci sono abbastanza medici quindi non ha senso.

P.S. Tanto se ti iscrivi a Medicina e sei scemo non passi gli esami, molto semplicemente.

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Pestis nigra
04-09-19, 12:00
Ai comunisti piacciono i medici, ossia evasori che guadagnano anche 6000 euro al mese.
I comunisti han mai parlato di tetti agli stipendi dei medici? No.

https://quifinanza.it/lavoro/stipendio-medio-medico-italia/192469/
https://www.termometropolitico.it/1170285_la-mappa-dellevasione-fiscale-in-italia-medici-e-dentisti-leader-del-sommerso.html

amaryllide
07-09-19, 08:27
Ai comunisti piacciono i medici, ossia evasori che guadagnano anche 6000 euro al mese.
I comunisti han mai parlato di tetti agli stipendi dei medici?
cosa vuol dire tetto allo stipendio per un dipendente pubblico?

Lord Attilio
08-09-19, 15:53
Intervista della stampa cinese a Marco Rizzo sulla Via della Seta e relazioni italo-cinesi

Marco Rizzo ha 59 anni, è segretario generale del Partito Comunista in Italia. Laureato in scienze politiche, giornalista ed autore di libri e pubblicazioni. Figlio di un operaio della Fiat Miratori, è nato e vissuto in un quartiere popolare di Torino. Iscritto al Partito Comunista Italiano dal 1981, è stato eletto cinque volte nelle istituzioni come consigliere provinciale a Torino, tre volte come parlamentare alla Camera dei Deputati a Roma ed una volta come deputato al Parlamento Europeo. E’ stato tra i fondatori del Partito della Rifondazione Comunista e del Partito dei Comunisti Italiani, di cui è stato coordinatore delle segreterie nazionali e capogruppo alla Camera dei Deputati e al Parlamento Europeo. Mantenendo alta la bandiera del marxismo-leninismo, nel 2009 ha fondato e diretto l’esperienza politica che ha portato alla ricostruzione del Partito Comunista in Italia.

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Il segretario generale del Partito Comunista (Italia), compagno Marco Rizzo, nel suo ufficio a Roma, 2019

All’inizio di questa primavera il Presidente cinese è stato in Italia. Secondo Lei, a parte gli investimenti bilaterali in programma, quale direzione politica dovrebbe prendere la cooperazione tra Roma e Pechino?

Il nostro Partito interpreta la realtà dal punto di vista della classe operaia, che riteniamo essere classe nazionale. E’ alla luce dei suoi interessi di classe che valutiamo le relazioni internazionali dell’Italia, un paese capitalistico avanzato che, nonostante la crisi, rimane una potenza industriale economicamente rilevante e continua ad occupare una posizione elevata tra le potenze imperialiste. In linea di principio, il Partito Comunista in Italia è favorevole allo sviluppo delle relazioni e della cooperazione internazionali con qualsiasi paese, ma sempre e solo sulla base imprescindibile della reciprocità e della pari dignità dei partners, indipendentemente dal loro diverso peso economico e politico.

Questo, purtroppo, finora è avvenuto raramente. L’Italia si è spesso trovata a subire rapporti internazionali svantaggiosi per il paese e per il proletariato italiano, soprattutto a causa della complicità della borghesia italiana con il capitale straniero. Gli interessi del popolo lavoratore e del paese sono spesso stati svenduti in nome dei momentanei interessi di classe della borghesia nazionale. Questo è accaduto nei confronti dell’imperialismo USA e continua ad accadere nei confronti del blocco imperialista rappresentato dall’Unione Europea. Auspichiamo, quindi con la visita del Presidente Xi Jinping, che le relazioni tra la Cina e l’Italia vadano nella direzione di un effettivo vantaggio reciproco, della pari dignità e di una maggiore conoscenza e comprensione reciproca.

