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Spetaktor
02-04-09, 18:50
G20: CINA, UNA POTENZA GLOBALE INSODDISFATTA / ANSA
UN BEST SELLER RIVELA INSICUREZZA E VOLONTA' DI RIVALSA
(di Beniamino Natale)
(ANSA) - PECHINO, 2 APR - Tutti i giornali cinesi aprono
oggi con la foto del numero uno cinese, Hu Jintao, che stringe
la mano al presidente americano Barack Obama in quello che tutti
sono d'accordo nel definire l' incontro bilaterale piu'
importante del vertice di Londra del G20. Il quotidiano
britannico Guardian scrive: ''oggi, 2 aprile 2009, puo' essere
segnato come il giorno nel quale, attraverso il catalizzatore
della crisi economica globale, la Cina e' emersa definitivamente
come una potenza del 21esimo secolo''. Il New York Times titola:
''La Cina sul palcoscenico come potenza economica globale''.
Ma oggi, 2 aprile 2009, uno dei libri piu' venduti in Cina e'
''Zhongguo bu gaoxing'' (La Cina non e' felice), una collezione
di saggi dalla quale emergono un forte complesso d' inferiorita'
e una non ben specificata volonta' di rivalsa. Per scriverlo si
sono uniti cinque intellettuali sui quarant'anni, gia' autori
dieci anni fa di un altro saggio di successo dal titolo ''La
Cina puo' dire no''.
Il Paese - sostiene uno degli autori, il sociologo Wang
Xiaodong - e' nel Consiglio di Sicurezza dell' Onu ed e'
associato in modo permanente al G8 ma ''non conta abbastanza,
perche' l' atteggiamento dell' Occidente verso la Cina non e'
cambiato''. Wang e gli altri autori, come gran parte dell'
opinione pubblica cinese, in particolare quella giovanile, sono
convinti che Usa ed Europa non vogliano riconoscere ''i
risultati ottenuti dal popolo cinese nel corso della sua
storia''. Al contrario, sono convinti che facciano di tutto per
ridimensionare ed indebolire la Cina. Cosi' gli autori di 'La
Cina non e' felice' spiegano, per esempio, la popolarita' della
quale gode in Occidente il Dalai Lama, il leader tibetano in
esilio. Nessun accenno alla diffusione del buddismo ad opera di
altri maestri tibetani a partire dagli anni cinquanta e che ha
influenzato due generazioni di intellettuali ed artisti
occidentali, o al fascino esercitato fin dall' inizio del secolo
dal Tibet sull' immaginazione occidentale e che ha prodotto
studiosi come l' italiano Giuseppe Tucci e l'olandese Alexandra
David-Neel.
Wang e i suoi coautori Song Qiang, giornalista e autore di
programmi televisivi e Liu Yang, studioso dei mezzi di
comunicazione di massa, fanno altri due esempi per dimostrare la
volonta' dell' Occidente di ''contenere'' la Cina con qualsiasi
mezzo: l' esistenza di un accordo tra i Paesi occidentali
conosciuto come Wasseer Arrangement per il controllo delle
esportazioni di tecnologia sofisticata che, sostengono, ha la
Cina come unico obiettivo; e la collaborazione nel campo della
difesa tra gli Usa ed i Paesi vicini alla Cina come Giappone,
Corea del Sud e Taiwan.
Gli autori del best-seller hanno un atteggiamento ambiguo
verso il governo ed il Partito Comunista Cinese. Affermano di
non essere ''oppositori'' del governo di Pechino ma di avere
''opinioni diverse'' dall' attuale gruppo dirigente. Per
esempio, non apprezzano il sistema che viene chiamato
''socialismo con caratteristiche cinesi'' ma sostengono che al
suo posto andrebbe creato un ''nuovo sistema'' che fonda le
tradizioni cinesi del confuncianesimo e del legalismo con alcune
caratteristiche delle democrazie occidentali. La ricetta degli
autori di ''La Cina non e' felice'' per migliorare la posizione
internazionale del loro Paese e' aumentare le spese per gli
armamenti e perseguire una politica estera piu' aggressiva,
quello che chiamano ''usare la spada per proteggere gli
affari''.
(ANSA).

Spetaktor
02-04-09, 18:53
Cina, Russia, America Latina

di Sergio Ricaldone

su altre testate del 28/03/2009


Il titolo di cui sopra è quello del libro edito dall'Editrice Aurora di Milano, Autori Vari, pag. 160, 12 euro. Così presentato può creare qualche malinteso. Il soggetto centrale del libro è infatti la Cina. La Russia, l'America Latina (cui vanno aggiunti l'Africa e i Paesi del Patto di Shangai), di cui ovviamente si parla, rappresentano la proiezione planetaria della politica estera di Pechino e rendono l'idea delle sue dimensioni economiche, politiche e militari.

Per quanto sia difficile replicare con la fionda all'incessante bombardamento mediatico anticinese, i vari saggi che compongono il libro sono un tentativo controcorrente di riproporre, senza ipocrisie e senza pretese storiografiche, il nesso esistente tra l'identità del potere politico che governa la Cina e la sua straordinaria crescita economica, ricordando sommariamente i vari passaggi che stanno cadenzando la fase attuale di sviluppo definita "socialismo di mercato".

L'uscita del libro ha coinciso, per puro caso, con gli effetti devastanti che la crisi economica mondiale sta provocando ovunque. Ci stiamo però accorgendo, col passare dei giorni, che il peso della parola "ovunque" assume un rilievo diverso a seconda del luogo : i dati e i numeri che giungono dall'epicentro del maremoto, Wall Street, e da quelli euronipponici, strettamente correlati con la casa madre di New York, sono pessimi e mostrano la tendenza al peggioramento, mentre quelli provenienti da Pechino - a giudizio di chi pur non amando la Cina la conosce molto bene - sono di segno diverso. Scrive Federico Rampini su Repubblica del 5 marzo 2009 : " C'è voluta un'assemblea di dirigenti comunisti cinesi per ridare un barlume di speranza ai mercati finanziari mondiali. (...) Confortati dalla ripresa degli ordini d'acquisto dei manager industriali cinesi, i mercati hanno voluto scommettere che la Repubblica Popolare potrà svolgere un ruolo di locomotiva nella ripresa mondiale". E'curioso notarlo ma la crisi globale piazza nuovamente la Cina in pole position mediatica. Ora sembra che sia il mondo ad avere bisogno del suo aiuto per uscire dalla catastrofe.

Sviluppo economico e potere politico in Cina : buono il primo, cattivo il secondo.

La percezione e il giudizio sulla Cina di oggi è assai contradditorio, almeno in questa parte del mondo che ama definirsi di capitalismo avanzato : Confindustria e destra guardano, discretamente intimoriti ma con rassegnato realismo, al dragone asiatico, all'efficienza delle sue forze produttive, alla dimensione del suo enorme mercato e alla capacità espansiva del suo modello di sviluppo e dei suoi prodotti in ogni angolo del pianeta. Detestano e condannano invece, senza appello, il suo regime politico, senza però mettere a rischio affari e investimenti. Ma è soprattutto da parte della sinistra "radicale", già apologa di Mao e del libretto rosso ed ora nemica ad oltranza dello "sviluppismo" altrui, che il disprezzo anticinese raggiunge spesso toni da crociata lamaista. Il paradosso di queste due condanne è che entrambe, pur con intenti opposti, giudicano incompatibili modello di sviluppo e partito al potere.

In entrambi i casi si trascura il piccolo dettaglio che quando si giudica un sistema economico, qualunque esso sia, è difficile ignorare identità e finalità strategiche della forza politica che lo gestisce. Nel caso della Cina questa distinzione tra economia e politica, come si fa tra buoni e cattivi, diventa uno strappo al buon senso poiché, come tutti sanno, nel caso specifico, si tratta di una coppia inseparabile. Il modello di sviluppo cinese è figlio legittimo di una delle più grandi rivoluzioni del secolo ventesimo, guidata da un partito che si chiamava e si chiama tuttora partito comunista. Per quanto sgomento possa suscitare nelle anime belle che lo detestano, è difficile separare questo terribile aggettivo "comunista" da tutto quello che è successo in Cina (e nel mondo) negli ultimi ottant'anni.

Una importante chiave di lettura ci viene squadernata in questo libro dal quadro analitico, ben argomentato, che Bruno Casati ci propone nel suo saggio, sul come la Cina stia edificando il suo sistema ecomico-sociale, dentro un sistema di governo e di potere politico, esercitato sempre dal partito comunista, ma assai diverso dai sistemi sperimentati in precedenza dalla stessa Cina e da quelli di altri paesi socialisti, come ad esempio L'Unione Sovietica. Dunque un percorso nuovo, non privo di contraddizioni e di incognite, sia rispetto ai contenuti che ai tempi necessari per compierlo, ma in continuità con quello iniziato quasi un secolo prima dal movimento comunista e segnato da passi avanti e passi indietro, da vittorie e sconfitte, da successi e fallimenti, ossia da una dialettica che rientra nella assoluta normalità di qualsiasi passaggio storico.

Dal "modello" sovietico al "modello" cinese, la "lunga marcia" verso il socialismo.

E' stato acutamente osservato che preparare un rivoluzione è già di per sé un impresa molto difficile. Decidere poi di dare l'assalto al vecchio potere e vincerla è ancora più difficile, ma le vere, enormi difficoltà di una rivoluzione cominciano dopo, quando devi costruirla una società nuova e soddisfare i bisogni e le aspettative del popolo che ti ha sostenuto nell'impresa. E siccome hai imboccato una strada verso un futuro che non conosci e non disponi di un modello compiuto, collaudato, chiavi in mano, devi avere la volontà, il coraggio e anche la modestia, di fermarti e di correggere, le scelte superate. Nell'Urss di Krusciov e Breznev questa lungimiranza è mancata. Hanno continuato a prevalere, fuori tempo massimo, gli impulsi del cosidetto "comunismo di guerra", che nei decenni precedenti era stato necessario per evitare all'URSS assediata di essere travolta dalla potenza soverchiante di una prevedibile aggressione militare imperialista. Ma poi ?

A Mosca, negli anni 60, finito ormai da tempo il periodo eroico, l'URSS era all'apice del suo sviluppo industriale e scientifico e il mondo guardava sbalordito alle imprese spaziali sovietiche. Però di riforme neanche l'ombra. Anche se lo volevi, non potevi aprire una bottega da idraulico. Il lavoro artigiano non era contemplato dal sistema sovietico. Se il rubinetto di casa tua perdeva il problema te lo doveva risolvere lo Stato. Ossia nessuno. Persino i modesti tentativi di riforma economica di Kossigin sono stati subito soffocati dai solerti pompieri della burocrazia kruscioviana.
Nella Cina di oggi, invece, oltre a poter fare l'idraulico, puoi anche fondare una banca. Detta in modo grossolano la differenza tra l'ortodossia tardo sovietica dei piani quinquennali e il socialismo di mercato alla cinese è tutta quì. A distanza di tempo si è riscoperta che, l'esigenza di compromessi con il capitale nella fase di transizione, era stata prevista, nel movimento comunista, fin dall'inizio della sua storia. Era già ben presente nella NEP leniniana ed esposta in maniera esemplare dal leader bolscevico, in una lettera dell'aprile 1921 ai comunisti del Caucaso (Lenin, Opere scelte, vol. 2°, pag. 675) Quando questa esigenza è stata ignorata la storia ha giocato brutti scherzi. Sappiamo tutti come è finita in Unione Sovietica.

Però, dopo il crollo del Muro, quando sembrava che il capitalismo avesse vinto la storica contesa contro il socialismo aperta dai bolscevichi ottant'anni prima, la Cina ha riaperto la sfida. Ma a differenza di Gorbaciov che ha segato il ramo su cui stava seduto, i comunisti cinesi non sono mai stati sfiorati dall'idea di portare in discarica il partito che ha guidato la Lunga Marcia e la rivoluzione né, tanto meno, il "grande timoniere". Hanno guardato in faccia la realtà e hanno preso atto che occorreva una radicale correzione di rotta per trascinare il paese oltre e fuori dal "socialismo della povertà" praticato dei decenni precedenti nel più completo isolamento internazionale.

Con la svolta denghista, i cinesi hanno ricuperato e aggiornato ai nostri tempi, le nozioni della NEP leninista, e rimodellato l'asse centrale della loro sfida. Anziché sul terreno della competizione militare, che ha dissanguato l'economia sovietica, hanno scelto il terreno della competizione economica. Sicuramente molto aggressiva ma assolutamente pacifica. E in sintonia con la tesi confuciana scritta nel IV secolo a.c. da Sun Tzu e Sun Pin nel celebre trattato sulla guerra : la vittoria militare più importante è quella che si vince senza combattere.

Non potendo negare i risultati ottenuti dalla Cina, "totalitaria e comunista", la propaganda anticinese affianca spesso, o contrappone, quelli ottenuti dall'India, "la più grande democrazia al mondo". Conosciamo tutti gli enormi sforzi che entrambi i giganti asiatici hanno compiuto e compiono per uscire dal terzo mondo, ma le dinamiche della crescita, governate da differenti sistemi politici, erano e rimangono molto diverse. Se alle chiacchiere sui "diritti umani" si antepongono i dati insospettabili della Banca Mondiale e del FMI la presunta parità di sviluppo appare più che discutibile : dal 1980 al 2006 il PIL, calcolato a parità di potere d'acquisto per abitante, è cresciuto di sedici volte in Cina, di cinque in India. Lo stesso dicasi del loro rapporto con il PIL mondiale : la Cina è passata dal 3,3% al 14%, l'India dal 3,3% al 6%.

Pace e prosperità economica : questa la sfida antimperialista dei comunisti cinesi.

Credo che nessuna persona sana di mente possa negare l'entità dei risultati raggiunti che hanno cambiato la vita di centinaia di milioni di cinesi.
Molto rimane ancora da fare, ma intanto, nel giro di due decenni la Cina, è diventata un gigante della politica mondiale ed ha concorso, con il pesante tonnellaggio del suo PIL, a cambiare i rapporti di forza (non solo economici) tra l'imperialismo nord atlantico e il resto del mondo.

Molti ricorderanno la tabella di marcia tracciata, nel 1997, dal più lucido teorico dell'imperialismo moderno, Z. Brezdzinski, nel suo famoso libro "La grande scacchiera", in cui venivano squadernate con arrogante semplicità le varie tappe che avrebbero permesso all'America di assumere il controllo politico e miliare dell'intero pianeta. Prima Clinton con la Nato, poi Bush a testa bassa, ci hanno provato. La guerra balcanica per il famoso canale 8, poi l'Afganistan e l'Iraq . Il tentativo di smembrare la Russia, di colonizzare l'intera Asia centrale post sovietica, le pesanti minaccie contro i paesi dell'Asse del Male. Con lo scopo finale di accerchiare militarmente la Cina (considerata il principale nemico strategico) e tenere la Russia sotto il tiro dello scudo spaziale. Un progetto grandioso con cui l'elite politica di Washington sperava di marchiare il 2000 come il nuovo secolo americano.

Ma già all'epoca le voci di pochi autorevoli storici di area liberal e marxisti (Paul Kennedy, Emanuel Todd, Berberoglu, Jan Ziegler, Heinz Holtz ed altri ) avevano già segnalato, osservando le dinamiche di sviluppo di Cina e Russia, le tracce di un possibile declino della superpotenza americana. Oggi, quelle poche voci sono diventate un coro scaligero e di quella tabella di marcia bonapartista non c'è più traccia. E benché Washington abbia continuato a mantenere il dito sul grilletto del proprio soverchiante arsenale militare, il prestigio dell'America è colato a picco.

Trent'anni fa gli Stati Uniti producevano il quaranta per cento del PIL mondiale. Oggi, prima del cataclisma delle Borse e al netto di imbrogli finanziari, (il dato continua peraltro a peggiorare), producono solo il 10% delle merci circolanti sul pianeta, cioè meno della Germania, ma ne consumano più del 30%, ossia più dell'Europa intera. E' vero che l'America ha difeso il suo status di superpotenza dilatando al massimo il suo budget militare e la sua aggressività. Ma decine di basi militari dislocate in ogni parte del mondo e mezzo milione soldati a presidiarle non sono bastati a mantenere il primato e a vincere due guerre contro due insignificanti nani militari come l'Afganistan e l'Iraq. Anzi, questa politica ha trascinato l'America in un colossale fallimento economico e militare. In molti sperano che con Barak Obama le cose potrebbero cambiare. Restiamo in prudente attesa di sapere quale dimensione saprà dare, anche in politica estera, alla magica parola "change".

Nel frattempo la tanto odiata Cina ha concorso con le sue scelte economiche, la sua politica estera e senza mai spostare un soldato fuori dalle sue frontiere, a cambiare i rapporti di forza e le relazioni tra gli Stati sconvolgendo ancora una volta gli assetti geopolitici del pianeta. Queste sono le credenziali con cui la Cina si presenta oggi sulla scena politica mondiale insieme ad altri paesi emergenti coma la Russia, l'India, il Brasile e il Sudafrica.

La Cina e l'Africa : modello di relazioni paritarie.

Nel capitolo dedicato alla politica internazionale della Cina abbiamo dato largo spazio ai rapporti economici sempre più stretti che la Cina sta stringendo con l'Africa. Specie dopo il Forum di cooperazione Cina-Africa svoltosi a Pechino nel novembre del 2006 cui hanno partecipato 48 Stati africani su 52. L'importanza di questo rapporto l'abbiamo colto qualche giorno dopo, in quel di Kinshasa, nel discorso pronunciato dal neo presidente eletto Joseph Kabila davanti al parlamento congolese : "Il nostro modello di sviluppo è quello cinese: con il potenziale di risorse naturali di cui disponiamo in Congo possiamo aspirare a diventare, per l'Africa, la Cina di domani". Dal che si deduce che le elite politiche nazionaliste al potere in molti paesi africani hanno capito che costruendo relazioni economiche privilegiate con Pechino, possono accumulare una massa critica di
forze produttive necessaria per liberarsi dal cappio al collo del debito estero imposto dal neo colonialismo e completare il lungo processo di liberazione rimasto finora incompiuto.

Chi conosce l'Africa sa che, prima ancora di qualsiasi risultato materiale l'approccio scelto dalla Cina sta cambiando la mentalità degli africani inculcata da cinque secoli di dominio coloniale. Una volta la Cina esportava ideologia in Africa. Oggi sono il suo potenziale industriale e i suoi capitali che alimentano in misura crescente e a tasso zero la costruzione di infrastrutture. Grandi cantieri sono aperti ovunque, soprattutto in Africa australe. Si costruiscono strade, ferrovie, dighe, centrali elettriche, scuole, ospedali, nuove città. Si perforano pozzi, si riaprono miniere.

Per Paesi indebitati fino al collo e ricattati dal FMI si apre una diversa prospettiva. Le loro risorse minerarie, energetiche e la produzione agricola cambiano le antiche destinazioni e trovano nel mercato cinese una fonte di sbocco che li sottrae alle condizioni iugulatorie delle multinazionali occidentali e del FMI. L'interscambio commerciale con la Cina dei paesi in via di sviluppo cambia la vecchia natura predatoria , neocoloniale, e si fonda invece su basi eque, reciprocamente vantaggiose. Il che induce automaticamente popoli e governi a riflettere anche sulle idee politiche che alimentano quel modello. Non a caso, molti giornali africani, giudicano questa fase di rapporti costruttivi con la Cina come l'avvio di una seconda liberazione dal colonialismo.

Le dinamiche dello sviluppo cinese stanno imprimendo una straordinaria rapidità al processo di modernizzazione delle regioni più popolate del mondo in Africa, Asia, America Latina. La potenza delle sue forze produttive sta cambiando radicalmente le gerarchie nate dopo il crollo dell'URSS ed è l'inizio di una nuova ristrutturazione policentrica del mondo che vede emergere come attori primari popoli e paesi rimasti secoli sotto il dominio imperialista. Abituati per troppo tempo a considerarci il centro del pensiero innovatore della sinistra no global, non sarebbe male se, anziché sostenere le pulsioni teocratiche di stampo medioevale del Dalai Lama, guardassimo con meno pregiudizi e maggiore obbiettività al nuovo mondo plurale che sta nascendo altrove, fuori dalle nostre cittadelle bianche di capitalismo avanzato.

ulver81
03-04-09, 12:59
Gli autori del best-seller hanno un atteggiamento ambiguo
verso il governo ed il Partito Comunista Cinese. Affermano di
non essere ''oppositori'' del governo di Pechino ma di avere
''opinioni diverse'' dall' attuale gruppo dirigente. Per
esempio, non apprezzano il sistema che viene chiamato
''socialismo con caratteristiche cinesi'' ma sostengono che al
suo posto andrebbe creato un ''nuovo sistema'' che fonda le
tradizioni cinesi del confuncianesimo e del legalismo con alcune
caratteristiche delle democrazie occidentali. La ricetta degli
autori di ''La Cina non e' felice'' per migliorare la posizione
internazionale del loro Paese e' aumentare le spese per gli
armamenti e perseguire una politica estera piu' aggressiva,
quello che chiamano ''usare la spada per proteggere gli
affari''.
(ANSA).

Sara, ma sulle traduzione fatte dalle agenzie di stampa italiane, ce ne sarebbe da ridire.Gia il fatto che si parli di nuovo sistema con caratteristiche occidentali, lascia molti dubbi in proposito........

Unghern Kahn
14-07-09, 19:00
Mosca e Pechino, il sole sorge sempre più ad Est
agosto 5, 2008



L’ asse strategico tra Mosca e Pechino si rafforza e l’ Europa resta a guardare. In realta’ la situazione e’ molto piu’ complessa di quella che emerge da una lettura superficiale degli eventi piu’ recenti sulla scena internazionale. Ma risulta inevitabile che una notizia come quella dell’ accordo sui confini tra Cina e Russia del 23 luglio scorso, dopo circa ottanta anni di controversie, lascia veramente stupiti per le conseguenze che potra’ avere nel prossimo futuro sullo scacchiere geopolitico mondiale. Mentre i presidenti e i capi di governo europei si mostrano ancora titubanti sulla loro partecipazione alla cerimonia d’ inaugurazione dei prossimi Giochi Olimpici, Mosca si conferma solidale con Pechino inviando il ministro degli Esteri Sergey Lavrov a firmare, insieme al collega cinese Yang Jiechi (insieme nella foto), la ripartizione dei 327 chilometri quadrati contesi dal 1929.



La portata dell’ accordo raggiunto, che secondo le prime indiscrezioni riconsegna alla Cina l’ isola di Yinling e meta’ di quella di Heixiazi, e’ soprattutto politica. Per dirla con le parole del capo della diplomazia del Cremlino, crea ulteriori opportunita’ di amicizia e cooperazione tra i due paesi, in un contesto di rapporti bilaterali gia’ positivi. Nei primi cinque mesi del 2008, infatti, gli scambi commerciali sono cresciuti del 60% e la firma dell’ intesa e’ propedeutica alla realizzazione di una zona di libero scambio nell’ estremo nord della Repubblica Popolare dove la Russia vantera’ una sorta di diritto di precedenza sul nascente mercato cinese, mentre la Cina rafforzera’ la sua prelazione per quanto riguarda l’ acquisto delle abbondanti risorse energetiche del vicino. Mai come in questo periodo i due colossi del XXI secolo sono stati cosi’ in sintonia dal punto di vista economico e politico. Cio’ e’ in gran parte il frutto di un’ intuizione diplomatica asiatico-centrica che si e’ dimostrata molto felice. La Shanghai cooperation organisation (cui aderiscono Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Tajikistan e Uzbekistan) e’ nata nel 2001 su impulso cinese con l’ obiettivo di rafforzare la sinergia tra i paesi del centro e del nord Asia, con Cina e Russia a farla da padroni. Ad un iniziativa di questa portata, che ha dato il via ad una serie di progetti di sicurezza, intelligence e di coordinamento economico non di poco conto, l’ Unione Europea non ha saputo reagire con altrettanta incisivita’ politica in tutte le organizzazioni di collegamento che la vedono seduta accanto ai due competitor piu’ importanti sul nuovo scenario planetario. In questi sette anni, grazie anche ad un canale privilegiato di dialogo, Mosca e Pechino hanno approfondito relazioni commerciali e strategiche che hanno portato ad un interscambio notevole in termini di energia e tecnologia militare, ad esercitazioni comuni tra i due eserciti, nonche’ ad assumere posizioni comuni in politica estera, a cominciare da quella che le vede concordi nel non forzare i tempi con l’ Iran, braccato dalla comunita’ internazionale per la questione atomica. Attraverso il Gruppo di Shanghai, Cina e Russia hanno stabilito relazioni con diverse organizzazioni internazionali, prime tra tutte le Nazioni Unite e l’ Associazione delle nazioni del sudest asiatico (Asean). Sinora, i Paesi membri della Sco hanno siglato 127 programmi di cooperazione e costituito sette gruppi di lavoro per promuovere la cooperazione in diversi settori, dal commercio all’ energia, dalle telecomunicazioni ai trasporti.


Il quadrante geopolitico asiatico e’ in grande fermento anche in conseguenza di una politica statunitense a dir poco scellerata (come afferma nel suo L’ ultima chance l’ autorevole Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la Sicurezza nazionale dell amministrazione Carter) visto che negli ultimi sette anni ha avuto come immediata conseguenza in Estremo Oriente l’ incremento del senso di insicurezza da parte dei giapponesi, che ha convinto il governo di Tokyo ad elevare la propria capacita’ militare per contrastare la crescente forza della Cina. Da cio’ e’ scaturito un effetto domino pericoloso per gli Usa, ma anche per l’ Unione Europea, che ha di fatto ha avvicinato Mosca e Pechino. Anche in virtu’ di questa special relationship, oltre all’ accresciuta importanza dell’ India ed il consolidato ruolo internazionale di Giappone e Corea del Sud, il peso politico dell’ Asia sta cambiando gli equilibri sullo scenario mondiale. Troppo irrigidita su stessa e forte del suo appeal verso i paesi asiatici, che comunque non smettono di dimostrare interesse verso i prodotti, le culture ed i capitali europei, Bruxelles manca di quell’ inerzia diplomatica capace di ristabilire una visione meno sbilanciata delle relazioni internazionali. Soprattutto oggi che gli Stati Uniti d’ America vivono un’ amplissima crisi di consenso diplomatico, l’ Europa dovrebbe farsi promotrice di una politica estera comune molto piu’ incisiva con lo scopo di impedire che l’ asse orientale esautori il Vecchio Continente del ruolo di mediatore che la storia recente le ha riconosciuto. Per fare cio’ e’ necessario, con tutta probabilita’, riacquisire una buona dose di realpolitik ed iniziare a mostrarsi piu’ accondiscendente verso temi sensibili per la Cina quali l’ eliminazione dell’ embargo all’acquisto di armi, nuovi accordi commerciali vantaggiosi ed una posizione univoca rispetto alla questione Taiwan. Solo cosi’ sar possibile incidere sull’ evoluzione, anche interna, della politica cinese, accusata di essere, a seconda dei casi, fin troppo muscolare ed imbavagliata. D’ altronde e’ ormai evidente che l’ atteggiamento del muro contro muro, con una Cina tanto forte economicamente, vede perdenti proprio gli europei che dovrebbero far valere di piu’ l’ approccio conciliante. Senza dimenticarsi pero’ che la crescita economica e commerciale dell’ ex Impero di Mezzo, nell’ era del mercato globalizzato, e’ garantita in maniera inscindibile dall’ afflusso di capitali stranieri nell’ impianto produttivo cinese, e dall’ acquisto da parte degli occidentali dei prodotti made in China.

Autore: Roberto Coramusi

Fonte: www.geopolitica.info

Unghern Kahn
14-07-09, 19:22
Secondo l'agenzia iraniana IRNA di oggi 12 luglio, dietro i disordini nella provincia cinese dello Xinjiang ci sarebbero gli Usa, che avrebbero promosso una "rivoluzione di velluto" contro Pechino.
L'Agenzia afferma che "Washington ha usato le divergenze razziali e religiose nella provincia per farne un secondo Tibet e portare un colpo alla Cina".

dal sito www.rivista-eurasia.org

Unghern Kahn
14-07-09, 19:25
Credo che anche quest'articolo non sia stato postato nel forum. Lo inserisco in questa discussione sulla Cina:

Xinjiang e Tibet: dal simile allo stesso
:::: 10 Luglio 2009 :::: 4:25 T.U. :::: Analisi - Cina :::: Jean-Paul Desimpelaere
di Jean-Paul Desimpelaere*


Domenica 5 luglio 2009, violenti scontri hanno scosso le strade di Urumqi, capitale della provincia cinese dello Xinjiang. Sono state uccise 156 persone e ferite più di mille altre. Queste cifre sono di molto superiori a quelle dei disordini a Lhasa, nel marzo 2008.

Ma gli aspetti dei disordini sono simili: bande di persone scese per le strade che sfasciano e incendiano negozi e picchiano persone. Secondo la polizia cinese, circa 1.500 persone sono state arrestate. Non si nega che ci siano tensioni sociali e etniche in Cina, ma sono utilizzate in un gioco geostrategico internazionale, ciò è raramente menzionato dai nostri media. Ecco alcuni pensieri su questo tema, e più precisamente al "fronte unito Dalai Lama - Xinjiang.

In molte interviste (anche nel suo discorso al Parlamento europeo in data 4 aprile 2008), il 14.mo Dalai Lama si è detto preoccupato per 'la lotta degli uiguri dello Xinjiang.’ Ha definito questa zona "Turkestan orientale" che dovrebbe diventare indipendente. Nel corso degli ultimi dieci anni, molte associazioni per la difesa per l'indipendenza della "Turkestan orientale" sono nate in Occidente. Il comitato centrale è chiamato "Congresso del Mondo Uigurico con sede a Monaco di Baviera, in Germania (**). La loro presidentessa vive negli Stati Uniti ed è orgogliosa di annunciare che il loro movimento s’è sviluppato con il sostegno della National Endowment for Democracy (NED), la sorella gemella della CIA, ma dedita alle operazioni "di pace".

Nel bilancio finanziario della NED, sono elencate quattro organizzazioni dell’opposizione uighur in Cina, che insieme hanno ufficialmente ricevuto più di $ 500.000 nel 2008. Ecco il legame con il Dalai Lama, hanno lo stesso sponsor. Inoltre, si coordinano tra loro: la prima conferenza dell’"alleanza" (Tibet, Turkestan orientale, Mongolia meridionale) ha avuto luogo a New York il 16 ottobre 1998 e fu frequentata dai monaci della amministrazione Clinton, dai rappresentanti del Dalai Lama, degli uiguri e dei mongoli. Per l'occasione, il Dalai Lama ha scritto questo messaggio: "I nostri tre popoli hanno forti legami storici, ora si sono uniti nella lotta contro l'occupazione cinese. L'impero sovietico s’è disintegrato e le persone hanno riacquistato la loro libertà. Inoltre, io sono ottimista circa il futuro delle nostre rispettive nazioni."

Lo scopo di tutto questo sembra abbastanza chiaro: accendere e sponsorizzare conflitti etnici che regolarmente esplodono nelle diverse regioni della Cina, al fine di disintegrarla come l'Unione Sovietica.

*http://www.tibetdoc.eu/spip/spip.php?article129 08 luglio 2009


** Dove ha sede l’Associazione dei Popoli Minacciati (APM), che ha portato avanti le istanze separatiste dell’UCK e, tuttora, sostenie le istanze separatiste delle minoranze in Myanmar, Balcani, Caucaso, America Latina, ecc. L’APM è legata agli ambienti atlantisti straussiani (Franz Joseph Strauss) della CSU. Alcuni sue propaggini operano anche in Italia. NdT.



Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://eurasia.splinder.com

Unghern Kahn
25-07-09, 19:36
Attenzione, Xinjiang!
:::: 25 Luglio 2009 :::: 11:00 T.U. :::: Analisi :::: Roman Tomberg
di Roman Tomberg* Strategic Culture Foundation Strategic Culture Foundation (http://en.fondsk.ru/print.php?id=2310) 20.07.2009


Dal 5 luglio, l'attenzione di tutto il mondo si è concentrata sull'ordine del giorno del prossimo vertice G8, che aveva tutte le possibilità di diventare l’evento culminante del mese. Eppure, le principali notizie sono arrivate in gran numero non da L'Aquila, in Italia, ma da Urumqi, in Cina. I disordini scoppiati in città hanno provocato 184 morti e 1.680 feriti, oltre a più di 260 autovetture incendiate e circa 200 negozi saccheggiati. Nel corso dei tre giorni di disordini che inizialmente hanno preso di mira la popolazione cinese, e poi quella Uigura, della regione autonoma dello Xinjiang, i problemi della provincia cinese hanno attirato l'attenzione di Pechino, dei vicini della Cina in Asia centrale, e del resto del mondo.
Considerando che i disordini in Tibet, lo scorso anno sono stati, evidentemente, sincronizzati con l'apertura delle Olimpiadi di Pechino, la coincidenza temporale dei disordini nella regione autonoma dello Xinjiang e del vertice del G8 non sembra casuale.
Senza dubbio, la situazione nello Xinjiang sta per essere utilizzata per offuscare l'immagine della Cina e per ridurre la sua influenza nella politica internazionale. Gli eventi di Urumqi forniscono all'Occidente un pretesto per mettere un governo legittimo di un paese sovrano sotto pressione, così come è stato precedentemente fatto nel caso della Jugoslavia, in Cecenia e in Iraq. Ora sarà possibile interpretare la lotta al terrorismo delle forze di sicurezza della Cina, come una pulizia etnica e un genocidio contro la popolazione Uigura. In realtà, è in gran parte il risultato delle attività internazionali delle "vittime delle torture da parte del governo" tra le fila della setta Falun Gong, se la situazione dei diritti umani in Cina è diventata il bersaglio di critiche permanenti, che sono state leggermente smorzate negli ultimi anni, solo a causa della interdipendenza delle economie degli Stati Uniti e della Cina.
Molto probabilmente, gli avvenimenti nella regione autonoma Uigura dello Xinjiang avrà un effetto negativo sulla capacità della Cina di attrarre investimenti esteri, il che sarebbe un duro colpo per la sua enorme economia nel tentativo di sottrarsi alla crisi globale. Pochi giorni fa, la politica della Cina di acquistare in tutto il mondo risorse naturali ha incontrato il primo serio ostacolo, gli azionisti di Rio Tinto, una grande azienda metallurgia l'anglo-australiana, ha invocato considerazioni di sicurezza nazionale ed ha rifiutato di vendere una quota 7,2 miliardi di dollari alla società della Cina Chinalco. Sebbene l'accordo generale sull’affare è stato raggiunto nel febbraio 2008, Rio Tinto se ne è allontanata seguito di un suggerimento avanzato dall’Australia's Foreign Investments Review Board.
Attualmente, la regione autonoma Uigura dello Xinjiang è la più grande unità amministrativo-territoriale della Cina, con una superficie di 1.660.000 km quadrati (superiore a quella di Germania, Francia, Spagna e combinata), o 1/6 della superficie totale della Cina. Gli Uiguri nella regione sono un gruppo etnico che conta circa 12 mln di persone (la popolazione totale della regione è di circa 20 mln). Nel complesso, la regione è abitata da 47 gruppi etnici. La Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang ed il Tibet sono le solo regioni della Cina con una popolazione prevalentemente non cinese. Va osservato che attualmente gli Uiguri sono l'unica grande nazione di lingua turca in Asia centrale, che rimane senza uno stato.
Lo Xianjiang è stato inserito nell’orbita della Cina relativamente di recente - nel 1760 sotto la dinastia Manciù. Gli Uiguri non ha accolto con favore i cinesi e i loro metodi dell’amministrazione e, spesso, si ribellarono. Quando la Cina si riprese lo Xinjiang nel 1949, la leadership cinese ha tenuto in considerazione l'esperienza passata e prevedibilmente ha concluso che la popolazione d'etnia cinese Han sarebbe stata molto più fedele rispetto a nativi turchi e musulmani. Le famiglie cinesi sono state trasferite in gran numero dalla province orientali della Cina alla regione sotto il controllo della Xianjiang Production and Construction Corp., considerando che i cinesi costituivano solo il 5% della popolazione della regione Xianjiang al momento in cui esso è stato accolto in Cina. Attualmente la cifra ha raggiunto il 41% o 7,5 milioni di persone, la maggior parte di questa popolazione è urbana.
In particolare, Pechino non stimola la migrazione di tali proporzioni in qualsiasi altra regione della Cina. Ad esempio, solo 160.000 cinesi risiedono in Tibet (su un totale della popolazione di 2,4 mln), ma in nessun caso si è avuto un afflusso massiccio di cinesi nella regione. La spiegazione risiede nell’importanza strategica dello Xianjiang per la Cina.
In primo luogo, la Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang è ricca di risorse naturali quali petrolio, gas naturale, carbone e uranio. Lo Xinjiang è stato il secondo più grande produttore di petrolio in Cina nel 2008, con una produzione di 27,4 mln di tonnellate di greggio (14% del totale nazionale). Oltre, 1/3 del gas naturale prodotto in Cina proviene dallo Xinjiang, 24,1 Barili pompati annualmente alle province della Cina orientale, attraverso il gasdotto Ovest-Est costruito nel 2005. Lo Xinjiang è al primo posto tra le regioni minerarie carbonifere della Cina (il carbone è il principale tipo di carburante in Cina) col 40% di partecipazione delle riserve di carbone del paese. L'anno scorso, il più grande deposito di uranio della Cina - 10.000 tonnellate - è stato scoperto nel bacino del fiume Ili.
In secondo luogo, questa regione della Cina occidentale ha tradizionalmente servito come sede segreta delle attività di ricerca strategiche. Lop Nur, la più grande base di test di armi nucleari della Cina, con una superficie di 100.000 km quadrati, si trova nello Xinjiang. E’ stata utilizzata per i test nucleari negli anni ‘60 e attualmente serve per testare i missili balistici. Un’altra struttura segreta è situata nello Xinjiang, è il centro di ricerca per la Fisica Nucleare, il Malan Research Institute.
In terzo luogo, lo Xinjiang confina con sette paesi - Russia, Afghanistan, Kazakistan, Kirghizistan, Mongolia, Pakistan e Tagikistan - e quindi gioca il ruolo della porta della Cina verso la Grande Asia centrale, che è stata a lungo tra le priorità della politica estera di Pechino. La vicinanza geografica all’Iran, il paese con cui la Cina prevede di rafforzare un partenariato strategico, contribuisce anch’esso all'importanza dello Xinjiang.
L'instabilità nello Xinjiang pone una serie di minacce alla Cina, soprattutto quelle del terrorismo e del separatismo. Un certo numero di gruppi Uiguri - il movimento di indipendenza del Turkestan orientale, l'Organizzazione di liberazione islamica del Turkestan orientale, la Conferenza Mondiale della Gioventù Uigura e il Centro di Informazione del Turkestan orientale – sono impegnati in attività anti-governative e, in alcuni casi, in attività terroristiche. Alcuni di essi sono sospettati di essere legati ad Al Qaeda.

I problemi incontrati dallo Xinjiang riceve una grande copertura mediatica internazionale, soprattutto grazie agli sforzi compiuti dal Congresso Mondiale Uiguro, che agisce come valvola di sfogo della popolazione locale della regione. Inoltre, le espressioni di sostegno al movimento di indipendenza Uiguro sono stati ascoltati nei circoli politici di Gran Bretagna, Paesi Bassi, e persino nel vicino Kazakistan. Il Primo Ministro turco Erdogan ha presentato una dichiarazione forte, sulla scia degli scontri di Urumqi (la Turchia è un giocatore chiave nell’Asia centrale). Ha chiamato il dramma in Urumqi genocidio e ha promesso che il tema sarebbe stato messo all'ordine del giorno del Consiglio di sicurezza dell'ONU.
Lo Xinjiang è uno dei principali hub di transito regionale. Il gasdotto Atasu-Alashankou che collega Cina e Kazakistan attraversa la regione autonoma Figura dello Xinjiang. Nel prossimo futuro, si prevede di costruire un ulteriore tappa della pipeline che aprirà l'accesso al Mar Caspio della Cina. Un’altra importante infrastruttura situata nella regione è il gasdotto che collega ai giacimenti di gas del Turkmenistan e Kazakistan, e sarà presto aggiornato per raggiungere l'Uzbekistan. Perciò, l'instabilità nello Xinjiang rappresenta una minaccia per la sicurezza energetica di tutta l'Asia centrale.
L'energia non è l'unico settore che affronta potenziali minacce a causa degli sviluppi nello Xinjiang. L'avanzata del separatismo nello Xinjiang comporta il rischio della creazione di una rete terroristica che va dalla valle di Fergana a quella di Turfan. Il probabile effetto parallelo sarebbe la creazione di un corridoio per il traffico di droga e di armi, nonché dell'immigrazione clandestina, soprattutto sul versante dell'Afghanistan e del Pakistan. La possibilità di simultanei disordini Uiguri tra le popolazioni delle vicine repubbliche, soprattutto Kazakistan e Kirghizistan, non può essere esclusa. L'instabilità nello Xinjiang è un problema di scala regionale, e un meccanismo di indirizzo dovrebbe funzionare con un’organizzazione a livello regionale. Il corpo corrispondente è la Shanghai Cooperation Organization, che ha pianificato misure volte a contrastare il terrorismo, il separatismo, l'estremismo e, dal 2001, lo svolgimento di esercitazioni congiunte delle forze armate dei suoi paesi membri, nei territori della Russia, la Cina e in Asia centrale ed orientale, come le missioni anti-terrorismo e di pace. In circostanze attuali, l'aspetto militare della Shanghai Cooperation Organization può essere non meno importante per la Cina di quello economico. Più ampie esercitazioni militari, nel quadro della Shanghai Cooperation Organization, dovrebbero essere previste in futuro.
Sarebbe un errore credere che lo Xinjiang è solo mal di testa della Cina. Si tratta di un nuovo, o meglio, un alquanto trascurato fattore di rischio che caratterizza l'intera Asia centrale.