Quest’ultimo ci sembra un aspetto molto importante in un momento in cui si inasprisce la competizione tra USA e Cina e si addensano nubi di guerra, per ora solo commerciale. Ci auguriamo che le buone relazioni bilaterali tra i nostri due paesi possano contribuire ad evitare il coinvolgimento dell’Italia in qualsiasi escalation della conflittualità, sia commerciale, che bellica.

In un’ottica meno generale, auspichiamo un rafforzamento di fraterne relazioni bilaterali, nel rispetto delle reciproche posizioni teoriche e politiche e nello spirito dell’internazionalismo proletario, tra il PCC e il nostro Partito, dall’azione comune dei quali in larga misura potrà essere assicurato anche il corretto sviluppo delle relazioni tra i nostri Paesi, nell’interesse della classe operaia e dei lavoratori.

L’Italia può e vuole, indipendentemente da influenze esterne, cogliere tutte le opportunità della cooperazione con la Cina?

Il capitalismo italiano subisce vincoli militari, politici ed economici a causa della sua partecipazione alla NATO, all’UE e all’Euro. La sua autonomia è formalmente limitata dal rispetto delle compatibilità, derivanti dai trattati in essere, per altro volontariamente sottoscritti, che stanno alla base delle alleanze imperialiste di cui l’Italia fa parte. Ne sono dimostrazione le attuali vicende del contenzioso tra il Governo Italiano e la Commissione Europea in tema del bilancio statale. Nel nostro paese esistono settori di borghesia capitalistica che guardano alla Cina come ad una grande opportunità, sia in termini di mercato di sbocco per le proprie merci, che in termini di potenziale investitore estero in Italia.

Altri settori del capitale, in genere quelli che producono beni a basso contenuto tecnologico e innovativo, percepiscono la Cina come una minaccia, nel timore di non poter reggere ad un confronto di competitività e premono per l’introduzione di barriere all’ingresso nel mercato nazionale ed europeo. La posizione del capitalismo italiano nei confronti della Cina, pertanto, non è univoca di per sé, indipendentemente dalle forti pressioni internazionali in atto. Spesso chi è liberista nei confronti dei mercati altrui, diventa protezionista nei confronti dei propri.

Va detto che, a parte le pressioni degli USA, motivate dalla coscienza della perdita dell’egemonia globale, vengono sollevate perplessità e posti freni allo sviluppo degli accordi con la Cina anche dall’interno della stessa UE, da parte di paesi che con la Cina avevano già firmato precedentemente accordi anche più estesi e impegnativi. Ciò è dovuto alla forte concorrenza tra paesi imperialisti che esiste anche all’interno dell’Unione Europea. Dal punto di vista degli interessi di classe del proletariato, dobbiamo rilevare che questo tipo di accordi sta mettendo in crisi l’egemonia statunitense, aprendo contraddizioni nel fronte imperialista che i Partiti Comunisti dovranno essere in grado di utilizzare a vantaggio della classe operaia, non solo in Italia.

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Il segretario generale, compagno Marco Rizzo, dirige un raduno del partito a Roma, maggio 2019 jacopo Brogioni

Qual è la Sua opinione sul conflitto commerciale tra USA e Cina e come giudica in generale l’atteggiamento statunitense nelle relazioni internazionali?

Gli Stati Uniti sono coscienti del fatto che stanno perdendo il loro ruolo egemonico nel mondo, pur rimanendo una temibile potenza imperialista. La loro economia è minata da ricorrenti crisi di sovrapproduzione, da un crescente impoverimento della popolazione e da un debito pubblico senza eguali al mondo, a cui fanno fronte stampando carta moneta. L’enorme massa di dollari, immessi sui mercati mondiali come equivalente generale delle merci nei pagamenti internazionali, è sorretta, di fatto, solo dalla supremazia militare e politica, un fattore difficile da mantenere nelle condizioni odierne che ormai è entrato in crisi, messo in discussione dagli stessi alleati tradizionali degli USA, prima fra tutte l’UE.