*Strategic Culture Foundation Strategic Culture Foundation (http://en.fondsk.ru/print.php?id=2310) 20.07.2009


Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Unghern Kahn
25-07-09, 19:37
Gli Uiguri tra l'Impero e il separatismo
:::: 20 Luglio 2009 :::: 4:59 T.U. :::: Eurasia :::: Claudio Mutti
di Claudio Mutti


Gli Uiguri in Mongolia

Volendo dare un'idea della "mobilitazione contrastiva della storia" prodotta dallo scontro fra le tendenze separatiste riapparse nello Xinjiang e la rivendicazione cinese della legittima sovranità della Repubblica Popolare sulla regione, il generale Fabio Mini ha osservato: "Gli uiguri di oggi ricorrono volentieri alla storia per legittimare le loro rivendicazioni di indipendenza, evocando la rappresentazione di una nazione e di uno Stato unitario travolto dalla dominazione cinese alla fine del secolo scorso. Un'oppressione senza scrupoli contro la quale una fiera resistenza avrebbe combattuto e combatte ancora" (1). Da parte sua, la prospettiva geopolitica cinese si ricollega ad una concezione imperiale, poiché replica più o meno in questi termini: "il dominio imperiale, esercitato per vie diplomatiche o per controllo diretto o per conquiste militari o per cosiddetti 'protettorati', era comunque assoluto. Le dinastie, anche barbare, che nei secoli avevano acquisito il controllo del Xinjiang, erano comunque espressioni legittime del potere cinese. Il loro dominio era incontrastato e veniva materializzato dal rapporto di tributo" (2).
Le rappresentazioni messe recentemente in circolazione dalla grancassa mediatica occidentale rivelano il loro carattere strumentale e inconsistente qualora ci si sforzi di passare in rassegna, anche in maniera sintetica e sommaria, le vicende storiche degli Uiguri e della regione nella quale essi andarono a insediarsi in un certo momento della loro storia.
Tale rassegna può iniziare dal 744 dell'era volgare, allorché l'impero dei "Turchi Celesti" (Kök Türk), che era sorto in Mongolia nel 552 e all'apice della sua fortuna aveva dominato lo spazio compreso tra il Mar Giallo e il Mar Nero, crollò a causa della ribellione di alcune tribù turciche vassalle, tra le quali quella degli Uiguri.
Il capo degli Uiguri, inviata alla corte imperiale cinese la testa mozzata dell'ultimo qagan turco, assunse a sua volta la dignità di qagan. Nacque così un vasto regno che, estendendosi dal Fiume Giallo al fiume Yili, subentrò ai Turchi Celesti nel dominio della steppa. "Il rapporto che si sviluppò tra gli Uiguri e i Cinesi fu di reciproco beneficio: per non indebolire la dinastia cinese i primi fornirono un notevole sostegno militare, mentre ricevettero dalla Cina un immenso guadagno e una posizione privilegiata nel commercio. Si trattava di un rapporto simbiotico, poiché gli Uiguri erano fedeli alleati, che riconoscevano che non era nel loro interesse permettere che la dinastia Tang fosse rovesciata" (3).
A quell'epoca gli Uiguri parlavano una lingua del gruppo uiguro-oguz (sottogruppo uiguro-tukius), appartenente a sua volta al ramo unno-orientale del gruppo turco. Questa lingua, che possiamo chiamare antico uiguro e che non è molto diversa da quella delle epigrafi dell'Orkhon dei secoli VII-X, si differenzia dalle lingue uigure del gruppo karluk, ossia dall'uiguro dei secc. X-XI, formatosi in seguito all'interazione con l'arabo e col persiano, nonché dall'uiguro dei secc. XI-XIV, costituitosi per effetto dell'invasione mongola. L'alfabeto con cui essa veniva comunemente scritta, detto 'uigurico', era "una variante dell'alfabeto sogdiano, derivato a sua volta dall'alfabeto aramaico, cosa ben comprensibile se si pensa al ruolo di diffusori di civiltà espletato dai sogdiani, popolo di intraprendenti commercianti" (4). Dell'uiguro antico si servì, nell'iscrizione runica di una cinquantina di righe rimasta a Shine Usu, il secondo qagan degli Uiguri, El Etmish, per enumerare gli eventi che si erano susseguiti dal 743 al 750.
In un'altra epigrafe (quella di Qarabalghasun, in turco, cinese e sogdiano) è attestata la conversione degli Uiguri al manicheismo. Il 20 novembre del 762 il qagan uiguro El Tutmish aveva espugnato Lo-yang, liberandola dal generale ribelle An Lushan e restituendola all'imperatore cinese Suzong in cambio di un pagamento annuo di 20.000 rotoli di seta e delle nozze con una principessa tang; ma in quella circostanza il qagan aveva incontrato alcuni missionari manichei che lo avevano indotto ad abbracciare la loro fede. Nel testo cinese dell'epigrafe si legge: "Il paese dai costumi barbari e fumante di sangue si mutò in un paese in cui ci si nutre di legumi; il paese in cui si uccideva, in un paese in cui si incoraggia al bene" (5).
Il manicheismo divenne così la religione ufficiale del regno uiguro e gli Uiguri diventarono i protettori ufficiali delle missioni manichee in Cina. "La protezione del qagan costringe l'imperatore cinese ad accordare ai manichei per due volte - nel 768 e nel 771 - l'autorizzazione a istituire dei 'templi' in diverse località. Per due volte ugualmente - nell'806 e nell'817 -, dei manichei vengono accreditati come ambasciatori presso la corte di Cina" (6).
Da parte loro, gli Uiguri intrapresero periodiche campagne militari al servizio dell'impero cinese, esigendo in cambio gravosi pagamenti. "Alcune di queste entrate provenivano dall'esorbitante prezzo che facevano pagare per i cavalli, scambiati con la seta. Un viaggiatore arabo che visitò la capitale uigura [presso Qarabalghasun] riferì che il khaghan riceveva pagamenti annuali di mezzo milione di pezze di seta dalla Cina" (7).

La migrazione uigura nell'attuale Xinjiang

L'egemonia uigura sulla Mongolia durò circa un secolo, finché nell'840 le tribù chirghise provenienti dal nord si impadronirono della capitale, costringendo gli Uiguri a trasferirsi nel Gansu e nel bacino del Tarim, regioni che essi avevano già in parte conquistate verso l'800. Mentre il Gansu venne conquistato dalla tribù tibetana dei Tanguti, la valle del Tarim, nel Turkestan orientale, restò in possesso degli Uiguri, i quali fissarono le residenze invernale ed estiva dei sovrani rispettivamente a Qocio (Kuča), nell'odierna oasi di Turfan, ed a Beshbalïq, a nord del T'ien Shan, presso l'odierna Ürümqi.
Il Turkestan orientale era un paese di antica civiltà: lo rivelò, negli ultimi anni dell'Ottocento, il ritrovamento di una serie di manoscritti risalenti ai secoli V-IX d.C., contenenti testi non solo in cinese, mongolo e sanscrito, ma anche in una lingua indoeuropea fino allora sconosciuta: il tocario. secondo un'ipotesi accreditata presso la maggioranza degli archeologi e dei linguisti, i Tocari avrebbero fatto parte della cosiddetta migrazione pontica e si sarebbero insediati nella regione intorno ai secoli IX-VIII a.C.
All'epoca dell'immigrazione uigura, "nelle principali città carovaniere, al tempo stesso centri di vita sedentaria, vivevano popolazioni parlanti lingue indoeuropee quali il sogdiano e il sacio (appartenenti al gruppo iranico) e il tocario. Presso queste popolazioni si erano affermate una letteratura religiosa in massima parte di ispirazione buddhistica, per il resto manicaica o nestoriana, e un'arte composita in cui si fondevano elementi dell'arte indiana (greco-romano-buddhistica e gupta), iranica e cinese. Gli uiguri assimilarono la civiltà preesistente alla loro venuta, e ne prolungarono l'esistenza con propri contributi (...) La caleidoscopica civiltà degli uiguri, fatta piuttosto di echi che di sintesi o di originali sviluppi, si spense sul posto, dopo l'invasione mongola" (8).
Alla morte di Gengis Khan, nel 1227, la maggior parte degli Uiguri venne a trovarsi nell'ulus di Ciagatai, che nella partizione dei domini paterni aveva ricevuto la Kashgaria, l'attuale Xinjiang, i territori ad est del lago Balkash, la Transoxiana e la Semireche. Il contributo che gli Uiguri diedero all'organizzazione degli Stati turco-mongoli fu enorme: i figli di Gengis Khan impararono a leggere e a scrivere la scrittura uigurica, mentre agli Uiguri "venne affidata l'amministrazione delle province conquistate, ed essi, mandati soprattutto in Cina, competevano vantaggiosamente anche con i funzionari del paese, quanto a capacità e destrezza; il cristiano Cingai fu messo a capo di tutta l'amministrazione dell'impero" (9).
Nel periodo mongolo, infatti, gli Uiguri erano in gran parte cristiani (10), essendo stati da tempo evangelizzati dagli zelanti missionari nestoriani. Più sopra si è detto della loro conversione al manicheismo, avvenuta nell'VIII secolo; ma nel bacino del Tarim aveva avuto larga diffusione il buddhismo mahâyâna, tanto che nel 981 la capitale uigura possedeva un solo tempio manicheo, a fronte di una cinquantina di templi buddhisti. Alla predicazione buddhista era poi subentrata quella nestoriana. In questo paesaggio religioso variegato e fluido, in cui manicheismo, buddhismo, cristianesimo nestoriano "coesistevano in una certa tolleranza o indifferenza per le credenze e le pratiche sciamaniste ancestrali" (11), i Turchi introdussero l'Islam, che grazie alla Pax Mongolica si era d'altronde già diffuso da tempo nei territori cinesi.

Gli Uiguri e l'Islam

La graduale islamizzazione degli Uiguri giunse ad uno stadio decisivo allorché Tarmashirîrîn Khân (1326-1334), sovrano dell'ulus ciagataico, abbandonò il buddhismo ed abbracciò l'Islam, diventando sultano col nome di ‘Alâ'oddîn; un ulteriore impulso alla diffusione dell'Islam nella regione venne dato da Tughluq Timur Khan (1343-1363).
Mentre in Cina l'epoca Ming (1368-1644) vedeva nascere e consolidarsi, attraverso un processo di sinizzazione dell'Islam, quell'etnia hui che, costituita di Han convertiti all'Islam, è la più numerosa tra le etnie musulmane della Cina, gli Uiguri condividevano le sorti delle tribù ciagataiche. La tradizione colta rappresentata dal linguaggio amministrativo degli Uiguri fu una componente determinante della cultura ciagataica nei domini di Tamerlano e, in particolare, nelle corti timuridi di Samarcanda, di Herat, di Shiraz. Intanto, a partire dal XVI e ancor più dal XVII secolo, nel Turkestan orientale e in altri territori della Cina nordoccidentale (Gansu, Qinghai, Ninxia) si andavano costituendo i nuclei di quattro confraternite sufiche: la Qadiriyya, la Khufiyya, la Jahiriyya e la Naqshbandiyya; a quest'ultima, in particolare, appartenevano i Khwa^ja, discendenti dello shaykh Makhdûm-i Azam (morto nel 1540 a Kashgar), che in seguito alla frantumazione del chanato ciagataico governarono la Kashgaria dal 1678 al 1757. Con la caduta della dinastia dei Khwâja, il Turkestan orientale venne chiamato Huijiang ("Provincia islamica") ed annesso in maniera stabile al Celeste Impero, alla guida del quale s'era insediata nel 1644 la dinastia sino-mancese dei Qing. "I cinesi consideravano il Turkestan orientale una loro naturale regione d'influenza, al punto che gli scambi commerciali che essi intrattenevano con le popolazioni che lo abitavano erano visti come una forma di tributo offerto da costoro. L'annessione di queste regioni, per il discorso che qui più c'interessa, si risolse in un importante evento: l'inglobamento di un considerevole numero di musulmani non sinizzati (e dei loro centri devozionali) entro i confini dell'Impero. Il Turkestan - che dal lato occidentale era assediato dall'espansionismo russo - venne governato grazie all'ausilio di capi musulmani locali (beg), che in cambio d'assegnazioni fondiarie collaboravano con gli amministratori Han protetti da guarnigioni cinesi stanziate a Ürümqi, Kashgar, Khotan ed altri centri" (12).
Ma dal loro rifugio di Kokand (Qo'qon) i Khwâja detronizzati di Kashgar attendevano che si presentassero le circostanze favorevoli per una riconquista del potere perduto. Sotto la spinta del movimento eterodosso Xin jiao ("Nuova dottrina"), che nel 1781 aveva animato una rivolta di Hui nel Gansu, a partire dal 1820 i Khwâja organizzarono una serie di incursioni in territorio cinese e tra il 1826 e il 1827 suscitarono una sommossa nel Turkestan orientale. Una nuova ribellione scoppiò una ventina d'anni più tardi, nello stesso anno in cui il potere centrale riusciva finalmente a domare la grande rivolta contadina del Taiping Tianguo: in seguito all'insurrezione degli Hui guidata nello Shanxi e nel Gansu da Ma Huolang, capo della confraternita Jahiriyya, nel 1864 gli Uiguri si sollevarono sotto la guida del tagico Yaqub Beg (1820-1877), edificando un'effimera entità politica (il "regno della Kashgaria") che trovò sostegno presso i Britannici e i Russi e venne riconosciuta dal sultano ottomano. Alla repressione di questa rivolta, avvenuta nel biennio 1877-1878 ad opera del generale cinese Zuo Zong-tang (1812-1885), seguì, nel 1884, la riorganizzazione del Turkestan orientale, che andò a costituire una nuova provincia cinese e ricevette il nome di Xinjiang ("Nuovo Territorio").

Il separatismo uiguro

Nel primo periodo repubblicano (1911-1949) lo Xinjiang fu teatro di nuove insurrezioni, le quali però presentavano "una peculiarità rispetto a quelle della seconda metà dell'Ottocento: da una caratterizzazione più marcatamente 'islamica', ora l'accento viene posto gradualmente sul fattore etnico, con l'Islam che fornisce per così dire la 'bandiera' ai separatisti-indipendentisti" (13). Si cominciò nel 1931, con la rivolta capeggiata dal khwâja Niyâz Hajji, che il 12 dicembre 1933 approdò alla proclamazione di una "Repubblica Islamica Turca del Turkestan Orientale" che nel giro di un anno venne abbattuta dall'esercito nazionalista cinese; il secondo atto ebbe luogo nel 1937 col movimento guidato da ‘Abdallâh an-Niyâz; nel 1940 scoppiò la rivolta di ‘Uthmân Batûr, che fu repressa nel 1943; nel 1944 la rivolta della valle dello Yili si concluse con la proclamazione di una nuova "Repubblica del Turkestan Orientale" che, sostenuta dalle truppe sovietiche, durò fino al 1949, quando Stalin, essendo ormai certa la vittoria di Mao Tse-tung, impose al governo uiguro la riconciliazione con la Cina.
La Repubblica Popolare Cinese istituì, il 1 ottobre 1955, la Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, all'interno della quale nacquero due prefetture (chou) autonome (una khalkha ed una hui), nonché due distretti (hsien) autonomi (uno hui ed uno tagico). In base alla Costituzione del 1949, la lingua ufficiale della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang era l'uiguro basato sui dialetti del sud e scritto in lettere arabe (mentre l'uiguro parlato in Kazakistan, Kirghizistan, Uzbechistan e Turkmenistan, formatosi sulla base dei dialetti del nord, utilizzava l'alfabeto cirillico) (14).
La pratica dell'Islam, che la Costituzione garantiva agli Uiguri così come alle altre nove "nazionalità" (minzu) musulmane della Cina, trovò un valido sostegno nell'Associazione Islamica Cinese, la quale, sorta nel 1953, "si occupò di pellegrinaggi alla Mecca, di rapporti con personalità religiose straniere, di formazione degli addetti al culto ed in generale del coordinamento delle attività religiose e sociali" (15). L'attività dell'Associazione, interrotta nel periodo della Rivoluzione Culturale, riprese nel 1978, dopo la caduta della "Banda dei Quattro".
Per assistere ad una ripresa del movimento separatista uiguro, bisogna arrivare agli anni Novanta, quando nello Xinjiang avvengono scontri di piazza ed atti di terrorismo. La condanna a morte di una trentina di attivisti provocò, il 5 febbraio 1997, la dimostrazione di Ghulja, duramente repressa dalla polizia; a ciò fece seguito, venti giorni dopo, la strage di Ürümqi, dove saltarono per aria tre autobus di linea.
Anche se il Movimento Islamico del Turkestan Orientale, del quale sono stati denunciati gl'immancabili "legami con Al-Qaeda", è stato inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali, non è certamente l'Islam a costituire la motivazione più forte dell'attuale movimento separatista. "La spinta ideologica della resistenza si avvale di un blando integralismo religioso" (16), per cui il movimento può richiamarsi senza troppe difficoltà ai principi cardinali del sistema occidentale: Democrazia e Diritti Umani. E senza difficoltà il National Endowment for Democracy ha potuto stanziare, nel 2008, più di 500.000 dollari a favore di quattro organizzazione separatiste che agiscono nello Xinjiang. D'altronde i dirigenti del separatismo uiguro hanno le loro centrali in Occidente: mentre il Congresso Mondiale Uiguro ha sede a Monaco di Baviera, la sua principale esponente, Rebiya Kadeer, grazie all'interessamento diplomatico di Condoleeza Rice si è potuta trasferire da Pechino agli Stati Uniti.








(1) Fabio Mini, Xinjiang o Turkestan orientale?, "Limes", 1/1999, p. 85.
(2) Fabio Mini, Xinjiang o Turkestan orientale?, cit., ibidem.
(3) J. A. G. Roberts, Storia della Cina, Newton & Compton, Roma 2002, p. 150.
(4) Alessio Bombaci, La letteratura turca, Sansoni-Accademia, Milano 1969, p. 33.
(5) "Journal Asiatique", 1913, p. 194.
(6) Henri-Charles Puech, Il manicheismo, in: Storia delle religioni, a cura di H.-Ch. Puech, 8. Gnosticismo e manicheismo, Laterza, Bari 1977, pp. 182-183.
(7) J. A. G. Roberts, Storia della Cina, Newton & Compton, Roma 2002, p. 151.
(8) Alessio Bombaci, La letteratura turca, cit., p. 32.
(9) Giuseppe Messina, Cristianesimo buddhismo manicheismo nell'Asia antica, Nicola Ruffolo, Roma 1947, p. 143.
(10) Sull'attività degli Uiguri nel periodo mongolo cfr. W. Barthold, Turkestan down to Mongol invasion, in Gibb M. S., New series V, Oxford 1928, p. 386 ss.
(11) Claude Cahen, L'Islamismo. I. Dalle origini all'inizio dell'Impero ottomano, Feltrinelli, Milano 1969, p. 283.
(12) Enrico Galoppini, Il Celeste Impero e la Mezzaluna, "Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. III, n. 1, genn.-marzo 2006, pp. 92-93.
(13) Enrico Galoppini, Il Celeste Impero e la Mezzaluna, cit., p. 94.
(14) "La formazione della lingua letteraria risale al secolo X e rappresenta il risultato dell'interazione delle lingue turciche di occidente e di oriente con la lingua tagica e con altre lingue iraniche. Il periodo moderno della lingua letteraria inizia nel secolo XVII, quando si avvicina lentamente alla lingua viva del popolo. Il vocabolario della lingua uigurica è molto ricco di prestiti arabi (33%), meno di persiani (7%). Tali prestiti sono molto antichi. Si spiegano coi rapporti economici tra Uiguri, Arabi e Persiani fin dal secolo X" (Lucia Wald - Elena Slave, Ce limbi se vorbesc pe glob, Editura ştiintifică, Bucureşti 1968, p. 149).
(15) Piero Corradini, L'Islàm in Cina oggi, "Islàm. Storia e civiltà", a. I, n. 1, ott.-dic. 1982, p. 16.
(16) Fabio Mini, Xinjiang o Turkestan orientale?, cit., p. 94.


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Unghern Kahn
25-07-09, 19:39
Teatro di ombre nello Xinjiang
:::: 14 Luglio 2009 :::: 11:21 T.U. :::: Analisi - Cina - Xinjiang :::: M. Saadoune
di M. Saadoune*


La questione delle nazionalità sarebbe il tallone d’achille della Repubblica Popolare Cinese?
Alcuni lo pensano e lo dicono.
I disordini nello Xinjiang, che seguono a quelli che hanno scosso il Tibet qualche mese fa, ne sarebbero la prova indiscutibile.
Il trattamento mediatico occidentale è tuttavia molto differente.
Il governo centrale cinese è certo vilipeso e accusato di tutti i mali, ma la rappresentazione degli eventi si caratterizza per una certa prudenza.
E’ vero che a differenza dei Tibetani, buddisti, gli Uighuri che popolano la provincia dello Xinjiang sono dei musulmani sunniti turcofoni.
E dopo l’11 settembre, le rivendicazioni espresse dai musulmani sono trattate con – è un eufemismo – una grande prudenza. Ciò non impedisce che si sfrutti l’occasione. Cosa importano i fatti – un’oscura storia di violazioni seguita da morti -, degli esperti sorti dal nulla mediatico spiegano saggiamente che questi disordini sono l’espressione di un fenomeno di resistenza all’ “imperialismo cinese”. Lo Xinjiang sarebbe a poco a poco sommerso dall’arrivo degli Han, l’etnia cinese largamente maggioritaria.
Il conflitto dunque opporrebbe dei musulmani a dei Cinesi comunisti.
Pochi esperti menzionano il fatto che lo Xinjiang ospiti gli Hui, un altro popolo musulmano di etnia Han, le cui popolazioni non sono implicate nei moti in corso. I Cinesi hanno fatto molti progressi in economia, continuano però ad affrontare molto male la gestione mediatica delle crisi. Talmente male che questo permette ai geo-etnologi di servizio di occultare l’estrema importanza strategica di questa provincia nel cuore di tutti i transiti energetici dell’Asia centrale. Lo Xinjiang è il punto terminale di numerose pipelines in attività o in progetto, destinate a rispondere alla domanda crescente della Cina. Gli Uighuri fanno da sponda, da molti anni, alla sollecitudine interessata dei gruppi d’influenza americani.
Il Congresso mondiale uiguro, gruppo d’opposizione con base a Washington, è generosamente finanziato dal braccio secolare dell’Amministrazione statunitense, il National Endowment for Democracy (NED), che elargisce diverse centinaia di migliaia di dollari ogni anno.
Il NED, un organizzazione ufficialmente non governativa, è lo strumento tradizionale d’azione dei servizi specializzati americani. Esso ha finanziato e organizzato tutte le “rivoluzioni colorate” o di “velluto” volte ad installare dappertutto o dove ciò sia possibile dei governi pro-occidentali.
Il NED ha operato nell’Europa dell’Est, nel Caucaso e può essere, recentemente in Iran.
I disordini in questa regione essenziale dell’Asia centrale, limitrofa al Kazakhistan, riserva energetica del futuro, sono ben inteso un’opportunità per indebolire la Cina e appannare la sua immagine internazionale.
E’ anche un’opportunità ideale per tentare di creare un cuneo tra i paesi della regione, la maggior parte dei quali appartiene all’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (OCS).
Gli Americani sono preoccupati della crescita di potenza di questa struttura che raggruppa la Cina, la Russia, il Kazakhistan, l’Uzbekistan, il Kirghizistan, il Tagikistan, e alla quale sono associati, in quanto osservatori, l’Iran, il Pakistan, l’India e la Mongolia.
Altrettanti elementi che invitano ad una lettura meno sommaria di ciò che succede nello Xinjiang …

*Le quotidien d’Oran 13/07/09

Traduzione di Stefano Vernole




www.rivista-eurasia.org

Unghern Kahn
26-07-09, 15:43
Cina e Russia lanciano esercitazioni di guerra su vasta scala
:::: 24 Luglio 2009 :::: 10:52 T.U. :::: Informazione :::: Russia Today
Russia Today 22 luglio 2009

‘Questa è la terza esercitazione ‘Missione di Pace’. Per il comando militare dell'Estremo Oriente della Russia sarà il più grande movimento di truppe aldilà delle frontiere nazionali, dalla campagna contro il Giappone nel 1945.


Le forze militari Russe e cinesi parteciperanno a un periodo di cinque giorni di esercitazioni congiunte, uno delle più grandi del genere.
L’esercitazione ‘Missione di Pace 2009’ è stata ufficialmente avviata Mercoledì, nella città russa in Estremo Oriente di Khabarovsk, dal Capo di stato maggiore Generale Nikolay Makarov e dal suo omologo cinese Chen Bingde.
Circa 3.000 militari e personale delle forze aeree, 300 veicoli corazzati e 45 aerei prenderanno parte alle manovre militari della serie Taonan, in Cina. Lo scenario dell’esercitazione si basa su un folto gruppo di terroristi che ha conquistato una città e vi ha provocato massicci disordini. La forza comune deve sconfiggere i militanti e sedare la rivolta.
I media cinesi dicono che lo scenario è simile agli scontri sanguinosi nella provincia dello Xinjiang dell'inizio di questo mese, anche se i piani per l'evento erano stati annunciato molto tempo prima. "In una certa misura, la sommossa del 5 luglio nello Xinjiang ha spinto la cooperazione tra la Cina e la Russia nella lotta contro il terrorismo", China Daily ha citato il Maggiore Wang Haiyun, un ex addetto militare cinese in Russia.
‘Questa è la terza esercitazione ‘Missione di Pace’. Per il comando militare dell'Estremo Oriente della Russia sarà il più grande movimento di truppe aldilà delle frontiere nazionali, dalla campagna contro il Giappone nel 1945.
"Questo non è routine, ma un concreto progresso nella preparazione dei nostri militari delle forze congiunte per contrastare le minacce alla sicurezza nella regione", ha detto il Generale Makarov ai media.
Ha aggiunto che l’esercitazione è ancora più importante nel contesto della una militarizzazione in corso in Giappone e Corea del Sud, dopo il test nucleare della Corea del Nord nel maggio e la successiva serie di lanci di missili.
Secondo Makarov, l'esercito russo ha molte cose da imparare dai suoi partner cinesi, che hanno garantito la sicurezza durante i Giochi olimpici a Pechino, nell’agosto scorso. La loro consulenza sarà utile nel 2014, quando la Russia ospiterà le Olimpiadi invernali a Sochi.
Il Generale Chen Bingde ha lodato le tradizionali manovre e ha sottolineato che "non sono dirette contro terzi, e non sono una minaccia per le altre nazioni".


Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Unghern Kahn
26-07-09, 15:44
Cina e Russia entrano nel ‘governo’ di Internet
:::: 6 Luglio 2009 :::: 5:12 T.U. :::: Informazione - Cina :::: CNR - Consiglio Nazionale delle Ricerche
Cina e Russia entrano nel ‘governo’ di Internet

I due Paesi fanno ingresso in Icann, l’organismo che sovrintende sulla Rete e che ora comprende il 90% dell’utenza mondiale. I cinesi sono i primi al mondo per navigatori, 298 milioni, e domini, 17 milioni. “Un fatto politicamente significativo”, commenta Trumpy dell’Iit-Cnr, il rappresentante governativo italiano

Anche la Cina entra a far parte del governo mondiale di Internet. Il colosso asiatico ha aderito al Gac - Governmental Advisory Committee - di Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), l’organismo internazionale che sovrintende al funzionamento della Rete e del sistema dei domini a livello mondiale.
“E’ un fatto politico significativo e lungamente atteso”, commenta l’ingegner Stefano Trumpy, dirigente di ricerca all’Istituto di Informatica e Telematica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa (Iit-Cnr) e rappresentante del Governo italiano nel Gac di Icann. “La Cina è infatti la nazione al mondo che ha in assoluto il numero più elevato di utenti Internet, 298 milioni a gennaio 2009, e di domini (i nomi targati .cn sono quasi 17 milioni)”.
L’ingresso cinese, avvenuto all’ultima riunione Icann di Sydney, è stato accompagnato dalla presenza della Russia come ‘invited guest’. “Con queste new entry, nel Gac sono presenti gli Stati che comprendono oltre il 90% dell’utenza mondiale della rete”, prosegue il ricercatore dell’Iit-Cnr. “Questo dato smorza le critiche di quanti sostengono che entro Icann non siano sufficientemente rappresentati i governi nazionali”.
La Cina negli ultimi anni ha conosciuto una vera e propria esplosione di Internet, i cui tassi di crescita non hanno precedenti né pari: solamente dal 2007 al 2008 i navigatori sono cresciuti del 42%, quelli connessi tramite cellulare (117 milioni) del 133%, i blog censiti sono 162 milioni. “L’auspicio – aggiunge Trumpy – è che l’ingresso della Cina nel Gac possa anche favorire un maggiore rispetto della libertà degli utenti Internet”.
Icann introdurrà a breve innovazioni che permetteranno agli utenti di registrare nomi scritti in caratteri diversi dall’alfabeto latino (cinese, giapponese, arabo, ebraico, greco, cirillico, coreano, etc): a guidare tale svolta il neo-presidente e amministratore delegato Rod Beckstrom, esperto in sicurezza, high-tech e attività internazionali a favore dei Paesi in via di sviluppo, già direttore del centro nazionale sulla cyber-sicurezza Usa.

Roma, 6 luglio 2009
Consiglio Nazionale delle Ricerche

Unghern Kahn
26-07-09, 15:45
Il vertice SCO di Ekaterinburg e l’offensiva energetica della Cina verso il Mar Caspio
:::: 30 Giugno 2009 :::: 4:09 T.U. :::: Analisi :::: Ajdar Kurtov
di Ajdar Kurtov*


Il contesto politico e gli esperti rimarranno per lungo tempo concentrati su un altro vertice della Shanghai Cooperation Organization che è stato convocato a Ekaterinburg il 16 giugno. Si potrebbero cercare, per un po' di tempo, alcune idee fondamentali del documento principale che il vertice ha adottato, - la dichiarazione di Ekaterinburg dei capi di Stato della SCO. Tuttavia, confrontare alcune disposizioni della Dichiarazione con la pratica delle attività nella zona centrale della regione asiatica, sembra rivelarsi più produttivo.

Il punto 5 della Dichiarazione suoni un po' patetica: "Gli Stati membri della SCO, rilevando l'importanza fondamentale del settore energetico per il successo dello sviluppo economico e la creazione di condizioni favorevoli per migliorare le condizioni di vita dei loro popoli, esprimono la volontà di far progredire una cooperazione reciprocamente vantaggiosa in questo settore, sulla base paritaria, con l'obiettivo di assicurare l'efficace, affidabile e sicuro per l'ambiente, approvvigionamento energetico". E ora diamo un'occhiata a come i leader della Cina, incondizionati dallo SCO, attuano il loro piani energetici nella regione.

Focalizziamoci sulle seguenti due situazioni, a titolo di esempio. La prima ha a che fare con il crescente coinvolgimento della Cina nel settore della produzione di idrocarburi in Kazakistan. Tornando al 1990, il Kazakistan rese facilmente disponibili le sue ricchezze minerarie alle imprese degli statunitensi, britannici, francesi e italiani, le aziende imposero decisamente dei termini sfavorevoli o addirittura paralizzanti al Kazakshtan. La maggior parte dei profitti generati sono stati inoltrati ai nuovi partner del Kazakistan, mentre esse non erano responsabili agli obblighi dei contratti firmati, in particolare per quanto riguarda la conformità con le norme relative all'ecologia.

Tale situazione è stata ampiamente ispirata dalla corruzione che ha colpito i leader kazaki, inclusi i funzionari di più alto grado (un caso per illustrare il punto è il cosiddetto "Kazakhgate"). Incombeva la minaccia di trasformare il Kazakistan, rendendolo un paese del terzo mondo col ruolo di esportatore di greggio verso i paesi altamente avanzati.

L'Occidente era perfettamente contento verso la politica dei leader kazaki, dal momento che tale politica ha, sia aiutato a risolvere il problema economico di ottenere profitti superiori per le società occidentali, sia di allinearla agli obiettivi politici delle nazioni occidentali, cioè di separare dalla Russia il Kazakistan e prevenire qualsiasi nuova formula di rilancio dell'alleanza delle ex repubbliche sovietiche.

Tuttavia, il Kazakistan cresceva sempre più forte economicamente, socialmente e politicamente, la destabilizzazione interna rischiava di essere ridotta in gran parte, a causa della sconfitta dell’opposizione kazaka e delle organizzazioni irredentiste slave, e il mondo degli idrocarburi subiva una ripresa dei prezzi di mercato fino dall'inizio di questo secolo; ciò ha fatto pensare ai leader del Kazakistan che era meglio migliorare la loro vecchia posizione. Il Kazakistan, riconsiderando i precedenti accordi firmati, ha chiesto nuove condizioni, e Astana ha specificamente proclamato l'obiettivo di istituire il controllo dello Stato sul settore petrolifero e del gas.

Astana ha cominciato gradualmente a cambiare la legislazione nazionale in materia di gestione delle risorse del sottosuolo e della protezione ambientale per costringere le società occidentali ad una maggiore conformità con le esigenze del Kazakistan, e contemporaneamente ha provocato un conflitto con la società italiana ENI, l'operatore petrolifero del più promettente giacimento del Kazakistan, quello di Kashagan, sul fondale del Mar Caspio. Oltre Kashagan, nel settore settentrionale del Mar Caspio, l’area contrattuale dell’Eni in Kazakistan, comprende anche i giacimenti petroliferi di Aktoty, Kairan e Kalamkas. Ma il Kazakshtan formalmente reclama ai suoi partner stranieri l'incapacità di rispettare le scadenze nel rendere operativi i giacimenti petroliferi e produrre grandi quantità di petrolio.

Il Kazakistan ha modificato il suo Codice Interno delle Entrate, per legiferare sulle sue ricchezza minerarie, l’amministrazione delle risorse e le connesse disposizioni legislative in materia d'ecologia delle attività degli investitori stranieri. Le innovazioni legali previste per il consolidamento del diritto dello Stato per ottenere il 50% della quota su ogni nuovo progetto sui mercati secondari, e anche il divieto di ri-vendita delle licenze per la gestione delle risorse del sottosuolo, per un periodo di due anni dalla registrazione dei diritti di proprietà; rafforzare il controllo da parte del Ministero per la Protezione Ambientale, l’ obbligo di esigere che gli enti economici esteri dovrebbero attirare i "contenuti kazaki" e anche il diritto di utilizzare i riferimenti alla necessità di garantire la sicurezza nazionale, come giustificazione dell’esplicito rifiuto di concedere licenze per la gestione delle risorse del sottosuolo.

Concentriamoci sul termine "contenuto kazako", che implica non solo un ampliamento della quota di capitale del Kazakistan autorizzato ai consorzi, impegnati nella stesura di alcuni progetti, ma l'idea che i partner stranieri del Kazakistan siano tenuti a essere orientati nella destinazione delle ricchezze minerarie del Kazakistan. Ad esempio, i partner stranieri dovrebbero acquistare non meno del 30%-35% dei materiali e delle attrezzature di produzione kazaka, impiegare non meno del 90% della manodopera e dei servizi e del 90% del personale kazako. Dal maggio 2009 i kazaki hanno introdotto questo tipo di obbligazioni contrattuali in 144 contratti.

La società nazionale "KazMunaiGaz" è stata incaricata istituzionalmente di sostenere gli interessi dello stato del Kazakistan nel settore del petrolio e del gas. Nell'autunno dello scorso anno, la società controllava il 18% della produzione di petrolio della Repubblica, l'80% del trasporto del petrolio, la metà della raffinazione del petrolio e solo il 6% del petrolio prodotto per la vendita al dettaglio. E' stato proprio l'anno scorso che molte hanno indicato che il Presidente kazako stava cercando di puntellare la posizione della Società "KazMunaiGaz".

Secondo i dati disponibili, "KazMunaiGaz" controlla 615 milioni di tonnellate di riserve di petrolio, tuttavia la maggior parte di queste sarebbero difficili da recuperare; inoltre, il periodo di picco della produzione di petrolio è passato, in molti giacimenti petroliferi. Data la situazione, "KazMunaiGaz" è naturalmente interessata a promuovere la sua attività nel petrolio e nel gas, un obiettivo che ha cercato di raggiungere attraverso l'uso della burocrazia statale, che l’aiuta a regolare i contratti già firmati.

Le autorità kazake hanno fatto pressione sulle società straniere nel tentativo di costringere queste ultime ad accettare le modifiche ai contratti già firmati. Questo è stato il caso della società canadese "PetroKazakhstan", che è stata costretta a pagare multe per i grandi guasti ecologici e a sospendere temporaneamente il processo di produzione, fino a che i top manager della società hanno deciso di vendere al Kazakistan una certa quota dei progetti avviati. L'operazione appare perfetta, con i canadesi che vendono la loro impresa al nuovo proprietario, la CNPC International Ltd., "cedendo" il 33% della quota della raffineria di petrolio "PetroKazakhstan" alla "KazMunaiGaz" e la partecipazione del 50% nella società affiliata "Kazgermunai". Il governo del Kazakistan ha fatto ricorso a simili tattiche contro la società britannica "BG Group" per cacciarla dal progetto del nord-Caspio, e contro il consorzio "Aqip KCO", che possedeva i rubinetti del grande campo petrolifero di Kashagan.

Anche se, ovviamente, nel caso del consorzio, Astana scelse, a seguito di una prolungata lotta tra accuse di "nazionalismo delle risorse" rigettate sui leader del Kazakistan, di non aggravare la situazione e di incontrare a metà strada il consorzio. "Aqip KCO" conveniva di rafforzare la quota di produzione della "KazMunaiGaz" e l’accordo sulla ripartizione, dall’8,3% al 16,8%, per 1,78 miliardi di dollari. Formalmente il Kazakistan affermava di rallentare la pressione sul disaccordo con il consorzio, ritardando al 2011 la data per la produzione su scala industriale del campo petrolifero Kashagan, mentre contemporaneamente, i costi del progetto aumentavano, passando dai 57 miliardi di dollari ai 136 miliardi di dollari.

Inizialmente i leader del Kazakistan applicavano la stessa tattica nel perseguire uno stesso obiettivo: una delle tre raffinerie di petrolio del Kazakistan, la raffineria Pavlodar, che è situata vicino al confine russo ed è tecnologicamente orientata alla raffinazione del petrolio russo. La struttura è stata privatizzata nel gennaio 1997 e il governo ne ha consegnato la gestione alla CCL Oil Company Ltd. degli Stati Uniti, nei termini di un accordo di partenariato pubblico-privato. Ma il governo kazako ha prematuramente denunciato il contratto, pochi anni dopo, e consegnato il 51% del capitale sociale alla OAO "Mangistaumunaigaz". La società ha poi portato il suo stock di azioni al 58%, con il 42% del capitale sociale della raffineria di petrolio Pavlodar di proprietà dello Stato.

Dopo che la società nazionale "KazMunaiGaz" ha acquistato il 51% degli stock di azioni della "Mangistaumunaigaz" dalla Central Asia Petroleum dell’Indonesia, di conseguenza acquisendo il controllo della struttura. Nel frattempo, il gigante del gas russo GAZPROM, ha reso vano il tentativo di acquistare il 49% delle azioni della "Mangistaumunaigaz". Le autorità kazake hanno preferito la Cina alla Russia. E 'stato segnalato, il 16 aprile 2009, che per la crisi economica mondiale, il Kazakistan ha preso in prestito dalla Cina 10 miliardi di dollari, durante la visita a Pechino di N. Nazarbayev. L’azienda cinese CNPC Company ha acquistato una partecipazione del 50% della "Mangistaumunaigaz", per 1,4 miliardi di dollari. I dettagli della transazione restano sconosciuti, ma Astana sostiene che la raffineria di petrolio di Pavlodar è stata stralciata dall’accordo e diventerà di proprietà della "KazMunaiGaz". Ma gli esperti stimano la "Mangistaumunaigaz" a 3,6 miliardi di dollari. La società possiede 36 campi, con la perforazione, in corso in 15 di questi. Gli esperti sostengono che "Mangistaumunaigaz" ha riserve di petrolio per 1,32 miliardi di barili. È lecito ritenere che sia il suddetto prestito cinese al Kazakistan, che la decisione di Astana a favore della Cina, piuttosto che della GAZPROM, siano relativi alla vendita della "Mangistaumunaigaz".

In altre parole, i leader del Kazakistan hanno cacciato i partner occidentali dal mercato degli idrocarburi e rifiutato di andare incontro alle società russe, mentre perdono terreno con la Cina. Società cinesi già possiedono un terzo del petrolio prodotto in Kazakistan, più di 20 milioni di tonnellate l'anno. L'acquisto delle attività della "Mangistaumunaigaz" del Kazakistan, da parte della CNPC della Cina, farà stringe ulteriormente la morsa della Cina sul mercato del petrolio kazako e indebolirà le posizioni della Russia e dell'Occidente nel complesso in del carburante e dell’energia del Kazakistan. La Cina è venuta in possesso di grandi quantità di risorse che consentano di spostare la strategia del petrolio del Kazakistan in favore di Pechino. Ora, le assicurazioni che le autorità del Kazakistan cercheranno di riconquistare il controllo sull’economia del settore dei combustibili, suonano vuote con tale sfondo.

La seconda situazione che illustra la politica energetica della Cina verso l’Asia centrale, ha a che fare con un paese che formalmente non aderisce alla SCO, ma tuttavia, ciò non significa, in nessun modo, che limiterà la politica della Cina dell’avanzata verso le risorse della regione del Mar Caspio. Il paese asiatico centrale in questione è il Turkmenistan.

Ashgabat ha discusso a lungo la costruzione di 6.400 km di gasdotto dal Turkmenistan alla Cina e al Giappone. La costruzione del progetto avrebbe dovuto essere eseguita in 10 anni ed era piuttosto costosa (11 miliardi di dollari, di cui circa 1,7 miliardi destinati alla sezione marina della condotta). E' stato probabilmente a causa di ciò, e anche perché la Cina ha cambiato politica energetica nel 21° secolo, che la direzione a est del forniture di gas naturale Turkmeno è stata "aggiornata", ossia la possibilità per la posa di una conduttura per il Giappone è stato eliminata, con la Cina che è divenuta il solo terminale della consegna.

La China National Petroleum Corporation, CNPC, ed Exxon Turkmenistan (Amu Darya) Limited, hanno studiato per molti anni il potenziale di idrocarburi dei promettenti campi lungo la riva Turkmena dell'Amu Darya. Gli studi erano volti a scoprire le opportunità economiche di quello che è stato poi l’ipotetico progetto di un gasdotto orientale. Gli studi geofisici sono stato fatto tutti sulla riva destra dell’Amu Darya. Un certo numero di nuovi giacimenti di gas sono stati scoperti nel 2000, in particolare nel settore Garagoi, ai margini del deserto Kyzylkum.

Secondo la Società Exxon, il progetto di posa di un gasdotto a lungo raggio, dal Turkmenistan alla Cina, potrebbe risultare realistico solo se sono utilizzati per la fornitura di 30 miliardi di metri cubi di gas o più all'anno. Ma gli esperti pensavano che l'importo potrebbe comprendere anche il gas da zone della Cina occidentale. Turkmenistan garantirà la fornitura annuale di 33 miliardi di metri cubi di gas (di cui 3 miliardi di metri cubi al fine di garantire il funzionamento delle stazioni dei compressori) in 25 anni.

I cinesi sono stati i fattori centrale della politica estera del Turkmenistan, dal 2006 circa. I due paesi hanno poi firmato 36 accordi intergovernativi. Il Turkmenistan ha registrato 37 progetti d'investimento di imprese cinesi, per l'importo di 382,6 milioni di dollari e 360 milioni di Yuan.

Un più importante sviluppo per il Turkmenistan, nel 2006, è stata la visita in Cina, all'inizio di aprile, del il presidente della Repubblica di S. Niyazov. L'accordo principale, di un pacchetto che è stato firmato a Pechino, era l'accordo intergovernativo generale per l'attuazione del gasdotto progettato Turkmenistan-Cina e la vendita di gas naturale dal Turkmenistan alla Repubblica Popolare di Cina, del volume totale di 30 miliardi di metri cubi l'anno per 30 anni, dal momento in cui il gasdotto è stato commissionato, e che dovrebbe essere completato nel 2009. In base all'accordo, la riva destra del fiume Amu Darya dovrebbe essere utilizzata come una risorsa potenziale per il settore delle forniture in questione, con esperti cinesi impegnati nella prospezione e lo sviluppo in collaborazione con esperti Turkmeni. Tuttavia, l'accordo anche caratterizzato da una disposizione in base alla quale il Turkmenistan garantisce le consegne di gas alla Cina, se necessario, anche da altri giacimenti di gas della repubblica. La durata della convenzione è stata fissato a tre anni. La Repubblica Popolare di China ha stanziato 200 milioni di yuan come prestito a basso tasso per il Turkmenistan, nel quadro di un altro accordo di poco successivo. Due settimane dopo la sua visita a Pechino, S. Niyazov ha ordinato la creazione di un Di rettorato speciale per la cooperazione Turkmena-cinese presso il Ministero del petrolio, del gas e delle risorse minerarie.