C’è quindi da aspettarsi un incremento dell’aggressività degli Stati Uniti sul piano internazionale. Lo stiamo vedendo nell’introduzione dei dazi sulle merci importate dalla Cina, ma ancora di più nelle sanzioni economiche contro Russia, Venezuela, Cuba, RPDC, Iran, nel tentativo di indebolire questi paesi economicamente per poi destabilizzarli e rovesciarne il sistema politico, sociale ed economico.

Un’aggressione per ora soltanto economica, che rischia, però, di trasformarsi in aggressione armata, in una guerra vera e propria di proporzioni devastanti. Per questa ragione, il nostro Partito si batte da sempre contro l’imperialismo USA, per la denuncia dei trattati di cooperazione militare con quel paese, per l’uscita dell’Italia dalla NATO e sostiene la giusta lotta dei popoli per il diritto a decidere il proprio destino senza ingerenze imperialiste

La Nuova Via della Seta: qual è il ruolo di questa iniziativa nella cooperazione tra Cina, Italia e gli altri paesi europei?

Il progetto cinese è di per sé interessante e potrebbe avere anche delle ricadute positive per i lavoratori dei paesi coinvolti.

Sotto questo aspetto, che per noi è fondamentale, tutto dipenderà da quanto il proletariato saprà spostare i rapporti di forza a proprio favore, sviluppando un’efficace lotta di classe per impedire che dei benefici derivanti da un progetto, realizzato grazie al suo lavoro, si appropri, ancora una volta, il capitale.

Questo dipenderà anche da quanto i Partiti Comunisti sapranno utilizzare a vantaggio dei lavoratori le contraddizioni, potenzialmente positive, che la Nuova Via della Seta indubbiamente apre nelle relazioni internazionali, finora dominate dagli USA.

https://i0.wp.com/www.lariscossa.com/wp-content/uploads/2019/09/d3314455-64e5-4bf3-99d4-aed54759bb5c.jpg?resize=768%2C1030
Il segretario generale, compagno Marco Rizzo, partecipa a un raduno del Partito Comunista di Grecia ad Atene, maggio 2019

Quali progetti, nell’ambito di questa cooperazione, (es. creazione di posti di lavoro, protezione dell’ambiente, iniziative sociali ecc) vorrebbe proporre ed elaborare?

Ribadisco con estrema chiarezza che il nostro Partito ha per obiettivo il rovesciamento dei rapporti di produzione esistenti e la presa del potere da parte della classe operaia. Pertanto, valuteremo positivamente qualsiasi passo che ci avvicini a ciò e qualsiasi beneficio possa derivare alla classe operaia e ai ceti popolari italiani da qualsiasi forma di cooperazione internazionale, in termini di maggiore, più stabile e qualificata occupazione, migliori salari, maggiore sicurezza sul lavoro, rispetto dell’ambiente, espansione dei diritti sindacali e politici dei lavoratori, migliore qualità della loro vita, consci del fatto che solo il Socialismo potrà garantire stabilità a tutto ciò ed evitare inversioni dei rapporti di forza tra le classi.

Sarà la nostra capacità di praticare la lotta di classe a fare sì che questa forma di cooperazione internazionale vada in questa direzione e non in un’altra e, anche per questo, vogliamo dialogare con il Partito Comunista Cinese, con cui siamo disponibili, fin da ora, a discutere su tutti gli aspetti politici, culturali e pratici di interesse reciproco

Qual è oggi il ruolo della Cina nel Mondo? Come vede il futuro della Cina?

Lo scontro tra i vari interessi in gioco oggi sullo scacchiere internazionale è e sarà sempre più aspro. L’acuirsi della lotta di classe anche a livello internazionale è sotto gli occhi di tutti. La potenza economica statunitense, basata sul predominio del dollaro, è minata da fattori oggettivi sempre più rilevanti ed è sostenuta ormai prevalentemente dalla superiorità militare. La storia insegna che una potenza forte, ma in declino rispetto ad altre potenze emergenti può scatenare conflitti di portata globale, nel tentativo di preservare il suo ruolo egemonico.