Un anno dopo, nell'estate del 2007, i due paesi hanno concluso un altro accordo per rendere una realtà il gasdotto verso la Cina. La CNPC è stata autorizzato a fare sforzi rilevanti in Turkmenistan e ha avuto concessa una licenza da operatore di prospezione del gas e per lo sviluppo di giacimenti di gas a terra, il primo titolo che il Turkmenistan ha concesso ad una società estera. La lunghezza totale del nuovo gasdotto Turkmenistan-Cina sarà poco più di 7.000 chilometri, con oltre 180 chilometri che dovrebbe essere previsti in Turkmenistan, 530 chilometri in Uzbekistan, 1.300 chilometri in Kazakistan, e oltre 4.500 chilometri in Cina. Il costo globale del progetto assomma a circa 20 miliardi di dollari. 17 miliardi di metri cubi di gas turkmeno avrebbero dovuto essere esportati annualmente mediante lo sviluppo di nuovi giacimenti di gas, mentre i restanti 13 miliardi di metri cubi di gas annui verrà esportato attraverso la costruzione di impianti per la purificazione e il trattamento del gas presso il più grande campo di gas condensato, a Bagtyyarlyk. Per inciso, la Società russa Stroytransgaz ha vinto un contratto da 395 milioni di euro per la posa della sezione Turkmena, di 188 chilometri, del gasdotto, da Malai a Bagtyyarlyk. La società costruirà anche un impianto per purificare e disidratazione del gas e una stazione di misurazione del gas. La costruzione del gasdotto è inizata nel 2008.

Durante le Olimpiadi nel 2008 il nuovo presidente del Turkmenistan Gurbanguly Berdymuhamedov detto che il flusso del gasdotto verso la Cina sarebbe aumentato. L'accordo è stato siglato nel quadro di un apposito accordo che è stato firmato nel corso di una visita ufficiale ad Ashgabat del leader della Cina Hu Jintao. L’efficienza del flusso del gasdotto commissionato nel 2009, dovrebbe essere potenziato da 30 miliardi di metri cubi di gas annuali a 40 miliardi di metri cubi di gas. A differenza del Kazakistan, il Turkmenistan continua a insistere sul fatto che tutti i 40 miliardi di metri cubi di gas saranno pompati nel gasdotto, dai campi della riva destra del fiume Amu Darya, dal Turkmenistan. Tuttavia, non è chiaro che cosa Turkmenistan addebiterà alla Cina per il suo gas. Ashgabat, ovviamente, si riserva il diritto di avere l'ultima parola, nella speranza che in futuro sarà in grado di gestire le contraddizioni tra i suoi partner commerciali, che si adoperano per ottenere il gas turkmeno.

Non è neppure chiaro se Ashgabat sarà in grado di fornire tutto il volume del gas che la Cina ha chiesto. I cinesi sostengono inoltre il diritto di sviluppare altri due grandi progetti, nel loro stesso interesse. I progetti in questione sono i seguenti:

1. Un cluster di giacimenti di gas, sulla riva destra del fiume Amu Darya, con la massima capacità di produzione di gas stimata da 25 miliardi di metri cubi a 30 miliardi di metri cubi all'anno. La progettata capacità dovrebbe essere raggiunta tra il 2015 e il 2020 circa. 12 miliardi di metri cubi di gas dovrebbero essere prodotte nei giacimenti di gas nel 2010. I più grandi giacimenti di gas del cluster sono Samandepe e Altyn Asyr. La stima delle riserve della zona contrattuale di Bagtyyarlyk assommano a 1,7 trilioni di metri cubi, ma la cifra non può essere dimostrata. Un totale di 17 campi di gas e di gas condensato sono stati scoperti sulla riva destra del fiume Amu Darya, compresi Samandepe e Farap (in fase di sviluppo); Metejan, Kishtivan, Sandykty (aperte); Akgumalam, Tangiguiy, Iljik, Yanguiy, Yanguiy Orientale, Chashguiy, Girsan, Beshir, Bota, Uzyngyi, Bereketli, Pirgyi (in esplorazione). Il più grande di questi, per il momento, è Samandepe con 80 miliardi di metri cubi di riserve di gas.

2. I geologi Turkmeni sostengono che le riserve dei campi vanno da 3 a 7 trilioni di metri cubi di gas. Una società britannica, ha chiesto di valutare le riserve, il parere condiviso effettivamente si avvicinava alla cifra più elevata per gli strati saturi di gas. In particolare, solo tre anni fa il massimo previsto di gas in uscita è stato stimato da 15 a 20 miliardi di metri cubi l'anno, ma i Turkmeni ora rivendicano che la produzione dei giacimenti di gas raggiungerà i 45 miliardi di metri cubi di gas all'anno, entro il 2020. La progettata capacità dovrà essere raggiunta tra il 2015 e il 2020 circa. 10 miliardi di metri cubi di gas dovrebbero essere prodotti nel 2010.

13 miliardi di metri cubi di gas dovrebbero essere forniti ai cinesi dal gasdotto dei giacimenti di gas di Samandepe e Altyn Asyr, che sono attualmente sviluppati dalla Società Turkmengaz. I Turkmeni ritengono esistenti le riserve. I restanti 17 trilioni di metri cubi di gas dovrebbero essere forniti attraverso lo sviluppo dei giacimenti di gas che non sono ancora stati aperti nella zona contrattuale di Bagtyyarlyk, dove gli esperti della CNPC cinese lavorano sull’accordo dei termini di ripartizione della produzione.

In seguito ad una esplosione del gasdotto Asia centrale-Centro del 9 aprile 2009 Ashgabat ha deciso, nonostante GAZPROM, comprendendo le imprese cinesi nel progetto di realizzazione del giacimento di Sud Yolotan. Si è così attribuito alla Cina un credito di 3 miliardi di dollari, destinato a sviluppare su scala industriale i giacimenti di gas. Ciò si aggiunge in gran parte alla stabilità del progetto per la fornitura di gas turkmeno verso la Cina, complicando il rifornimento di gas alla Russia, a condizioni ragionevoli. Ai primi di giugno 2009, il presidente turkmeno ha detto confidenzialmente, che la repubblica avrebbe avviato dal 2009 il pompaggio di 40 miliardi di metri cubi di gas verso la Cina, attraverso il nuovo gasdotto.

Il gasdotto di collegamento con la Cina è una forte prova che Pechino sta stringendo la presa sul Turkmenistan. Nel 2006 e nel 2007 il commercio Cinese-Turkmeno è cresciuto di 18 volte. 30 joint venture Turkmeno-Cinesi erano operativi in Turkmenistan nel mese di agosto 2008. Società cinesi sono coinvolte in 49 progetti di investimento in Turkmenistan per l'importo di 1.284 miliardi di dollari.

Pur prendendo parte alle attività della SCO, la Cina non dimentica mai sui suoi interessi. Ha costantemente guadagnato l'accesso alle ricchezza energetica nell’Asia centrale, mentre cacciava della zona le aziende americane, europee e russe. Questo è cui si dovrebbe pensare per ora. Tutti i desideri sul futuro della moneta sovranazionale della SCO sono suggestivi come le discussioni dell’era sovietica su come "formare una società di persone comuniste". Bisogna rendersi conto che gli interessi della politica energetica dei paesi dell'Asia centrale, della Russia e della Cina sono ben lungi dall'essere sempre coincidenti. Il Club dell’energia della SCO, oggi non arrivare ad essere un modello di cooperazione che si adatti a tutti gli Stati membri. La Cina cerca di mantenere il suo alto tasso di crescita economica. La Cina oggi penetra energicamente nell’Asia centrale per ottenere l'accesso alle locali riserve di gas e di petrolio. I cinesi costruiscono contemporaneamente diversi gasdotti per il trasporto delle risorse minerarie in questione verso il confine occidentale della Cina.

Finora non c'è stato alcun riavvicinamento tra gli Stati membri della SCO sulla cooperazione energetica, anche se il concetto di politica energetica della SCO è stata oggetto di discussione da diversi anni. Almeno, all'ultimo vertice della SCO, è stata approvata la Dichiarazione Ekaterinburg, che non offre nulla se non "nebbia diplomatica". I segni che guardiamo sono quelli della tendenza della produzione.

*Fondazione Cultura Strategica

Traduzione di Alessandro Lattanzio.
Alessandro Lattanzio, redattore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, è autore di Terrorismo sontetico, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 2007, e di Dominio globale, Fuoco edizioni, Roma 2009. Anima, inoltre, i seguenti siti di informazione ed analisi:
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Unghern Kahn
28-07-09, 11:42
Turchia, Cina e questione uigura
:::: 27 Luglio 2009 :::: 6:00 T.U. :::: Analisi - Cina - Turchia :::: Aldo Braccio
di Aldo Braccio*

Un paio di settimane sono trascorse dalle dure espressioni rilasciate dal capo del governo turco Erdoğan a proposito della crisi dello Xinjiang, ed è ora il caso di riconsiderarle a mente fredda, alla luce delle complessive relazioni cino-turche.

Come è noto, Erdoğan ha addirittura evocato lo spettro del “genocidio”, accusando la Cina di “atrocità” contro gli uiguri – popolazione turcofona presente anche nel territorio nazionale turco con una robusta minoranza – mentre il ministro del commercio e dell’industria, Nilhat Ergün, ha proposto il boicottaggio dei prodotti cinesi. Un’improvvisa e francamente incomprensibile ventata di panturchismo/nazionalismo che ha ricordato le uscite di Süleyman Demirel all’inizio degli anni Novanta, quando l’allora primo ministro promuoveva – però da un punto di vista più che altro culturale - l’unità del mondo turco “dall’Adriatico alla muraglia cinese”.

Le relazioni tra Turchia e Cina sembrano fortunatamente destinate a crescere anziché arrestarsi, in primo luogo alla luce della storica visita del Presidente turco Gül al suo omologo cinese Hu Jintao, avvenuta dal 24 al 29 giugno. In quell’occasione i due Paesi convenivano, oltre che a cooperare “per l’armonia mondiale”, a lottare contro “i crimini transfrontalieri (leggi : il commercio della droga, in particolare dell’eroina), il terrorismo, il separatismo e l’estremismo” : la posizione ufficiale di Ankara, infatti, è quella del riconoscimento dell’integrità della Repubblica Popolare, anche per quanto concerne lo Xinjiang.

Nel corso del suo viaggio Gül, accompagnato da qualcosa come 120 uomini d’affari turchi, ha visitato anche Urumqi, dove non ha mancato di vestire il qlapan, l’abito tradizionale uiguro, e tutto ciò non ha minimamente compromesso il clima disteso e costruttivo instauratosi fra i due leader.

Sono stati predisposti e approfonditi progetti bilaterali nel campo delle telecomunicazioni, dell’elettronica, dell’industria automobilistica e del turismo, allo scopo di sviluppare scambi commerciali che dal fatidico anno 2001 al 2008 sono aumentati di oltre il 1.200 %, secondo le statistiche ufficiali.

Vasto eco in Turchia ha registrato, ad esempio, il contratto di oltre 1.250 miliardi di dollari stipulato nel 2005 con due grandi imprese cinesi per la realizzazione dell’alta velocità ferroviaria tra Istanbul e Ankara, mentre a febbraio di quest’anno il dipartimento turco per il commercio estero ha formulato un’importante proposta : regolare gli scambi commerciali fra Turchia e Cina utilizzando le rispettiva divise nazionali, anziché monete terze come il dollaro.

Un’ora dopo aver proclamato la sua richiesta di boicottaggio, il ministro Ergün ha ritrattato la dichiarazione; e pochi giorni dopo le esternazioni di Erdoğan, l’ambasciatore turco a Pechino, Murat Salim Esenli, ha sottolineato che “le relazioni turco-cinesi non pongono alcun problema : la Turchia attribuisce una grande importanza a tali relazioni nel campo commerciale, in quello culturale e in quello della sicurezza” : l’ambasciatore ha voluto poi ribadire il grande successo della visita del Presidente Gül a Pechino e l’importante potenziale di cooperazione fra le due nazioni. Nel corso della sua visita, fra l’altro, proprio Gül aveva esplicitamente individuato nel popolo uiguro “un legame di amicizia fra la Turchia e la Cina”.

Naturalmente, c’è chi soffia sul fuoco e abilmente sfrutta un episodio di confronto/scontro etnico per sabotare tale amicizia : non soltanto Rabiya Kadir, capo del “Congresso mondiale uiguro in esilio” con sede negli Stati Uniti, ma tutti quanti non si sono lasciati sfuggire l’occasione per rilanciare la strategia geopolitica americana e la sua ambigua campagna dei “diritti civili”.

Unghern Kahn
12-08-09, 18:53
La Cina ci prova nel Mar Nero
:::: 11 Agosto 2009 :::: 5:11 T.U. :::: Analisi :::: M. K. Bhadrakumar
La Cina ci prova nel Mar Nero
di M. K. Bhadrakumar


Come gli astrofili che la scorsa settimana hanno ammirato la più lunga eclissi solare totale del XXI secolo, gli osservatori diplomatici hanno avuto una giornata campale scrutando la penombra dei rapporti di forza tra Stati Uniti, Russia e Cina, che costituiscono uno dei fenomeni cruciali della politica mondiale di questo secolo.

Tutto è cominciato quando il Vice President degli Stati Uniti Joseph Biden ha scelto di far visita all'Ucraina e alla Georgia il 20-23 luglio per biasimare pubblicamente la Russia per la sua “idea ottocentesca di sfere di influenza”. Il viaggio di Biden nel turbolento “estero vicino” della Russia si è svolto a due settimane dalla visita epocale del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama a Mosca per “riavviare” le relazioni con la Russia.

Chiaramente la gita di Biden è stata presentata come un'energica dimostrazione di come l'amministrazione Barack Obama sia decisa a conservare l'impegno strategico degli Stati Uniti in Eurasia – un tirarsi su le maniche e prepararsi all'azione dopo lo scambio convenzionale di cortesie tra Obama e la sua controparte al Cremlino, Dmitrij Medvedev. Insomma, il chiaro messaggio di Biden era che l'amministrazione Obama intende sfidare energicamente la pretesa della Russia a essere la potenza dominante nello spazio post-sovietico.

Biden ha escluso qualsiasi “scambio di favori” con il Cremlino e qualsiasi forma di “riconoscimento” delle sfere di influenza della Russia. Ha impegnato l'amministrazione Obama a sostenere lo status dell'Ucraina come “parte integrante dell'Europa” e l'integrazione euro-atlantica del paese. Inoltre, in un'intervista con il Wall Street Journal, Biden ha parlato del fosco futuro della Russia in termini aspri, drammatici.

Il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha risposto prontamente in un'intervista al canale informativo russo Vesti, con sede a Mosca. Ha detto: “Spero che l'amministrazione del Presidente Obama darà seguito agli accordi raggiunti a Mosca. Crediamo che i tentativi di alcune persone interne all'amministrazione del Presidente Obama di riportarci tutti al passato, come ha fatto il Vice Presidente Joe Biden, noto uomo politico, non siano normativi”.

Ritorno al reaganismo
Ha aggiunto Lavrov: “L'intervista di Biden al Wall Street Journal sembrava copiata dai discorsi dei rappresentanti dell'amministrazione George W. Bush”. Comunque è difficile liquidare Biden come voce falsa. Era stato Biden a parlare della necessità di “riavviare” le relazioni degli Stati Uniti con la Russia, risvegliando speranze a Mosca. E la visita a Mosca di Obama, agli inizi di luglio, era stata ampiamente interpretata come l'inizio formale del processo di “riavvio”.

Ora emerge che quel “riavvio” potrebbe riportare la politica statunitense nei confronti della Russia agli anni Ottanta e alla tesi trionfalista del presidente Ronald Reagan secondo la quale la Russia non era in grado di tener testa agli Stati Uniti, dati i suoi problemi demografici e la sua struttura economica gravemente difettosa, e che dunque maggiore fosse stata la pressione sull'economia russa e più conciliatoria Mosca sarebbe stata nei confronti degli Stati Uniti.

Come ha sintetizzato Stratfor, think-tank statunitense legato agli ambienti della sicurezza, il grande gioco sarà “spremere i russi e lasciare che la natura faccia il suo corso”.

Ci sono già segnali di questo approccio occidentale coordinato nei confronti della Russia nel progetto del “Partenariato Europeo” dell'Unione Europea che è stato svelato a Praga nel mese di maggio, che geograficamente comprende l'Armenia, l'Azerbaigian, la Georgia, la Moldova, la Bielorussia e l'Ucraina e che mira ad attirare verso Bruxelles questi stati post-sovietici di “importanza strategica” attraverso una matrice di aiuti economici, liberismo commerciale e regimi dei visti che non equivale a un ingresso nell'UE ma incoraggia efficacemente questi paesi ad allentare i legami con la Russia. Di fatto la spinta dell'Unione Europea ha già cominciato a erodere gli stretti legami della Russia con la Bielorussia e l'Armenia.

Mosca deve far fronte a una sfida immediata rappresentata dai risultati delle elezioni parlamentari in Moldova, dove l'ultimo partito comunista ancora al governo in Europa è stato spazzato via dai partiti di opposizione filo-europei. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno continuato a perseguire la tattica della pressione messa in atto con l'abortita “rivoluzione di Twitter” d'aprile in Moldova per forzare un cambiamento di regime che ponesse fine alla leadership del Presidente Vladimir Voronin, filorusso. L'Unione Europea ha fatto generose promesse di integrazione economica alla Moldova e a giugno Mosca ha fatto una controproposta offrendo un prestito di 500 milioni di dollari.

Ma, colpo di scena, la Cina questo mese si è gettata nella mischia firmando un accordo per il prestito di 1 miliardo di dollari alla Moldova al favorevolissimo tasso di interesse del 3% in 13 anni, condonando i primi cinque anni di interessi. Il denaro arriverà attraverso Covec, il colosso delle costruzioni cinese, sotto forma di progetti nei settori della modernizzazione energetica, dei sistemi idrici, degli impianti di trattamento, dell'agricoltura e delle industrie high-tech.

Curiosamente, la Cina si è detta pronta a “garantire finanziamenti per tutti i progetti considerati necessari e giustificati dai moldavi” in aggiunta a quel miliardo di dollari. In effetti Pechino ha segnalato la propria disponibilità a finanziare tutta l'economia moldava, che ha un prodotto interno lordo stimato in 8 miliardi di dollari e un misero bilancio di 1,5 miliardi. La mossa cinese equivale indubbiamente a un posizionamento geopolitico. Un interessante e ironico editoriale apparso di recente sul People's Daily osservava che “sotto l'amministrazione [Barack] Obama il significato e l'uso della 'cyber-diplomazia' è mutato in misura significativa... La dirigenza statunitense ha fomentato i tumulti in Iran attraverso siti internet come Twitter... [Il Segretario di Stato Hillary Clinton] ha detto che questa è l'essenza dello smart power, aggiungendo che questo cambiamento impone agli Stati Uniti di ampliare il loro concetto di diplomazia”.

La Moldova è un paese in cui la Cina è storicamente stata osservatrice più che protagonista. Questo è il primo grande salto di Pechino attraverso l'Asia Centrale verso gli sfilacciati bordi occidentali dell'Eurasia. Perché la Moldova sta diventando così importante? Pechino avrà calcolato l'immensa portata geopolitica dell'integrazione della Moldova nell'Occidente. Sarebbe poi stata solo una questione di tempo e la Moldova sarebbe entrata nell'Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (NATO), il Mar Nero sarebbe diventato un “lago della NATO” e l'alleanza si sarebbe attestata in una posizione inattaccabile per entrare nel Caucaso e marciare sull'Asia Centrale, ai confini con la Cina.
Ciò che potremmo non conoscere mai esattamente è il grado di coordinamento tra Mosca e Pechino. Recentemente entrambe le capitali hanno sottolineato un'intensificazione del coordinamento sino-russo in politica estera. La dichiarazione comune diffusa dopo la visita del Presidente cinese Hu Jintao in Russia, a giugno, esprimeva esplicitamente il supporto di Pechino a Mosca per la situazione nel Caucaso. Chiaramente, un alto grado di coordinamento si sta rendendo visibile in tutto lo spazio post-sovietico.

Estremisti islamici sulla Via della Seta
È dunque verosimile che Mosca abbia sensibilizzato Pechino sulla propria intenzione di stabilire una seconda base militare a Osh, Kirghizistan, che si trova nelle prossimità dello Xinjiang cinese ed è sulla rotta di transito per gli estremisti islamici dell'Asia Centrale con base in Afghanistan e Pakistan.
Precisi segnali indicano una rinnovata attività degli estremisti islamici in Asia Centrale e nel Caucaso Settentrionale. La Cina ne sta osservando attentamente gli effetti nello Xinjiang. Benché gli analisti occidentali facciano di tutto per caratterizzare la nuova spinta dell'estremismo islamico nell'Asia Centrale come un risultato delle operazioni militari pakistane lungo le zone di frontiera tra il Pakistan e l'Afghanistan, che offrivano rifugio a gruppi militanti, questo resta ancora da vedere. Gli esperti cinesi hanno osservato che con l'alleviarsi delle tensioni tra la Cina e Taiwan, l'ambito di ingerenza degli Stati Uniti negli affari cinesi si è notevolmente ridotto e questo, a sua volta, ha spostato l'attenzione degli Stati Uniti sulle regioni occidentali della Cina, lo Xinjiang e il Tibet.

C'è molta ambiguità strategica su ciò che sta facendo precipitare l'ondata di estremismo islamico nell'ampia zona di terra che costituisce il “ventre molle” della Russia e della Cina. Entro 48 ore dallo scoppio delle violenze nello Xinjiang, in luglio, il Ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi ha telefonato alla sua controparte russa e Mosca ha diffuso una dichiarazione di forte supporto a Pechino.

Il 10 luglio è seguita una dichiarazione simile espressa dal segretario generale dell'Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (Shanghai Cooperation Organization, SCO), che approvava i provvedimenti presi da Pechino “in piena legalità” per riportare “la calma e ristabilire la normalità” nello Xinjiang dopo gli scontri tra gli uighuri e gli han. La dichiarazione della SCO riaffermava il proposito di “approfondire ulteriormente la cooperazione pratica nella lotta contro il terrorismo, il separatismo, l'estremismo e il crimine organizzato internazionale per il bene della [salvaguardia della] sicurezza e stabilità regionale”.

Inolte la Cina ha sottolineato che la sicurezza regionale dell'Asia Centrale e dell'Asia Meridionale è strettamente intrecciata. Commentando la dichiarazione della SCO, il People's Daily ha scritto che “dimostra che gli Stati membri della SCO hanno ben compreso che la situazione nello Xinjiang influisce pesantemente su quella di tutta la regione circostante... Alcuni paesi centro-asiatici come il Pakistan e l'Afghanistan sono anch'essi caduti in balia di queste forze malvagie... Le forze malvagie hanno superato il confine per disseminare la violenza e il terrorismo organizzando campi di addestramento. Si sono scoperti legami tra queste forze e la recente rivolta di Urumqi, capitale dello Xinjiang. La lotta contro queste forze del male porterà grande beneficio a tutti i paesi dell'Asia Centrale e Meridionale, giacché è stati provato che le 'tre forze del male' sono dannose non solo per lo Xinjiang ma anche per tutta la regione”.

Significativamente, in un altro editoriale il People's Daily ha lanciato un attacco rovente contro la strategia statunitense di alimentare i conflitti nello Xinjiang. “Per il popolo cinese non è una novità che gli Stati Uniti tacitamente o apertamente soffino sul fuoco del risentimento nei confronti della Cina... gli Stati Uniti abbracciano indiscriminatamente tutte quelle forze ostili alla Cina... Forse è pratica abituale degli Stati Uniti adottare due pesi e due misure confrontando i propri interessi con quelli altrui. O forse per far sì che la loro supremazia non venga minacciata o alterata dividono gli altri per indebolirli... Dalla fine degli anni Ottanta gli Stati Uniti non hanno mai moderato il loro proposito di attizzare le cosiddette 'questioni cinesi'... questa volta, nel tentativo di alimentare i conflitti tra han and uighuri offrendo rifugio e supporto alla forze separatiste, gli Stati Uniti si stanno preparando nuovamente a trarre vantaggio dalla mischia”.

Non può sorprendere, dunque, che la Cina abbia sostenuto l'iniziativa russa di convocare giovedì una quadrilaterale sulla sicurezza regionale a Dušanbe, Tagikistan, alla quale hanno preso parte i presidenti della Russia, del Pakistan, dell'Afghanistan e del Tagikistan. La mossa russa pone una sfida geopolitica agli Stati Uniti, che hanno monopolizzato la risoluzione del conflitto in Afghanistan, tenuto la Russia fuori dall'Hindu Kush, tentato di frammentare la convergenza sino-russa promossa dalla SCO sulla sicurezza regionale in Asia Centrale, intensificato gli sforzi politici e diplomatici per erodere i legami della Russia con gli Stati centro-asiatici ed esteso la loro presenza e influenza nel Pakistan, attirando stabilmente quel paese nella compagine del programma di partenariato della NATO.

Il ritmo della quadrilaterale sulla sicurezza regionale di Dušanbe è stato dato dal Presente tagiko Imomali Rakhmon quando mercoledì durante un incontro ha detto alla sua controparte pakistana Asif Ali Zardari che si aspettava di lavorare in stretta collaborazione con il Pakistan per impedire il sorgere dell'instabilità in Asia Centrale. “Abbiamo posizioni simili e vicine su queste problematiche e i nostri paesi avrebbero dovuto prendere provvedimenti coordinati contro questo fenomeno avverso”, ha detto Rakhmon.

Presumibilmente la Cina userà la sua influenza sul Pakistan per spingerlo dolcemente sulla strada della cooperazione regionale invece di ubbidire passivamente alle politiche regionali degli Stati Uniti. Le osservazioni iniziali di Zardari a Dušanbe, però, si sono tenute sul vago. Ha risposto a Rakhmon in modo blando: “Terremo testa insieme alle sfide di questo secolo”.

Nell'ordine del giorno del summit di Dušanbe Mosca aveva inserito una proposta di cooperazione regionale che comporta la vendita di elettricità della centrale idroelettrica tagika Sangtudinskaya (la Russia vi ha investito 500 milioni di dollari e detiene il 75% delle azioni) all'Afghanistan e al Pakistan. Ironicamente l'idea in origine era una trovata americana che doveva servire a rafforzare la strategia per una “Grande Asia Centrale” che aspirava a sottrarre la regione all'orbita di influenza della Russia e della Cina.

La Russia traccia una Maginot
Allo stesso tempo è chiaro che pur non essendo membro dell'Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Collective Security Treaty Organization, CSTO), la Cina trarrà soddisfazione del fatto che Mosca stia rafforzando la presenza dell'alleanza in Asia Centrale come contrappeso alla NATO. Dopo i disordini nello Xinjiang, Pechino è interessata in prima persona all'idea della Russia di creare un centro anti-terrorismo nel Kirghizistan e di promuovere la forza di reazione rapida della CSTO in Asia Centrale.

Non c'è dubbio che l'esito del summit della CSTO, che si svolgerà nella città di villeggiatura di Cholpon-Ata in Kirgizstan nel fine settimana, sarà osservato attentamente da Pechino. Alla vigilia del summit, un collaboratore del presidente russo ha rivelato mercoledì a Mosca che era stato raggiunto un accordo di principio sull'apertura di una base russa a Osh sotto l'egida della CSTO. Una fonte del Cremlino ha inoltre dichiarato al giornale russo Gazeta che il summit avrebbe discusso la situazione in Afghanistan.

In questo contesto le esercitazioni militari congiunte russo-cinesi, chiamate “Missione di Pace 2009” e svoltesi il 22-26 luglio, non possono essere considerate semplicemente come una ripetizione delle manovre del 2005 e del 2007. Certo, tutte e tre le esercitazioni si sono tenute nell'ambito della SCO, ma quella di quest'anno è stata in realtà un'impresa bilaterale russo-cinese con altri Stati membri nel ruolo di “osservatori”.

Il Generale Qian Lihua del Ministero della Difesa cinese ha affermato che le esercitazioni rivestivano un “profondo significato” in un momento in cui le forze del terrorismo, del separatismo e dell'estremismo sono in “rampanti”. A detto che oltre a rafforzare la sicurezza e la stabilità regionale, le esercitazioni simboleggiavano anche “la fiducia reciproca e strategica ad alto livello” tra la Cina e la Russia e diventavano “una potente mossa” per rafforzare la “cooperazione pragmatica” tra i due paesi nel settore della difesa.

Valutando la cooperazione a livello militare tra la Cina e la Russia, Qian ha detto:

"Innanzitutto gli scambi ad alto livello sono divenuti frequenti. Per i due paesi è diventata una consuetudine organizzare uno scambio tra ministri della difesa o capi di stato maggiore almeno una volta l'anno. Frequenti scambi tra dipartimenti della difesa e visite militari di alto livello hanno efficacemente guidato lo sviluppo delle relazioni militari bilaterali tra la Cina e la Russia.

In secondo luogo, la consultazione strategica è diventata un meccanismo di routine. Dal 1997 gli organismi militari di Cina e Russia hanno creato un meccanismo per organizzare consultazioni annuali tra le dirigenze dei due paesi a livello di vice capi di stato maggiore. Finora si sono svolte 12 sessioni di consultazioni strategiche, e questo ha promosso la fiducia reciproca e la cooperazione amichevole.

In terzo luogo, gli scambi tra gruppi e squadre professionali sono diventati pragmatici. Gli organi militari di Cina e Russia hanno condotto scambi pragmatici e collaborazione in molti settori delle forze armate, come le comunicazioni, l'ingegneria e i rilevamenti."

Qian ha anticipato che con la Missione di Pace 2009 la “strategica fiducia reciproca e la cooperazione pragmatica tra i due eserciti entrerà in una nuova fase”.

La preoccupazione della Cina è palpabile di fronte al sorgere delle attività degli estremisti islamici in Asia Centrale. “I terroristi stanno tranquillamente cercando riparo in Tagikistan, Uzbekistan e Kirghizistan... Hanno vissuto per molto tempo in Afghanistan”, per citare le recenti parole del Ministro degli Interni tagiko Abdurakhim Kakhkharov. La Valle Rasht nelle montagne del Pamir dove i terroristi si stanno raccogliendo si trova a breve distanza dal confine afghano (e cinese).

Ci sono notizie secondo cui il famoso comandante tagiko Mullo Abdullo sarebbe tornato dall'Afghanistan e il Pakistan con i suoi seguaci dopo quasi dieci anni e starebbe reclutando militanti nella Valle Rasht. Secondo diversi resoconti si starebbero collegando elementi militanti provenienti dal Caucaso Settentrionale russo, dall'Uzbekistan, dal Tagikistan, dal Kirghizistan e dallo Xinjiang.

Per citare il Presidente del Kirghizistan Kurmanbek Bakiyev, “La situazione dell'Afghanistan sta avendo un impatto non solo sul Kirghizistan ma su tutta l'Asia Centrale. Qui è venuta della gente per mettere in atto attentati terroristici”. Bakiyev ha aggiunto con toni di fosco presagio: “Ci sono ancora forze là fuori delle quali non sappiamo nulla, che sono qui e che sono pronte ad abbandonarsi ad attività illegali. Hanno uno unico scopo: destabilizzare l'Asia Centrale”. Tuttavia la NATO si è detta impotente nel fermare il movimento dei taliban verso il confine tagiko.

Dunque la domanda da un milione di dollari è se gli attuali disordini siano solo un riflesso distante o equivalgano a una replica degli sforzi statunitensi per finanziare ed equipaggiare i combattenti mujaheddin e per promuovere l'Islam militante come strumento geopolitico nell'Asia Centrale sovietica negli anni Ottanta. Ecco perché le osservazioni di Biden che riecheggiano il reaganismo verranno prese molto seriamente a Mosca e a Pechino: che l'economia russa è un disastro, che la geografia russa pullula di debolezze raggelanti, e che gli Stati Uniti non dovrebbero sottovalutare le carte che hanno in mano. L'audace mossa della Cina in Moldova indica che potrebbe avere cominciato a vedere lo spazio post-sovietico come il proprio “estero vicino”.

Fine di Chimerica
Il fatto è che c'è un cospicuo risvolto economico in queste mosse. L'inviato degli Stati Uniti per l'energia in Eurasia Richard Morningstar ha ammesso senza mezzi termini durante un'audizione alla Commissione del Senato per le Relazioni con l'Estero, due settimane fa, che il successo della Cina nel garantirsi l'accesso alle riserve energetiche del Caspio e dell'Asia Centrale minacciava gli interessi geopolitici degli Stati Uniti.

Aspetto interessante, la nuova ondata di disordini in Asia Centrale (compreso lo Xinjiang) – che i servizi russi avevano previsto fin dalla fine del 2008 – è scoppiata sulla rotta del gasdotto lungo 7000 chilometri dal Turkmenistan via Uzbekistan, Kirghizstan e Kazakhstan verso lo Xinjiang che dovrebbe essere commissionato entro la fine dell'anno. Di certo il gasdotto segna un punto di svolta storico nella geopolitica dell'intera regione.

Il professor Niall Ferguson, noto esperto di storia economica e finanziaria, ha paragonato “Chimerica” – la tesi secondo la quale la Cina e l'America si sarebbero efficacemente fuse per diventare una sola economia – a un “matrimonio in crisi”.

Ferguson prevede, nel contesto del “dialogo strategico” del Gruppo dei Due tra Stati Uniti e Cina che si è svolto a Washington questa settimana, che si potrebbe giungere a un punto di svolta quando invece di continuare con il “matrimonio infelice” la Cina dovesse decidere di “procedere da sola... di comprarsi il potere globale che le spetta”.

I fattori che influenzano questa mossa sono il rialzo dei tassi di risparmio negli Stati Uniti e la riduzione delle importazioni statunitensi dalla Cina; il fatto che i cinesi ormai diffidino dei bond USA, con lo spettro del crollo del prezzo dei Treasury bond o del potere d'acquisto del dollaro (o di entrambi): in un caso o nell'altro la Cina rischierebbe di perderci.

Secondo Ferguson la Cina potrebbe già aver cominciato ad agire. La sua campagna per comprare asset stranieri (come in Moldova), i suoi primi titubanti passi verso una società dei consumi, la crescente adesione all'idea di un paniere di valute che rimpiazzi il dollaro, tutto ciò indica un imminente “divorzio di Chimerica”. Ma cosa comporta per la politica mondiale? Dice Ferguson:

Immaginate una nuova Guerra Fredda nella quale però le due superpotenze siano economicamente alla pari, cosa che non è mai successa durante l'altra Guerra Fredda perché l'Unione Sovietica è sempre stata molto più povera degli Stati Uniti.

Oppure, se preferite andare più indietro nel passato, immaginate una replica dell'antagonismo anglo-tedesco del primo Novecento, con l'America nel ruolo della Gran Bretagna e la Cina nel ruolo della Germania imperiale. Quest'analogia è ancora migliore perché coglie il fatto che un alto livello di integrazione economica non impedisce necessariamente l'intensificazione della rivalità strategica e infine il conflitto.

Siamo molto lontani da uno scontro vero e proprio, naturalmente. Queste cose vanno lentamente. Ma le zolle tettoniche geopolitiche si stanno muovendo, e rapidamente. La fine di Chimerica sta facendo sì che l'India e gli Stati Uniti tendano ad allinearsi. Sta dando a Mosca l'opportunità di creare legami più stretti con Pechino.

Di certo una fondamentale differenza con l'eclissi solare di luglio sta nel fatto che mentre quest'ultima non verrà superata prima del mese di giugno del 2132, certezze di questo tipo non esistono nel mutevole mondo delle relazioni tra grandi potenze, soprattutto quella a tre tra Stati Uniti, Russia e Cina. Ma una cosa è certa. Come nel caso dell'eclissi solare osservata da tutti gli angoli possibili della Terra, lo spostamento delle zolle tettoniche geopolitiche e il conseguente riallineamento delle forze attorno all'Eurasia verranno osservati con estremo interesse da paesi dissimili come l'India e il Brasile, l'Iran e la Corea del Nord, Venezuela e Cuba, la Siria e il Sudan.


Articolo originale pubblicato il 31/7/2009.
Traduzione di Manuela Vittorelli


Eurasia :: Rivista di studi Geopolitici (http://www.eurasia-rivista.org)

Unghern Kahn
12-08-09, 19:10
China's GDP grows 7.9% in Q2

BEIJING, July 16 (Xinhua) -- The Chinese economy expanded 7.9 percent year on year in the second quarter, as massive pump-priming and record lending pushed for a rebound from the worst growth in a decade, official data showed Thursday.

The figure is within the market expectation between 7.5 percent to eight percent.

The gross domestic product (GDP) grew 7.1 percent from the same period a year ago to 13.99 trillion yuan (2.06 trillion U.S. dollars) in the first half, said Li Xiaochao, spokesman with the National Bureau of Statistics (NBS) at a press conference.

Analysts said it adds confidence that China will achieve the full-year growth target of eight percent.

The world's third largest economy tumbled to 6.1 percent in the first quarter as exports shrank to a decade low.

Li said the government's stimulus package has had positive results.

He also said that many challenges lay ahead as the revival is not on solid footing, the recovery momentum is not stable, and the economic structure is still unbalanced.

According to the NBS data, investment contributed 6.2 percent of the GDP growth, and consumption did 3.8 percent. Exports, which slid for eight straight months, dragged down growth by 2.9 percent.

Zhuang Jian, senior economist with the Asian Development Bank told Xinhua Thursday that government-led investment and ample credit are the main reason behind the growth.

He expected the GDP will expand around 9 percent in the second half, bringing the full-year target of eight percent within reach.

Chinese shares jumped 0.71 percent to close at 3,211.30 at the morning session after the release of the upbeat Q2 data.

China's CPI fell 1.7 percent year on year in June, representing the worst contraction since October 2002. The inflation index at wholesale level dropped 7.8 percent, the lowest in a decade.

However, bank lending hit a record 7.37 trillion yuan in the first half, as the government looked to a moderately ease monetary policy to support economic recovery.

Li said the consumer prices are falling and the domestic demand remained inadequate, and the economy is still plagued by overcapacity.

He said international price changes have big impact on domestic prices, and the government will closely watch for price fluctuations to prevent inflation risks.

Since last November, the Chinese government has adopted a series of stimulus measures including a 4-trillion yuan investment package, tax cuts, and consumer subsidies to maintain growth and employment.

The government has set a full-year GDP growth target of 8 percent, a level which is rare in the developed economies, but is the minimum to maintain full employment in a nation of 1.3 billion people.

Li said the stimulus package was the reason the intensity of the economic rise is building up.

Benefiting from the massive government spending in the construction of railways, roads and infrastructure, the fixed asset investment rose 33.5 percent in the first six months, the most in five years.

The industrial output rose 10.7 percent last month, and the figure for the first half was 7.0 percent. The price-adjusted retail sales climbed 16.6 percent during January-June period.

Earlier this month, the International Monetary Fund raised its forecast of China's 2009 growth by 1 percentage point to 7.5 percent. The World Bank also adjusted its figure from 6.5 percent to 7.2 percent.

Fan Jianping, an economist with the State Information Center (SIC), a government think-tank, said as the revival is still fragile, any drastic changes to the macroeconomic policy will hurt the recovery signs.

Li said the government will stick to the pro-active fiscal policy and moderately ease monetary policy to strengthen the recovery momentum.

He also stressed to push forward the industrial restructuring and nurture new economic growth point, to improve the quality of the recovery.


Welcome to SCO Website.... (http://www.sectsco.org/EN/show.asp?id=110)

Unghern Kahn
16-08-09, 18:22
La Cina ci prova nel Mar Nero
:::: 11 Agosto 2009 :::: 5:11 T.U. :::: Analisi :::: M. K. Bhadrakumar
La Cina ci prova nel Mar Nero
di M. K. Bhadrakumar


Come gli astrofili che la scorsa settimana hanno ammirato la più lunga eclissi solare totale del XXI secolo, gli osservatori diplomatici hanno avuto una giornata campale scrutando la penombra dei rapporti di forza tra Stati Uniti, Russia e Cina, che costituiscono uno dei fenomeni cruciali della politica mondiale di questo secolo.

Tutto è cominciato quando il Vice President degli Stati Uniti Joseph Biden ha scelto di far visita all'Ucraina e alla Georgia il 20-23 luglio per biasimare pubblicamente la Russia per la sua “idea ottocentesca di sfere di influenza”. Il viaggio di Biden nel turbolento “estero vicino” della Russia si è svolto a due settimane dalla visita epocale del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama a Mosca per “riavviare” le relazioni con la Russia.

Chiaramente la gita di Biden è stata presentata come un'energica dimostrazione di come l'amministrazione Barack Obama sia decisa a conservare l'impegno strategico degli Stati Uniti in Eurasia – un tirarsi su le maniche e prepararsi all'azione dopo lo scambio convenzionale di cortesie tra Obama e la sua controparte al Cremlino, Dmitrij Medvedev. Insomma, il chiaro messaggio di Biden era che l'amministrazione Obama intende sfidare energicamente la pretesa della Russia a essere la potenza dominante nello spazio post-sovietico.

Biden ha escluso qualsiasi “scambio di favori” con il Cremlino e qualsiasi forma di “riconoscimento” delle sfere di influenza della Russia. Ha impegnato l'amministrazione Obama a sostenere lo status dell'Ucraina come “parte integrante dell'Europa” e l'integrazione euro-atlantica del paese. Inoltre, in un'intervista con il Wall Street Journal, Biden ha parlato del fosco futuro della Russia in termini aspri, drammatici.

Il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha risposto prontamente in un'intervista al canale informativo russo Vesti, con sede a Mosca. Ha detto: “Spero che l'amministrazione del Presidente Obama darà seguito agli accordi raggiunti a Mosca. Crediamo che i tentativi di alcune persone interne all'amministrazione del Presidente Obama di riportarci tutti al passato, come ha fatto il Vice Presidente Joe Biden, noto uomo politico, non siano normativi”.

Ritorno al reaganismo
Ha aggiunto Lavrov: “L'intervista di Biden al Wall Street Journal sembrava copiata dai discorsi dei rappresentanti dell'amministrazione George W. Bush”. Comunque è difficile liquidare Biden come voce falsa. Era stato Biden a parlare della necessità di “riavviare” le relazioni degli Stati Uniti con la Russia, risvegliando speranze a Mosca. E la visita a Mosca di Obama, agli inizi di luglio, era stata ampiamente interpretata come l'inizio formale del processo di “riavvio”.

Ora emerge che quel “riavvio” potrebbe riportare la politica statunitense nei confronti della Russia agli anni Ottanta e alla tesi trionfalista del presidente Ronald Reagan secondo la quale la Russia non era in grado di tener testa agli Stati Uniti, dati i suoi problemi demografici e la sua struttura economica gravemente difettosa, e che dunque maggiore fosse stata la pressione sull'economia russa e più conciliatoria Mosca sarebbe stata nei confronti degli Stati Uniti.

Come ha sintetizzato Stratfor, think-tank statunitense legato agli ambienti della sicurezza, il grande gioco sarà “spremere i russi e lasciare che la natura faccia il suo corso”.

Ci sono già segnali di questo approccio occidentale coordinato nei confronti della Russia nel progetto del “Partenariato Europeo” dell'Unione Europea che è stato svelato a Praga nel mese di maggio, che geograficamente comprende l'Armenia, l'Azerbaigian, la Georgia, la Moldova, la Bielorussia e l'Ucraina e che mira ad attirare verso Bruxelles questi stati post-sovietici di “importanza strategica” attraverso una matrice di aiuti economici, liberismo commerciale e regimi dei visti che non equivale a un ingresso nell'UE ma incoraggia efficacemente questi paesi ad allentare i legami con la Russia. Di fatto la spinta dell'Unione Europea ha già cominciato a erodere gli stretti legami della Russia con la Bielorussia e l'Armenia.

Mosca deve far fronte a una sfida immediata rappresentata dai risultati delle elezioni parlamentari in Moldova, dove l'ultimo partito comunista ancora al governo in Europa è stato spazzato via dai partiti di opposizione filo-europei. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno continuato a perseguire la tattica della pressione messa in atto con l'abortita “rivoluzione di Twitter” d'aprile in Moldova per forzare un cambiamento di regime che ponesse fine alla leadership del Presidente Vladimir Voronin, filorusso. L'Unione Europea ha fatto generose promesse di integrazione economica alla Moldova e a giugno Mosca ha fatto una controproposta offrendo un prestito di 500 milioni di dollari.

Ma, colpo di scena, la Cina questo mese si è gettata nella mischia firmando un accordo per il prestito di 1 miliardo di dollari alla Moldova al favorevolissimo tasso di interesse del 3% in 13 anni, condonando i primi cinque anni di interessi. Il denaro arriverà attraverso Covec, il colosso delle costruzioni cinese, sotto forma di progetti nei settori della modernizzazione energetica, dei sistemi idrici, degli impianti di trattamento, dell'agricoltura e delle industrie high-tech.

Curiosamente, la Cina si è detta pronta a “garantire finanziamenti per tutti i progetti considerati necessari e giustificati dai moldavi” in aggiunta a quel miliardo di dollari. In effetti Pechino ha segnalato la propria disponibilità a finanziare tutta l'economia moldava, che ha un prodotto interno lordo stimato in 8 miliardi di dollari e un misero bilancio di 1,5 miliardi. La mossa cinese equivale indubbiamente a un posizionamento geopolitico. Un interessante e ironico editoriale apparso di recente sul People's Daily osservava che “sotto l'amministrazione [Barack] Obama il significato e l'uso della 'cyber-diplomazia' è mutato in misura significativa... La dirigenza statunitense ha fomentato i tumulti in Iran attraverso siti internet come Twitter... [Il Segretario di Stato Hillary Clinton] ha detto che questa è l'essenza dello smart power, aggiungendo che questo cambiamento impone agli Stati Uniti di ampliare il loro concetto di diplomazia”.

La Moldova è un paese in cui la Cina è storicamente stata osservatrice più che protagonista. Questo è il primo grande salto di Pechino attraverso l'Asia Centrale verso gli sfilacciati bordi occidentali dell'Eurasia. Perché la Moldova sta diventando così importante? Pechino avrà calcolato l'immensa portata geopolitica dell'integrazione della Moldova nell'Occidente. Sarebbe poi stata solo una questione di tempo e la Moldova sarebbe entrata nell'Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (NATO), il Mar Nero sarebbe diventato un “lago della NATO” e l'alleanza si sarebbe attestata in una posizione inattaccabile per entrare nel Caucaso e marciare sull'Asia Centrale, ai confini con la Cina.
Ciò che potremmo non conoscere mai esattamente è il grado di coordinamento tra Mosca e Pechino. Recentemente entrambe le capitali hanno sottolineato un'intensificazione del coordinamento sino-russo in politica estera. La dichiarazione comune diffusa dopo la visita del Presidente cinese Hu Jintao in Russia, a giugno, esprimeva esplicitamente il supporto di Pechino a Mosca per la situazione nel Caucaso. Chiaramente, un alto grado di coordinamento si sta rendendo visibile in tutto lo spazio post-sovietico.

Estremisti islamici sulla Via della Seta
È dunque verosimile che Mosca abbia sensibilizzato Pechino sulla propria intenzione di stabilire una seconda base militare a Osh, Kirghizistan, che si trova nelle prossimità dello Xinjiang cinese ed è sulla rotta di transito per gli estremisti islamici dell'Asia Centrale con base in Afghanistan e Pakistan.
Precisi segnali indicano una rinnovata attività degli estremisti islamici in Asia Centrale e nel Caucaso Settentrionale. La Cina ne sta osservando attentamente gli effetti nello Xinjiang. Benché gli analisti occidentali facciano di tutto per caratterizzare la nuova spinta dell'estremismo islamico nell'Asia Centrale come un risultato delle operazioni militari pakistane lungo le zone di frontiera tra il Pakistan e l'Afghanistan, che offrivano rifugio a gruppi militanti, questo resta ancora da vedere. Gli esperti cinesi hanno osservato che con l'alleviarsi delle tensioni tra la Cina e Taiwan, l'ambito di ingerenza degli Stati Uniti negli affari cinesi si è notevolmente ridotto e questo, a sua volta, ha spostato l'attenzione degli Stati Uniti sulle regioni occidentali della Cina, lo Xinjiang e il Tibet.

C'è molta ambiguità strategica su ciò che sta facendo precipitare l'ondata di estremismo islamico nell'ampia zona di terra che costituisce il “ventre molle” della Russia e della Cina. Entro 48 ore dallo scoppio delle violenze nello Xinjiang, in luglio, il Ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi ha telefonato alla sua controparte russa e Mosca ha diffuso una dichiarazione di forte supporto a Pechino.

Il 10 luglio è seguita una dichiarazione simile espressa dal segretario generale dell'Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (Shanghai Cooperation Organization, SCO), che approvava i provvedimenti presi da Pechino “in piena legalità” per riportare “la calma e ristabilire la normalità” nello Xinjiang dopo gli scontri tra gli uighuri e gli han. La dichiarazione della SCO riaffermava il proposito di “approfondire ulteriormente la cooperazione pratica nella lotta contro il terrorismo, il separatismo, l'estremismo e il crimine organizzato internazionale per il bene della [salvaguardia della] sicurezza e stabilità regionale”.

Inolte la Cina ha sottolineato che la sicurezza regionale dell'Asia Centrale e dell'Asia Meridionale è strettamente intrecciata. Commentando la dichiarazione della SCO, il People's Daily ha scritto che “dimostra che gli Stati membri della SCO hanno ben compreso che la situazione nello Xinjiang influisce pesantemente su quella di tutta la regione circostante... Alcuni paesi centro-asiatici come il Pakistan e l'Afghanistan sono anch'essi caduti in balia di queste forze malvagie... Le forze malvagie hanno superato il confine per disseminare la violenza e il terrorismo organizzando campi di addestramento. Si sono scoperti legami tra queste forze e la recente rivolta di Urumqi, capitale dello Xinjiang. La lotta contro queste forze del male porterà grande beneficio a tutti i paesi dell'Asia Centrale e Meridionale, giacché è stati provato che le 'tre forze del male' sono dannose non solo per lo Xinjiang ma anche per tutta la regione”.

Significativamente, in un altro editoriale il People's Daily ha lanciato un attacco rovente contro la strategia statunitense di alimentare i conflitti nello Xinjiang. “Per il popolo cinese non è una novità che gli Stati Uniti tacitamente o apertamente soffino sul fuoco del risentimento nei confronti della Cina... gli Stati Uniti abbracciano indiscriminatamente tutte quelle forze ostili alla Cina... Forse è pratica abituale degli Stati Uniti adottare due pesi e due misure confrontando i propri interessi con quelli altrui. O forse per far sì che la loro supremazia non venga minacciata o alterata dividono gli altri per indebolirli... Dalla fine degli anni Ottanta gli Stati Uniti non hanno mai moderato il loro proposito di attizzare le cosiddette 'questioni cinesi'... questa volta, nel tentativo di alimentare i conflitti tra han and uighuri offrendo rifugio e supporto alla forze separatiste, gli Stati Uniti si stanno preparando nuovamente a trarre vantaggio dalla mischia”.

Non può sorprendere, dunque, che la Cina abbia sostenuto l'iniziativa russa di convocare giovedì una quadrilaterale sulla sicurezza regionale a Dušanbe, Tagikistan, alla quale hanno preso parte i presidenti della Russia, del Pakistan, dell'Afghanistan e del Tagikistan. La mossa russa pone una sfida geopolitica agli Stati Uniti, che hanno monopolizzato la risoluzione del conflitto in Afghanistan, tenuto la Russia fuori dall'Hindu Kush, tentato di frammentare la convergenza sino-russa promossa dalla SCO sulla sicurezza regionale in Asia Centrale, intensificato gli sforzi politici e diplomatici per erodere i legami della Russia con gli Stati centro-asiatici ed esteso la loro presenza e influenza nel Pakistan, attirando stabilmente quel paese nella compagine del programma di partenariato della NATO.

Il ritmo della quadrilaterale sulla sicurezza regionale di Dušanbe è stato dato dal Presente tagiko Imomali Rakhmon quando mercoledì durante un incontro ha detto alla sua controparte pakistana Asif Ali Zardari che si aspettava di lavorare in stretta collaborazione con il Pakistan per impedire il sorgere dell'instabilità in Asia Centrale. “Abbiamo posizioni simili e vicine su queste problematiche e i nostri paesi avrebbero dovuto prendere provvedimenti coordinati contro questo fenomeno avverso”, ha detto Rakhmon.

Presumibilmente la Cina userà la sua influenza sul Pakistan per spingerlo dolcemente sulla strada della cooperazione regionale invece di ubbidire passivamente alle politiche regionali degli Stati Uniti. Le osservazioni iniziali di Zardari a Dušanbe, però, si sono tenute sul vago. Ha risposto a Rakhmon in modo blando: “Terremo testa insieme alle sfide di questo secolo”.

Nell'ordine del giorno del summit di Dušanbe Mosca aveva inserito una proposta di cooperazione regionale che comporta la vendita di elettricità della centrale idroelettrica tagika Sangtudinskaya (la Russia vi ha investito 500 milioni di dollari e detiene il 75% delle azioni) all'Afghanistan e al Pakistan. Ironicamente l'idea in origine era una trovata americana che doveva servire a rafforzare la strategia per una “Grande Asia Centrale” che aspirava a sottrarre la regione all'orbita di influenza della Russia e della Cina.

La Russia traccia una Maginot
Allo stesso tempo è chiaro che pur non essendo membro dell'Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Collective Security Treaty Organization, CSTO), la Cina trarrà soddisfazione del fatto che Mosca stia rafforzando la presenza dell'alleanza in Asia Centrale come contrappeso alla NATO. Dopo i disordini nello Xinjiang, Pechino è interessata in prima persona all'idea della Russia di creare un centro anti-terrorismo nel Kirghizistan e di promuovere la forza di reazione rapida della CSTO in Asia Centrale.

Non c'è dubbio che l'esito del summit della CSTO, che si svolgerà nella città di villeggiatura di Cholpon-Ata in Kirgizstan nel fine settimana, sarà osservato attentamente da Pechino. Alla vigilia del summit, un collaboratore del presidente russo ha rivelato mercoledì a Mosca che era stato raggiunto un accordo di principio sull'apertura di una base russa a Osh sotto l'egida della CSTO. Una fonte del Cremlino ha inoltre dichiarato al giornale russo Gazeta che il summit avrebbe discusso la situazione in Afghanistan.

In questo contesto le esercitazioni militari congiunte russo-cinesi, chiamate “Missione di Pace 2009” e svoltesi il 22-26 luglio, non possono essere considerate semplicemente come una ripetizione delle manovre del 2005 e del 2007. Certo, tutte e tre le esercitazioni si sono tenute nell'ambito della SCO, ma quella di quest'anno è stata in realtà un'impresa bilaterale russo-cinese con altri Stati membri nel ruolo di “osservatori”.

Il Generale Qian Lihua del Ministero della Difesa cinese ha affermato che le esercitazioni rivestivano un “profondo significato” in un momento in cui le forze del terrorismo, del separatismo e dell'estremismo sono in “rampanti”. A detto che oltre a rafforzare la sicurezza e la stabilità regionale, le esercitazioni simboleggiavano anche “la fiducia reciproca e strategica ad alto livello” tra la Cina e la Russia e diventavano “una potente mossa” per rafforzare la “cooperazione pragmatica” tra i due paesi nel settore della difesa.

Valutando la cooperazione a livello militare tra la Cina e la Russia, Qian ha detto:

"Innanzitutto gli scambi ad alto livello sono divenuti frequenti. Per i due paesi è diventata una consuetudine organizzare uno scambio tra ministri della difesa o capi di stato maggiore almeno una volta l'anno. Frequenti scambi tra dipartimenti della difesa e visite militari di alto livello hanno efficacemente guidato lo sviluppo delle relazioni militari bilaterali tra la Cina e la Russia.

In secondo luogo, la consultazione strategica è diventata un meccanismo di routine. Dal 1997 gli organismi militari di Cina e Russia hanno creato un meccanismo per organizzare consultazioni annuali tra le dirigenze dei due paesi a livello di vice capi di stato maggiore. Finora si sono svolte 12 sessioni di consultazioni strategiche, e questo ha promosso la fiducia reciproca e la cooperazione amichevole.

In terzo luogo, gli scambi tra gruppi e squadre professionali sono diventati pragmatici. Gli organi militari di Cina e Russia hanno condotto scambi pragmatici e collaborazione in molti settori delle forze armate, come le comunicazioni, l'ingegneria e i rilevamenti."

Qian ha anticipato che con la Missione di Pace 2009 la “strategica fiducia reciproca e la cooperazione pragmatica tra i due eserciti entrerà in una nuova fase”.

La preoccupazione della Cina è palpabile di fronte al sorgere delle attività degli estremisti islamici in Asia Centrale. “I terroristi stanno tranquillamente cercando riparo in Tagikistan, Uzbekistan e Kirghizistan... Hanno vissuto per molto tempo in Afghanistan”, per citare le recenti parole del Ministro degli Interni tagiko Abdurakhim Kakhkharov. La Valle Rasht nelle montagne del Pamir dove i terroristi si stanno raccogliendo si trova a breve distanza dal confine afghano (e cinese).

Ci sono notizie secondo cui il famoso comandante tagiko Mullo Abdullo sarebbe tornato dall'Afghanistan e il Pakistan con i suoi seguaci dopo quasi dieci anni e starebbe reclutando militanti nella Valle Rasht. Secondo diversi resoconti si starebbero collegando elementi militanti provenienti dal Caucaso Settentrionale russo, dall'Uzbekistan, dal Tagikistan, dal Kirghizistan e dallo Xinjiang.

Per citare il Presidente del Kirghizistan Kurmanbek Bakiyev, “La situazione dell'Afghanistan sta avendo un impatto non solo sul Kirghizistan ma su tutta l'Asia Centrale. Qui è venuta della gente per mettere in atto attentati terroristici”. Bakiyev ha aggiunto con toni di fosco presagio: “Ci sono ancora forze là fuori delle quali non sappiamo nulla, che sono qui e che sono pronte ad abbandonarsi ad attività illegali. Hanno uno unico scopo: destabilizzare l'Asia Centrale”. Tuttavia la NATO si è detta impotente nel fermare il movimento dei taliban verso il confine tagiko.

Dunque la domanda da un milione di dollari è se gli attuali disordini siano solo un riflesso distante o equivalgano a una replica degli sforzi statunitensi per finanziare ed equipaggiare i combattenti mujaheddin e per promuovere l'Islam militante come strumento geopolitico nell'Asia Centrale sovietica negli anni Ottanta. Ecco perché le osservazioni di Biden che riecheggiano il reaganismo verranno prese molto seriamente a Mosca e a Pechino: che l'economia russa è un disastro, che la geografia russa pullula di debolezze raggelanti, e che gli Stati Uniti non dovrebbero sottovalutare le carte che hanno in mano. L'audace mossa della Cina in Moldova indica che potrebbe avere cominciato a vedere lo spazio post-sovietico come il proprio “estero vicino”.

Fine di Chimerica
Il fatto è che c'è un cospicuo risvolto economico in queste mosse. L'inviato degli Stati Uniti per l'energia in Eurasia Richard Morningstar ha ammesso senza mezzi termini durante un'audizione alla Commissione del Senato per le Relazioni con l'Estero, due settimane fa, che il successo della Cina nel garantirsi l'accesso alle riserve energetiche del Caspio e dell'Asia Centrale minacciava gli interessi geopolitici degli Stati Uniti.

Aspetto interessante, la nuova ondata di disordini in Asia Centrale (compreso lo Xinjiang) – che i servizi russi avevano previsto fin dalla fine del 2008 – è scoppiata sulla rotta del gasdotto lungo 7000 chilometri dal Turkmenistan via Uzbekistan, Kirghizstan e Kazakhstan verso lo Xinjiang che dovrebbe essere commissionato entro la fine dell'anno. Di certo il gasdotto segna un punto di svolta storico nella geopolitica dell'intera regione.

Il professor Niall Ferguson, noto esperto di storia economica e finanziaria, ha paragonato “Chimerica” – la tesi secondo la quale la Cina e l'America si sarebbero efficacemente fuse per diventare una sola economia – a un “matrimonio in crisi”.

Ferguson prevede, nel contesto del “dialogo strategico” del Gruppo dei Due tra Stati Uniti e Cina che si è svolto a Washington questa settimana, che si potrebbe giungere a un punto di svolta quando invece di continuare con il “matrimonio infelice” la Cina dovesse decidere di “procedere da sola... di comprarsi il potere globale che le spetta”.

I fattori che influenzano questa mossa sono il rialzo dei tassi di risparmio negli Stati Uniti e la riduzione delle importazioni statunitensi dalla Cina; il fatto che i cinesi ormai diffidino dei bond USA, con lo spettro del crollo del prezzo dei Treasury bond o del potere d'acquisto del dollaro (o di entrambi): in un caso o nell'altro la Cina rischierebbe di perderci.

Secondo Ferguson la Cina potrebbe già aver cominciato ad agire. La sua campagna per comprare asset stranieri (come in Moldova), i suoi primi titubanti passi verso una società dei consumi, la crescente adesione all'idea di un paniere di valute che rimpiazzi il dollaro, tutto ciò indica un imminente “divorzio di Chimerica”. Ma cosa comporta per la politica mondiale? Dice Ferguson:

Immaginate una nuova Guerra Fredda nella quale però le due superpotenze siano economicamente alla pari, cosa che non è mai successa durante l'altra Guerra Fredda perché l'Unione Sovietica è sempre stata molto più povera degli Stati Uniti.

Oppure, se preferite andare più indietro nel passato, immaginate una replica dell'antagonismo anglo-tedesco del primo Novecento, con l'America nel ruolo della Gran Bretagna e la Cina nel ruolo della Germania imperiale. Quest'analogia è ancora migliore perché coglie il fatto che un alto livello di integrazione economica non impedisce necessariamente l'intensificazione della rivalità strategica e infine il conflitto.

Siamo molto lontani da uno scontro vero e proprio, naturalmente. Queste cose vanno lentamente. Ma le zolle tettoniche geopolitiche si stanno muovendo, e rapidamente. La fine di Chimerica sta facendo sì che l'India e gli Stati Uniti tendano ad allinearsi. Sta dando a Mosca l'opportunità di creare legami più stretti con Pechino.

Di certo una fondamentale differenza con l'eclissi solare di luglio sta nel fatto che mentre quest'ultima non verrà superata prima del mese di giugno del 2132, certezze di questo tipo non esistono nel mutevole mondo delle relazioni tra grandi potenze, soprattutto quella a tre tra Stati Uniti, Russia e Cina. Ma una cosa è certa. Come nel caso dell'eclissi solare osservata da tutti gli angoli possibili della Terra, lo spostamento delle zolle tettoniche geopolitiche e il conseguente riallineamento delle forze attorno all'Eurasia verranno osservati con estremo interesse da paesi dissimili come l'India e il Brasile, l'Iran e la Corea del Nord, Venezuela e Cuba, la Siria e il Sudan.


Articolo originale pubblicato il 31/7/2009.
Traduzione di Manuela Vittorelli

Unghern Kahn
22-08-09, 21:42
07/06/2008
Cina: i media internazionali e il caso Tibet

Le reazioni cinesi alle recenti contestazioni durante la marcia della torcia olimpica appaiono piuttosto uniformi nella condanna, ma tradiscono una certa sorpresa. A seguito delle proteste europee in molte città cinesi si sono svolti numerosi cortei per sollecitare un boicottaggio di tutti i prodotti francesi in reazione alle manifestazioni parigine in favore della causa tibetana. A Pechino i dimostranti hanno cercato addirittura di assaltare un supermercato Carrefour ed hanno assediato una scuola francese e l’ambasciata di Francia. Sono reazioni che sembrano paradossali ai nostri occhi e che la stampa estera spesso legge come gesti manovrati dall’intellighenzia di Pechino. L’opinione pubblica di tutto il mondo, dopo i fatti di Lhasa, si è immediatamente schierata a favore dei tibetani e del Dalai Lama. In realtà nessuno si è preoccupato di accertare i fatti, le ragioni e le dinamiche di quei giorni in Tibet.

Domenico Losurdo, storico dell’Università di Urbino, ha lanciato un’iniziativa a favore di una revisione della copertura informativa dei recenti accadimenti tibetani. L’appello denuncia che la stampa internazionale, e quella europea in particolare, «è impegnata in una campagna anti-cinese dai connotati razzisti» e indica l’intera operazione come «una continuazione del piano imperialista contro Pechino e della guerra dell’Oppio». A sostegno di questa tesi lo studioso analizza una serie di foto e filmati, facilmente reperibili su internet, ma anche foto, reportage di giornalisti stranieri e testimonianze di turisti che erano a Lhasa. In pratica Losurdo avalla la versione cinese che racconta di una caccia all’uomo durata giorni, con molti morti, che i tibetani hanno perpetrato nei confronti della popolazione Han. L’unico che ha risposto con interesse alla chiamata è stato il filosofo del pensiero debole, Gianni Vattimo. Al di là delle valutazioni specifiche e dei rilievi oggettivi sulla vicenda si nota una posizione omogenea e netta di tutti gli schieramenti politici. Era forse dai tempi dell’attacco alle Torri Gemelle che non si assisteva ad uno spettacolo simile: un fronte compatto ed univoco di denuncia. Teso, probabilmente, a porre un freno al consenso di cui gode la politica cinese in Asia, Africa e America del Sud. Ci troviamo comunque di fronte ad un’anomalia comunicazionale: poche volte negli ultimi anni l’opinione pubblica si è schierata in maniera decisa e univoca su un tema delicato di politica estera senza analizzare i fatti e le varie versioni degli stessi. La questione tibetana è complessa, ma ci sono dei punti che possono essere utili alla spiegazione dell’interpretazione mediatica dei recenti avvenimenti. Nelle parole di Folco Maraini il Tibet del 1951 era «a tutti gli effetti un paese indipendente retto da un’insolita forma di governo, teocratico e feudale insieme». Il grande orientalista toscano prosegue evocando come «il Tibet d’allora costituiva il più cospicuo fossile vivente di una società che potremo vagamente definire come medievale». L’immagine che noi occidentali abbiamo del Tibet è ancora quella: un paese mitico legato a doppio filo alla religione buddista e dove il sovrannaturale sembra far parte del quotidiano. Una terra magica oppressa dai comunisti cinesi. Eppure le nostre conoscenze sul Tibet derivano perlopiù dalle conferenze di Richard Gere e dal film “Sette anni in Tibet”. Dall’impegno sociale di una star hollywoodiana e da un film tratto dal libro di Harrer, capo della spedizione nazista, fortemente voluta da Himmler, alla ricerca delle prove per dimostrare la discendenza dei tibetani dagli ariani. Una curiosa combinazione che tuttavia da decenni funziona. L’immagine che noi abbiamo della cultura tibetana si avvicina di molto a quella fantastica e utopica della Shangri-La che James Hilton descrive in Lost Horizon. La stampa italiana continua a rappresentare questa immagine anche nella descrizione degli scontri di Lhasa: analizzando i media nazionali non compare mai un riferimento agli atti violenti della popolazione tibetana, che per i nostri giornalisti è non violenta per definizione. Il Dalai Lama, attraverso una strategia comunicativa perfetta, è riuscito a creare un’empatia di tutti gli occidentali per la causa tibetana. Nelle parole di Mantici «se la tigre aggredisce la gazzella il nostro cuore non può che trepidare per la sorte della gazzella». Un scelta di questo tipo non è chiaramente in discussione, il centro del dibattito è su una visione parziale e non obiettiva della stampa nazionale. Il metro applicato alla cultura tibetana potrebbe usato in maniera retroattiva nel giudizio dell’Afghanistan dei talebani ed il diritto all’autodeterminazione dei popoli potrebbe essere invocato con la stessa forza per varie altre regioni, dal Kurdistan alla Cecenia. Eppure tutte le nazioni riconoscono la sovranità nazionale della Cina sul Tibet e le prese di posizione da parte dei governi esteri per la riapertura di un conferenza sembrano più volte a mortificare l’orgoglio cinese che ad una reale concertazione tra le parti. Quando si affronta la questione tibetana sembra che non solo la realpolitik ma qualsiasi analisi geopolitica e storica oggettiva siano messe da parte. Tutti gli aspetti negativi della situazione attuale nella regione tibetana vengono riferiti al governo di Pechino, senza mai ricordare i progressi economici e sociali che la crescita della tigre cinese ha portato nella zona. Anche quando si analizza la genesi della questione tibetana si fa sempre riferimento ad una occupazione militare iniziata nel 1950, mentre bisognerebbe analizzare la storia della regione negli ultimi duecento anni per giungere a conclusioni meno nette. Non è certamente in discussione il genocidio culturale a cui è stata sottoposta la cultura tibetana e le tante sofferenze di questo popolo. Va evidenziata la schizofrenia degli apparati politici che esportano democrazia e valori ove necessario, riconoscono il diritto di una politica imperiale contro ogni istanza di autodeterminazione dei popoli a tutte le nazioni ma in questo caso si richiamano a una supposta necessità di indipendenza per la cultura ed il popolo tibetano. Più di ogni altra cosa stupisce il ruolo fondamentale che i mezzi di informazione giocano nella rappresentazione della realtà. Bisogna poi ricordare come un eventuale boicottaggio così come le proteste in Europa e in America non hanno che un effetto negativo sulla questione politica e delle ripercussioni sull’atteggiamento stesso di Pechino sulla vicenda. Nessuno trae un beneficio da un’informazione distorta e parziale. Non siamo in guerra con la Cina e non abbiamo bisogno di un’informazione di guerra.

Autore: Stefano Pelaggi

Fonte: GEOPOLITICA.info - Approfondimento sugli assetti geopolitici mondiali - sviluppo e globalizzazione (http://www.geopolitica.info)

Unghern Kahn
04-09-09, 09:22
CINA: TORNA LA PROTESTA A URUMQI
PECHINO - Centinaia di cinesi hanno inscenato una manifestazione di protesta ad Urumqi, capitale della Regione Autonoma del Xinjiang, nel nordovest della Cina. I dimostranti chiedono alle autorità protezione contro gli attacchi che avrebbero subiti da uighuri, membri della locale minoranza etnica turcofona e musulmana.

Si tratta delle prime proteste di cui si ha notizia dopo le violenze di luglio tra uighuri e immigrati cinesi di etnia han, nelle quali hanno perso la vita quasi duecento persone. La protesta che secondo alcuni avrebbe coinvolto quasi duemila persone, si è svolta dopo che si è diffusa nella città la notizia che circa 470 persone, in grande maggioranza cinesi han, sono stati feriti a colpi di siringa da sconosciuti aggressori.

Fonti ospedaliere Urumqi, interpellate telefonicamente dall'ANSA, hanno confermato che un alto numero di persone sono ricoverate in almeno due degli ospedali cittadini dopo essere state aggredite a colpi di siringa da sconosciuti. L'agenzia Nuova Cina ha scritto che 15 persone sono state arrestate per gli attacchi a colpi di siringa e che quattro di queste sono state incriminate e verranno processate.

Unghern Kahn
26-10-09, 13:35
Dollaro ancora debole, la Cina pensa a riserve in euro e yen

Finanzaonline.com - 26.10.09/10:21


Sul mercato dei cambi, nuovi minimi questa mattina per il dollaro che scivola a 1,504 contro l´euro. A fare precipitare il biglietto verde le dichiarazioni di un esponente della Banca centrale della Cina che ha evidenziato l´intenzione di Pechino di incrementare la componente in euro e yen nelle sue riserve in valuta estera. Il dollaro rimarrà la principale divisa della montagna di 2.270 miliardi di dollari di riserve valutarie della Cina ma la quota di yen ed euro dovrebbe aumentare sensibilmente.



La moneta unica europea è invece invariata a 1,514 rispetto al franco svizzero, a 0,922 rispetto alla sterlina e a 137,99 rispetto allo yen.







La debolezza del dollaro rimane in ogni caso legata alla possibilità che i tassi americani vengano lasciati al minimo storico ancora per un periodo di tempo prolungato, incoraggiando le vendite e facendo salire l'euro ben sopra quota 1,50 dollari.



Lo scorso venerdì il direttore generale del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss-Kahn in un intervento a Oslo ha dichiarato che la ripresa dell'economia globale potrebbe precedere l'inizio del primo semestre del 2010, mostrandosi più ottimista delle attuali stime dell'organizzazione e precisando che le ultime proiezioni del Fondo stimano una crescita globale del 3% il prossimo anno, dopo la flessione dell'1% nel 2009.







L´agenda economica di oggi non presenta dati particolari in grado di condizionare i mercati finanziari. Nel pomeriggio saranno rese note alcune indicazioni sull'attività manifatturiera negli Stati Uniti. In particolare il Chicago Fed Activity e l´indice della Fed di Dallas sull´attività manifatturiera.



La settimana economica vede in primo piano nella giornata di giovedì il Pil degli Stati Uniti relativo al terzo trimestre dell´anno, stimato in crescita del 3,1% rispetto all´analogo periodo del 2008 e gli ordini di beni durevoli di settembre negli Usa previsti in crescita dello 0,7%.



Finanza online : l'informazione per investire in borsa e nei mercati finanziari (http://www.finanzaonline.com)

Unghern Kahn
26-10-09, 13:37
(AGI) - Pechino, 26 ott. - Il biglietto verde dovrebbe restare la divisa prevalente nei 2.270 miliardi di dollari di riserve in valuta estera detenute dalla Cina, ma la quota di euro e di yen dovrebbe salire. E' quanto si legge in un articolo uscito su 'Financial News', una pubblicazione della banca centrale cinese, firmato da Zhou Hai, un funzionario provinciale dell'istituto. Zhou ha chiarito che l'articolo rifletteva solo un'opinione personale dopo che il dollaro era sceso ai minimi di 14 mesi sull'euro proprio sulla scia delle sue affermazioni.


AGI News On - CINA: FUNZIONARIO BANCA CENTRALE, RISERVE IN EURO SALGANO (http://www.agi.it/rubriche/ultime-notizie-page/200910260954-eco-rom1017-cina_funzionario_banca_centrale_riserve_in_euro_sa lgano)

Unghern Kahn
26-10-09, 13:38
BRUXELLES, 9 ottobre (Reuters) - Il vice presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che Pechino continuerà ad allentare moderatamente la politica monetaria. Nel corso di una conferenza sull'economia in occasione di una vista in Belgio il vicepresidente cinese ha anche sottolinato che Cina e Unione europea dovrebbero intensificare il dialogo sui temi macroeconomici e finanziari e lavorare per eliminare ogni forma di protezionismo negli scambi commerciali.

Xi ha anche dichiarato che ci sono segni di ripresa nell'economia globale, ma che il processo richiederà tempo. In Cina la ripresa deve ancora raggiungere un ritmo "stabile e solido", ha detto.

Cina, politica monetaria moderatamente esapansiva, più legami Ue | Notizie | Società Estere | Reuters (http://borsaitaliana.it.reuters.com/article/foreignNews/idITL951466320091009)

Unghern Kahn
02-11-09, 11:49
Crescita record dell'indice Pmi nel mese scorso: la più alta dell'ultimo anno mezzo 

L'economia cinese è tornata a correre come non faceva da un anno e mezzo. Secondo gli economisti in ottobre la produzione industriale dell'ex impero celeste ha registrato la crescita più importante degli ultimi 18 mesi, con l'indice Pmi (Purchasing managers index), balzato dai 54,3 punti di settembre ai 55,2 del mese scorso. L'economia cinese, comunque, tra luglio e settembre era cresciuta dell'8,9 per cento (tasso annualizzato), contro il 3,5% degli Stati Uniti. Positivi i commenti degli economisti, che sottolineano però il ruolo strategico degli aiuti di Stato in questa ripresa. «Questi dati fanno ben sperare per il futuro - spiega alla Bbc Zhang Liqun, economista del dipartimento dello Sviluppo economico - e la nostra stima per la crescita della produzione industriale nell'ultimo trimestre dell'anno è del 9,5 per cento».

Un'accelerazione che non può prescindere dalla forte iniezione di liquidità e dagli aiuti messi a punto dal governo cinese. Alla fine del 2008, infatti, Pechino aveva annunciato un piano di incentivi di 4 trilioni di yuan, pari a 586 miliardi di dollari, indirizzati soprattutto al settore delle infrastrutture.

1 novembre 2009


Cina: la produzione ai massimi da 18 mesi - Il Sole 24 ORE (http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2009/11/cina-produzione.shtml?uuid=fa7ccfe2-c715-11de-b368-533281077b00&DocRulesView=Libero)

Unghern Kahn
05-11-09, 19:06
(AGI) - Pechino, 5 nov. - Il colosso chimico Usa Dow Chemical e Shenhua, la piu' grossa societa' mineraria cinese estrattrice di carbone, hanno rilanciato il loro progetto da 10 miliardi di dollari nella regione del Shaanxi. Il piano aveva subito un rinvio di un anno e punta a d installare 23 unita' a Yulin, nel nord dello Shaanxi. L'obiettivo e' quello di utilizzare "carbone pulito" convertendole in metanolo per produrre etilene e propilene, componenti chimiche usate per fabbricare plastica e altri prodotti chimici. "Gli studi di fattibilita' del progetto - rivela il giornale China Chemical Industry News - sono passati all'approvazione del governo centrale". Questi studi avrebbero dovuto essere completati nel 2008.


AGI News On - CINA: DOW CHEMICAL-SHENHUA RILANCIANO PROGETTO DA 10 MLD (http://www.agi.it/rubriche/ultime-notizie-page/200911051413-eco-rom1040-cina_dow_chemical_shenhua_rilanciano_progetto_da_1 0_mld)

Unghern Kahn
05-11-09, 19:38
Un nuovo pilastro: Pechino
Il "New Deal" della Cina è la sfida più insidiosa al nuovo secolo Americano Mondo
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cina
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Inserisci uno o più indirizzi separati da virgole. di James Kurth3 Novembre 2009 Una rassegna dei pilastri del primo secolo Americano a volte potrebbe causare pensieri scoraggianti. Molti di questi pilastri sono stati sprecati o abbandonati, come aveva previsto Daniel Bell nel suo “Le contraddizioni culturali del Capitalismo” – dalle successive generazioni di Americani nel corso dei decenni che hanno costituito la maggior parte dell’età d’oro del secolo americano. Oggi è banale osservare che due dei pilastri economici, quello industriale e quello finanziario, hanno particolarmente perso vigore. Un paragone con la Cina rende questa affermazione palese.

Sebbene gli USA rimangano la maggior economia industriale del pianeta, la Cina è proiettata a prenderne il posto attorno al 2015. E la Cina è certamente il più grande produttore, e spesso il più competitivo, in settori essenziali quali l’acciaio, la cantieristica navale e i prodotti di largo consumo. Parimenti, la Cina si sta velocemente espandendo e migliorando nel comparto automobilistico e in quello chimico. Questi sono stati i settori essenziali di ogni solida economia industriale, e sono stati, di regola, i promotori di massicci profitti per le esportazioni. (Assieme alla produzione di aerei, questi settori hanno permesso agli USA di vincere la Seconda Guerra mondiale, e hanno a lungo servito come fondamento della “American way of war”).

La superiorità industriale della Cina, e i guadagni dalle esportazioni che essa comporta, si è ovviamente tradotta in forza finanziaria. Raggiunti i 2 triliardi, le riserve cinesi in valuta estera – per la maggior parte in dollari americani – attualmente superano quelle di ogni altro Paese. L’anno scorso, il Governo cinese ha usato la leva fornitagli dagli 800 miliardi di dollari investiti in obbligazioni del Tesoro americano per fare pressione sul Tesoro USA e sulla Federal Reserve riguardo alle loro misure incidenti sul valore del dollaro. Ancor più significativo è il fatto che la Cina abbia usato la sua forza finanziaria per implementare il programma di stimolo all’economia di maggior successo tra quelli varati finora per far fronte alla recessione globale. Nel 2009, i più efficaci sostenitori della politica fiscale di matrice keynesiana sono stati i cinesi.

La risposta del Governo cinese all’attuale crisi economica mondiale è molto simile alla risposta data dal Presidente Franklin Roosevelt contro la Grande Depressione. Come il New Deal di Roosevelt, la versione cinese è incentrata su una spesa pubblica su larga scala destinata a colossali progetti infrastrutturali come autostrade, ferrovie, ponti, dighe, elettrificazione rurale, edifici pubblici. Questi progetti infrastrutturali non solo garantiscono mercati stabili e continua occupazione per industrie basilari come l’acciaio, il cemento, i macchinari pesanti e l’edilizia; ma portano anche a un aumento della produttività di lungo periodo per l’economia nazionale.

In contrasto sia con l’Amministrazione Roosevelt negli anni ‘30 che con il Governo cinese oggi, l’Amministrazione Obama sta spendendo poco in nuove infrastrutture. La maggior parte del suo programma di stimolo è rivolto semplicemente al mantenere gli asset esistenti e il tasso di occupazione in settori selezionati dei servizi (e nei collegi elettorali del Partito Democratico), in particolare nei governi statali e locali e nella pubblica istruzione.

Le somiglianze tra la risposta USA alla Grande Depressione e le misure adottare dal governo cinese nei confronti dell’attuale crisi recessiva globale non sono casuali. Sia gli USA di quell’epoca che la Cina di oggi possiedono una vasta struttura industriale che ha improvvisamente sofferto per colpa della sottoutilizzazione e dell’eccesso di capacità produttiva. Con una parte così grande dell’economia destinata all’industria, e con l’industria che riceve una spinta così grande dalla politica, per i governi diventa naturale enfatizzare il rilancio dell’industria e della manifattura. Un programma di rilancio di un’economia imperniata sull’industria (nonché influenzata dall’industria) punterà normalmente l’accento sulla spesa governativa e su una qualche forma di politica fiscale keynesiana.

Tuttavia, negli Stati Uniti degli anni recenti, l’industria ha giocato una parte più ridotta nell’economia rispetto agli anni ‘30 e a quella giocata nella Cina di oggi. La finanza è diventata il singolo maggior settore economico, nonché il più redditizio e prestigioso; non è sorprendente accorgersi che la finanza è divenuta anche il settore economico più influenzato dalla politica. Ciò ha significato che la risposta dell’America alla crisi economica – prima quella dell’Amministrazione Bush nel 2008 ed ora quella della Presidenza Obama nel 2009 – è stata incentrata sulla finanza (ed influenzata da quest’ultima). È per questo che si è puntato sul salvataggio di istituti finanziari “too big to fail”, sulla manipolazione dei tassi di interesse e sulla politica monetaria (una sorta di "friedmanismo").

La reale e inquietante analogia tra l’economia USA e le politiche economiche del presente, quindi, non è quella con l’America degli anni ‘30, bensì il Regno Unito dello stesso periodo. In quel periodo, i decenni in cui la Gran Bretagna era “la fabbrica del mondo” erano da tempo tramontati; l’economia inglese era basata sulla finanza, ed i Governi inglesi agivano sulla politica economica di conseguenza. La City (e Lombard Street) aveva ancora più autorità di quanto non ne avesse oggi Wall Street in America). Il risultato era che, durante la Grande Depressione, la Gran Bretagna non intraprese neppure una mossa che rassomigliasse al deficit spending e alla politica fiscale del New Deal (niente di simile al keynesismo nel Paese di Keynes). Al contrario, il Regno Unito ha vissuto un “decennio perduto” di tetra stagnazione, che ha condotto a sua volta all’incapacità di sostenere in seguito lo status di potenza mondiale.

In breve, se le tendenze e le politiche economiche attuali della Cina dovessero continuare, il risultato sarà che la Cina uscirà dalla crisi economica con la sua economia più sviluppata e diversificata di quanto non fosse prima delle turbolenze economiche. Al tempo stesso, se le tendenze e le politiche economiche attuali intraprese dagli Stati Uniti continueranno, l’uscita dalla crisi vedrà una economia americana più distorta e più debilitata del periodo prima della crisi.

Superiorità tecnologica. È opportuno ricordare che le politiche economiche dell’Amministrazione Roosevelt – sia il New Deal che la spesa militare, sia il keynesimo civile che il quello militare – diedero vita a una vasta e variegata struttura industriale che non rappresentava solo la fabbrica del mondo, ma anche le sue meraviglie (come esemplificato dall’Esposizione Universale di New York del 1939). Questa struttura industriale era pienamente operativa nel 1941, e costituì le fondamenta del secolo americano. Se vogliamo prenderne spunto per affrontare l’attuale crisi economica mondiale, dobbiamo produrre un risultato simile, e possiamo farlo solo attraverso la costruzione dell’unico pilastro sano che ci rimane: la nostra storica superiorità tecnologica.

La Cina sta investendo massicciamente per raggiungere la nostra forza tecnologica, espandendo e migliorando velocemente le università e gli istituti di ricerca, ma sta anche investendo in una educazione rigorosa per l’intera popolazione. Sebbene queste misure siano risultate efficaci nell’aumentare in maniera stabile la produttività economica, storicamente un’economia necessita di molti anni per tradurre la propria superiorità industriale e finanziaria in superiorità tecnologica. (Per esempio, gli Stati Uniti raggiunsero la superiorità industriale negli anni Novanta del Diciannovesimo secolo e la superiorità finanziaria nel primo decennio del Novecento, ma le sue università non superarono nettamente le migliori università inglesi e tedesche che nella Seconda Guerra mondiale). La questione centrale e strategica circa quale Paese otterrà la superiorità tecnologica del futuro sarà legata a quale Paese guiderà i nuovi settori economici del domani.

Oggi, gli ovvi candidati a rientrare in questi settori sono le nuove fonti energetiche sostenibili o “verdi” e il loro utilizzo, nuovi prodotti e processi basati sulle biotecnologie, e nuovi trattamenti medico-sanitari. (Si potrebbe pensare che gli ultimi due candidati non siano veramente distinti, ma si commetterebbe un errore: le implicazioni economiche delle biotecnologie e gli usi della “biomimicry” sorpassano di gran lunga le applicazioni medicali, e non tutti i nuovi trattamenti medici necessitano della sola biotecnologia). È interessante notare che l’Amministrazione Obama ha specificato come i progressi nel campo dell’energia e della medicina siano al centro della sua visione futuribile dell’economia americana, e che questi settori, assieme all’istruzione, occupano una posizione di rilievo nel ritratto pubblico del suo programma di stimolo economico e delle priorità di budget presentato dall’Amministrazione.

I settori economici ancora potenziali dell’energia sostenibile, della biotecnologia e del mondo medico e sanitario sono chiaramente di importanza vitale per un vasto numero di persone sparse per il mondo. In più, quei Paesi con economie industrializzate o in via di sviluppo potrebbero essere in grado ma anche desiderose di spendere ingenti somme per importate i nuovi prodotti e processi produttivi di questi settori. Se gli Stati Uniti riusciranno a raggiungere una posizione di leadership in questi settori, come hanno fatto nel Ventesimo secolo per l’aerospaziale, l’informatica e le telecomunicazioni, riusciranno a garantirsi un solido pilastro per una ancor più estesa leadership americana nel mondo del Ventunesimo secolo. I cinesi, tuttavia, non sono indifferenti alla promessa di almeno uno di questi nuovi settori, le energie rinnovabili, che attualmente ritengono di importanza strategica. Negli anni scorsi, come parte del pacchetto di stimolo dell’economia, i cinesi hanno cominciato a costruire enormi centrali eoliche e solari e a sviluppare promettenti automobili a batteria.

Dovrebbe essere un obiettivo primario del Governo Usa quello di mantenere o ancor meglio accrescere la superiorità tecnologica degli Stati Uniti, in particolar modo sviluppando i nuovi settori economici che diventeranno leader nei mercati internazionali. Questo comporterà la promozione e l’abilitazione delle tradizionali colonne sui cui si fonda la superiorità tecnologica americana: il sistema universitario, con i suoi numerosi scienziati e ingegneri; il sistema del libero mercato, con i suoi tanti innovatori e imprenditori; e il sistema d’istruzione per la maggioranza della popolazione (che certamente ha un gran bisogno di essere migliorato).