Cosa potrà evitarlo? Non certo le “colombe” dei circoli statunitensi, che a volte sono più guerrafondaie dei “falchi” e sono comunque espressione di settori diversi della stessa borghesia capitalistica in crisi. Noi auspichiamo che la Cina, con il suo crescente peso economico e politico, possa contribuire ad allontanare il rischio di una deflagrazione mondiale. Se quindi parliamo di ciò che sarà, ovviamente anche per la Cina come per tutto il mondo, con l’ottimismo della volontà che ci contraddistingue vediamo un futuro comunista.

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Fidel Castro e il compagno Marco Rizzo si salutano all’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura a Roma, 1995

Cosa pensa dello sviluppo economico della Cina negli ultimi anni?

Le statistiche e gli indicatori a noi noti mostrano un notevole sviluppo economico, ma il PCC non nasconde l’esistenza di diseguaglianze e contraddizioni. La questione dell’edificazione del socialismo in un Paese originariamente arretrato dal punto di vista economico è un processo non privo di contraddizioni anche aspre. L’obiettivo del socialismo non è la crescita della produzione mercantile, ma la crescita del benessere del popolo, il soddisfacimento dei suoi bisogni materiali e spirituali nella libertà sostanziale, nell’uguaglianza e nella giustizia sociale.

Una forte crescita economica è la base necessaria per accrescere le risorse da destinare a questo scopo, a patto che, a differenza di quanto avviene nei paesi capitalistici, la ricchezza prodotta venga utilizzata per scopi sociali e non accentrata in mani private. Sono questi fini che fanno del Socialismo il garante della civiltà umana, oggi minacciata nella sua stessa esistenza dal declino generale del capitalismo. Oggi più che mai sono vere le parole di Marx “O socialismo, o barbarie”.

Cosa potrebbero imparare i leader politici italiani dai loro colleghi cinesi?

A questa domanda vogliamo rispondere con Antonio Gramsci, quando disse: «la storia insegna, ma non ha scolari». I dirigenti politici oggi in Italia hanno raggiunto il livello più basso della loro pur non esaltante storia.

Questo perché oggi le decisioni politiche non vengono più prese da parlamenti o governi, ma dai consigli d’amministrazione dei grandi monopoli transnazionali e delle grandi banche private, mentre gli organi legislativi ed esecutivi sono trasformati in camere di compensazione di interessi economici in concorrenza tra loro e in casse di risonanza di decisioni prese altrove, generalmente da organismi non elettivi e autonominati, quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, la Banca Centrale Europea, la Commissione Europea, il Consiglio d’Europa, l’OSCE, la NATO, tutti espressione del potere del grande capitale monopolistico, di cui perseguono gli interessi. Gli esponenti politici, di conseguenza, vengono selezionati in base al solo criterio della “fedeltà” al potere del capitale, non sono portatori di un pensiero autonomo, ma meri esecutori eterodiretti.

Come si può pensare che possano, o vogliano, imparare qualcosa di diverso dall’abilità di conservare per sé i privilegi che il potere borghese garantisce loro in quanto “creatori del consenso passivo delle masse”, ancora come dice Gramsci?

Intervista della stampa cinese a Marco Rizzo sulla Via della Seta e relazioni italo-cinesi | La Riscossa (http://www.lariscossa.com/2019/09/08/intervista-della-stampa-cinese-marco-rizzo-sulla-via-della-seta-relazioni-italo-cinesi/)

Lord Attilio
11-09-19, 19:09
Per il rafforzamento dell’opposizione sociale al governo


http://ilpartitocomunista.it/wp-content/uploads/giuseppe-conte-gov.png

A poche ore dalla votazione di fiducia del Parlamento nei confronti del nuovo Governo il Partito Comunista conferma la propria opposizione e l’invito ai lavoratori e alle classi popolari a non riporre false speranze e cadere nella trappola dei governi “amici”.

Il governo Conte appoggiato da Cinque Stelle, Partito Democratico e Liberi e Uguali (MPD + Sinistra Italiana) è, al pari dei precedenti, un governo di gestione capitalistica e come tale farà gli interessi del grande capitale. La reazione dei mercati, così come delle istituzioni internazionali a partire dall’Unione Europea non lasciano dubbi in tal senso.