Alcuni economisti hanno sostenuto che solo scienziati e ingegneri di alto livello sono importanti ai fini della produttività economica e della competitività internazionale, e che il livello d’istruzione generale della popolazione non conta. Tuttavia, le invenzioni di questi scienziati e ingegneri devono essere trasformate ed allargate in interi settori economici. Ciò richiede il sostegno di una larga base di lavoratori intelligenti, qualificati e diligenti, in campo industriale, tecnico e impiegatizio, una base che deve essere continuamente riprodotta e migliorata grazie al sistema educativo. In ogni caso, gli Stati Uniti non saranno in grado di continuare a godere di una economia produttiva e competitiva se non continueranno a sostenere il grande e crescente numero di persone che soffrono di un deficit di educazione e sono perennemente inoccupate e sottoccupate.

Per fare in modo di migliorare l’istruzione generale, è forse tempo di ritornare al vecchio valore Americano della concorrenza. Molti tentativi di riformare il monopolio delle scuole pubbliche (più precisamente, le scuole governative) sono falliti; la soluzione si troverà lasciando che una grande varietà di scuole private entri liberamente in concorrenza con le scuole pubbliche. Tutte le migliori scuole potranno ricevere assistenza pubblica; nessuna godrà di una posizione monopolistica. Sfortunatamente, dato che uno dei principali collegi elettorali del Partito Democratico risiede nelle associazioni degli insegnanti delle scuole pubbliche, le politiche educative dell’Amministrazione Obama saranno in grado solo di peggiorare lo stato delle cose.

Il corollario militare. Anche se riuscissimo a rivitalizzare la nostra economia attraverso la leadership scientifico-tecnologica, dovremmo comunque ancora ricreare un “American Way of War” di successo e adatto alle attuali circostanze. Questo ci porta alla questione di come avremo la meglio sui movimenti degli insorti e sulle altre “fionde e frecce” di attori non-statali ostili agli Usa. Da un lato, la opaca (ma ancora dibattuta) esperienza americana con la counterinsurgency in Vietnam – che giunse all’apice del primo secolo americano – convinse l’apparato militare americano, per più di una generazione dopo il conflitto, che la stessa counterinsurgency risultava incompatibile con ogni possibile versione del modus operandi bellico americano. Dall’altro, il recente successo in Iraq della nuova (per la verità rinnovata) dottrina del counterinsurgency offre una nuova speranza.

L’indizio per l’enigma proposto dalla guerra alla "insorgenza" sta nel guardare ancora più da vicino alle caratteristiche del modello di guerra americano come sono state mostrate nella storia militare degli USA. Abbiamo già menzionato le ben note caratteristiche della massa schiacciante e della mobilità ad ampio raggio, assieme a quella addizionale dell’alta tecnologia. Ma quando gli USA combatterono guerre nel Ventesimo secolo, proposero un’ulteriore elemento distintivo: una grande fiducia nelle forze di terra alleate. Nella Prima guerra mondiale, le armate francesi ed inglesi; nella Guerra di Corea, l’esercito sudcoreano; e nella Guerra del Vietnam, le armate del Vietnam del Sud. Anche nella Guerra del Golfo del 1991, l’esercito USA operò con parecchie unità di terra fornite da altri membri della “Coalizione dei volenterosi” (ad esempio, quelle di Gran Bretagna, Francia e Arabia Saudita).

In breve, la “massa schiacciante” delle forze terrestri americane è sempre stata un’illusione; le forze di terra degli alleati USA erano spesso più numerose (anche se meno efficienti ed efficaci) di quelle degli Stati Uniti, e queste forze alleate spesso assumevano molti dei compiti militari a più alta intensità di lavoro. Il piccolo, sporco segreto del modello di guerra americano risiede nel fatto che gli alleati dell’America hanno abitualmente fatto gran parte del lavoro sporco.

Questo segreto è stato riscoperto dai corpi dell’esercito e della marina americana ed applicato in Iraq nel biennio 2006-07. I vertici militari hanno capito che la chiave per una counterinsurgency di successo era allearsi con le forze locali – in questo caso le tribù sunnite del “Risveglio dell’Anbar” – che avevano i loro buoni motivi per opporsi agli insorti di Al Qaeda. L’esercito USA sta ora provando a mettere in pratica una simile strategia in Afghanistan, cercando di dividere le varie tribù Pashtun dai Talebani. Tuttavia, una delle ragioni per cui i ribelli sunniti si allearono con gli USA in Iraq fu che temevano sia la maggioranza governativa sciita sia gli insorti di Al Qaida. Le tribu pashtun in Afghanistan non hanno timori del genere, e quindi non hanno neppure bisogno di un incentivo paragonabile che li spinga ad allearsi con le forze americane.

La lezione di carattere generale da trarre circa il potenziale per ogni “American Way of counterinsurgency” è che gli USA dovranno sempre fare affidamento sulle forze locali, siano esse forze militari o semplici milizie, le quali possiedono capacità proprie che gli permettono di intraprendere una efficace counterinsurgency. L’esercito USA potrà essere in grado di aggiungere ingredienti essenziali o condizioni necessarie (come, ad esempio, armi efficaci, addestramento professionale, mobilità e logistica, o semplicemente denaro), ma non potrà mai riuscire da solo nel lavoro sporco ed estenuante della guerra contro-insurrezionale. Questo significa che gli USA non dovranno intraprendere una campagna del genere finché non avranno sviluppato una adeguata conoscenza ed una chiara visione delle forze locali e dei potenziali alleati in un dato scenario.

In pratica, ciò significa anche che gli Stati Uniti dovranno cercare di risolvere i propri problemi senza ricorrere in nessun caso all’esercito regolare per le operazioni anti-insurrezionali. Piuttosto, l’obiettivo principale dell’apparato militare USA dovrebbe concentrarsi sullo scoraggiare la guerra e, se la guerra si manifesta, sconfiggere le forze militari delle altre grandi potenze mediante tutte le forme che la guerra ha assunto nel Ventunesimo secolo. La ragione per la quale gli Usa vengono attaccati solo a livelli sub-convenzionali non è perché non esista un motivo per attaccarci su altri piani; è perché nessuno osa sfidarci su altri livelli. Se perdessimo questa superiorità tecnologica, qualcuno potrebbe ben osare.

La cultura popolare e l’idealismo americano. La riconfigurazione ed il rinnovamento dei suoi pilastri economico e militare metterebbero ancora una volta gli Stati Uniti, mettendoli in grado di esercitare una posizione di guida nel mondo. Tuttavia, dopo aver ricreato la propria abilità nell’essere leader globale, gli Stati Uniti dovrebbero anche imparare nuovamente ad agire come tale. Per quasi due decenni, i decisori politici americani hanno spesso agito verso le altre nazioni, in particolar modo verso le altre grandi potenze, in un modo tale da garantirsi il loro disdegno e disapprovazione, finanche la loro rabbia e il loro disprezzo. Questo richiede che poniamo una certa attenzione sia allo stile culturale della leadership americana sia al contesto di potere nel quale quest’ultimo viene esercitato.

Con tutto il gran discutere tra analisti politici americani riguardo al “soft power” e alla capacità di attrazione della cultura popolare americana agli occhi del resto del mondo, si dimentica spesso che questa stessa cultura popolare è principalmente popolare tra i giovani – in particolar modo tra quei giovani ancora irresponsabili, ribelli e incoscienti. Non attrae così spesso le persone mature, specialmente quelle persone abbastanza mature da essere a capo delle loro famiglie, comunità o Paesi e responsabili per la loro sicurezza e prosperità.

In breve, la cultura popolare americana è una cultura per adolescenti, non per adulti, e gli adulti in giro per il mondo conoscono questa verità e si comportano di conseguenza. Se i leader americani vogliono guidare i capi di altri Paesi, devono agire come adulti responsabili, non come le celebrità della cultura popolare americana in cerca di attenzione.

In maniera analoga, con tutto il gran dibattere tra esperti e decisori politici americani riguardo all’“idealismo” americano e all’attrazione dei valori americani per il resto del mondo, si dimentica sovente che gran parte dei leader politici in altri Paesi sono uomini realisti che fanno calcoli razionali sugli interessi del loro Paese (e sui propri interessi). Essi si aspettano che i leader di altri Paesi, Stati Uniti inclusi, facciano lo stesso. Questo è particolarmente vero per gli attuali leader di Cina e Russia.

Avendo imparato tutto sui richiami dell’ideologia mentre stavano crescendo, ed avendo messo da parte l’ideologia quando sono diventati adulti, essi non possono veramente credere che la classe politica americana pensi davvero che gli ideali degli Usa debbano essere promossi per il loro bene, grazie alla loro “validità universale”, piuttosto che essere una legittimazione o una copertura degli interessi degli USA. Se i leader americani vogliono guidare le loro controparti di altri Paesi, dovranno agire nello stile dei realisti, e non in quello degli idealisti.

Ciò comporta una scelta chiave. Il realismo ci chiede di declinare il nuovo contesto del Ventunesimo secolo delle grandi potenze nel quale gli USA vorranno esercitare la leadership. Sebbene la riconfigurazioine dei pilastri economico e militare renderanno l’America lo Stato più importante del pianeta, non sarà comunque più uno Stato dominante. Ci saranno altre grandi potenze: alcune emergenti come Cina ed India; altre in declino come l’Unione Europea e il Giappone; altre in crescita per alcuni aspetti e in declino o instabili in altri sensi come Russia, Iran e Brasile.

Se gli Stati Uniti vorranno essere un leader efficace e costruttivo nelle relazioni internazionali, dovranno mostrarsi in grado di guidare almeno alcune di queste potenze in questioni di importanza globale. Queste questioni includono le minacce provenienti dai network terroristici transnazionali, la proliferazione nucleare, l’economia globale, le epidemie globali e il riscaldamento climatico.

Soprattutto, gli Stati Uniti dovranno trattare in maniera efficace e costruttiva con Cina, India e Russia, potenze che saranno emerse o rinate al punto da provare ad essere preminenti o anche dominanti in una particolare regione – il che significa ricavarsi qualcosa come una tradizionale sfera di influenza. Per la Cina, l’Asia Sud-Orientale – per l’India (adesso non ancora, ma nell’arco di un decennio), l’Asia Meridionale e possibilmente le spiagge del Golfo Persico; e per la Russia l’Asia Centrale e il Caucaso, ma anche i vicini Stati slavi (e ortodossi), Bielorussia e Ucraina.

Per quanto concerne queste grandi potenze e queste regioni, gli Stati Uniti dovranno prendere una decisione. Possono provare a guidare piccoli Stati all’interno di una regione in una sorta di opposizione o di alleanza contro l’aspirante potenza regionale, come hanno fatto con Georgia e Ucraina contro la Russia. Oppure possono permettere allo "Stato-guida" di esercitare la leadership nella sua regione, mentre quella potenza a sua volta permette agli Stati Uniti di esercitare una più ampia leadership sulle questioni di rilevanza globale.

Scegliere quest’ultima opzione non significherebbe niente di particolarmente nuovo o originale. Anche quando gli USA erano al picco del proprio ruolo di superpotenza, con riluttanza, ma in maniera realista, permisero all’Unione Sovietica di dominare l’Europa Orientale. Tuttavia, quel tipo di controllo intrusivo, politico ed economico, si spinse ben al di là delle tradizionali norme intese come sfera di influenza. Per la maggior parte, le grandi potenze dominanti nella loro regione sono state soddisfatte nell’avere i loro interessi vitali preservati – assieme a qualche presenza economica – mentre permettevano una sufficiente autonomia politica all’interno dei piccoli Stati.

In questo senso, a corrispondere alla norma tradizionale era il rapporto tra Urss e Finlandia piuttosto che tra i sovietici con quei vicini a cui aveva imposto dei regimi comunisti. Infatti, anche la relazione attuale della Russia con buona parte delle vecchie Repubbliche sovietiche in Asia Centrale rientra nella norma, portando a pensare che lo schema tradizionale (che le Amministrazioni Bush e Obama hanno deriso perché così in stile Diciannovesimo secolo) può ragionevolmente essere migliorato per rientrare nei parametri del Ventunesimo secolo.

Il Diciannovesimo secolo presentava delle caratteristiche peculiari. Alcuni storici l’hanno ridefinito come "il “secolo", il periodo compreso tra il 1815 e il 1914 – tra la fine delle Guerre napoleoniche e gli albori della Prima Guerra mondiale. Con il Diciannovesimo secolo comincia un’era caratterizzata dall’assenza di guerre generali e dal rapido sviluppo economico, una rara epoca di pace e prosperità. E se c’era una nazione che veniva identificata con quell’era di pace e prosperità, si trattava della Gran Bretagna. Verso la fine del Diciannovesimo secolo, era largamente riconosciuto che il secolo trascorso aveva avuto un’impronta britannica. Certamente, nessun’altra potenza o stile di vita poteva reclamare quel titolo.

Ma sebbene la Gran Bretagna fosse la più importante delle grandi potenze, non si può dire che abbia dominato con la stessa grandezza manifestata dagli Stati Uniti nell’immediato periodo del secondo dopoguerra. Certamente, dominava gli oceani con la Royal Navy; era leader mondiale nell’economia, dapprima nell’industria e poi in campo finanziario; ed era una potenza preminente in molte questioni di rilevanza globale, come la repressione della tratta degli schiavi, la pirateria e lo sviluppo del diritto internazionale.

Ma il Regno Unito non era una potenza dominante in nessun continente (tranne l’Australia) o regione particolare (tranne l’Asia Meridionale all’epoca del Raj). Piuttosto, si riteneva soddisfatta della divisione dei continenti in sfere di influenza in competizione tra loro, le quali potevano poi risultare in equilibri di potere su scala continentale (in Europa, Africa, Asia Orientale e anche in America del Sud). Il Regno Unito era la potenza leader del pianeta perché permetteva in gran parte alle altre grandi potenze di essere dominanti nelle loro regioni di riferimento. Ciò consentiva alla Gran Bretagna di essere leader tra i leader senza bisogno di dover chiedere un esplicito permesso.

Gli Stati Uniti non saranno mai più una potenza dominante come lo sono stati durante il secolo Americano, soprattutto nel periodo dagli ultimi anni Quaranta fino ai primi anni ‘70. Storicamente, quella è stata una fase anomala sotto molti profili. Ma un secolo può ancora essere definito e formato – e può ancora essere guidato verso maggior pace e prosperità – da una nazione che è la più importante delle grandi potenze. E i posteri riconoscenti un giorno potranno guardarsi indietro e onorare quella nazione attribuendo il suo nome a un nuovo secolo. (Fine)

Tratto da American Interest


Il "New Deal" della Cina è la sfida più insidiosa al nuovo secolo Americano | l'Occidentale (http://www.loccidentale.it/articolo/per+battere+la+cina+agli+usa+serve+la+superiorit%C 3%A0+tecnologica+e+militare.0080901)

Unghern Kahn
18-11-09, 10:46
Cina e India d’accordo a lavorare sulla questione delle frontiere
:::: AFP :::: 29 ottobre, 2009 ::::
AFP 24 ottobre 2009 – Il premier cinese Wen Jiabao ha concordato con il suo omologo indiano Singh, per lavorare a ridurre le differenze sulle questioni di confine tra le due nazioni. Wen ha raggiunto l’accordo con Manmohan Singh a margine di un vertice regionale in Tailandia dell’ASEAN e altri paesi, afferma l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua.

Pechino ha espresso opposizione a una recente visita di Singh nell’Arunachal Pradesh, uno stato indiano al centro della controversia del confine, e per una visita prevista del Dalai Lama, leader spirituale tibetano in esilio. “Le due parti hanno convenuto di proseguire i colloqui, con l’obiettivo di eliminare gradualmente le barriere a una soluzione che sia equa e accettabile per entrambe le parti“, dice il rapporto. Wen e Singh hanno inoltre convenuto che avrebbero cercato di garantire la pace e la stabilità nella zona di frontiera contesa, affermando che ciò possa contribuire a risolvere le questioni di confine e promuovere la cooperazione bilaterale.

I giganti regionali Cina e India, che insieme contengono più di un terzo della popolazione mondiale, recentemente si sono scambiate accuse per queste questioni territoriali. I due Paesi hanno combattuto una guerra di confine nel 1962, in cui le truppe cinesi sono avanzate in profondità Arunachal Pradesh e inflitto pesanti perdite alle forze indiane. L’India dice che la Cina occupa 38.000 chilometri quadrati del suo territorio himalayano, mentre Pechino reclama tutto l’Arunachal Pradesh, che copre 90.000 chilometri quadrati.

Funzionari indiani non hanno confermato l’accordo con la Cina. Hanno detto che le questioni territoriali non sono state discusse nel corso del loro incontro di 45 minuti nella località tailandese di Hua Hin. “Singh ha sottolineato che nessuna delle due parti dovrebbe lasciare che le nostre differenze agiscano come un ostacolo alla crescita della cooperazione tra i due paesi“, secondo sito web del ministero degli affari esteri indiano.

Il premier indiano ha anche concordato con le osservazioni di Wen che l’apertura di buoni rapporti tra i due paesi è “nell’interesse della regione e del mondo intero.” Il ministero ha detto che Wen ha “rilevato che, per fare diventare il secolo asiatico una realtà, è importante che l’India e la Cina vivano in armonia e amicizia e godano della prosperità“. Una delegazione ufficiale del governo indiano ha detto all’AFP, che Wen e Singh hanno anche cercato dei colloqui che “costruiscano fiducia e comprensione”, aggiungendo che l’incontro è stato “produttivo”. Nonostante le loro differenze, la Cina e l’India hanno firmato un accordo quinquennale per cooperare sui cambiamenti climatici, che porterà ai colloqui cruciali di Copenaghen.

L’incontro di sabato è l’ultimo di una serie di incontri ad alto livello tra India e Cina. Singh ha incontrato il presidente cinese Hu Jintao ai margini del Brasile-Russia-India-Cina (BRIC), riunitosi a Ekaterinburg a giugno, e la settimana scorsa, il ministro del petrolio indiano, Murli Deora ha incontrato Wen durante un viaggio a Pechino. Al vertice di Hua Hin, 16 nazioni asiatiche hanno discusso dei piani per incrementare la cooperazione economica e politica e la possibile formazione di un comunità in stile UE.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
Aurora (http://www.aurora03.da.ru)
Bollettino Aurora (http://www.bollettinoaurora.da.ru)
Aurora - Index (http://sitoaurora.narod.ru)
Aurora - Index (http://sitoaurora.altervista.org)
Eurasia (http://eurasia.splinder.com)



Ho visto che il sito di Eurasia è stato rinnovato, con nuovi articoli, una grafica molto più bella e sezioni con tematiche suddivise per aree geografiche, geoeconomia, eventi ecc ecc.
Molto bene davvero un ottimo lavoro, complimenti a chi gestisce e ai collaboratori.

Unghern Kahn
18-11-09, 10:50
I 60 anni della Repubblica Popolare Cinese
:::: Alessandro Lattanzio :::: 21 settembre, 2009 ::::

La Cina si dichiara ‘pronta a lavorare’ con il nuovo Governo del Giappone, guidato dal Partito Democratico di Yukio Hatoyama. “Siamo pronti a lavorare con il Giappone per rafforzare la nostra cooperazione bilaterale e mantenere il ritmo ad alto livello degli scambi… contribuendo congiuntamente alla pace e allo sviluppo nell’Asia“, ha detto ai giornalisti la portavoce del ministero degli Esteri, Jiang Yu.

In un articolo pubblicato sul New York Times, è stata messa in evidenza la veloce ascesa della Cina come potenza economica e ci si è chiesto se ciò porterà alla creazione di una comunità asiatica con una moneta comune, sul modello dell’Unione europea. I due paesi hanno lavorato sodo per ridurre le tensioni derivanti in gran parte dalla brutale occupazione Giapponese della Cina durante la II guerra mondiale. Definendo il Giappone e la Cina “vicini importanti” e “grandi paesi” dell’Asia, il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha notato: “Crediamo che il Giappone dovrebbe trattare le questioni storiche in maniera responsabile, è nel suo interesse e favorirà a migliorare le relazioni con gli altri paesi asiatici“.

Cina e Canada affrontano il problema della sicurezza energetica petrolifera, con la PetroChina che investe 1,9 miliardi dollari nelle sabbie petrolifere dell’Alberta, in Canada. Secondo l’accordo annunciato dalla Athabasca Oil Sands Corp. la PetroChina acquisirà una quota del 60 per cento nel suo progetto per le sabbie bituminose dei fiumi MacKay e Dover. E’ la più grande operazione della Cina per le sabbie bituminose canadesi, fino ad oggi. I progetti riguardano circa 5 miliardi di barili di bitume ancora da sviluppare, parte dei quasi 10 miliardi di barili di riserve di bitume dell’Athabasca, che a sua volta continuerà a gestire entrambi i progetti, dal costo di 15/20 miliardi di dollari. Il flusso di petrolio potrebbe essere, dal 2014, inizialmente di 35.000 barili al giorno e successivamente di 150.000 barili al giorno.

L’accordo PetroChina-Athabasca, dovrebbe essere chiuso il 31 ottobre, rafforzando gli investimenti nell’Alberta, che ha subito il taglio di 100 miliardi di dollari nei progetti minerari della sabbia petrolifera, rispetto allo scorso anno.

Le Sabbie bituminose canadesi rappresentano la seconda riserva di petrolio più grande del mondo. “Data la vastità delle sabbie petrolifere del canadesi, la zona non può essere ignorata dalla Cina“, ha detto gli analisti Lanny Pendill e Edward Jones del Calgary Herald. Ma Carolyn Bartholomew, presidente della US-China Economic and Security Review Commission, ammonisce sulla crescente presenza cinese nel “cortile” dell’America. Ha detto che la PetroChina di proprietà statale è un elemento del governo comunista di Pechino e respinge l’idea che possa operare come una qualsiasi altra società petrolifera commerciale. “Penso che un acquisto come questo, dovrebbe sollevare la questione della sicurezza nazionale, sia per il governo del Canada che per il governo degli Stati Uniti“, chiedendo una profonda revisione da parte di Ottawa.

Tuttavia, l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Canada, Gordon Giffin, ha detto che non si aspetta che l’amministrazione Obama si opponga agli investimenti della PetroChina nelle sabbie bituminose.

Il presidente venezuelano Hugo Chavez ha annunciato un accordo di 16 miliardi di dollari con la Cina per le trivellazioni petrolifere nel bacino dell’Orinoco. “Un accordo è stato firmato a Pechino per il bacino dell’Orinoco. Definisce l’investimento cinese di 16 miliardi di dollari nei prossimi tre anni“, ha detto Chavez durante una manifestazione pubblica. Ha dato pochi dettagli dell’accordo e non ha indicato le società cinesi coinvolte, ma ha detto che formeranno una joint venture con la statale Petroleos de Venezuela (PDVSA) per la produzione di 450.000 barili al giorno di greggio extra pesante.

Il Venezuela, ha anche annunciato di aver firmato un accordo simile con un consorzio russo di cinque aziende, che investirà più di 20 miliardi di dollari nell’arco di tre anni, una joint venture che si prevede produrrà 450.000 barili al giorno entro il 2012.

Il ministro della Difesa cinese Liang Guanglie ha concluso una visita di due giorni in Serbia, e le due parti si sono ripromesse di rafforzare la loro cooperazione militare. Il presidente serbo Boris Tadic ha dichiarato dopo l’incontro con Liang a Belgrado, che “sostiene l’intensificazione della cooperazione militare e di polizia tra i due paesi“. Il primo ministro Mirko Cvetkovic ha anche elogiato “il livello elevato di cooperazione” tra i due paesi, dicendo che “la cooperazione militare-economica sarà ulteriormente intensificata nei prossimi mesi: attraverso uno scambio di esperienze nelle missioni di pace, la cooperazione tra le industrie della difesa e dell’istruzione del personale militare.” La visita, la prima di un ministro della difesa cinese in 25 anni, è avvenuta su invito del ministro della Difesa serbo Dragan Sutanovac, che ha detto che “la cooperazione militare rafforzerà ulteriormente i legami bilaterali” tra Pechino e Belgrado.

Sutanovac ha visitato Pechino lo scorso anno e ha firmato un accordo di cooperazione in materia di difesa. Ha poi insistito sul fatto che “vi sono grandi prospettive per l’espansione della cooperazione militare tra i due paesi“. La cooperazione dovrebbe prevedere “la medicina militare, l’addestramento militare, l’economia militare, la scienza militare, così come le operazioni di mantenimento della pace“. I due ministri hanno inoltre discusso delle “sfide ad livello mondiale militare, come il terrorismo, la criminalità organizzata ed altre attività criminali”. “Abbiamo espresso il nostro desiderio comune di cooperare nella lotta contro queste minacce e nello scambio di informazioni“.

La visita di Liang è avvenuta dopo i colloqui di Tadic in Cina, ad agosto, quando i due paesi hanno annunciato la creazione di un partenariato strategico.

Le due nazioni hanno forti legami da quando la Cina ha rifiutato di riconoscere l’indipendenza del Kosovo e Pechino ha offerto sostegno a Belgrado, nella sua battaglia diplomatica contro la mossa occidentale.

Bastano queste poche notizie per far comprendere quanto ampio e molteplice sia l’attività economico-diplomatica della Repubblica Popolare Cinese. Un attività che si estende sui cinque continenti, come abbiamo visto. La Cina popolare è assurta a grande potenza mondiale nel 1949, quando il 1° ottobre Mao Zedong suggellava la fine della ultratrentennale guerra civile cinese e la centenaria condizione di semi-colonia dell’imperialismo occidentale, iniziata con le guerre dell’oppio del 1839.

Lunga è stata la marcia della Cina nel quadro internazionale, non meno complesse e difficile della Lunga Marcia con cui Mao recuperò le forze popolari e patriottiche, uscite sconfitte dalla repressione della Comune di Shanghai edal fallimento della politica del Partito Comunista Cinese dettata dal Komintern di Zinov’ev e Borodin.

L’URSS e la Cina popolare costituiscono, negli anni ’50, un vero e proprio blocco eurasiatico, un dominio che si estende da Pankow a Pyongyang. Un alleanza tra Mosca e Beijing, tra Stalin e Mao che subisce la sua prima prova nel 1950, quando la Repubblica Popolare Democratica di Korea viene invasa e aggredita dalle truppe e dalle milizie sudcoreane di Syngman Ree, il proconsole statunitense a Seoul. Mao deve inviare 100.000 soldati a sostenere la Korea Popolare. E con l’appoggio dei mezzi sovietici riesce a respingere le truppe ONU, guidate dagli USA tramite il generale McArthur, che aveva espresso l’intenzione non solo di cancellare il governo democratico-popolare di Pyongyang, ma anche l’intenzione di entrare in Manciuria e d’impiegare l’arma atomica. Una occasione mancata rimpianta, perfino oggi, dall’ex segretaria di stato USA, Condoleezza Rice. Ma gli equilibri mondiali erano mutati, e l’URSS, esattamente sessant’anni fa, acquisiva la parità strategica nucleare. Cosa che consentiva a Beijing, e al blocco sovietico, di respingere il tentativo revanscista di Washington.

Con Chrushjov e il gruppo Molotov-Bulganin si avvia un fruttuoso periodo di collaborazione tra Cina popolare e URSS. Vengono avviati gli ampi piani quinquennali per porre le basi della potenza industriale ed economica della Cina attuale. Grazie all’assistenza sovietica, nascono per la prima volta in Cina, i settori industriali elettronico, petrolifero, energetico, aeronautico, meccanico, missilistico e nucleare. Ma le intemperanze di Mao, i quel periodo messo in ombra nel partito, dall’ala tecnocratica di Liu Shaoshi, Deng Xiaoping e del Maresciallo Peng Dehuai, portano al tentativo fallimentare del cosiddetto ‘Grande Balzo in Avanti’, che doveva fare della Cina popolare una potenza pari al Regno Unito. I risultati invece furono disastrosi; la frazione di Liu dovette intervenire direttamente a porre rimedio, me nel frattempo si verifica la rottura ideologia, prima, geopolitica dopo, tra Mosca e Beijing. Grazie, questa volta, alle intemperanze di Chrushjov, che in risposta alle polemiche ideologiche con Mao e Enver Hoxha, decise di ritirare le migliaia di tecnici e consiglieri che stavano aiutando i cinesi a crearsi una economica moderna e una solida base industriale. La mossa moscovita non sarà perdonata dai cinesi fino alla fine degli anni ’90.

Nonostante tutto Beijing porta avanti la sua linea politica, i programmi economici intrapresi. Tanto che il 16 ottobre 1964, Beijing riesce a fare detonare il suo primo ordigno atomico. Ma le tensioni interne, esistenti tra le due frazioni maggioritarie del PCC ed esterne con Mosca (Indonesia) e Washington (Vietnam e Taiwan), portano alla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria del 1966-1969, ispirata da Mao e dal gruppo di Jiang Jin, la seconda moglie del ‘Grande Timoniere’.

La rivoluzione sociale (così almeno speravano Mao e il suo nuovo alleato, il Maresciallo Lin Biao), invece di far compiere alla Cina un altro, grandissimo, balzo in avanti, verso il comunismo, la trascinano verso la dissoluzione geografica. Con intere regioni fuori controllo e una guerra civile sempre più palese. Alla fine sarà l’esercito popolare di Lin Biao a soffocare la rivolta delle Guardie Rosse e a reimporre l’autorità del Partito. Ciò non gli impedirà di essere liquidato, con la sua frazione, nel 1971, dal quadro politico cinese, una volta avviata la nuova politica estera di Mao e Zhou Enlai. L’avvicinamento strategico verso gli USA di Nixon, la teoria dei ‘Tre Mondi’ ideata per opporsi alla Dottrina Brezhnev, porta Beijing ad iniziare quel processo di apertura economica, che poi sotto la guida di Deng Xiaoping, subì una forte e netta accelerazione, una volta espulsa la frazione neomaoista nota come ‘Banda dei Quattro’.

I legami con il mondo occidentale si rafforzano e si approfondiscono. Mentre con l’URSS le divergenze e i contrasti si ampliano. Cambogia, Vietnam e Afghanistan, sono i nuovi terreni di contrasto che danneggiano le possibilità di una nuova alleanza geopolitica eurasiatica. L’orbita di Washington attrae sempre più Beijing. E mentre questa attrazione travolge e distrugge l’esperimento gorbacioviano, mette in serio pericolo l’unità cinese. A Beijing, nella primavera del 1989, si attua su larga scala la prima di quelle che saranno note come ‘rivoluzioni colorate’. La piazza Tianmen, la più grande del mondo, che negli anni ’60 si vide invadere da un milione di guardie rosse che osannavano Mao, ora veniva attraversata da folle di studenti e nascente piccola borghesia locale, che inneggiavano alla Statua della Libertà. L’ampia apertura di credito all’occidente stava dando i suoi frutti.

Una volta repressa la rivolta filo-occidentale, il programma di espansione economico-commerciale e di modernizzazione industriale e tecnologica della Cina Popolare, subisce un rallentamento; ma è solo un passo fatto indietro per meglio saltare. Questa volta, a metà degli anni ’90, la Cina di Li Peng e Wen Jiabao inizia a compiere sul serio quel ‘Grande Balzo in Avanti’, tanto agognato da Mao.

La Repubblica Popolare di Cina ha acquisito un innegabile peso strategico mondiale. Ha salvato più di una volta gli USA dal collasso economico-finanziario. Ma contemporaneamente non ha smesso di tessere e rafforzare rapporti con i suoi amici di sempre, i più importanti tra cui sono il Pakistan e l’Iran. Legami che non casualmente le ultime tre amministrazioni statunitensi hanno preso a bersagliare continuamente. Verso Beijing si vuole applicare la vecchia tattica del cordone sanitario già impiegata contro l’URSS. Ma questa volta, la Cina ha dalla sua anche l’arma strategica del parziale controllo dei flussi finanziari e una poderose economia che sta gestendo egregiamente l’attuale gravissima crisi economica. Beijing sta volgendo verso l’interno l‘indirizzo della sua politica economica. Maggiori investimenti verso i mercati interni, permetteranno alla Cina popolare di sfruttare al meglio il suo surplus finanziario-economico.

E oggi, Beijing ha ritrovato nella Mosca di Putin e Medvedev, l’antico alleato che l’aveva aiutata a fronteggiare l’aggressione nipponica nel 1937 e che negli anni ’50, prima dell’avventata rottura chruscioviana, l’aveva avviata al XX° secolo. Con la nascita del Shanghai Cooperation Organization, costituito il 14 giugno 2001 (e forse profonda ragione scatenante degli eventi dell’11 settembre 2001), si rivitalizzava quell’intesa geopolitica strategica eurasiatica che tanto preoccupava, ieri, il gruppo revanscista di Bush/Cheney, e che oggi allarma il gruppo neowilsoniano riunitosi attorno all’amministrazione statunitense di Barack Obama.

L’alleanza tra Mosca, Beijing, potenze asiatiche centrali, suggellate anche quest’anno dalle imponenti manovre militari estive, è il nucleo centripeto cui convergono decisamente potenze come l’Iran, il Pakistan, la Mongolia, l’Indonesia e l’Asean del Vietnam e della Malaysia forgiata dal dott. Mohammed Mahathir. Solo l’India sembra titubante riguardo questo processo, senza dubbio pesano gli antichi contrasti transfrontalieri con la Cina, riguardo il Kashmir e il Nepal-Tibet. Washington interessatamente alimenta, inoltre, i sospetti e la sfiducia tra New Delhi e Islamabad. Senza tralasciare gli interventi sobillatori filo-atlantisti che si dipanano dal Kosovo al Kurdistan all’Afghanistan, la filiera occidentale dell’eroina che si ricollegherebbe a quella orientale, che dalle regioni del Myanmar, fuori dal controllo del legittimo governo di Yangoon,

si dispiega fino al mercato californiano e messicano. Messico sempre più vittima della narco-guerra civile, possibile epicentro di una futura destabilizzazione dell’America Latina. Un motivo in più per Washington per mantenere un piede in quella staffa.

Ma se è vero che tramite il BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) va formandosi il futuro polo economico mondiale. Allora anche l’Unione Indiana si riavvicinerà al progetto Cino-Russo del Patto di Shanghai. Tanto più che gli USA, dopo aver concesso il supporto tecnologico per l’industria del nucleare civile indiano, hanno già gettato la maschera domandando, delicatamente vista la mole di New Delhi, se potevano accedere anche al complesso delle centrali nucleari interessate al programma strategico indiano. La risposta negativa del Premier indiano, Manmohan Singh, fa sperare bene per una futura intesa con Beijing, Mosca e con l’amica Tehran, e che di certo deve aver irritato il gruppo neowilsoniano al potere a Washington.

Il processo di costruzione di un mondo finalmente multipolare prosegue, e di certo, la parata del 1 Ottobre prossimo, oltre a festeggiare il sessantennio della Repubblica Popolare di Cina, celebrerà anche un probabile futuro plurale del mondo, che oggi va delineandosi.

Riferimenti

AFP 1 settembre 2009

UPI 2 settembre 2009
AFP 8 settembre 2009
AFP 16 settembre 2009
Alessandro Lattanzio, Catania 19/09/2009

Aurora (http://www.aurora03.da.ru)
Bollettino Aurora (http://www.bollettinoaurora.da.ru)
Aurora - Index (http://sitoaurora.narod.ru)
Aurora - Index (http://sitoaurora.altervista.org)
Eurasia (http://eurasia.splinder.com)

Unghern Kahn
18-11-09, 10:52
Significato della parata del 1 ottobre in Cina
Cina :::: Antonio Grego :::: 28 settembre, 2009 ::::
In Cina, giovedì 1 ottobre 2009 si festeggerà il 60° Anniversario della Fondazione della Repubblica popolare cinese e, a seguire, sabato 3 ottobre 2009 si festeggerà la Festa di Mezzo Autunno. In questo periodo si assisterà a un vero e proprio esodo interno dei lavoratori, che approfitteranno del periodo di ferie per far ritorno alle proprie abitazioni: ovviamente tutte le attività lavorative si fermeranno. I festeggiamenti per la fondazione della repubblica coinvolgeranno tutte le province cinesi, si svolgeranno anche a Hong Kong e si sa già che saranno grandiosi, soprattutto a Pechino, dove si sta preparando un’enorme parata militare, che coinvolgerà migliaia e migliaia di persone in Piazza Tian’anmen.

Uno dei capisaldi della cerimonia del primo ottobre sarà lo sfondo costituito dai “56 pilastri dell’unità etnica” per ribadire la centralità del concetto di patria e la vocazione imperiale cinese, inoltre molte persone stanno sistemando fiori ed espongono la bandiera nazionale nelle vie e nei quartieri per contribuire alle decorazioni e festeggiare l’evento.

L’impiego di mezzi e risorse finanziarie per preparare la celebrazione è tale che i serissimi commissari della Cultura in Cina non hanno esitato a ingaggiare gli attori Jackie Chan e il suo erede Jet Lie, per la produzione di un film epico sulla rivoluzione maoista per attirare, grazie all’impiego di grandi star conosciute anche all’estero, i giovani cinesi, che difficilmente si avvicinano ai film della “propaganda” governativa. Il film dal titolo “Jian Guo Da Ye” o “La fondazione di una Repubblica“, è già nelle sale ed è il film più importante girato per il Sessantesimo anniversario della Repubblica popolare cinese, che cade il primo ottobre.

Ma la più attesa e grandiosa celebrazione a Piazza Tian’anmen resta la cerimonia della parata militare. La parata mostrerà principalmente lo sviluppo e i cambiamenti della forza militare cinese, facendo sfilare, in maniera volutamente parallela alla grande parata di Mosca del 9 maggio, resuscitata e riportata alla magnificenza per volontà di Putin, sia i corpi militari “storici” sia gli ultimi ritrovati della tecnologia militare cinese.

Il richiamo alla parata russa per l’anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica non è casuale, ma intende sottolineare come il destino dei due polmoni eurasiatici è indissolubilmente legato dall’appartenenza allo stesso continente e, al di là di divergenze contingenti, dalla necessità di dover fare fronte contro le minacce comuni. Perciò sarà seguita molto da vicino dai giornalisti e dai responsabili militari delle altre nazioni.

Lo spiegamento di mezzi sarà senza precedenti. Secondo quanto illustrato dalle autorità militari, alla parata parteciperanno dodici plotoni di fanteria di cui sei saranno in assetto da guerra, reduci da diverse operazioni militari, di cui molti dei componenti sono decorati con onorificenze.

Durante la parata, la squadra dell’aeronautica militare volerà nello spazio di cielo sovrastante, abbellendo la scena sopra Piazza Tian’anmen. Secondo quanto illustrato, nel reparto dell’aeronautica militare, c’è la squadra “Bayi”, che è l’unica squadra ad eseguire numeri acrobatici volanti per gli ospiti stranieri. Questa squadra ha ricevuto 589 delegazioni provenienti da 138 paesi e regioni, partecipando a 335 rappresentazioni, inoltre ha scortato per 10 volte gli aerei speciale presidenziali o dei capo di stato stranieri mantenendo un tasso di sicurezza del 100%.

Parallelamente ai preparativi per la celebrazione, inevitabilmente, è partita anche la macchina della propaganda occidentale anti-cinese, che grazie all’aiuto di ONG, di varie “organizzazioni per i diritti umani” e di media filoatlantici, hanno intensificato gli sforzi per sabotare le celebrazioni, come già avvenuto in occasione delle Olimpiadi di Pechino.

I media anticinesi puntano il dito sulle eccezionali misure di sicurezza dispiegate per la parata, che vengono presentate come un inasprimento dell’oppressione del regime e su alcuni episodi isolati di cronaca con protagonisti immigrati o appartenenti a minoranze etniche della Cina, per evidenziare l’intolleranza e la brutalità della polizia e quindi la presunta natura razzista e discriminatoria dei cinesi (legittimando così le velleità indipendentiste di tibetani e uiguri) mentre invece la legislazione cinese concede massima autonomia sul piano culturale e religioso alle minoranze, nel rispetto dell’autorità centrale dello Stato.

Lo scopo della parata sarà quindi quello di mostrare al mondo l’attuale ottima condizione delle forze militari cinesi, ma anche quello di dare una compatta e risoluta risposta ai tentativi di disgregazione (Turkestan, Tibet) posti in essere dagli occidentali.

La Cina vuole dimostrare di marciare nella stessa direzione della Russia e delle altre potenze eurasiatiche verso il mondo multipolare e non accetta interferenze all’interno del suo spazio geopolitico.

Antonio Grego, dottore in Scienze politiche, in Eurasia. Rivista di studi politici ha pubblicato il saggio: L’immigrazione romena in Italia e reti transnazionali europee (nr. 4/2006, pp. 101-114).



Significato della parata del 1 ottobre in Cina | eurasia-rivista.org (http://www.eurasia-rivista.org//1417/significato-della-parata-del-1-ottobre-in-cina)

Unghern Kahn
25-11-09, 17:10
Un corridoio marittimo tra Italia e Cina

25 11 2009 - Ultima Ora



Genova-Tianjin, Italia e Cina, unite grazie a un collegamento marittimo dedicato alle merci presentato lunedì 23 novembre al ministero dello Sviluppo economico. La piattaforma logistica è stata promossa dall’Istituto per il Commercio con L’Estero, il Simest, l’Interporto Rivalta Scrivia e le Autorità portuali di Genova. È il primo corridoio marittimo dedicato alle merci nel Mediterraneo che unisce Cina e Italia e che individua il porto di Genova quale raccordo tra i Paesi asiatici e l’Europa.
"Abbiamo lavorato molto a questo progetto", ha dichiarato il vice ministro allo Sviluppo economico Adolfo Urso. "Ci saranno benefici sul piano dell’occupazione nel sistema portuale ligure e per la crescita dell’interscambio commerciale, in particolare per il nostro export. Non solo, l’accordo permetterà all’Italia di effettuare il controllo delle merci e servirà per la lotta alla contraffazione e alla concorrenza sleale. Ci saranno conseguenze positive per il fisco perché con Genova, individuato come porto di destinazione, sarà la nostra dogana a recuperare il 25 per cento del valore delle merci sdoganate, che allo stato attuale va a vantaggio di altri Paesi competitor europei".
Coinvolti nel progetto molti spedizionieri italiani leader del mercato cinese, la cui attività è decisiva per l’indirizzamento dei traffici delle merci italiane. La piattaforma logistica di Tianjin, per effetto dell’accordo bilaterale doganale, diverrà il luogo ottimale dove effettuare il riempimento e lo scarico dei container, la manipolazioni delle merci necessaria per la loro preparazione rispetto ai mercati di destinazione, nonché per l’organizzazione dei servizi post vendita per il mercato cinese.
Tianjin ha 11 milioni di abitanti, è il più grande centro economico sulla costa del Bohai - Cina nord orientale, è dotata di una delle più moderne e avanzate reti di trasporto del Paese e gestisce oltre il 40 per cento del traffico cargo cinese, insieme ai porti di Dalian e Quingdao.
Nella Tianjin economic development area, nella quale è vigente uno speciale statuto economico, ci sono oltre 4.400 imprese a partecipazione straniera: sono ben 128 le multinazionali di rilevante importanza con una sede a Tianjin: Samsung, Motorola, Mitsubishi, Honda, Coca Cola, Nestle, Glaxo Smith & Kline, Toyota e Airbus.


da www.stradafacendo.tgcom.it

Unghern Kahn
25-11-09, 17:12
ITALIA-CINA: URSO, AL VIA CORRIDOIO MARITTIMO GENOVA-TIANJIN

Roma - Nasce un corridoio marittimo per le merci, il primo nel Mediterraneo, che avvicina la Cina e l’Italia e vede in Genova lo snodo commerciale tra l’Europa centro-settentrionale e i paesi a sud del mondo, i veri motori della crescita globale. E’ stato presentato al ministero dello Sviluppo Economico il progetto di piattaforma logistica Genova-Tianjin promosso da Ice, Simest, Interporto Rivalta Scrivia e le Autorità portuali di Genova.

“Abbiamo lavorato molto a questo progetto – ha spiegato il viceministro Adolfo Urso – che ha visto anche il coinvolgimento del Ministero dell’Economia e degli Esteri. Ci saranno benefici sul piano dell’occupazione nel sistema portuale ligure e per la crescita dell’interscambio commerciale, in particolare per il nostro export. Non solo, l’accordo consentirà all’Italia di effettuare il controllo delle merci e servirà per la lotta alla contraffazione e alla concorrenza sleale. Ci saranno conseguenze positive per il fisco perché con Genova, porto di destinazione, sarà la nostra dogana a recuperare il 25% del valore delle merci sdoganate e che oggi va a vantaggio di altri paesi competitor europei”. Un concetto ribadito anche dal presidente dell’Autorità Portuale di Genova, Luigi Merlo, che ha sottolineato come “così facendo il fisco incasserà 800 milioni di euro l’anno”.

RALLY, DAKAR 2010, APRILIA AL VIA CON QUATTRO BICILINDRICHE

Noale - Quattro bicilindriche Aprilia RXV 4.5 preparate e assistite dal Reparto Corse di Noale prenderanno parte alla Dakar 2010 in partenza da Buenos Aires il 1° gennaio prossimo. Grazie alla collaborazione col Team Giofil - già vincitore della categoria 450cc con Aprilia al Pharaons Rally 2008 e 2009 - le rivoluzionarie bicilindriche Aprilia affronteranno la più epica e più famosa tra le grandi maratone motoristiche col pilota italiano Paolo Ceci, con lo spagnolo Gerard Farres, col cileno Francisco Lopez e con il sanmarinese Alex Zanotti. L'annuncio arriva alla conclusione di una stagione agonistica di grande successo per Aprilia Racing: nelle discipline della velocità sono arrivati tre titoli mondiali (Costruttori nelle classi 125 e 250 e Piloti nella 125 del Motomondiale) che si sommano all'eccellente esordio della velocissima 4 cilindri Aprilia RSV4 Factory nel campionato del mondo Superbike: condotta nella sua prima stagione di gare da Max Biaggi la RSV4 ha stupito conquistando una vittoria, nove podi e portando il pilota romano al quarto posto assoluto della classifica iridata.

OSANNATO DA CRITICA OLTRALPE, 'VINCERE' ESCE IN FRANCIA IN 80 COPIE

Parigi - Osannato da tutta la stampa francese, esce in tutta la Francia in 80 copie distribuito da Ad Vitam Distribution con il titolo italiano "Vincere", l'ultimo film di Marco Bellocchio, presentato in concorso la scorsa primavera al Festival di Cannes.

L'uscita di "Vincere" segue i giudizi entustiatici delle piu' importanti testate di cinema francesi, 'Positiv' e i 'Cahier du cinéma'. Sui Cahiers il film e' stato definito "Un colpo di genio. [....]Il film ha una velocità e una densità che non si sono visti recentemente che nel migliore cinema americano [....]. Vincere inventa una poetica storica che per i suoi aspetti sinfonici, lirici e politici... Quando gli eccessi melodrammatici e l'audacia formale si accompagnano così, si è vicini a un grande sogno di cinema". Ma l'entusiasmo della stampa francese è praticamente unanime: "Marco Bellocchio firma il suo più bel film" (Télérama); "Abbagliante" (3 coleurs); "Una parte di storia appassionante" (Libération); "Una lezione di cinema" (La Croix); "Grande cinema italiano" (Marie Claire).

A. SAUDITA-ITALIA: ROMA PRIMO PAESE UE PER INTERSCAMBIO, SECONDO COME FORNITORE

Roma - Primo paese tra quelli europei per volume di scambi con l'Arabia Saudita (il valore complessivo supera i sette miliardi di euro), l'Italia è , per il regno del Golfo, anche il secondo paese fornitore nonche' il secondo paese acquirente mentre, a livello mondiale, occupa il quinto posto per interscambio. In base a dati Istat, l'interscambio commerciale tra i due paesi ha registrato nel 2008 un aumento del 13,18%, dovuto soprattutto al rialzo del prezzo del petrolio. L'incremento ha aggravato il nostro deficit commerciale nei confronti di Riad, nonostante una crescita del 9,37%delle nostre esportazioni.

L'Arabia Saudita è per l'Italia il primo partner commerciale tra i paesi del Golfo e il terzo dell'intero mondo arabo, dopo Libia e Algeria. Petrolio e gas naturale coprono l'84,9 per cento delle importazioni italiane dall'Arabia Saudita, mentre l'acquisto di prodotti chimici di base e di prodotti petroliferi raffinati, voci minori dell'import, è in costante calo. La prima voce dell'export verso Riad è invece quella della meccanica elettromeccanica/elettronica , 51,58%, seguita da prodotti in metallo, 13,26%, prodotti chimici e farmaceutici, 5,06% e autoveicoli 4,84%. In fase di crescita l'export di beni di consumo.

GARACI, ITALIA QUINTA NEL MONDO PER PRODUZIONE CONOSCENZA

Roma - "La ricerca italiana soffre di alcune criticità, come la scarsità di fondi, ma il nostro Paese è al quinto posto nel mondo per produzione di conoscenza, ad esempio, nel settore cardiovascolare". Lo ha sottolineato Enrico Garaci, presidente dell'Istituto superiore di sanità (Iss), a margine dell'incontro 'Network Pharmacology' organizzato a Roma dall'Iss e dalla Fondazione Sigma-Tau.

"Il nostro problema - ha proseguito Garaci - è che poi abbiamo difficoltà a valorizzare il prodotto della conoscenza, cioè a trasferire i risultati della ricerca farmacologica dal laboratorio al letto del paziente". Il nostro Paese potrà però avere un ruolo di rilievo nell'imboccare nuove strade per lo sviluppo dei medicinali.

ENI, ACQUISTATO 50% DETENUTO DA HERITAGE NEI BLOCCHI 1 E 3A IN UGANDA

Milano, - Eni e Heritage hanno raggiunto un accordo per l'assegnazione a Eni dell'intera quota del 50% detenuta da Heritage nei blocchi 1 e 3A in Uganda per un ammontare pari a 1,35 mld di dollari. Un conguaglio del valore di 150 mln di dollari, da corrispondere in contanti o asset, e' previsto, spiega in una nota l'Eni, all'avverarsi di alcune condizioni future. L'accordo prevede inoltre il trasferimento a Eni della responsabilita' delle operazioni nei due blocchi.

I Blocchi1 e 3A sono situati nel bacino del lago Albert, uno dei piu' importanti bacini sedimentari dell'Africa, e contengono risorse per oltre 1 mld di barili di petrolio equivalente, di cui approssimativamente 700 mln gia' coperti da circa 28 pozzi perforati nell'area.

BREVETTO POLIMI, NASCE LA FIBRA OTTICA DI PLASTICA

Roma - Nasce la fibra ottica di plastica. Il risultato è stato ottenuto nell'ambito del Progetto Europeo Polycom, appena concluso e nato per sviluppare nuovi sistemi per la trasmissione di dati tutta ottica. E con questo progetto "l’ultimo miglio" diventa di plastica. Il progetto, nato da un brevetto del Politecnico di Milano, riguarda infatti le fibre ottiche di plastica (Pof) e sfrutta conoscenze acquisite dalla ricerca di base sui semiconduttori organici.

"Oggi - spiega il Politecnico di Milano - la velocità di trasmissione dei dati in Internet si basa su network di fibre ottiche in vetro. Un sistema troppo fragile e costoso per essere utilizzato per la connessione di reti locali e in piccole distanze come le connessioni domestiche, il cosiddetto 'last mile', dove coesiste ancora con reti in rame. In un futuro molto prossimo, grazie alle fibre di plastica, come quelle sviluppate da Polycom, avremo a disposizione uno strumento dotato di maggiore flessibilità meccanica e per questo più facile da installare e, quindi, meno costoso".

"Le Pof -spiega ancora il Politecnico di Milano- hanno una maggiore dissipazione rispetto alle fibre ottiche tradizionali, sono quindi adatte per distanze minori, il cosiddetto 'last mile', e per reti di piccole dimensioni come le Lan (Local Area Network) di ospedali, strutture pubbliche, autobus e automobili per la gestione dati delle apparecchiature elettroniche del mezzo".

ASTROFISICA, AGILE SCOPRE IL POTENTE RESPIRO DEL MISTERIOSO CYGNUS X-3

Roma - Scoperto il potente 'respiro' di Cygnus X-3, il misterioso e famoso sistema binario, uno tra i più violenti della nostra Galassia. A osservare Cygnus X-3 nell'atto di caricarsi ed espellere un getto di altissima energia è stato un team di astrofisici italiani, statunitensi, inglesi e russi guidati da Marco Tavani dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, grazie ai sofisticati occhi del telescopio spaziale italiano Agile, frutto della collaborazione tra Asi, Inaf e Infn.

Dallo studio, pubblicato su Nature, emerge, riferiscono Inaf, Asi e Infn, "una regolarità di comportamento in cui l’emissione gamma più intensa avviene solo in particolari condizioni, o 'stati' della sorgente che si ripetono nel tempo, anche se in modo non periodico". Secondo gli scienziati l'osservazione di questo fenomeno è di grande interesse per gli astrofisici "perché indica che c'è un meccanismo sottostante che regola i fenomeni di altissima energia".

UN BICCHIERE DI ROSSO AIUTA, LIBRO SUL RAPPORTO VINO ED EROS

Milano - Bacco e Venere vanno d'accordo. Pero' l'importante, come sempre, e' non esagerare e limitarsi al classico bicchiere di vino rosso al giorno. E' ottimistica, ma cauta, la conclusione degli esperti che a Milano hanno presentato il libro 'Vino ed eros' (edito da

Giunti Demetra), promosso dalla Societa' italiana di andrologia (Sia) e depositato all'Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Andrologi, psicologi, urologi, ginecologi e farmacologi provano a fare chiarezza sui legami fra alcol e sessualita'. Il punto di partenza e' scientifico e riguarda sia lui che lei: "Modiche quantita' di vino rosso - afferma infatti Nicola Mondaini, dirigente medico dell'ospedale Santa Maria Annunciata di Firenze - oltre a proteggere il sistema cardiovascolare, svolgono un ruolo protettivo anche per la sessualita' maschile e femminile". Da un lato c'e' uno studio dei ricercatori della University of Western Australia, condotto su 1.580 uomini tra i 20 e gli 80 anni e pubblicato sull''International Society of Sexual Medicine', secondo cui tra i bevitori abituali il tasso di disfunzione erettile e' del 25-30% minore che negli astemi. E poi c'e' uno studio italiano su circa 800 donne 18-50enni residenti nel Chianti, condotto dall'universita' di Firenze e pubblicato sulla stessa rivista.

DA CAGLIARI PRIMO PROGETTO SU TECNOLOGIE PER ESPLORAZIONE UMANA LUNA E MARTE

Cagliari - La sfida: sviluppare, anche con l'ausilio di reazioni chimiche che si autopropagano in gravita' ridotta, come su Marte e sulla Luna, nuovi processi per l'esplorazione umana dello spazio. L'obiettivo: consentire alle missioni spaziali con presenza umana di estrarre e utilizzare le risorse reperibili sul posto (Luna o Marte, appunto), come ossigeno e azoto, essenziali per la sopravvivenza umana e, senza doversi equipaggiare con scorte abbondanti a bordo, oltre a realizzare materiali e strumenti da utilizzare come cassette degli attrezzi per intervenire su piattaforme orbitanti, senza dover necessariamente ritornare a Terra. Non e' la sceneggiatura di un film di fantascienza, ma la carta d'identita', in estrema sintesi, del progetto Combustion synthesis under microgravity conditions (Cosmic) che sara' sviluppato in Italia nell'Universita' di Cagliari, con il coinvolgimento del Dipartimento di Ingegneria Chimica e Materiali, dove lavora Giacomo Cao, coordinatore del progetto. L'Agenzia spaziale italiana (Asi), il cui responsabile di programma e' Andrea Lorenzoni, ha stanziato poco meno di 500mila euro per un anno, finalizzati allo sviluppo di tecnologie innovative non solo per l'esplorazione umana, ma principalmente per il trasferimento tecnologico a supporto di numerose attivita' terrestri, in cui sono attese ricadute importanti.

STUDIO ITALIANO, COCKTAIL A TRE SCUDO DELLE OSSA

Roma - Un cocktail a tre per rinforzare le ossa. Associato a dosi di calcio e di vitamina D, l'alendronato riduce sensibilmente la produzione di osteoclasti, le cellule deputate alla distruzione del tessuto osseo. A dimostrare l'efficacia di questa 'ricetta' anti-osteoporosi e' uno studio condotto in questi mesi all'universita' di Torino, su un gruppo di donne in post-menopausa e con le ossa fragili. Realizzato dall'internista Patrizia D'Amelio, specialista dell'equipe di ricercatori di Giancarlo Isaia, lo studio e' stato presentato al nono convegno della Societa' italiana dell'osteoporosi, del metabolismo minerale e delle malattie dello scheletro (Siommms). La terapia con bisfosfonati e' utilizzata da anni nella cura delle malattie metaboliche dell'osso. Questi farmaci agiscono principalmente inibendo l'attivita' degli osteoclasti, ma nonostante il loro pluriennale utilizzo il meccanismo d'azione resta poco chiaro. Lo studio della D'Amelio e' stato condotto su un campione di 35 pazienti: 15 sono state trattate per tre mesi con 70 milligrammi di alendronato per settimana e 20 con 1 grammo di calcio al giorno addizionato con vitamina D.

IN ARGENTINA PER TENERE ALTO IL NOME DELLA REGIONE TOSCANA

Firenze - E' stato un viaggio nelle comunita' dei toscani all'estero dell'Argentina quello ha compiuto una delegazione proveniente dalla Toscana guidata dal vicepresidente vicario dell'Assemblea dei Toscani all'Estero, Lorenzo Murgia. Un itinerario in due tappe: la prima, che ha visto presente il vicepresidente Sergio Scocci, si e' svolta dal 12 al 17 novembre ed ha toccato La Plata, Buenos Aires e Mendoza. La seconda, iniziata il 17 novembre da Mendoza,ha toccato poi Salta e infine Rosario. Intenso il calendario delle iniziative: incontri ufficiali, mostre, iniziative culturali, momenti conviviali che si sono svolti in occasione degli anniversari delle varie associazioni di Toscani all'Estero che animano la comunita' argentina. Della delegazione fa parte anche una rappresentanza (9 elementi) degli Sbandieratori di Sansepolcro che hanno arricchito con i loro giochi di bandiere le celebrazioni nelle piazze e nelle strade argentine. Molto positive le parole del vicepresidente vicario dei Toscani all'estero, Lorenzo Murgia, che ha sottolineato come ''la vitalita' delle associazioni dei toscani all'estero dell'Argentina abbia saputo creare eventi ed iniziative che al tempo stesso mantengono vivo e vitale il legame con la terra d'origine, ma anche che sanno contribuire a far conoscere e rafforzare all'estero l'immagine della Toscana''.

ROMA, CELEBRATA IN CAMPIDOGLIO GIORNATA MONDIALE

Roma - Si e' svolto nell'aula Giulio Cesare in Campidoglio il convegno 'Gioco, movimento, divertimento: diritti dei bambini', organizzato dall'assessorato alle Politiche Educative Scolastiche, della Famiglia e della Gioventu' del Comune di Roma in occasione della Giornata internazionale dei Diritti dell'Infanzia e del ventennale della Convenzione dei diritti dei minori, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre del 1989 a New York e ratificata dall'Italia il 27 maggio del 1991 con la legge n. 176. Con il convegno, che ha visto la partecipazione di Claudio Leone vicepresidente vicario dell'Unicef, di Francesco Susi, preside della facolta' di Scienze della formazione di Roma Tre, di Marisa D'Alessio, preside della facolta' di Psicologia della Sapienza - Universita' di Roma, di Silvana Sperati, dell'associazione Bruno Munari e Dora Giusti e specialista in protezione dell'infanzia del Centro di ricerca Innocenti dell'Unicef di Firenze, si e' voluta promuovere la riflessione e sviluppare un dibattito sui diritti primari ed inalienabili dei bambini, in particolare sul diritto al gioco - art. 31 della Convenzione dei diritti dell'Infanzia che sancisce il diritto al gioco per i minori.

AL WORLD REGIONS FORUM FIRMATA LA CARTA DI MILANO

Milano - Nella giornata conclusiva del World Regions Forum, i rappresentanti delle 15 Regioni che hanno partecipato all'iniziativa -Baden Wuerttemberg, Baviera, California, Gauteng (Johannesburg, Sudafrica), Ile de France (Parigi), Illinois, Lombardia, Madrid, Nuevo Leon (Messico), New South Wales (Sidney, Australia), Quebec, San Pietroburgo, San Paolo (Brasile), Shangai, Singapore- hanno sottoscritto la 'carta di Milano' nella quale viene riconosciuta l'importanza dei governi subnazionali nella gestione delle sfide piu' importanti a livello internazionale. La 'carta' attesta inoltre che lo sviluppo sostenibile racchiude la dimensione economica, sociale ed ambientale per le generazioni presenti e future. La dichiarazione osserva poi che la governance globale si basa sulla cooperazione tra diverse comunita' e impegna i sottoscrittori ad affrontare le sfide globali assumendo ruoli chiave in grado di sostenere e migliorare lo sviluppo ambientale, sociale ed economico dei rispettivi territori. Le Regioni o i Governi Subnazionali precisano di essersi incontrati a Milano "per condividere ed integrare competenze, esperienze e buone pratiche in modo da proporre modelli innovativi di cooperazione internazionale che dovranno essere messi a disposizione delle rispettive comunita' e del mondo intero per contribuire a fronteggiare l'attuale crisi economica, nonche' le sfide presenti e future, promuovendo la crescita e il benessere a livello globale nell'ambito della realta' post-crisi".

CATANIA ORGANIZZERA' MONDIALI 2011

Palermo - Catania organizzera' i Mondiali di scherma del 2011. Lo ha deciso il Congresso della Federazione internazionale (Fie) riunito a Palermo. Nella prima tornata di voti, i delegati hanno attribuito 55 voti a Catania, 42 a Budapest e 13 a Tianjin. Nel ballottaggio, Catania ha battuto Budapest 62-52. ''E' un onore per la scherma italiana poter ospitare questi Mondiali'', ha detto il presidente della Federscherma (Fis), Giorgio Scarso. ''E' nella nostra responsabilita' di far bene e di offrire al mondo non solamente una gara sportiva di elevato livello, ma un evento che sara' impresso per sempre nella mente dei partecipanti'', ha aggiunto. La rassegna iridata torna in Italia dopo le edizioni del 1929 a Napoli, del 1955 e 1982 a Roma, del 1961 e 2006 a Torino.

MINISTRO CINESE, MERCATO ITALIANO MOLTO INTERESSANTE

Kunming - "Il mercato italiano e' molto interessante perche' l'Italia e' una terra ricca di storia e cultura, ma anche la natura e' molto bella e il popolo italiano estremamente gentile". Lo ha detto il ministro del Turismo cinese, Shao Qiwei al termine dell'incontro con il ministro del Turismo Michela Brambilla alla Fiera di Kunming China International Travel Mart. "La comunicazione -ha sottolineato- tra Italia e Cina ha una storia molto lunga e l'Italia infatti e' ben conosciuta dai cinesi. Vogliamo che piu' italiani visitino la Cina. Dopo la visita del ministro ne devono arrivare molti altri. L'anno prossimo sara' l'anno della cultura cinese in Italia. E c'e' un collegamento molto stretto tra cultura e turismo". Il ministro del Turismo cinese ha infine sottolineato l'importanza di avere "visti per i cinesi piu' velocemente", ma anche dei servizi che offre l'Italia ai viaggiatori come "vedere le televisioni cinesi e una guida in cinese".

SICILIA IN MOSTRA AL 'FOOD HOSPITALITY' DI SHANGHAI

Palermo – Un gruppo di aziende siciliane della filiera agroalimentare di qualita' ha debuttato nel mercato cinese alla 13esima edizione della fiera internazionale 'Food Hospitality China 2009' di Shanghai. In un padiglione dal titolo ''Made in Sicily'', in posizione strategica (di fronte all'ingresso principale del polo fieristico), sono stati esposti i prodotti a marchio siciliano. Alla presenza di buyer della grande distribuzione e della stampa internazionale specializzata, con il supporto di personale cinese, le aziende hanno presentato le loro buone pratiche e i loro prodotti nel corso di cinque seminari. Ciascuna impresa ha avuto a disposizione anche una propria vetrina nella sala meeting allestita dall'Ice (Istituto per il commercio estero). L'iniziativa, indirizzata all'internazionalizzazione delle aziende che hanno aderito al progetto 'Sicily looking East', e' stata promossa dall'assessorato Agricoltura e Foreste della Regione siciliana, con la collaborazione dell'Ice e dell'agenzia di servizi 3 Emme Lab, che si e' avvalsa del supporto tecnico di un team italo-cinese per presentare al meglio il brand Sicilia. Hanno partecipato al progetto di internazionalizzazione aziende di Agrigento, Catania, Messina e Palermo, oltre ad alcuni consorzi di tutela e associazioni di categoria.

ASSOCAMERESTERO, AVANTI ADAGIO SUI MERCATI INTERNAZIONALI

Roma - ''L'Italia, nonostante registri un calo tendenziale dell'export complessivo del 18%, peraltro in linea con quello dei principali competitor europei, e' il Paese che, in valore assoluto, ha perso meno terreno all'estero insieme al Regno Unito, con una riduzione delle vendite pari a 5,7 miliardi di euro, inferiore a quella della Francia (-6 miliardi) e di quasi tre volte a quella della Germania (-16,4 miliardi)''. A sottolinearlo in una nota e' Assocamerestero commentando i dati Istat sul commercio estero. Il dato complessivo, afferma Gaetano Fausto Esposito, il segretario generale di Assocamerestero, ''e' anche attribuibile ad una sempre piu' differenziata strategia di vendita delle nostre imprese sui mercati intra ed extra-europeo pur di mantenere saldo il mercato europeo, le imprese, infatti, riducono i margini di profitto contraendo i prezzi di vendita, mentre nei Paesi extra-Ue in fase di espansione, come Cina, Giappone e India, insistono su politiche di prezzo piu' vantaggiose. Non bisogna dimenticare che ormai questi mercati, seppure geograficamente distanti, detengono una quota del 40% dell'export complessivo e verso di essi si dirige un quarto delle nostre aziende fino a 49 addetti''. In un mese il Made in Italy recupera 7 miliardi sui mercati mondiali: i settori che registrano le migliori performance sono la meccanica e i mezzi di trasporto, aumentati entrambi di 1,6 miliardi di euro.

BRAMBILLA, ITALIA PARTECIPERA' CON 8 PRODOTTI TURISTICI TEMATICI

Roma - ''Ritorneremo nel mese di maggio in Cina in occasione dell'Expo di Shangai. L'Italia avra' una presenza molto importante, abbiamo un grande progetto al quale stiamo lavorando: otto prodotti turistici tematici, tenendo presente che gli amici della Cina amano la nostra arte, la nostra cultura, la nostra enogastronomia e naturalmente il nostro Made in Italy''. Lo ha detto il ministro del Turismo, Michela Vittoria Brambilla, al termine della missione istituzionale in Cina, in occasione del China International Travel Mart, a cui l'Italia ha partecipato per la prima volta con un stand di rilievo.

DOMPE', RICONOSCIMENTI A CHIESI E MENARINI SUCCESSO ITALIANO

Milano - "I riconoscimenti ottenuti da Menarini, con il premio Eubiosia per un progetto di ricerca contro le patologie oncologiche, e dal gruppo Chiesi con il primo posto tra gli investitori italiani in Ricerca Sviluppo nella farmaceutica, sono un successo made in Italy". Cosi' il presidente di Farmindustria, Sergio Dompe', commenta il premio assegnato a Menarini dall'Associazione nazionale tumori (Ant), e i risultati del 'Quadro di valutazione 2009 degli investimenti industriali europei in Ricerca Sviluppo', elaborato dal Joint Research Centre della Commissione Europea, secondo cui Chiesi e' al primo posto tra gli investitori italiani in R&S nel comparto farmaceutico. "Le imprese del farmaco italiane - sottolinea il numero uno di Farmindustria - dimostrano cosi', ancora una volta, la capacita' di eccellere anche a livello internazionale, in un periodo di crisi economica e di forte trasformazione strutturale del settore. Una realta', quella farmaceutica - ricorda Dompe' - in grado di contribuire allo sviluppo del Paese, capace di esportare il 53% della produzione e sviluppare innovazione in oltre 200 progetti di ricerca

italiani, con 136 prodotti biotech in fase clinica". Secondo il presidente delle aziende farmaceutiche attive in Italia, "continuare a investire in futuro sara' quindi possibile solo in presenza di prospettive di medio-lungo termine, assolutamente fondamentali per un'industria che impiega fino a 15 anni e circa 1 miliardo di euro per la ricerca di un nuovo farmaco".



Le News - Adnkronos Altro (http://www.adnkronos.com/IGN/Altro/?id=3.0.4037108144)

Unghern Kahn
25-11-09, 17:14
Si ridimensiona la portata della ripresa economica negli Stati Uniti. Nel terzo trimestre 2008 la crescita del Pil è stata pari al 2,8%, nettamente più bassa del 3,5% stimato il mese scorso. Pur evidenziando il maggiore avanzamento degli ultimi due anni, il dato fornito dal Dipartimento al Commercio delude ed evidenzia alcuni problemi come la crescita delle importazioni (+20,8%), più rapida di quella delle esportazioni (+16,4%), nonostante il mini-dollaro. Tuttavia, la Federal Reserve ha rivisto al rialzo le stime sul Pil Usa per il 2010, visto in crescita tra il 2,5% e il 3,5%. Lo si legge nelle minute delle riunioni del Fomc, il braccio di politica monetaria della Banca Centrale americana, tenutesi gli scorsi 3-4 novembre.
Si sta stabilizzando anche il mercato delle abitazioni. Nel terzo trimestre di quest’anno i prezzi sono aumentati mediamente dell’1,3% rispetto ai tre mesi precedenti, anche se nell’anno la perdita resta notevole (-9,36%). Anche la fiducia dei consumatori Usa, calcolata dal Conference Board, offre qualche segnale di ripresa in novembre. Tuttavia, la percezione attuale della situazione economica resta negativa. Bisognerà vedere come queste sensazioni influenzeranno gli atteggiamenti dei consumatori americani alla vigilia di due appuntamenti essenziali: domani, 26 novembre è il Thanksgiving, una delle festività più sentite negli Stati Uniti, a cui fa seguito il cosiddetto black friday, giornata di sconti sensazionali in tutto il Paese. In dicembre, poi, prende il via la stagione dei regali natalizi: secondo il sondaggio del Conference Board, la famiglia americana media spenderà 390 dollari, il 7% in meno dell’anno passato.
La deludente crescita americana ha influenzato i mercati finanziari e il cambio: il dollaro è sceso ai minimi delle ultime sei settimane nei confronti dello yen giapponese, mentre il cambio con l’euro è rimasto piatto. Le Borse hanno girato in negativo, e quelle europee hanno tutte chiuso col segno meno: Francoforte -0,55%, Parigi -0,75%, Londra -0,59%. Più corposi i ribassi in Piazza Affari (Ftse all share in calo dell’1,06% e il Mib dell’1,08%). Debole anche Wall Street: Dow Jones -0,13% e -0,36% il Nasdaq.
«L’economia globale si è stabilizzata, migliora, ma è ancora vulnerabile», sottolinea il direttore generale del Fondo monetario, Dominique Strauss-Kahn. E ricorda che la disoccupazione è ai massimi storici «e potrà ancora salire». In questa prospettiva, secondo il Fmi sarebbe sbagliato avviare troppo presto le exit strategy dalle misure straordinarie messe in campo dai governi per fronteggiare la crisi. «La sostenibilità della ripresa - avverte il managing director del Fondo - dipenderà dalle decisioni che saranno assunte nei prossimi mesi». Strauss-Kahn vede anche il rischio di bolle nei mercati finanziari: «Abbiamo scacciato il fuoco, ma adesso c’è acqua dappertutto», osserva, anche se ritiene che per le politiche monetarie accomodanti la exit strategy sia più facile rispetto alle politiche di sostegno all’economia reale.


La Cina spaventa i mercati Delude la crescita in America - Economia - ilGiornale.it del 25-11-2009 (http://www.ilgiornale.it/economia/la_cina_spaventa_mercati_delude_crescita_america/25-11-2009/articolo-id=401604-page=0-comments=1)

Unghern Kahn
04-01-10, 11:22
(AGI) - Shangai, 4 gen. - La paura del terrorismo arriva in Cina. L'esercito cinese rafforzera' le misure di sicurezza in occasione dell'esposizione universale del 2010 a Shangai, che terra' dall'1 maggio al 31 ottobre. Lo riferisce il quotidiano "China Daily". Yu Zhengsheng, segretario del Partito Comunista cinese a Shangai, ha affermato: "Faro' tutto cio' che e' in mio potere per garantire la sicurezza operativa all'Expo". E' atteso l'arrivo di 70 milioni di visitatori, cinque dei quali stranieri. (AGI) .


AGI News On - TERRORISMO: CINA RAFFORZERA' SICUREZZA PER EXPO SHANGAI (http://www.agi.it/rubriche/ultime-notizie-page/201001040856-cro-rom0013-terrorismo_cina_rafforzera_sicurezza_per_expo_shan gai)

Unghern Kahn
04-01-10, 11:23
Apple: si censuriamo le applicazioni del Dalai Lama in Cina
Qualche giorno fa aveva destato un po' di meraviglia la totale assenza delle applicazioni riguardanti il Dalai Lama nell'App Store cinese.

Come saprete, infatti, il governo cinese teme che il leader buddhista possa aprire le menti ai cittadini e stimolare le rivolte. Per tale ragione è stato istituito un "Grande Firewall cinese" per bloccare l'accesso ai siti pericolosi, come YouTube e Twitter.



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[21/06/09] Cina: ancora blocco per Internet. E' la volta di Google
[25/03/09] Cina: ancora censura per YouTube
[17/02/08] Internet: nuovo caso di censura in Cina
[25/09/07] Starbucks e il download musicale
[12/12/05] Anche il Dalai Lama ha il suo sito Web!


Apple: si censuriamo le applicazioni del Dalai Lama in Cina [News Internet] (http://www.pc-facile.com/news/apple_censuriamo_applicazioni_del_dalai_lama_cina/65805.htm)

Unghern Kahn
04-01-10, 11:24
(ANSA) - NEW YORK, 1 GEN - La Apple blocca su App Store cinese tutti i programmini per l'iPhone sul Dalai Lama e sul leader degli uighuri in esilio Rebiya Kader. Lo scrive l'agenzia americana specializzata in notizie tecnologiche IDG News Service. Una portavoce della Apple, Trudy Muller, lo ha implicitamente confermato: 'continuiamo a rispettare le leggi locali', 'non tutte le App sono disponibili in tutti i paesi'. Apple, Yahoo! e Google hanno accettato la censura in Cina nonostante le critiche occidentali.


Apple: in Cina no App su Dalai Lama - Mondo - ANSA.it (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2010/01/01/visualizza_new.html_1650772220.html)

Unghern Kahn
08-01-10, 12:56
La Cina è ora la prima esportatrice mondiale, davanti alla Germania. Lo rende noto l'ufficio di statistica tedesco. Nei primi 11 mesi del 2009 da gennaio a novembre, le esportazioni cinesi hanno raggiunto un totale di 748 miliardi di euro (1.070 miliardi di dollari), mentre quelle tedesche si sono attestate a 734,6 miliardi di euro (1.050 miliardi di dollari).

È dal 2003 che la Germania guidava la classifica degli esportatori globali. A novembre il surplus commerciale tedesco sale a 17,2 miliardi di euro, ai massimi da 17 mesi, dai 13,6 miliardi di euro di ottobre. L'export avanza dell'1,6% mensile e del 12% annuale a 70,6 miliardi di euro e l'import cala del 5,9% mensile a 53,4 miliardi di euro.



La Cina supera la Germania e diventa leader export mondiale - Il Sole 24 ORE (http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2010/01/cina-germania-export.shtml?uuid=1d3e2180-fc2b-11de-a982-fad58e4d6543&DocRulesView=Libero)

Unghern Kahn
09-01-10, 14:08
Roma, 13:52
ITALIA-CINA: INTERSCAMBIO A 40 MILIARDI NONOSTANTE CRISI

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L'interscambio tra Italia e Cina si fa beffe della crisi e segna un nuovo record: 40 miliardi di dollari nel 2009. Lo ha reso noto l'ambasciatore cinese a Roma, Sun Yuxi, secondo il quale il volume di affari tra Roma e Pechino e' cresciuto di due miliardi di dollari rispetto al 2008. Gli scambi economici "cresceranno ancora con passo deciso" ha aggiunto.

8 gennaio 2010



ITALIA-CINA:-INTERSCAMBIO-A-40-MILIARDI-NONOSTANTE-CRISI | Economia (http://economia.repubblica.it/news/ITALIA-CINA:-INTERSCAMBIO-A-40-MILIARDI-NONOSTANTE-CRISI/3745826)

Spetaktor
09-01-10, 14:13
IL PARTITO COMUNISTA CINESE E LA TEORIA DEI “PROFONDI CAMBIAMENTI”

Mentre i marxisti e la sinistra antagonista occidentale dormono sonni profondi in campo teorico, almeno nella loro maggioranza, il partito comunista cinese (PCC) continua il suo lungo lavoro di ricerca innovativa sul fronte ideologico-culturale.

Alla fine di novembre del 2009, il compagno Hu Jintao -segretario generale del PCC- ha esposto un nuovo lavoro collettivo di approfondimento del partito in campo teorico, e cioè la teoria dei “profondi cambiamenti” in materia di politica internazionale contemporanea.

Hu Jintao ha premesso che il mondo contemporaneo “sta affrontando cambiamenti storici senza precedenti” e che pertanto in modo dialettico “il nostro tempo è pieno sia di opportunità, che di sfide”, di pericoli: a suo avviso diventa urgente e necessario sviluppare il pensiero strategico dei comunisti cinesi con una serie di “punti fondamentali” che corrispondano alle tendenze/controtendenze fondamentali formatesi all’inizio del XXI secolo, rispondendo a tutti i problemi contemporanei e portando il PCC in posizione di avanguardia teorica nel nostro tempo.

Primo punto: la situazione internazionale, secondo Hu Jintao, sta continuando a cambiare in modo profondo ed omnicomprensivo con il declino delle tendenze unipolari ed egemoniche (si legga, a nostro avviso, imperialismo statunitense), in un quadro generale nel quale la prospettiva del multipolarismo su scala planetaria sta invece diventando sempre più reale e forte.

In secondo luogo, l’ascesa di alcuni dei più grandi paesi del mondo in via di sviluppo, a partire dalla Cina e dall’India, sta diventando per il PCC un trend molto importante all’interno dell’arena internazionale: analisi a nostro avviso corretta, che tra l’altro conferma una previsione contenuta nell’ultimo libro di Lenin (”Meglio meno, ma meglio” del marzo 1923) sull’Asia.

Ma, terzo nodo fondamentale, la posizione di superiorità detenuta dai paesi sviluppati (USA, Europa di Maastricht, Giappone) in termini di potenza globale e competenze/conoscenze non è ancora cambiata: questi ultimi stanno facendo del loro meglio, secondo il corretto giudizio del PCC, per mantenere ed espandere il “vecchio ordine mondiale” che è favorevole per loro, e cercano di tutelare i loro principali interessi politici ed economici “con ogni mezzo possibile”: in sintesi, essi svolgono ancora un ruolo molto importante nella politica internazionale, non certo positivo.

La parola e categoria di imperialismo aleggia nell’aria, anche se non è pronunciata apertamente…

Quarto punto fondamentale: a giudizio di Hu Jintao, la scienza e la tecnologia stanno diventando la principale forza motrice nella promozione del progresso su scala mondiale.

Non solo la scienza e la tecnologia contemporanea stanno compiendo dei passi in avanti “stupefacenti” (ignorati da larga parte della sinistra antagonista, a nostro avviso) e producendo un aumento enorme della produttività mondiale, ma stanno anche determinando un impatto importante nel campo della politica, della cultura e dei rapporti di forza militare, sempre secondo il documento del PCC.

Sotto tutti questi aspetti e campi d’azione, oltre che naturalmente sotto quello economico, l’alta tecnologia di tipo strategico (supercomputer, nuove fonti energetiche, ricerca spaziale, telecomunicazioni, biotecnologie ed ingegneria genetica, nanotecnologie, ecc.) secondo il PCC sta diventando non solo il fattore determinante nello sviluppo economico e sociale, ma anche e soprattutto il punto focale nella competizione relativa alla potenza globale ed ai rapporti di forza su scala internazionale.

In forma creativa, si riprende pertanto la tesi di Lenin sull’importanza del successo nello sviluppo della produttività sociale per l’affermazione/sconfitta in ultima istanza dei sistemi socioeconomici, capitalismo e socialismo in testa (”la grande iniziativa”, giugno 1919).

Quinto nodo centrale: se la tendenza verso un mondo multipolare è irreversibile anche sul piano politico-internazionale, a giudizio del PCC anche “l’egemonismo” (si legga imperialismo statunitense) e le “politiche di potenze vedono nuovi sviluppi e nuovi modi di manifestazione”. Un’allusione all’amministrazione Obama, neanche tanto velata? Crediamo che la risposta sia positiva.

Non a caso, aggiunge Hu Jintao rispetto alla dinamica del rapporto di forze globale su scala internazionale,un modello di base che descrive un “forte nord del pianeta ed un debole sud, un forte Ovest ed un debole Oriente” è presentato su vasta scala ed in tutto il mondo:. pertanto la polarità dialettica tra tendenze multipolari e controtendenze egemoniste viene indicata come uno degli assi della dinamica politico-sociale internazionale del Ventunesimo secolo.

Sesto punto fondamentale: se da un lato il progresso tecnologico e scientifico, che riguarda anche e soprattutto il settore economico-cognitivo e quello delle informazioni, è inarrestabile, anche in questo settore gran parte del mondo in via di sviluppo è posta forzatamente in una “posizione sfavorevole”, con un grande handicap rispetto ai paesi del nord del pianeta.

Settimo nodo. Sul piano ideologico-culturale, se il rispetto reciproco tra le diverse culture e civiltà mondiali si sta progressivamente affermando, “i paesi occidentali stanno intensificando l’esportazione delle loro ideologie, sistemi sociali e modelli di sviluppo “, oltre a “istigare tutti i generi possibili di rivoluzioni colorate” secondo il (corretto) giudizio del PCC.

Ottavo punto centrale: sebbene la tendenza alla pace ed allo sviluppo stia prendendo sempre più piede nelle relazioni internazionali, “i conflitti e le guerre locali non si fermano”, mentre certi “temi caldi”(allusione evidente a Palestina,Iraq/Afghanistan, ecc.) non possono “rimanere ancora irrisolti per lungo tempo”.

Secondo il PCC, permane in sostanza la popolarità dialettica tra pace e guerra anche all’inizio del terzo millennio.

A nostro giudizio, il materiale collettivo presentato da Hu Jintao costituisce un’interessante contributo con un’evidente carica antimperialista, seppur espressa in termini e forme molto caute.

Un mondo in via di cambiamento radicale…

L’ascesa pacifica di Cina ed India…

Lo scontro tra tendenze e controtendenze in campo internazionale (egemonismo/multipolarismo, ecc.)…

L’eccezionale importanza attribuita all’alta tecnologia di tipo strategico, anche rispetto al processo di trasformazione dei rapporti di forza internazionali…

La pesante ed aperta critica all’esportazione del modello occidentale e capitalistico in tutto il mondo…

Carne al fuoco, sia da commentare che da criticare, ve n’è in quantità. Pertanto facciamo una “modesta proposta”, per seguire in parte la terminologia di J. Swift (che proponeva di … mangiare i bambini): e se i comunisti italiani aprissero nel 2010 una discussione a tutto campo su questi temi, interagendo e dialogando in piena autonomia con il partito comunista cinese?

Tra una mangiata di bambini e l’altra, ovviamente…

Fonte: “President Hu elaborates the theory of profond changes”, in english.cpc.people.com.cn

2 gennaio 2010

La Cina Rossa (http://www.lacinarossa.net)

Unghern Kahn
12-01-10, 11:25
PECHINO (Reuters) - La Cina ha testato con successo una nuova tecnologia militare volta a distruggere i missili a medio raggio. Lo ha comunicato il governo, mentre i media di stato hanno avvertito gli Stati Uniti che la vendita di missili a Taiwan danneggerebbe i rapporti con Pechino.

Il rapporto dell'agenzia di stato Xinhua sulla "tecnologia per l'intercettazione dei missili a medio raggio" non ha fornito ulteriori dettagli e non ha specificato se, durante il test, siano stati distrutti missili sul suolo cinese.

"Il test ha ottenuto il risultato previsto", ha fatto sapere l'agenzia, senza specificare quale fosse questo risultato.

"Il test ha natura difensiva e non ha come obiettivo alcun paese", ha detto il ministro degli Esteri cinese, secondo quanto riportato da Xinhua.

L'annuncio del governo cinese arriva subito dopo il via libera, da parte di Washington, alla vendita di missili difensivi Patriot a Taiwan, nonostante la ferma opposizione di Pechino.

Il malcontento di Pechino nei confronti di Washington potrebbe intaccare i rapporti diplomatici tra i due paesi, in un momento in cui le due potenze mantengono già un atteggiamento diffidente anche per quanto riguarda commercio ed economia.

Pechino considera Taiwan parte integrante della Cina e considera la vendita di armi da parte degli Usa un'intromissione in questioni puramente interne.




Cina, test antimissile dopo vendita armi Usa a Taiwan | Prima Pagina | Reuters (http://it.reuters.com/article/topNews/idITMIE60B02920100112)

Unghern Kahn
03-02-10, 11:24
La rivolta di Google contro la censura. La vendita di armi americane a Taiwan. Il viaggio del Dalai Lama negli Stati Uniti. La proposta di Nobel per la Pace al dissidente Liu Xiaobo. Le numerose diatribe scoppiate all'improvviso negli ultimi giorni tra Washington e Pechino hanno precipitato le relazioni sino-americane a uno dei livelli più bassi dell'ultimo decennio.

La reazione cinese è stata a dir poco scomposta. Dopo essere riuscita a tenere il confronto sul caso Google entro i recinti della diplomazia e del buon senso, nelle ultime ore la nomenklatura ha perso letteralmente le staffe investendo gli Stati Uniti con una raffica di invettive e di minacce di ritorsioni senza precedenti. Una in particolare, le sanzioni contro le aziende americane che venderanno armi a Taiwan, rappresenta una novità assoluta e, al tempo stesso, un salto di qualità importante negli strumenti di engagement cinesi in politica internazionale.

La replica rabbiosa di Pechino e la rappresaglia contro le società Usa ricorda al mondo intero una cosa molto importante, di cui ci si era ormai quasi dimenticati: nonostante la formidabile crescita economica dell'ultimo ventennio, la Cina continua a essere un paese ad elevato rischio politico.

Gli strali e le intimidazioni lanciati dal Dragone nelle ultime ore dimostrano l'esistenza di due Cine. C'è la Cina buona, quella che si percepisce quando si sbarca nelle grandi città del paese restando a bocca aperta di fronte alle mirabilie dello sviluppo e della modernizzazione cinese. E c'è la Cina cattiva, quella retriva, liberticida, paranoica, nazionalista, che viene a galla puntualmente in tutte le crisi politiche che colpiscono la superpotenza asiatica dall'interno o dall'esterno.