L’inserimento di qualche ministro proveniente da forze politiche di sinistra presenti o passate non cambia il carattere di questo governo. Da sempre l’utilizzo di esponenti e forze politiche di sinistra nei governi di gestione capitalistica è uno strumento per confondere le masse popolari e disorganizzare la capacità di reazione e organizzazione dei lavoratori, tanto più in un momento critico di aperta crisi economica come questo. Per questo invitiamo i lavoratori a non cadere nella trappola: non basta avere un passato di lotte sindacali, cantare “bella ciao”, ciò che conta sono gli indirizzi politici generali.

Questo governo gode del consenso dell’Unione Europea. È possibile che in ottica premiale possa godere in un primo momento di un leggero allentamento dei vincoli e dell’alleggerimento della pressione sui conti, dando luogo a una parziale redistribuzione e concedendo qualche provvedimento spot per mantenere consenso. Ma si tratterà di una congiuntura temporanea e parziale, di cui le classi popolari riceveranno solo le briciole. Una congiuntura destinata comunque a esaurirsi per il peggioramento delle condizioni generali e l’inasprimento della competizione internazionale sui mercati che già fa evidenziare importanti segnali di recessione in Germania, nel centro produttivo dell’Europa, con conseguenze che non tarderanno ad arrivare anche in Italia, acuendo una condizione già precaria dell’economia nazionale. Un quadro ulteriormente complicato a livello internazionale dalla vicenda inglese e dal braccio di ferro sulla Brexit.

Dato il contesto in cui questo governo si muove è davvero ridicolo riporre qualche “Speranza” nel nuovo esecutivo. Alla lunga le esigenze dei settori che sono dietro a questo governo prevarranno apertamente, utilizzando la leva di riforme strutturali e usufruendo al contempo di una nuova pace sindacale e di lotta che i comunisti hanno il dovere di spezzare.

Il cambio di cavallo di una parte dei settori capitalistici italiani che hanno scaricato la Lega, non deve farci illudere sulla sconfitta di elementi reazionari, nazionalisti e razzisti che pure restano ben presenti nella società italiana e che potranno essere nuovamente utilizzati non appena la fase lo richieda. Il Partito Comunista ha sempre denunciato con forza il carattere reazionario, repressivo dei provvedimenti emessi dal precedente Governo, guardandovi con profonda preoccupazione. Tuttavia guardiamo alle contraddizioni presenti e non cediamo alla logica dell’avvenuta liberazione, che per giunta non mette in discussione molti dei pilastri di un impianto largamente condiviso anche dalle forze oggi al Governo. Inoltre in termini di consenso, il fallimento di un governo presentato a media unificati come “di sinistra” potrebbe rappresentare a medio periodo un nuovo rafforzamento di quelle forze.

Per tutte queste ragioni il Partito Comunista ritiene di dover insistere sulla strada della costruzione di un’opposizione sociale al nuovo governo Cinque Stelle- PD-Leu, confermando la disponibilità del PC a condividere la manifestazione del 5 ottobre, come già rappresentato ad altre forze sindacali e di lotta in questi giorni. Estendiamo questo invito a tutti i lavoratori e a quanti (forze sindacali, politiche e di lotta) ritengono in che l’opposizione sociale a questo Governo possa costruirsi attorno alle parole d’ordine della contrarietà all’Unione Europea, all’euro e alla Nato, alla difesa immediata dei diritti, dei posti di lavoro e dei salari dei lavoratori, dei diritti sociali criticando ogni ipotesi di realizzabilità di questi proposti mediante la compartecipazione a governi di gestione capitalistica e indicando come via la lotta per la costruzione di una società socialista.

Per il rafforzamento dell?opposizione sociale al governo (http://ilpartitocomunista.it/2019/09/11/per-il-rafforzamento-dellopposizione-sociale-al-governo/)