Indipendentemente da quale sarà l'epilogo delle numerose querelle che avvelenano i rapporti tra la nomenklatura e l'Amministrazione Obama, un fatto è certo: la comunità internazionale dovrà fare sempre di più i conti anche con la Cina cattiva. E questo è un fattore di cui anche gli investitori internazionali, ingolositi dal mercato da 1,3 miliardi di consumatori e frastornati dalle lusinghe di consulenti, finanzieri e faccendieri vari, in futuro dovranno tenere in debito conto prima di portare i loro quattrini oltre la Grande Muraglia.


La Cina resta un paese ad alto rischio politico - Il Sole 24 ORE (http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2010/02/cina-obama-rischio-politico.shtml?uuid=3c4a0b32-109b-11df-a809-c23ba46922d2&DocRulesView=Libero)

Unghern Kahn
03-02-10, 11:25
EST - Obama-Dalai Lama, l'altolà della Cina
Pechino fermamente contraria a "qualsiasi contatto"

Roma, 3 feb (Velino) - La Cina "si oppone fermamente a che il leader degli Stati Uniti abbia contatti con il Dalai Lama con qualsiasi pretesto e in qualsiasi forma". Questa la dura reazione del Ministero degli Esteri cinese alla decisione del presidente americano Obama di incontrare il Dalai Lama dal prossimo 16 febbraio, quando il leader spirituale tibetano sarà negli Stati Uniti per una visita di dieci giorni. Il presidente Obama, secondo fonti della Casa Bianca, aveva già informato Hu Jintao della sua intenzione lo scorso novembre, durante la visita a Pechino, ma in quella stessa occasione anche il presidente cinese, ricorda il portavoce del ministero, Ma Zhaoxu, aveva ribadito la contrarierà della Cina "a qualsiasi incontro di esponenti e funzionari del governo" Usa con il leader tibetano.

"Esortiamo gli Stati Uniti a comprendere in pieno l'alta sensibilità della questione tibetana e ad affrontare in modo prudente e appropriato ciò che ne consegue evitando di arrecare ulteriori danni alle relazioni sino-americane", dichiara oggi il portavoce Zhaoxu. "Ulteriori" è un implicito riferimento alle tensioni dei giorni scorsi tra Pechino e Washington sulla libertà di Internet e la vendita di armi a Taiwan. Due settimane fa, infatti, il solenne discorso di Hillary Clinton che chiamava in causa direttamente Pechino per la censura del web. Poi, la vendita a Taiwan di armi "difensive" per un valore di 6,4 miliardi di dollari, che ha portato Pechino a minacciare sanzioni nei confronti delle aziende Usa coinvolte. "I rapporti tra il governo centrale e il Dalai Lama sono una questione interna alla Cina. Ci opponiamo a qualsiasi tentativo di una forza straniera di interferire con le questioni interne cinesi usando come pretesto" il Dalai Lama, ha spiegato in una conferenza stampa Zhu Weiqun, responsabile del Partito comunista cinese per le etnie e gli affari religiosi.

(Federico Punzi) 3 feb 2010 10:02

il VELINO Agenzia Stampa Quotidiana Nazionale | Leggi l'articolo (http://www.ilvelino.it/articolo.php?Id=1052722)

Unghern Kahn
19-02-10, 10:32
TONGREN, China (Reuters) - La Cina ha accusato il presidente Usa Barack Obama di aver "seriamente danneggiato" i rapporti diplomatici tra le due superpotenze ospitando il Dalai Lama e ha fatto sapere che è ora compito di Washington farli migliorare.

Obama ha incontrato ieri alla Casa Bianca il Dalai Lama, leader tibetano in esilio, nonostante la possibilità che questo incontro potesse acuire ulteriormente le tensioni con Pechino, già alte su temi come la vendita di armi da parte degli Stati Uniti a Taiwan, le politiche monetarie cinesi e le dispute su commercio e internet.

"Le azioni degli Usa equivalgono ad una seria interferenza in questioni di politica interna della Cina, e hanno seriamente ferito i sentimenti del popolo cinese e gravemente danneggiato le relazioni Cina-Stati Uniti", ha commentato il portavoce del ministero degli Esteri cinese Ma Zhaoxu.

Gli Usa dovrebbero "immediatamente prendere delle contromisure per scongiurare gli effetti maligni", ha spiegato Ma.

"Facciano azioni concrete per promuovere un proficuo sviluppo delle relazioni tra Cina e Stati Uniti".

Il vice-ministro degli Esteri cinese, scrive l'agenzia stampa ufficiale Xinhua, ha "presentato le sue solenni rimostranze" all'ambasciatore Usa Jon Huntsman.

Pechino accusa il Dalai Lama di alimentare i disordini per favorire la separazione del Tibet dalla Cina. Il leader tibetano, invece, ha sempre sostenuto che la regione vuole solo maggiore autonomia.

Questo incontro, però, potrebbe complicare i piani di Obama, che sta cercando l'appoggio di Pechino sia per quanto riguarda le sanzioni da imporre all'Iran per quanto riguarda il programma nucleare, sia per un accordo definitivo sulle emissioni di carbonio.

"Questo non è il primo incontro tra un presidente Usa e il Dalai Lama, ma entrambe le parti erano a conoscenza della prevedibile reazione cinese", ha commentato Jin Canrong, esperto di relazioni diplomatiche Usa-Cina all'Università Renmin di Pechino.

"Ma penso che sia presto per dire che le tensioni sono superate. Ci sono ancora temi come la vendita di armi a Taiwan, il commercio e la politica monetaria cinese che possono acuire questa tensione".


Cina: incontro Obama-Dalai Lama ha danneggiato rapporti Usa-Cina | Prima Pagina | Reuters (http://it.reuters.com/article/topNews/idITMIE61I01O20100219)

Stalinator
19-02-10, 11:58
Porrei anche l'attenzione su questo... :giagia:

LA CIA SPONSOR DEL DALAI LAMA
di Jean Paul Desimpelaere
Patrick French, quando era direttore della Free Tibet Campaign (Campagna per l’indipendenza del Tibet) in Inghilterra, è stato il primo a poter consultare gli archivi del governo del Dalai Lama in esilio. Ne ha tratto conclusioni sconvolgenti.

I Cinesi hanno liquidato i Tibetani?
Accueil Solidaire (http://www.solidaire.org/) 31-05-2006

E’ giunto alla conclusione disilludente che le prove del genocidio tibetano da parte dei Cinesi erano state falsificate e ha subito dato le dimissioni dalla carica di direttore della Campagna per l’indipendenza del Tibet (”Tibet, Tibet”, P. French, Albin Michel, 2005)

Negli anni sessanta, sotto la direzione del fratello del Dalai Lama, Gyalo Thondrup, furono raccolte delle testimonianze tra i rifugiati tibetani in India. French constatò che le cifre dei morti erano state aggiunte in margine successivamente. Altro esempio, lo stesso scontro armato, narrato da cinque diversi rifugiati, era stato contabilizzato cinque volte. Nel frattempo la cifra di 1,2 milioni di uccisi da parte dei Cinesi faceva il giro del mondo.

French afferma che questa cifra non è semplicemente possibile: essa riguarda solamente gli uomini. Ma in effetti, all’epoca, non vi erano più di 1,5 milioni di Tibetani maschi. Se la cifra propagandata fosse vera, oggi non dovrebbe essercene quasi più nessuno. In seguito, invece, la popolazione è aumentata fino a raggiungere, attualmente, la soglia di quasi 6 milioni di abitanti, vale a dire quasi due volte di più rispetto al 1954. Dati forniti sia dal Dalai Lama, sia dalle autorità cinesi, straordinariamente d’accordo per una volta.

Gli osservatori internazionali (La Banca mondiale, L’Organizzazione mondiale di sanità) accettano questi dati. Cosa che non impedisce che ancora oggi il Dali Lama continui a pretendere che 1,2 milioni di Tibetani siano stati uccisi dai Cinesi.

Il Dalai Lama è una sorta di papa del buddismo mondiale?

Su questo punto occorre relativizzare le cose. Il 6% della popolazione mondiale è buddista. E’ poco. Inoltre, il Dalai Lama non è affatto il rappresentante del buddismo zen (Giappone), né del buddismo del Sud est asiatico (Tailandia), e nemmeno del buddismo cinese. Il buddismo tibetano rappresenta solo 1/60 di questo 6%. Infine esistono anche in Tibet quattro scuole separate. Il Dalai Lama appartiene ad una di queste: la “gelugpa”(i berretti gialli). In breve, si tratta di un papa seguito da pochissimi seguaci religiosi, ma da moltissimi adepti politici…

Chi sono i suoi sponsor?

Dal 1959 al 1972:

- 180.000 dollari all’anno per lui personalmente sui libri paga della CIA (documenti desecretati dal governo nordamericano; il dalai lama ha negato la cosa fino al 1980)
- 1,7 milioni di dollari all’anno per la organizzazione della sua rete internazionale

In seguito lo stesso ammontare è stato versato attraverso una dotazione del NED, una organizzazione non governativa nordamericana il cui budget è alimentato dal Congresso. Il Dalai Lama dice che i suoi due fratelli gestiscono “gli affari”. I suoi due fratelli, Thubten Norbu (un lama di rango superiore) e Gyalo Thondrup erano stati ingaggiati dalla CIA fin dal 1951, il primo per raccogliere fondi e dirigere la propaganda ed il secondo per organizzare una resistenza armata.

La bomba atomica indiana: il budda sorridente

Fin dagli esordi, vale a dire quando è diventato chiaro che la rivoluzione cinese stava vincendo nel 1949, gli USA hanno tentato di convincere il dalai lama a guadagnare l’esilio. Hanno messo a loro disposizione del denaro, tutta una logistica e la loro propaganda. Ma il dalai lama e il suo governo volevano che gli Stati Uniti inviassero un esercito come avevano fatto in Corea e considerarono dunque la proposta nordamericana troppo debole. (Modern War Studies, Kansas University, USA, 2002). Nel 1959 gli Stati Uniti riuscirono comunque a convincere il dalai lama a lasciare il Tibet, ma bisognava ancora convincere l’India a dargli asilo. Eisenhower propose allora uno scambio a Nehru: l’India doveva accettare il dalai lama sul suo territorio e gli Stati Uniti avrebbero accordato a 400 ingegneri indiani una borsa di studio negli Stati Uniti per avviarli alla “tecnologia nucleare”. L’accordo fu accettato (Il maggiore nordamericano William Corson, responsabile dei negoziati all’epoca, Press Trust of India, 10/8/1999). Nel 1974, la prima bomba A indiana fu soprannominata cinicamente “Budda sorridente” (Raj Ramanna, ex direttore del programma nucleare indiano, 10/10/1997, Press Trist of India)

Fonte: Tibet Patrick French Albin: CIA Sponsor Dalai Lama.

Link: CIA sponsor del Dalai Lama (http://nuke.ossin.org/SearchResults/CIAsponsordelDalaiLama/tabid/841/Default.html)

Spetaktor
25-02-10, 23:49
Il Paese di Mezzo tra modernità e tradizione
di Roberto de Tullio

“Zhongguó”, il Paese di Mezzo, ha sempre suscitato interessi diversificati a seconda delle interpretazioni del mondo politico e intellettuale di ogni nazione. In realtà, le infinite sfaccettature che delineano quella che per noi è il paese “Cina” ci impediscono ancora di comprendere, nel complesso, come funziona quel motore millenario che ha reso il Paese di Mezzo l’entità politica e territoriale più progredita e illuminata di qualsiasi nazione o istituzione da quando è stata scritta la storia dell’uomo. Tradizione e progresso, socialismo e capitalismo, sono esempi del mutamento perpetuo, yin e yang che regola la concezione di vita dei cinesi, dal semplice contadino, al massimo esponente del governo. Per capire finalmente la Cina, è d’obbligo scrollarsi di dosso qualsiasi pregiudizio e mentalità occidentale, e fare proprio il pensiero orientale, nella specificità quello cinese, adattandolo al contesto adatto. I cinesi la chiamano “flessibilità”, che se per noi è solo una parola, per i cinesi è il cardine principale su cui basa tutta la sua attuale potenza. Una potenza mantenuta in equilibrio da un altro concetto, molto importante per la politica attuale cinese, propugnato da Hu Jintao nei suoi continui richiami alla società armoniosa, quello del Wei-Wu-Wei, l’azione senza azione, che può essere applicato in ogni contesto. In quello tipicamente strategico e quindi politico, si può tradurre come il raggiungimento del massimo profitto con il minimo sforzo.
Concetti antichi quanto la Cina stessa, ma attuali come non mai, hanno permesso alla Cina comunista di Mao, grazie agli insegnamenti di maestri millenari come Lao-Tse, di transitare un paese statico, debole, sottomesso (Yin), in una paese attivo, forte, indipendente (Yang), il mutamento è così compiuto. Mao, rispetto al suo avversario, generale Chiang-Kai-shek, aveva un grande vantaggio che nonostante l’evidente debolezza delle proprie forze, gli ha permesso di sopraffare un nemico potente che controllava già vasti territori. Ha assorbito totalmente l’esperienza filosofo-bellica dei propri predecessori, applicandolo intelligentemente in un contesto moderno.
Si avverà così un’altra frase del libro più importante della Cina, il Libro dei Mutamenti: “La forza diminuisce, la debolezza aumenta.”. Ancora una volta quindi, Yin si riversa in Yang. Mao Zedong conquista la Cina, le forti armate del generale Chiang allo sbaraglio. Si infrange così, grazie alla tradizione di cui Mao è stato attento e scrupoloso guardiano, il piano degli USA di una Cina cristiana e governata dal modello occidentale contrapposta all’URSS e traghetta invece la Cina verso una nuova era progressista.
Questo è solo un esempio, ma concetti come quello dei mutamenti sono ben radicati in ogni singolo cinese e soprattutto in ogni dirigente del paese, concetti che hanno permesso una commistione unica nel suo genere e potentissima, tra comunismo e tradizione, tra modernità e passato.

Stalinator
26-02-10, 00:09
La Rottura conservatrice secondo Confucio... :chefico: A Oriente si ri-nasce!

Spetaktor
26-02-10, 22:17
Perchè la Cina è destinata a vincere

Roberto Sestito



Dall’articolo

"Perchè la Cina vincerà la quarta guerra mondiale"

(Libero Ricerca: home page (http://www.arianna.it) del 5.2.2010):



«(...) In questo senso, attualmente la diplomazia cinese ha decenni di vantaggio su quella americana e su quella occidentale in genere. Altro enorme vantaggio strategico cinese è caratterizzato dal fatto che il gruppo dirigente cinese attuale, essendo culturalmente indipendente da influenze messianiche di natura dogmatica ed ideologica, nella comprensione fondamentale dello "spirito del tempo" riesce a volgere a vantaggio della ragion di Stato (come già abbiamo rilevato nel nostro precedente articolo pubblicato su questo sito) anche fondamentali strumenti di mercato, che rendono improponibile l’incondizionato dominio -che si verifica invece in USA- da parte di capitalisti antinazionali e finanzieri usurocrati. Questo significa che la Cina è dogmaticamente comunista, come vorrebbero molti estremosinistri occidentali? O che la Cina è fascista, come vorrebbero molti analisti peraltro acuti, come Bruce Gilley o Federico Rampini? No, no, niente di questo. La Cina ha un tipo di gestione e di approccio al mondo politico ed economico, incomprensibile con le lenti euro-occidentali. La Cina sta attualmente sperimentando una prassi politico-economica, che non ha precedenti nella storia. Certamente alla base, a nostro avviso, vi è "l’ideologia" (ma nel senso di strategia politica non di dogma pietrificato) della pura ragion di Stato ed "un nazionalismo morale ed etico" grande Han, pragmaticamente combinati con un socialismo di mercato, ma ciò non ci autorizza a scomodare categorie della dottrina politica europea, in quanto sarebbe già assai arduo mostrare che le lotte di "liberazione nazionale" di Mao e dello stesso Ho Chi Minh siano ortodossamente "comuniste" invece che nazionaliste, progressive e rivoluzionarie in senso lato, per quanto, soprattutto nel caso del maoismo, influenzate da certe correnti filosofiche occidentali "materialiste"; ancora più arduo sarebbe identificare con categorie politiche europee il "nuovo corso" denghista, ben proseguito da Jiang Zemin e Hu Jintao (...)».


La Cina è destinata a vincere e l’Europa a perdere per una "questione" di civiltà: la Cina si è modernizzata e continuerà a farlo avendo scoperto i valori della sua antica civiltà, mentre l’Europa affonderà nel pantano della cosiddetta civilizzazione giudaico cristiana che la sta letteralmente soffocando.
Non è un caso infatti che Berlusconi, in visita a Gerusalemme, si sia rivolto agli isrraeliti come ai "fratelli maggiori" e tratti i musulmani come i parenti poveri e riottosi. Da buon cristiano-capitalista Berlusconi sa come muoversi in una famiglia così complicata e rissosa che da oltre duemila anni usurpa con la violenza e l’inganno la terra degli altri.
Il brano di cui sopra mi riporta con la memoria al "Libro dei Mutamenti" (I KING) celebre testo oracolare cinese la cui origine si fa risalire all’antichità mitica della Cina. «Quasi tutto ciò che nella storia cinese, vecchia di più di tre mila anni, -scrive C. G. Jung nella prefazione all’I-King- è stato pensato in fatto di idee grandi e importanti è in parte dovuto a spunti tratti da questo libro».
L’Europa al contrario, e l’Italia in primo luogo, ha da lungo tempo ripudiato le sue antiche e nobili tradizioni, facendo propri miti e libri che non le appartengono, che raccontano la storia di popoli e di etnie che non sono italiche o celtiche o germaniche, ma in buone parte semitiche o orientali che ripeto, per quanto nobili e degne di rispetto, non sono nostre e che a lungo andare non potranno che produrre, come già sta avvenendo, risultati nefasti.
Il naturale epilogo della religione del libro, nelle versioni biblica ed evangelica, lo vediamo nelle realizzazioni politiche della società capitalistico-borghese e capitalistico-marxista che, dopo un’apparente guerra fredda, ha trovato il modo di convivere per dividersi la torta territoriale europea.
In queste condizioni, quest’Europa non potrà mai gareggiare e fronteggiare una Cina che "nella pura ragion di Stato" incarna oggi quel che era l’ideale fascista.
Il che significa solo una cosa: che il popolo cinese ha ritrovato nell’orgoglio nazionale della sua tradizione imperiale il desiderio di lavorare, modernizzarsi e competere col resto del mondo, in uno spirito che ricorda la visione augustea che auspicava un mondo pacificato e armonioso, una nuova età dell’oro basata sulla libertà religiosa e sull’atonomia politica delle genti che si riconoscevano in Roma.
Ecco quel che l’Italia e l’Europa hanno perduto e che la Cina sta ritrovando forte della sua storia millenaria. Noi siamo in ritardo su tutto, principalmente siamo poveri di idee, di valori, di ideali, siamo in ritardo sulla scienza, sull’unificazione del nostro popolo. Inseguiamo idee di "integrazioni" razziali nonostante molteplici segnali ed esempi di fallimenti e di aborti sociali. E soprattutto non vogliamo capire che è l’ora di spezzare il torbido vincolo che ci lega a tutti i "messia" di oriente ed occidente.
Avendo paura di tornare ad essere noi stessi, finiremo con l’essere sempre più servi degli altri, più di quanto lo siamo ora.

Roberto Sestito


Il commento di Giorgio Vitali


«La Cina è vicina» era un vecchio slogan. Ma molto veridico. La Cina è un universo che non si muove da tempo immemorabile. Ciò è dovuto in parte alla mentalità dei cinesi ed all'estensione (e numero) degli abitanti di quei luoghi. Dai quali sono partite molte spinte propulsive verso l'Eurasia, tra cui quelle fondamentali delle popolazioni mongole. Che hanno lasciato un segno indelebile, non solo di crudeltà, dove sono passate. Ma i cinesi non si sono mossi. Anzi, hanno creato un muro a difesa dall'esterno e contenimento nei confronti di eventuali fughe dall'interno. Poi c'è stata la colonizzazione occidentale (anglosassone), che ne ha usate di tutte pur di poter controllare quell'immenso territorio. Compresa la "guerra dell'oppio", ampiamente copiata dagli USA con la guerra della droga, gestita direttamente dalla CIA con la scusa della guerra contro i Talebani, che avevano distrutto le piantagioni del papavero. La droga serve, come si sa, per il controllo dei popoli. La guerra col Giappone prima e la guerra civile dopo, ma siamo già in fase post-imperiale, mette la Cina in condizione di affrontare la modernizzazione. Poi ci sono le guerre di liberazione dell'Indocina (una propaggine del "Continente") dai francesi prima e dagli americani poi. E nel frammezzo la guerra di Corea fra due contendenti che non accettano condizioni, perchè sanno che perdere una poszione vuol dire perdere tutto.
Gli USA pensano di poter controllare la Cina avendo a disposizione la Corea del Sud, Formosa, alcuni paesi del sud come la Birmania, (ma sotto c'è minaccioso, l'Islam), e soprattutto il Giappone che non è più e non potrebbe esserlo dopo l'industrializzazione della Corea, l'avamposto dell' amerikanismo in Asia. A noi sembra poco per un colosso che ha in mano l'intera economia finanziaria degli USA. E che necessariamente farà valere la sua forza. Infatti, e non c'è bisogno di scomodare Machiavelli, Guicciardini ed i loro eredi, per sapere che i rapporti fra gli umani, i gruppi, le nazioni e gli Stati sono esclusivamente rapporti di "forza". Allora c'è solo da chiedersi le ragioni del perché la Cina si stia muovendo, dopo millenni di apparente stasi. La risposta non può che risiedere nella spinta industriale, nella produzione industriale che chiede mercati sui quali riversare il prodotto e fonti energetiche e di materie prime per alimentare la produzione. Fu questa la spinta che mosse fuori dai confini gli europei, nella fattispecie prima gli inglesi e poi i francesi e poi, dopo la sconfitta dei relativi imperi in conseguenza della Seconda Guerra Mondiale, gli USA, che hanno creato un impero basato sulla forza e sul ricatto finanziario. E tuttavia, come ben documentato dal Luttwak, grande studioso della decadenza dell'Impero Romano, l'allargamento dei confini imperiali, voluto dagli interessi delle Multinazionali, con l'addentellato della fallimentare speculazione finanziaria (gli speculatori hanno sempre fame) ha messo alle strette un impero che ha ben poche risorse per poter sopravvivere. La Cina è destinata a vincere la competizione vedendosela dopo con India, Brasile e tutta la famiglia del centro-Sud americano, nonchè con l'Islam (che è una sola Entità). La Cina ha fatto tesoro dell'insegnamento del novecento, mescolando Stato ed iniziativa privata laddove si è dimostrata utile. Contro un'Europa che, prona agli interessi dei finanzieri internazionali, ha speso gli ultimi decenni nelle "privatizzazioni", cessione a poco prezzo a gruppi economico-finanziari privati, ben più rapaci e sperpertatori degli Enti statali, come dimostrato dagli scandali degli ultimi decenni, di attività produttive di grandi dimensioni, a tutti gli effetti di proprietà dei relativi popoli. L' europa potrebbe ancora avere qualche opportunità se si alleasse con la Cina, attraverso la mediazione della Russia, e ritornasse ad una sana economia di "partecipazioni statali", almeno per quanto riguarda la produzione di interesse nazionale.

Giorgio Vitali

Unghern Kahn
04-03-10, 10:50
(ANSA) - PECHINO, 4 MAR - Le spese militari della Cina aumenteranno del 7,5% nel 2010. La ha annunciato a Pechino il portavoce governativo Li Zhaoxing. L'aumento e' inferiore a quello dell'anno scorso, quando le spese per la difesa della Cina aumentarono del 14,9%. Pechino spendera' per la difesa 532.115 mld yuan (circa 53 mld di euro). Un livello di spese, sottolinea la Cina, nettamente inferiore a quello delle altre potenze come gli Usa, che nel 2009 hanno speso per la difesa 515 mld di dollari.


Cina: 2010, crescita 7,5% spese militari - Mondo - ANSA.it (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2010/03/04/visualizza_new.html_1710056407.html)

Unghern Kahn
31-03-10, 12:29
Usa-Cina: Pechino apprezza le dichiarazioni di Obama
di: Alessandro Sassone
Pechino ha giudicato positivamente le dichiarazioni del presidente Usa Barack Obama riguardo le relazioni bilaterali tra i due Paesi, tuttavia restano le schermaglie legate al commercio e collegate ai tassi di cambio dollaro-yuan che mandano su tutte le furie Washington. Se sul fronte diplomatico Stati Uniti e Pechino rinnovano la fiducia l'uno nell'altro, è sul fronte economico che i due Paesi combattono la battaglia più dura.
Washington teme l'avanzata del dragone cinese che si riconferma giorno dopo giorno traino della ripresa economica; Pechino d'altra parte soffre i ricatti di Washington, come ad esempio quelli sui diritti umani e quelli che si intromettono nell'unità nazionale del colosso asiatico, temi strumentalizzati sempre al momento giusto per frenare l'avanzata cinese. Non stupisce quindi lo sfoggio di convenevoli di rito nel corso del primo incontro alla Casa Bianca tra il presidente Obama e il nuovo ambasciatore cinese negli Stati Uniti che non hanno affrontato i temi legati alla rivalutazione dello yuan.
Ieri, Obama e il nuovo rappresentante della diplomazia cinese a Washington, Zhang Yesui, hanno discusso del miglioramento dei rapporti tra i due Paesi. Secondo quanto riferito dal portavoce della Casa Bianca Robert Gibs, il presidente Usa ha detto di voler lavorare al miglioramento delle relazioni tra i due Paesi. Yesui ha rivolto un augurio da parte del presidente Hu Jintao al presidente Usa in cui Hu si augura che tra Cina e Usa prosegua un forte rapporto capace di riflettere gli interesse fondamentali di entrambi i Paesi e che contribuisca alla pace e alla stabilità nella regione Asia-Pacifico oltre che del mondo intero.
Il Tibet e Taiwan, punti di attrito delle ultime settimane tra Washington e Pechino sono invece stati al centro di una conferenza stampa tenuta dal vicesegretario di Stato Usa. James Steinberg ha chiarito che gli Stati Uniti ribadiscono di non sostenere l'indipendenza di Taiwan, così come del Tibet, che considerano parte della Cina. “La Cina apprezza le affermazioni positive del presidente Obama e del vice segretario di stato Steinberg sul miglioramento delle relazioni Cina-Usa”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Qin Gang.
Nonostante il rinnovo della fiducia reciproca nei rapporti diplomatici che durano ormai da 31 anni l'aquila stelle e strisce e il dragone cinese continuano a darsi battaglia sul piano commerciale. Da tempo Washington lamenta infatti un livello troppo basso del tasso di cambio della divisa nazionale cinese. Sulla possibilità di un apprezzamento dello yuan si è espresso ieri il ministro del Commercio di Pechino.
Chen Deming ha dichiarato che i controlli sulle esportazioni Usa verso la Cina hanno accentuato lo squilibrio commerciale bilaterale e che un apprezzamento dello yuan non servirà a risolvere il problema dei livelli di import-export tra i due Paesi. È la seconda volta che il rappresentante cinese interviene sulla questione dei tassi di cambio da quando Obama ha intensificato l'offensiva sullo yuan. “È stato dimostrato sia in teoria che in pratica che l'apprezzamento della moneta di una nazione offre poco aiuto per migliorare la bilancia dei pagamenti”, ha detto Chen in un articolo pubblicato sul sito web del ministero.
Già la scorsa settimana il ministro aveva lamentato una irrazionale pressione da parte degli Usa per l'apprezzamento della divisa nazionale cinese. Chen ha anche fatto presente che per molti anni Washington ha esercitato controlli serrati sulle esportazioni cinesi che hanno aggravato lo squilibrio del commercio. Secondo quanto riferito dal ministro del commercio di Pechino, inoltre, lo scorso anno i prodotti di alta tecnologia statunitensi rappresentavano il 7,5% delle importazioni cinesi, facendo segnare rispetto al 2001 un calo dal 18,3% proprio per la politica Usa sul controllo delle esportazioni. “Se la quota nel 2001, viene utilizzata come parametro di riferimento, le aziende statunitensi hanno perso almeno 33 miliardi di dollari nel 2009”, ha detto Chen che ha quindi esortato le due parti ad evitare il confronto, visto che “un rapporto pacifico tra Cina e USA rende entrambi i Paesi vincitori, mentre uno scontro rende entrambi perdenti”.



Usa-Cina: Pechino apprezza le dichiarazioni di Obama | Esteri | Rinascita.eu - Quotidiano di Sinistra Nazionale (http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=1320)

Unghern Kahn
31-03-10, 12:30
Roma, 31 mar. (Apcom-Nuova Europa) - La Cina, terza potenza nucleare mondiale, valuta positivamente l'accordo raggiunto tra Russia e Stati uniti per un nuovo trattato per la riduzione delle armi strategiche di teatro che sostituisca il vecchio Start del 1991. L'ha reso noto oggi il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino Qin Gang, secondo quanto riporta l'agenzia di stampa Interfax.

"Le autorità cinesi accolgono positivamente i risultati dei negoziati russo-americani che porteranno a un nuovo trattato sulla riduzione delle armi nucleari", ha affermato il portavoce in un comunicato pubblicato sul sito internet del ministero.

Il taglio degli arsenali previsto nell'accordo "aiuterà a creare le condizioni per abbandonare completamente in futuro le armi nucleari", ha commentato ancora Qin.

Il trattato dovrebbe essere firmato dal presidente Usa Barack Obama e dal capo di stato russo Dmitri Medvedev l'8 aprile a Praga.



Disarmo/ Cina valuta positivamente nuovo trattato Start Usa-Russia - Esteri - Virgilio Notizie (http://notizie.virgilio.it/notizie/esteri/2010/03_marzo/31/disarmo_cina_valuta_positivamente_nuovo_trattato_s tart_usa-russia,23623632.html)

Unghern Kahn
01-04-10, 10:33
PECHINO (Reuters) - La Cina continuerà a cercare una soluzione pacifica alla questione del programma nucleare dell'Iran. Lo ha detto oggi il portavoce del ministro degli Esteri cinese Qin Gang, dopo che Pechino ha acconsentito ad avviare i colloqui su nuove sanzioni nei confronti di Teheran.

Gli Stati Uniti e altre potenze occidentali hanno detto che la Cina ha acconsentito a negoziati seri sulla proposta di una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu nei confronti dell'Iran, che secondo loro starebbe cercando di dotarsi di armi nucleari.

La Cina finora si è mostrata riluttante a sostenere sanzioni, e ha chiesto più volte maggiori sforzi diplomatici per trovare una soluzione. Come membro permanente del Consiglio di sicurezza, Pechino può porre il veto a qualunque risoluzione.


Nucleare, Cina vuole soluzione pacifica nella disputa con l'Iran | Prima Pagina | Reuters (http://it.reuters.com/article/topNews/idITMIE63004A20100401)

Unghern Kahn
02-04-10, 13:07
(ANSA) - SHANGHAI, 2 APR - Il sito del club dei giornalisti corrispondenti stranieri e' stato chiuso poco fa a causa di attacchi informatici. Lo annuncia il consiglio dello stesso circolo in un comunicato via mail alla stampa straniera accreditata in Cina. L'attacco segue di qualche giorno quello nei confronti delle mail di alcuni giornalisti stranieri residenti nella capitale cinese. Da due giorni il sito e' preso d'assalto da Cina e Usa. Giorni fa le e-mail Yahoo erano irraggiungibili.

Cina: hacker bloccano sito stampa estera - Tecnologia e Internet - ANSA.it (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/tecnologia/2010/04/02/visualizza_new.html_1758881837.html)

Anton Hanga
01-05-10, 15:27
(AGI) - Pechino, 30 apr. - Le autorita' cinesi hanno scelto la festa dei lavoratori per lanciare domani le trasmissioni della loro 'Cnn. Si chiamera' 'Cnc' e sara' il canale all news dell'agenzia ufficiale Xinhua che, come la capostipite Usa, trasmettera' 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, notizie raccontando in inglese le notizie sulla Cina e dal mondo secondo la prospettiva di Pechino. A gennaio la Xinhua ha gia' iniziato a diffondere programmi tv in cinese in Asia e in alcuni Paesi europei. Dallo scorso anno invece la tv di Stato Cctv e' presente in 22 Paesi arabi .

Spetaktor
01-05-10, 18:21
(AGI) - Pechino, 30 apr. - Le autorita' cinesi hanno scelto la festa dei lavoratori per lanciare domani le trasmissioni della loro 'Cnn. Si chiamera' 'Cnc' e sara' il canale all news dell'agenzia ufficiale Xinhua che, come la capostipite Usa, trasmettera' 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, notizie raccontando in inglese le notizie sulla Cina e dal mondo secondo la prospettiva di Pechino. A gennaio la Xinhua ha gia' iniziato a diffondere programmi tv in cinese in Asia e in alcuni Paesi europei. Dallo scorso anno invece la tv di Stato Cctv e' presente in 22 Paesi arabi .

La Cina è sempre più un modello da seguire.
Consiglio vivamente la lettura di Maonomics. illuminante.

Spetaktor
06-05-10, 22:52
Pechino guarda il mare
di Romolo Gobbi - 05/05/2010

Fonte: romolo gobbi [scheda fonte]

Quando si pensa alla Cina, vengono in mente la sua grande superficie e i lunghissimi confini, in parte tratteggiati dai resti della Grande Muraglia, che all'origine, nel terzo secolo avanti Cristo, misurava oltre 6.500 chilometri. Quando si pensa alla sua storia, ritornano alla memoria le secolari guerre e invasioni dei Mongoli; invece, nessuno, o quasi, ricorda che la Cina fu una grande potenza marittima: "Nel 1420 la marina Ming possedeva ufficialmente 1350 navi da guerra, tra cui 400 grandi fortezze galleggianti e 250 vascelli progettati per la navigazione a largo raggio". La flotta cinese compì sette crociere a largo raggio, tra il 1405 e il 1433, e toccò innumerevoli porti, dalla Malacca a Ceylon, al Mar Rosso, a Zanzibar. "Alcune delle grandi navi che trasportavano i tesori pare fossero lunghe oltre 120 metri e stoccassero 1500 tonnellate". Tre anni dopo l'ultima spedizione, "un editto imperiale bandì la costruzione di vascelli d'alto mare e poco più tardi un preciso ordine proibì l'esistenza di navi con più di due alberi". Non è chiaro perchè la Cina decise di "voltare le spalle al mondo", invece è chiaro perchè oggi le navi cinesi abbiano ripreso a navigare per i mari di tutto il mondo. Il 26 dicembre del 2008 sono salpate dal'isola di Haiman due unità da guerra cinesi, la Haikou e la Wuhan, con la nave appoggio Weishanhu, per partecipare alla missione internazionale contro la pirateria al largo delle coste somale: "costituiva la prima spedizione navale militare cinese dal XV secolo". Non si trattò di un appoggio gratuito alla comunità internazionale, era invece una iniziativa militare in difesa degli interessi nazionali cinesi, in particolare, a difesa dei mercantili cinesi che trasportano il 17% dell'intero commercio mondiale. Le rotte mercantili cinesi passano anche in altri punti pericolosi, come l'attraversamento dello stretto di Malacca e, più oltre, la barriera delle isole Adamane. Per questo la Cina appoggia la giunta militare del Myammar; in cambio "la Cina possiede basi di osservazione sul golfo del Bengala", dal quale passano quasi tre quarti dei commerci cinesi.
L'ascesa della Cina verso il primo posto nel commercio mondiale è stata preparata dallo sviluppo dei porti cinesi, 1400, tra i quali primeggia Shanghai: "il porto commerciale con maggior traffico cargo al mondo, un record raggiunto nel 2008, per il quarto anno di fila, 582 milioni di tonnellate movimentate con un incremento del 3,6%, nonostante la crisi". Anche le attrezzature per contenere le merci sono state incentivate, l'80 per cento dei container è prodotto in Cina: "Di fatto Pechino ha in mano oltre i due terzi dell'industria globale dei conteiner".
Oltre alle infrastrutture in patria, la Cina ha dovuto procurarsi i porti di arrivo per le merci e "piantare la loro bandiera nelle principali destinazioni d'oltremare delle loro merci: Nord America, Nord Europa, Mediterraneo". Così i cinesi hanno partecipazioni nelle aziende portuali da "Taranto, Alessandria d'Egitto, Izmir, Barcellona, Amsterdam, Rotterdam, Stoccolma, Gdynia in Polonia, Felixtowe, Harwich e London Thamesport in UK"., Un'altra compagnia a partecipazione cinese ha il controllo dei porti di Genova-Voltri, Venezia, Mersin in Turchia, Tangeri, Sines in Portogallo, Zeebrugge e Anversa in Belgio, Great Yaarmouth in Inghilterra. La Cosco Pacific LTD, terminalista e compagnia di navigazione a partecipazione cinese "oltre al Pireo, è a Napoli con una partnership paritetica al 46% con Msc, Marsiglia-Fosse, Anversa, Rotterdam (al 51%), Port Said".
Oltre ai porti di attracco per le merci cinesi, Pechino è interessata anche a quelli dei Paesi da cui partono "le materie prime che fanno muovere la società industriale, la Cina di oggi è il Paese più shopping-dipendente della Terra". Così: "l'Ufficio delle Risorse di Stato sta accumulando tonnellate di alluminio, zinco, nickel e metalli preziosi per le nuove tecnologie (auto pulita inclusa) come il titanio, indio, rodio, praseodimo". Oltre ad accumulare materie prime, Pechino ha "fatto incetta di pozzi di petrolio, riserve di gas naturale, miniere, oleodotti, raffinerie, eccetera, in un'abbuffata di spese senza precedenti". I grandi gruppi petroliferi cinesi "hanno cominciato a comprare in Angola, Iran, Kazakhstan, Nigeria, Sudan e Venezuela" Anche in Iraq le compagnie petrolifere cinesi hanno vinto alcune aste per lo sfruttamento di vari bacini petroliferi, mentre "gli statunitensi sono rimasti sempre fuori gioco".
Recentemente, gli interessi cinesi si sono estesi verso l'Oceano Artico perchè in seguito al riscaldamento globale si sono rese disponibili, o lo saranno presto, le rotte del "passaggio a Nord-Ovest": "Un Artico navigabile avrebbe un impatto significativo, perchè la rotta da Shanghai ad Amburgo si accorcerebbe di 6.400 chilometri, evitando imbuti, come lo stretto di Malacca e Suez, oltre che i rischi della pirateria". Senza contare che sotto il Polo Nord si troverebbero "il 30% dei giacimenti vergini di gas e il 13% dei giacimenti vergini di greggio del mondo". Naturalmente, tutti questi interessi di Pechino per i mari di tutto il mondo hanno richiesto un potenziamento della marina militare cinese, che oggi conta "260 navi, 75 delle quali d'altura, e circa 60 sottomarini (sei nucleari)". Secondo l'ammiraglio Zhang Huachen: "Con l'espansione degli interessi economici del Paese, la Marina punta a proteggere le rotte marittime". Nonostante le recenti dichiarazioni di una riduzione delle spese militari, in realtà si tratta di una riduzione dell'incremento delle spese, che passa al 7%, mentre negli anni precedenti gli aumenti erano a due cifre; di fatto, la Cina ha un bilancio della difesa secondo solo a quello degli Stati Uniti. Questi, infatti, sono preoccupati dalla crescita della marina militare cinese e anche per il fatto che questa ha modificato "alcuni missili balistici a medio raggio per compiti anti-nave". Così gli USA hanno deciso di schierare più navi e sottomarini nel Pacifico, il che ha scatenato una corsa al riarmo in tutta la regione.
Tutto ciò sembrerebbe un gioco automatico per mantenere in equilibrio le forze in campo, ma in Cina sta aumentando il risentimento verso gli USA, al punto che sta riscuotendo un grande successo il libro il "Sogno Cinese" del colonnello Superiore Liu Mingfu. In questo libro si sostiene che "la Cina dovrebbe invece accelerare per diventare la numero uno, con le forze armate più potenti del mondo , per spodestare gli USA come campione globale". Tutto questo "potrebbe allarmare Washington e portare ad una guerra nei prossimi 10 - 20 anni".

Manfr
06-05-10, 23:14
La Cina è sempre più un modello da seguire.
Consiglio vivamente la lettura di Maonomics. illuminante.

Fantastico !

Ti consiglio anche la Nuova Economia del Terrorismo :)

Spetaktor
09-05-10, 21:48
La strategia cinese nell’Asia sud-orientale | eurasia-rivista.org (http://www.eurasia-rivista.org/4017/la-strategia-cinese-nell%E2%80%99asia-sud-orientale)

Spetaktor
11-05-10, 20:52
Aurora - La Cina sfonda in Asia centrale (http://sitoaurora.altervista.org/Eurasia/Cina50.htm)

Spetaktor
11-05-10, 20:53
Aurora - Cina, Stati Uniti: Il sorpasso (http://sitoaurora.altervista.org/Eurasia/Cina48.htm)

Aurora - LA CINA INIZIA IL CAMBIAMENTO NELLA GEOPOLITICA INTERNAZIONALE (http://sitoaurora.altervista.org/Eurasia/Cina53.htm)

Combat
30-05-10, 16:42
Cina fascista?

Fra le tante idee che il bombardamento mediatico ci inculca, c’è anche quella che la Cina sarebbe una dittatura comunista con un sistema economico di capitalismo selvaggio, senza regole. Si tratta di una definizione per lo meno approssimativa, tanto è inverosimile.
Che si tratti di una dittatura è fuori discussione, come è fuori discussione la spettacolare crescita economica iniziata nei primi anni Ottanta e che dura ininterrottamente da 30 anni con ritmi di incremento della produzione mediamente del 10% all’anno, cosa mai vista prima nella storia, nemmeno all’epoca della prima rivoluzione industriale inglese (però è legittimo qualche dubbio sulle statistiche ufficiali. Taroccarle è pratica largamente diffusa nel mondo. Quasi tutti i Paesi europei hanno fornito cifre false per entrare nei parametri di Maastricht e i cinesi possono essere interessati a gonfiare i loro dati. Inoltre hanno tali squilibri, anche demografici, che si può dubitare dell’altra convinzione diffusa, quella che la Cina sia destinata a diventare la nuova potenza egemone). Quello che non convince è definire capitalismo puro il sistema economico cinese. Intanto non si dice mai che in Cina il potere politico orienta ancora le scelte economiche secondo piani quinquennali. Non è più la rigida pianificazione dell’era maoista, ma si tratta pur sempre di orientamenti degli investimenti decisi a livello politico, per potenziare certi settori o privilegiare certe aree, il che esce dallo schema del puro liberismo. Esiste ancora, accanto all’iniziativa privata, un importante settore statale dell’economia. Tutto il sistema del credito è sottoposto a un controllo pubblico. Lo stesso dicasi del commercio con l’estero. Il sindacato non può proclamare né organizzare scioperi e la manodopera è duramente sfruttata, ma il sindacato stesso è presente nella gestione delle imprese, i delegati sindacali devono essere consultati su questioni normative, su come gestire servizi e tempo libero per i lavoratori.
Quanto alla dittatura comunista, bisogna rilevare che l’ideologia del regime non è più quella internazionalista e collettivista dell’egualitarismo maoista, ma è un’ideologia fortemente nazionalista.
Ora possiamo abbozzare un quadro delle caratteristiche principali della Cina odierna, un quadro che si può sintetizzare in quattro punti: 1) dittatura del partito unico, un Partito-Stato articolato in organizzazioni capillari di massa; 2) ideologia fortemente nazionalista; 3) sindacato incorporato nel regime ma con un suo ruolo nell’organizzazione dei lavoratori e nella costruzione del consenso; 4) economia mista, basata sulla libera iniziativa privata ma con un mercato inquadrato nella programmazione statale e coesistente con un forte settore nazionalizzato. Questi 4 punti configurano un sistema di tipo fascista. Del resto, secondo testimonianze non si sa fino a qual punto attendibili, sembra che lo stesso Mao, sempre in vena di profetismo, lo avesse predetto negli ultimi anni della sua vita: “dopo di me la Cina diventerà un Paese fascista”.
Però anche questa è una conclusione provvisoria. Limitarsi a definire il sistema cinese come un fascismo, forse la realizzazione di maggior successo dell’ideale fascista, sarebbe ancora un’affermazione affrettata e non sufficientemente dimostrata. Ricorda altre etichette applicate con scarso discernimento. Anche il peronismo fu definito un fascismo. Lo stesso si disse del nasserismo nel mondo arabo. Bush ha parlato di islamo-fascismo. Tutte approssimazioni per analogia, poco fondate criticamente. Intanto anche i simboli hanno la loro importanza in politica. Voglio dire che non è insignificante il fatto che il Partito-Stato in Cina si chiami ancora Comunista. Non è insignificante che la bandiera della nazione sia ancora quella rossa. Non è insignificante che nella piazza Tien An Men campeggi ancora il mausoleo di Mao. Non è insignificante che venga coltivata la memoria storica della Lunga Marcia, il mito fondante del comunismo cinese. E poi bisognerebbe indagare quanto vi è di confuciano nell’attuale realtà della Cina. Non dimentichiamo che quando i dirigenti di Pechino decisero la svolta nella politica economica, il modello più ovvio per loro era quello di Taiwan, l’altra Cina, una piccola Cina che aveva ritmi di sviluppo e competitività sui mercati che alla grande Cina continentale erano preclusi. Taiwan attirava capitali da tutto il mondo perché aveva una manodopera a buon mercato, laboriosa, disciplinata, sobria, preparata, educata a un ideale confuciano che era ed è l’ideologia ufficiale di quel Paese. Ebbene, quei tratti sono riscontrabili nella grande potenza cinese odierna. Dunque non c’è bisogno di ricorrere a modelli occidentali come il fascismo per definire l’attuale realtà cinese. Forse è più corretto cercare le radici profonde delle sue dinamiche nella sua storia, nella sua spiritualità.
Queste sono tutte ipotesi, sono interrogativi, sono sollecitazioni a un approccio più serio e più problematico a ciò che è oggi la Cina. Una cosa è sicura: la dittatura comunista su un’economia di capitalismo selvaggio è un’altra delle tante balle che ci propinano e che diventano opinione comune.

Luciano Fuschini - MZ

msdfli
31-05-10, 14:10
Giusta osservazione.

La Cina attuale è assolutamente una realtà differente dall'idea occidentale
di fascismo e di comunismo.
La Cina riesce a mischiare spiritualità, alto efficientismo di stato, e un certo mercantilismo anche troppo sfrenato che gli deriva dalla sua storia passata, il tutto a puri fini patriottici.
Un cinese non si sente comunista ma si sente cinese.
Il fatto che alcune iconografie di epoca comunista siano ancora presenti nella bandiera ed in certi luoghi è secondo me un puro fatto pragmatico.

Resto della mia ipotesi (basata su esperienze personali) che la Cina moderna consideri l'occidente moderno alla stregua di una sanguisuga che si attacca alla propria vittima, ossia dove prendere il meglio e cercare di adattarlo al proprio immenso paese.
Purtroppo nella parola occidente devo (momentaneamente) includere anche l'Europa che non riesce a staccarsi in maniera definitiva dal vecchio west. Ci sono alcuni timidi tentativi ma che io vedo ancora come movimenti "personali" e non veri e propri cambi di strategia.

saluti

Spetaktor
01-07-10, 22:02
La riunificazione cinese, strategia politica o graduale abbandono del Socialismo ?

Hong Kong e Macao sono i due paesi che la Repubblica Popolare Cinese ha recentemente annesso nei suoi territori senza alcuna forzatura militare. Nonostante la difficile vicenda di Macao, che dal 1966 è stata oggetto di continui tira e molla da parte del Portogallo e della Cina, alla fine anch’essa ha raggiunto lo stato, insieme ad Hong Kong, di “regione amministrativa speciale”, ovvero quelle regioni del paese che godono di una larga autonomia economica ed amministrativa, nonostante rimanga il controllo formale del Governo Centrale.

Entrambe le regioni fanno parte del progetto di riunificazione cinese, insieme a Taiwan, che è una delle prime priorità dei leader cinesi da Deng Xiaoping fino ad oggi con Hu Jintao, di cui ha fatto, della riunificazione con Taiwan, la sua missione politica più importante che come promesso da lui stesso, dovrà avvenire prima del termine del suo mandato.

Il lungo percorso di riunificazione pacifica è cominciato con l’elaborazione di una delle sempre più vincenti teorie, di cui questa emanata da Deng e approvata dall’Assemblea nazionale popolare nel 1984, che hanno reso e stanno rendendo la Cina una nazione sempre più potente.

“Un paese, due sistemi”, così il nome di questa teoria, è la progenitrice della politica riunificatrice e di conseguenza delle “regioni amministrative speciali” oltre che un esempio per la comunità internazionale di risoluzione pacifica dei conflitti.

In un paese come la Cina, la cui cultura occidentale ed europeista ha da troppo tempo demonizzato, ecco che si intravede una spiraglio di civiltà e di esempio. Mentre in Occidente, o più specificamente, in Italia del Nord si parla di “Secessione”, ecco che nel “barbaro” Oriente si parla di riunificazione pacifica e armonia.

Nel dettaglio, “un paese, due sistemi” può essere considerata come la sintesi di due concezioni opposte, di come Socialismo e Capitalismo possano coesistere in una nazione.
Questa teoria e la sua attivazione pratica è l’origine della speculazione mondiale sul progressivo abbandono della Cina al sistema socialista, che così non è.

Ogni cosa è indispensabile per il perseguimento della causa socialista e i cinesi questo l’hanno capito da un pezzo. L’attivazione pratica di “un paese, due sistemi”, ha permesso ad Hong Kong e Macao di mantenere la propria autonomia economica ed amministrativa, mantenendo quindi il proprio stile di vita tipicamente occidentale. È solo grazie alla praticità ed alla flessibilità di questa teoria che Hong Kong è potuta sopravvivere alla crisi economica asiatica, al rallentamento dell’economia globale e dall’epidemia della SARs, mentre Macao gode di una notevole prosperità e coesione sociale.

Nonostante i contrasti con Taiwan, invece, è risaputo di come una larga maggioranza della popolazione veda nella teoria “Un paese, due sistemi” il ritorno sperato nell’orbita della Madrepatria, una speranza che si avvicina sempre di più con l’effettiva volontà popolare di eleggere alla suprema carica di Taiwan, Ma Ying-jeou, Presidente della Repubblica e molto più vicino alla Repubblica Popolare Cinese che agli Stati Uniti.

La riunificazione cinese quindi, promessa dal Presidente Hu Jintao è vicina?

Sta di fatto che il socialismo, come auspicato dai suoi passati padri fondatori, non è una dottrina, non è dogma, ma un pensiero dinamico che deve andare in linea coi tempi e le sue realtà, senza esserne però soggetto, ma protagonista imprescindibile per la costituzione di una visione socialista che è la base del rispetto di tutti quei valori che danno dignità all’essere umano.

E la Cina, nonostante la propaganda deviante, ha solo da insegnare.


Roberto De Tullio, Segretario associazione “Giù le mani dalla Cina”

http://giulemanidallacina.wordpress.com/

Spetaktor
13-07-10, 21:47
approfondimento / LE MOSSE DI PECHINO « (http://rivistastrategos.wordpress.com/2010/07/13/approfondimento-le-mosse-di-pechino/)

Spetaktor
24-07-10, 19:02
La strategia win-win secondo la Cina

FONTE: PeaceReporter PeaceReporter - La strategia win-win secondo la Cina (http://it.peacereporter.net/articolo/23217/La+strategia+win-win+secondo+la+Cina)

Il modello economico di Pechino crea alternative per il Sud del mondo. Ma il Dragone deve ancora imparare molto

La Cina punta all'America Latina come nuovo orizzonte commerciale. La chiamano "strategia win-win" o anche "sud-sud": gli Emergenti creano relazioni indipendenti dal Nord del mondo e il più emergente tra loro tira il gruppo.
Le implicazioni politiche sono evidenti ma per Marco Wong - direttore editoriale della rivista "It's China" e un passato da dirigente per aziende cinesi ed italiane che operano in Sud America - la ragione economica è preponderante.

"La Cina ripete in Sud America lo stesso schema applicato in Africa. Dato il rapporto qualità-prezzo dei prodotti cinesi, è più facile entrare nei mercati sudamericani rispetto a quelli evoluti, dove ci sono strutture locali ben presidiate e difese. Inoltre, per i cinesi è anche una questione psicologica".
C'è poi l'interesse strategico della Cina, intesa come sistema-Paese, per le materie prime delle economie dove esporta.
"La Cina non è né comunista né capitalista, ma la partecipazione dello Stato è comunque molto forte anche nel privato. Il supporto dello Stato avviene soprattutto nell'accesso al credito. Le grandi banche hanno la mission, praticamente l'obbligo, di accompagnare all'estero i clienti cinesi.
A questo contribuisce anche il fatto che il sistema bancario cinese non è ancora evoluto, per cui i suoi clienti sono esclusivamente i cinesi stessi".

Rispetto ai propositi rivelati dal ministero delle Ferrovie cinese di sbarcare anche in Europa e Nord America, Wong rivela alcune perplessità:
"Chi ha già un sistema industriale avanzato di solito è anche più protezionista. Facciamo l'esempio dell'Italia. Trenitalia è un quasi monopolio che ha i propri centri di eccellenza, crea know-how e quando si tratta di comprare preferisce industrie italiane". Quindi per la Cina entrare in questi mercati richiederà molto più tempo.

La grande accelerazione cinese è avvenuta grazie a una strategia vincente: "E' stato favorito l'investimento dall'estero e si sono creati centri di competenza locali che hanno accompagnato i partner stranieri. Così si è acquisita tecnologia".
Adesso il processo si è invertito e grazie alla grande spinta del sistema Paese sulle infrastrutture (leggi finanziamenti abbondanti attraverso il pacchetto di stimoli varato da Pechino all'indomani della crisi globale) la bilancia comincia a pendere lentamente dalla parte della Cina.

"La Cina crea alternative, offre una scelta in più".
D'altra parte non esiste una vera e propria concorrenza su scala globale, perché le aziende cinesi sono posizionate diversamente da quelle occidentali.

Quanto alle implicazioni politiche, "le aziende cinesi non sono molto internazionali e commettono spesso ingenuità. La stessa Cina è una potenza globale solo da poco tempo e non ha un personale diplomatico all'altezza".
Scambi poco limpidi, tentativi di corruzione, incidenti diplomatici e accuse di "intromettersi nelle questioni interne" altrui, come nel recente caso del Costa Rica, hanno a che fare con un personale manageriale-politico non ancora all'altezza.
"Probabilmente una ex potenza coloniale avrebbe saputo gestire molto meglio una situazione come quella del Costa Rica. In Cina, spesso, si creano manager d'esportazione solo perché conoscono un po' la lingua di un dato Paese.
Il punto è che tutto avviene così rapidamente che non c'è tempo di creare una classe dirigente adeguata.
Prendiamo l'esempio dei diplomatici. Un tempo andava per la maggiore lo stile burocratico. Adesso bisogna fare politiche assertive e non tutti ne sono capaci."

E quindi i cinesi ricorrono ai loro metodi millenari, come il ricorso al "guanxi", la rete relazionale che è anche alla base del business. Non è un mistero che in Cina molti affari si fanno a tavola, dove si crea fiducia reciproca. Ma i contatti che nascono davanti a un piatto di tagliatelle possono facilmente trasformarsi in rapporti poco limpidi, corruzione, fraintendimenti.
"Quando lavoravo in Italia per un'azienda cinese, il mio capo mi chiedeva di continuo se avevo portato un regalo a un certo cliente. Per lui era incomprensibile che si potesse fare business senza aver prima invitato qualcuno a cena dodici volte".

Il nesso stretto tra economia e politica è poi dovuto anche a un'altra peculiarità cinese.
"In Cina c'è un forte senso della gerarchia dal punto di vista culturale. Inoltre, per la stessa natura del Paese, l'economia gestisce sempre grandi volumi, il che impone un certo controllo centralizzato. Visto che ha funzionato, i cinesi cercano di fare lo stesso all'estero. Esportano ciò che è grosso".
Ad esempio, reti ferroviarie prêt-à-porter per un intero Paese sudamericano.

Gabriele Battaglia

José Frasquelo
24-07-10, 22:51
questi focus perché non li mettiamo in rilievo?

Spetaktor
25-07-10, 01:01
questi focus perché non li mettiamo in rilievo?

In effetti! :gluglu:

José Frasquelo
25-07-10, 11:12
In effetti! :gluglu:

anche focus Iran prego! :-)

Spetaktor
29-07-10, 21:54
http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-snc4/hs235.snc4/39102_1422140466696_1028233755_31068713_7006529_n. jpg

:D:D:D

Spetaktor
10-08-10, 22:19
CINA: L’ISOLA TERRESTRE
analisi / LA CINA… STRATEGICA « (http://rivistastrategos.wordpress.com/2010/08/10/analisi-la-cina-strategica/)
di Andrea Fais

La storia della Cina è profondamente segnata dalla geopolitica, in ognuna delle sue fasi. Ogni tattica, ogni strategia, pur caduca, sembra costituire il tassello di un lungo mosaico che il gigante d’Asia va a comporre con pazienza. La guerra nazionale contro l’invasione nipponica, la comune strategia tra comunisti e nazionalisti, la rottura con il Kuomintang, la Guerra Civile, la Guerra di Liberazione, i rapporti controversi e contrastanti con l’Unione Sovietica, la trasformazione riformista: tutte queste, ed altre ancora, sono fasi storiche fondamentali che comprendono oltre un secolo di vicende e avvenimenti di portata internazionale, lungo un ritmo storico senza precedenti nella storia del Paese asiatico.

Ad oggi, gli esperti sono soliti dividere la Cina geografica in due aree primarie, in virtù di due criteri specifici: uno di carattere storico, relativamente alle vicende millenarie e recenti che hanno coinvolto il Paese, e uno di carattere etnico-geografico, relativamente ai territori implicati e alle tradizioni linguistiche e letterarie che li contraddistinguono:

1) La Cina Han, stanziata nella parte orientale del Paese, considerata ancora oggi la Cina profonda e più interiore, compresa lungo una fertile e favorevole fascia di territorio che giunge grossomodo dalla zona di confine con la Corea, sino alle coste meridionali

2) La Cina espansa, frammentato insieme di territori secchi e demograficamente discontinui, comprendenti una parte della Manciuria, la Mongolia Interna, il Tibet e lo Xinjiang, che si adagiano come un involucro terrestre intorno ai confini della Cina Han

Mentre la prima zona del territorio nazionale, si affaccia direttamente sull’Oceano Pacifico, in prossimità della acque del Mar Giallo, la seconda porzione costituisce una specie di naturale cuscinetto, contrassegnato dalle diverse catene montuose e dai fiumi che ne segnano i confini, naturali oltre che politici, con l’India, il Nepal e il Myanmar a sud-ovest, con la Russia e la Corea del Nord, a nord-est, con il Kirghizistan, il Tagikistan e il Kazakistan, a nord-ovest.

Secondo questa schematizzazione, che riassume vari settori di fondamentale importanza economica (agricoltura, industria, sviluppo, commerci e vie di trasporto), il percorso politico della Cina, non sembra essere affatto casuale e dettato dalla frammentazione degli eventi, bensì pare rispondere ad una sempre più centrale consapevolezza logistica e strategica, che impone la vicenda comunista rivoluzionaria sul solco della storia nazionale, lungo un cammino di crescita che ricorda molto da vicino le super-potenze di un tempo.

Cosa significa il Comunismo in Cina, oggi? Questa parola resta un termine centrale nella vicenda del Paese, secondo quel concetto di crescita e “sovranizzazione nazionale” che viene spesso sintetizzato nel motto “Mao ci ha reso liberi, Deng ci ha fatto felici”. La Lunga Marcia del Rivoluzionario Mao Zedong, alla guida del grande Esercito di Liberazione del Popolo, continua oggi nel cammino impressionante di una nazione dalle vastissime possibilità di crescita. Inarrestabile, e sostanzialmente incontrovertibile, lo sviluppo vissuto dal popolo Han, sembra oggi poter seriamente recitare il ruolo del protagonista assoluto all’interno della partita mondiale tra le nazioni più avanzate del pianeta.

Il ruolo di Mao nella riunificazione nazionale delle masse, nell’espulsione degli invasori e nella titanica opera (tutt’ora in via di definizione) di risoluzione del conflitto tra città e campagna, emblematicamente riassunto nel diacronico sviluppo tra la fascia costiera dell’Oceano Pacifico e la parte interna del Paese, ha avuto un’importanza strategica di primo piano dalla triplice valenza:

1) Sul piano etnico (1936-1948): la definitiva edificazione dell’integrità nazionale e culturale della Cina, sotto le insegne della tradizione Han

2) Sul piano geografico (1949-1950): l’espansione della Cina Han sino alle catene montuose, attraverso la ricomprensione del Tibet, liberato dalla teocrazia lamaista, e dello Xinjiang, annesso dopo la breve ma fondamentale esperienza della Repubblica Democratica del Turkestan Orientale

3) Sul piano economico: la progressiva opera di cancellazione delle contraddizioni sociali e commerciali, tra la fascia costiera e le zone interne, innescate dal colonialismo britannico nel XIX secolo e dalla conseguente apertura della Cina ai traffici marittimi mondiali

Malgrado gli storici tendano a ricondurre i momenti principali di questa strategia a precise date e a precisi periodi di tempo, appare sempre più evidente che, come ogni processo di trasformazione epocale, i cambiamenti e l’evoluzione generale della Cina abbiano ricoperto interi decenni, e ricoprano tutt’ora la nostra epoca. Dalla reazione alle famose 21 domande del Giappone[1], molta acqua è passata proverbialmente sotto i ponti, ma il cammino intrapreso dal Partito Comunista Cinese sembra proseguire spedito nella sua arguta strategia, capace di riferirsi alle necessità storiche, dunque in sostanza ai ritmi economici, secondo una capacità pratica di adattamento assolutamente ineguagliabile, almeno in questi termini.

Se la guerra di liberazione, portata avanti assieme ai nazionalisti, sino alla presa di potere di Jiang Jieshi all’interno del partito di destra, veniva inquadrata già all’epoca nella pragmatica ottica di una rivoluzione democratica, come fase transitoria verso la rivoluzione socialista, comunque avviata per forza di cose, a partire dall’inizio della guerra civile (1927), la stessa strategia seguita alla proclamazione della Repubblica Popolare (1949), sembra essere costantemente inquadrata lungo delle direttive storiche, non certo scevre da contraddizioni[2], ma unicamente incentrate su un solo obiettivo: trasformare la Cina in una potenza mondiale, e proiettarne l’evoluzione lungo un futuro prospero e grandioso.

Lo studio, l’incessante studio della realtà nella sua molteplice varietà, come base fondamentale ai fini dell’apprendimento di quella capacità di adattamento, ancora oggi vera arma vincente del Paese, era l’elemento su cui Deng Xiaoping fondava la nuova strategia cinese, alla base della Teoria dei Quattro Settori (agricoltura, industria, tecnologia, esercito), al momento della salita ai vertici del Partito. Nel 1978, la Cina non comincia in alcun caso un nuovo corso, né tanto meno torna velocemente ad un sistema capitalistico[3], ma prosegue il suo autonomo percorso storico lungo quella modernità del tutto peculiare alla nazione asiatica, indirettamente avviata a partire dalla metà del XIX secolo, per mano coloniale.

L’obiettivo era chiaro, e seguiva un doppio binario: sul piano strettamente interno, la progressiva eliminazione dei due più forti divari del Paese (quello tra Est e Ovest e quello tra Città e Campagna), sul piano dei rapporti con l’estero, il progressivo raggiungimento degli standard tecnologici e sociali occidentali. Un ritardo così importante, di oltre tre secoli, nei confronti dei paesi più industrializzati, è stato sostanzialmente bruciato in appena trenta anni, grazie a massicce dosi di riforme e investimenti sul mercato, che hanno toccato il loro culmine durante la cosiddetta Terza Generazione di Jiang Zemin, che, sulla scorta teorica delle Tre Rappresentanze[4], avviò una vasta opera di ulteriore modernizzazione del Paese, aprendo il mercato cinese a sempre maggiori investimenti stranieri sotto il controllo statale. Giunti alla Quarta Generazione con Hu Jintao, la Cina sembra essere oggi il simbolo sempre più splendente, di una sintesi storica, che in questo primo scorcio di Terzo Millennio, agisce nel nome della ponderazione, forte della posizione quasi emblematica di chi, dopo aver seminato per decenni, può cominciare a raccogliere in maniera abbondante i suoi primi frutti. È partita dunque la fase della strategia globale della Cina, anticipata da Deng Xiaoping e Jiang Zemin, ma imposta da Hu Jintao come una vera e propria fisiologica novità, intrinseca alle dinamiche dell’odierna fase multipolare.

È così che, sulla base del Gruppo di Shangai nato nel 1996, sorge l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, fondata nel 2001 in via ufficiale, come il più importante istituto inter-governativo di tutto il Continente Asiatico, pensato e costruito principalmente dalla Russia e dalla Cina, per salvaguardare e concertare le rispettive trame cooperative, economiche e militari, all’interno della ricchissima regione dell’Asia Centrale, con particolare riferimento alle Repubbliche del Kazakistan, dell’Uzbekistan, del Kirghizistan e del Tagikistan. La Cina, ancora in piena evoluzione interna ed in rapida ascesa lungo un progressivo livellamento verso l’alto degli standard di vita[5], ha cominciato dunque a muovere i suoi primi imponenti passi nello scacchiere mondiale, come fisiologico contraltare alla crescita interna. I meccanismi delle cause alla base delle contraddizioni sociali, che un tempo potevano essere individuati e circoscritti esclusivamente all’interno della Cina, oggi si ripercuotono nell’intero pianeta, ed un miliardo e trecento milioni di potenziali nuovi consumatori sui livelli dell’Occidente, impongono una strategia a 360 gradi che sia in grado di farsi interprete della nuova realtà economica globale.

Tuttavia, come la storia mette in evidenza, la dimensione interna e la dimensione estera della Cina non sono mai state essenzialmente separate e distinte. È più realistico ritenere che la dimensione dei rapporti di forza internazionali, abbia semplicemente acquisito un maggior peso specifico del passato in relazione allo sviluppo economico interno, ampliando una prospettiva già ben presente in epoca maoista. L’espansione di quella che viene spesso considerata una vera e propria Isola Terrestre, fu, sin dall’annessione delle due importantissime regioni del Tibet e del Xinjiang, un atto strategico fondamentale di primaria importanza, sia per quanto riguarda la difesa interna, sia per le relazioni commerciali.

Quella che un tempo era la Via della Seta, lo sbocco verso le più trafficate vie dell’Asia Centrale (Samarcanda, Bukhara, Almaty, Khiva e così via…), oggi è una delle più imponenti vie di comunicazione e cooperazione strategica tra la Cina, il Medio Oriente e l’Europa, e le impressionanti catene montuose dell’Himalaya a sud e del Tien Shan ad ovest, come del resto i freddi ed impervi alto-piani della Mongolia Interna, costituiscono dei passaggi invalicabili e dei veri e propri ostacoli naturali contro qualunque eventuale attacco terrestre al cuore della Cina.

Unico punto debole nella tradizione cinese resta il Mare. Sebbene sia affacciata per migliaia di chilometri sulle acque dell’enorme Oceano Pacifico, le caratteristiche interne del Paese e la morfologia peculiare dell’area del cosiddetto Mar Giallo, non hanno mai permesso alla Cina di diventare una vera e propria potenza organica. Furono proprio l’eccessiva impostazione tellurocratica e la scarsa propensione allo sviluppo via mare, dei più imponenti Imperi asiatici continentali, i principali presupposti sui quali il Giappone riuscì per quasi tutto il XIX secolo a porre le basi della sua tattica imperialista, tanto in Russia, quanto in Cina e in Corea. Dopo tutto questo tempo, la lezione è stata recepita in maniera profonda. Il rapido sviluppo recente di poli come Shanghai e Fuzhou, direttamente rivolti verso la costa marittima, e la riannessione di Hong Kong, ottenuta in via ufficiale nel 1997, in seguito ai precedenti trattati bilaterali con la Gran Bretagna, hanno consentito al Paese di potenziare in modo decisivo il fronte navale, costituendo pesanti barriere difensive di carattere commerciale e militare. Nessuno, oggi, potrebbe attaccare la Cina su questo versante, senza che importanti ripercussioni globali si riversino sul resto del pianeta in termini più strettamente economici. Da due anni oramai, l’8 giungo ricorre la Giornata Nazionale della Pubblicità Oceanica della Cina, per favorire e corroborare il concetto del “mare del popolo”. In occasione dell’ultimo appuntamento, il direttore dell’Amministrazione Oceanica statale cinese, Sun Zhihui, ha ricordato la grande importanza di queste attività. “Tutto questo dimostra – ha sostenuto l’illustre oceanografo – che la Cina, maggiore potenza marittima in via di sviluppo del mondo, si sta dedicando con incessante impegno alla promozione dello sviluppo sostenibile degli oceani, attraverso l’elevamento del concetto di mare del popolo, e chiedendo alla gente di amare, proteggere e usufruire in modo ragionevole dei mari”[6].

È dunque la Cina, un blocco compatto, pur denso di contraddizioni politiche e sociali interne, che sembra non piegarsi dinnanzi ad alcuna crisi globale, potendo contare su una linea costituzionale che pone lo Stato, dunque il pubblico interesse, al centro del suo sistema economico e strategico. Ma è ancor prima, la geografia, e dunque anche la particolare storia geopolitica del Paese, a determinarne il carattere vincente sullo scenario mondiale, ed i quadri dirigenti del Partito Comunista sembrano averlo compreso prima di molti altri pur attenti osservatori, giocando d’anticipo su tutti. Perché, come affermava Sun Tzu, l’arte della guerra consiste nello sconfiggere il nemico senza doverlo affrontare.

[1] Le 21 domande alla Cina restano ancora oggi una delle più grandi provocazioni e minacce imperialiste mai subite dal Paese, che alla soglia degli Anni Venti, rischiava seriamente di diventare una colonia periferica dell’Impero Nipponico.

[2] La categoria della contraddizione, già secondo quanto teorizzato da Mao negli Anni Trenta, sarebbe comunque rimasta presente all’interno del Socialismo, in base al carattere fondamentale che essa rivestiva già nell’analisi marxista-leninista della società.

[3] Cosa fra l’altro impossibile, dal momento che il Capitalismo, nel senso tecnicamente profondo del termine, in Cina non è mai esistito.

[4] La Teoria delle Tre Rappresentanze elaborata da Jiang Zemin negli anni Novanta, considerava il Partito come l’avanguardia non soltanto delle masse operaie e dei contadini, ma anche delle intere forze produttive nazionali e delle accademie culturali in genere.

[5] Il dato stimato da Cia – World Factbook nel maggio 2008, relativo all’anno in corso, registra una speranza di vita che per i maschi è 71,37 anni, mentre per le femmine è di 75,18 anni.

[6] CRI ITALIA, Cina: rafforzamento del concetto di “mare del popolo”, 6 Giugno 2010

Spetaktor
12-08-10, 19:58
Il confucianesimo sfida l’individualismo occidentale

Autore: Agostino
La superpotenza cinese ha cominciato a rivalutare agli inizi degli anni novanta ( quando si e’ aperta la sfida lanciata dalla globalizzazione) il pensiero culturale e filosofico del grande Maestro Kong (551 A.C.-479 A.C.) o Kongzi meglio noto nell’accezione europea come Confucio. Fu anzi lui stesso a gettare il seme per un nuovo ed originale sistema di pensiero, senza per questo si voglia negare una vitalita’ della cultura cinese che preesistesse rispetto alla nascita del Maestro stesso.

Confucio in verita’ dichiaro’ espressamente di non aver creato alcunche’ ma di aver semplicemente trasmesso. Cosi’ disse apertamente nei Dialoghi ( Lun yu) , aggiungendovi di “amare e credere nell’antico” (Lun yu, VII)..

Nato da una famigli aristocratica nello stato di Lu nella Cina Sud orientale affronto’ gia’ la primissima giovinezza in un contesto di decadimento economico della famiglia originaria e costretto a trasferirsi nello Stato di Song ( ove si sposo’ giovanissimo ed ebbe due figli) e poi in vari altri stati per intraprendere, quale unica possibilita’ di sostentamento personale, quella di offrire i propri preziosi consigli ai duchi e signori.

Fu infatti Primo ministro, Ministro di giustizia, Governatore della prefettura di Zhongdu. La sua fortuna fu dovuta pero’ all’incontro con il Maestro Laozi (Lao Dan), , archivista della dinastia Zhou e fondatore del taoismo o daoismo ( corrente di pensiero che pone al centro dell’attenzione il dao, cioe’ la via, in grado di indicare quella direzione, che, se seguita, ci garantisce lei unica, l’armonia celeste).

Quando il Maestro Kongzi incomincio’ ad offrire i propri insegnamenti e donare i propri consigli ai governanti dei vari Stati autonomi della Cina di allora, va detto che la dinastia Zhou era in profondo decadimento e vi erano parecchi contrasti tra i vari stati.

La leggenda narra che proprio la solidita’ e la forza acquisita dallo stato di Lu all’epoca amministrato dal Duca Ding diede fastidio agli stati confinanti che provarono ad indebolirne l’ordine interno anche attraverso raggiri. Tra questi quello di inviare dei cavalli e delle graziose danzatrici alla corte del duca stesso per distoglierne l’attenzione. Intenzione che in effetti colse nel segno contribuendo a determinarne lo smembramento. Confucio, che fu un profondo conoscitore dell’animo umano, ne rimase amareggiato e lascio’ ogni incarico, invitando i suioi discepoli a seguirlo. I testi classici dell confucianesimo furono: il Classico dei mutamenti (Yi Jing), il classico della Storia (Shu Jing), il classico delle odi (Shi Jing) il Classico dei riti (Li Jing) e gli annali delle primavere e degli autunni (Linjing). A Confucio puo’ senz’altro attribuirsi l’elaborazione e composizione di quest’ultimo, mente non e’ certa l’attribuzione degli altri, anche se pressoché con certezza gli studiosi contemporanei ne hanno atrributo a Confucio solo alcune correzioni successiva, ma non la preparazione e iniziale. L’insegnamento confuciano poneva al centro del proprio pensiero l’acquisizione di una serie di virtu’ e Confucio si sforzo’ comunque di ricordare che “la virtu’ perfetta e’ quella del giusto mezzo”. Tra le diverse virtu’ una rilevanza aveva certamente la benevolenza (ren)intesa come la pratica dell’altruismo e della bonta’. Tutti gli uomini possono amare o odiare, ma coltivando la pratica della benevolenza, anche quando sussistono ragioni per odiare, l’uomo dotato di questa virtu’ si tratterra’ dal farlo. Benevolenza infatti e’ dominare se stessi e tornare alla Tradizione (li). Inoltre tale termine sta ad indicare che occorrera’ preferire le difficolta’ che la strada del profitto.. Confucio sintetizzo’ il significato di benevolenza in un aforisma dei Dialogni in cui si sosteneva “Cio’ che non desideri per te stesso non farlo agli altri”(Lunyu, XV, 23). Un’altra virtu’ e’ certamente quella del senso di giustizia. Della presenza di essa nell’uomo e’ facile distinguere l’uomo nobile d’animo da chi invece insegue il profitto, perche’ esso ha in se’ la sete di giustizia. Tale caratteristica non corrisponde pero’ alla ricerca dello “Jus Romano”, ma l’osservanza di una legge morale. Infine per Confucio e’ importante seguire sempre la tradizione. Confucio infatti nei Dialoghi esorta a “ non ascoltare, non leggere, non scrivere, se non secondo Tradizione”. Tradizione per lui non era solo l’accettazione supina della verita’ , ma partecipare alle cerimonie ed interrogarsi sulle problematiche connesse in esse. Lo studio infatti era parte fondamentale di un uomo che si ispiri ai principi di Tradizione.

Sebbene Confucio avesse piu’ volte ripetuto ai propri discepoli di concentrasi sulla vita terrena e non si fosse esposto su eventi sovrannaturale non puo’ certo dirsi che Confucio fosse ateo. Per la cultura cinese infatti, su non cui e’ evidente l’impianto del sistema filosofico confuciano, non esiste frattura tra una dimensione trascendente e l’altra materiale, legata alla vita terrena, in quanto ogni cinese si sente parte integrante del cosmo..

Confucio credeva all’esistenza di un Essere superiore che identificava il Cielo ( Tien). Ed anzi per lui la vita e’ un dono del cielo. E’ infatti il Cielo ad emanare un proprio decreto cui l’uomo dovra’ conformarsi se vorra’ raggiungere l’armonia celeste, mentre e’ preclusa per lui tale possibilita’ se non si segue la giusta via (cioe’ il dao).

Il Cielo e’ anche fonte di autorita’ politica e generatore di fenomeni che vanno al di la’ di ogni umana comprensione. Tuttavia il Cielo Non deve confondersi con il Supremo Dominatore (Shang di). Per Confucio inoltre “chi pecca contro il Cielo non ha a chi pregare” e lui stesso affermo’ “ se ho peccato contro il Cielo che esso mi odi”.. Il Cielo in ogni caso nelle visione confuciana e’ solo la sede delle divinita’, al cui vertice appunto vi e’ Shang Di (Sovrano dall’alto) colui che sa ascoltare, parlare e consigliare in nome dell’armonia con il Creato. . Al di sotto vi stanno invece i re saggi. I riti e le cerimonie avevano enorme importanza per Confucio tanto da prendervi parte e rendersi partecipe delle offerte che venivano fatte al Cielo . Si espresse sempre duramente invece nei confronti dei sacrifici umani, mentre sulla presenza di spiriti e demoni iun noto discepolo( Kong Metzi) affermo’ con certezza come essi non fossero presenti, ma un vero uomo superiore dovra’ onorare il cielo e le cerimonie.

Altro valore fondamentale nell’insegnamento confuciano era la pieta’ filiale, cioe’ la massima devozione che era dovuta ai propri genitori e ai fratelli superiori. Per quanto Confucio auspicasse il ritorno ad una societa’ perfettamente organizzata , ispirata a principi etici eterni ed in grado di garantire la prosperita’ sociale, non va pero’ dimenticato che le dinamiche sociali da lui sviluppate erano chiaramente inserite in uno schema gerarchico.. Possiamo affermare con certezza dunque che il Maestro Kong propugnasse i uno Stato etico in cui fossero stabilite precise gerarchie ma senza alcuna discriminazione fondata sull’appartenenza a classi sociali determinate. Confucio comunque pur sostenendo l’armonia universale non ne condivideva certamente il principio di uguaglianza universale tra gli uomini che anzi avverso’ duramente.

Fu proprio lui a stabilire che al mondo esistano uomini superiori (Junzi) ed altri inferiori (xiao ren). Lo Junzi e’ persona composta e non orgogliosa ed inoltre nel periodo di difficolta’ e’ fermo, mentre l’inferiore eccede.

Lo Junzi inoltre e’ persona tranquilla e modesta, inoltre e’ comprensivo verso gli altri ma non verso se stesso. Nella dottrina confuciana “il superiore e’ facile a servire ma difficile a contentarsi perche’ non si contenta di mezzi illeciti, l’essere inferiore e’ difficile a servire, ma e’ facile a contentarsi perche’ e’ disposto a farlo anche con mezzi illeciti (Lunyu XIII, 25. Infine non puo’ dimenticarsi come lo Junzi sia “lecito nel parlare e rapido nell’agire”(Lunyu IV, 24).

Notevole importanza Confucio aveva dato alla saggezza. Tanto che, in base a tale caratteristica gli uomini possono appartenere a quattro distinte categorie: coloro che sono saggi dalla nascita, coloro che acquistono saggezza attraverso lo studio, gli uomini che sono sostanzialmente nella mediocrita’ ma temprata dalla volonta’ di studiare e gli stupidi. Gli Junzi appartengono alla seconda categoria, mentre solo coloro che sono veramente saggi alla prima come i sovrani dell’anrica civilta’ cinese . Infine va detto che i saggi non appaiono ogni momento sulla terra.. Confucio in verita’ non si consideratava appartenere alla schiera degli Junzi. Fedele alla sua modestia defini’ se stesso in questo modo. “ nelle lettere io sono come gli altri uomini, ma ancora non sono riuscito a comportarmi come uno Junzi”(lunyu VII, 32)..

Nei Dialoghi esiste un altro aforisma confuciano in grado di indicarci la sua visione gerarchica della vita, ispirata tuttavia sempre ai criteri di benevolenza e rettitudine. Il Maestro ricorda infatti di “agire e con la massima lealta’e di non imporre agli altri quello che non si desidera per se stesso”(lunyu XV, 24).

Possiamo affermare anche che il primo insegnamento e’ quello che un suddito dovra’ applicare ai suoi superiori e dunque al Sovrano, mentre il scondo al contrario sta ad indicare la comprensione e la magnanimita’ che un superiore dovra’ avere nei confronti dei suoi sottoposti.

Una manifestazione importante per Confucio per lla piena realizzazione neello studio e neella cultura era data dall’ascolto della musica, l’osservanza delle norme rituali e le danze. Per Confucio la musica non era quella delle campane e dei tamburi, ma il complesso delle melodie strumentali e dei versi cantati durante le danze ancestrali. Essa serviva a garantire l’armonia con le divinita’. Non tutta la musica era bella e buona per Confucio, ma il Maestro ascoltava con particolare interessa quella degli antichi. Affermo’ anche che la “musica puo’ essere compresa. All’inizio e’ armoniosa , poi concorde o distinta, ma essa e’ sempre continua” (Lunyu III, 22). Diverse sono le motivazioni per cui viene ascoltata, praticandone simultaneamente i riti: puo’ essere sia legata a partecipazioni superarie e porre degli interrogativi sul futuro agli antenati o ringraziare gli avi per aver donato la vita. I confuciani diedero comunque una dimensione etica e spirituale all’ascolto della musica e l’osservanza delle musiche rituali. Anzi l’ossrvanza dei riti divenne una vera regola di condotta sociale. Musica e riti contribuiscono a donare quella raffinatezza spirituale che contraddistingue le persone nobili d’animo. La musica inoltre appaga l’uomo, contribuendo ad arricchirne e vivificarne l’animo, donandone la serenita’.

Musica e riti venivano codificati dagli antenati e trasmessi alle dinastie che si susseguivano nel tempo, Ma Confucio ammise anche delle modifiche e degli adattamenti agli usi contemporanei.

Si ricorda anche l’estrema importanza data all’osservanza delle norma rituali e all’ascolto della musica da parete del confuciano eterosso Xunzi. Nella sua visione l’ascolto della musica equivaleva a gioia. Infatti questa e’ un’emozione e la musica contribuisce a dare voce a questa emozione . Essa done una pace interiore, condizione necessaria per assicurare l’armonia con il cielo. L’oosservanza delle norme rituali conduce all’uonione con il Cielo e la terra.

Un filosofo contemporaneo del Mestro Confucio, Mozi fu invece critico nei confronti di queste pratiche. L’ascolto della musica per lui e i suoi seguaci fu considerato un’inutile e dannosa perdita di tempo.

Quanto al senso di giustizia gia’ si e’accennato quanto esso fosse posto in considerazione dal Maestro Kong. Anzi la presenza di un senso di giustizia e’ proprio che contraddistingue la persona nobile d’animo da colui che invece non lo e’ e persegua unicamente il profitto. Confucio tuttavia avversava il sistema delle sanzioni e delle punizioni in quanto incompatibili con l’osservanza delle norme rituali e la pratica della benevolenza. Infatti nei dialoghi e’ riportato espressamente come “ se si governa con le leggi e si mantiene l’ordine con le punizioniil popolo tendera’ ad evitarle , ma non si incutera’ in eso alcun senso di vergogna, mentre se si governa con eccellenza morale, si radicano nel popolo senso di vergogna e disciplina (Lunyu II, 3).

Il pensiero del Maestro Kong fu ovviamente ripreso da diversi discepoli del confucianesimo. I principali furono senz’altro Meng ke o menzi (370 A.C.-289 A.C.) meglio noto come Mencio, che segui’ una linea di pensiero del tutto in line a con gli oreientamenti del Maestro e Xunzi (312 A.C._215 A.C.) che fu invece un confuciano eterodosso. In particolare le differenze fondamentali riguardavano la natura dell’animo umano e quali fossero le pratiche di virtu’ cui attribuire maggior importanza per realizzare l’armonia sociale e verso il cosmo.

Mencio sosteneva come la natura umana dalla mia nascita fosse buona ma occorresse ro dei germogli per coltivarla in modo tale da raggiungere il perfezionamento interiore. I quattro germogli sono : della compassione e della vicinanza al prossimo in caso di disgrazie altri da cui deriva la pratica della bevolenza, il senso di vergogna e indignazione da cui scaturisce la rettitudine, la devozione e il rispetto nei confronti dei superiori da cui nasce l’osservanza delle norme rituali e il senso di discernimento da cui sviluppare in seguito la saggezza.

Xunzi invece sosteneva la malvagita’ della natura umana, sebbene fosse poi possibile indirizzarla verso il perfezionamento e l’eccellenza morale coltivandone le virtu’. Qui nasce anche la seconda differenza fondamentale. Mentre Mencio dava un’importanza primaria alla pratica della benevolenza e del senso di giustizia ( da cui come logica conseguenza anche la rettitudine) per Xunzi erano lo studio e l’osservanza delle norme rituali a consentire all’uomo di acquisire la necessaria armonia con il Creato e realizzare la pace interiore.

La dottrina confuciana ovviamente non ebbe solo estimatori, ma ebbe anche diversi critici. Tra essi in particolare i discepoli del Maestro Mozi, il quale proveniente dalla scuola confuciana in seguito se ne distacco’ per approdare su posizione pacifiste e di totale opposizione alla guerra. I moisti accusarono i sostenitori del confucianesimo di infantilismo ed in particolre lo stesso Confucio fu accusato anche di ateismo.. Un’altra critica che veniva mossa era la contraddizione in cui ( secondo le loro teorie) i confuciani ricedevano nel momento in cui non esprimendosi su eventi sovrannaturali, davano importanza ai riti e alla musica, nonche’ ai culti religiosi e alle cerimonie. Kong Metzi, discepolo confuciano, cerco allora di ribadire alla critiche , sostenendo in verita’ che pur negando la presenzza di spiriti e demoni, l’Uomo superiore dovrai invece onorare il culto e le cerimonie..

Ugualmente critici furono i discepoli della scuola legalista, tutti formatisi presso il discepolo confuciano eterodosso Xunzi. Tra questi vi fu anche Primo Augusto Imperatore che ordino’ in seguito il rogo dei testi classici del confucianesimo nel 213 A.C. durante la dinastia Qin e ne perseguito’ i letterari conficiani accusando la dottrina cui essi si ispirarono lo studio quale fonte di autorita’ e dunque “magister vitae”, negando alla radice il valore della legge. E’ pero’ opportuno ricordare come questa distruzione totale dei testi confuciani non si realizzo’ compiutamente, ed anzi solo pochi anni dopo, durante la dinastia Han, si ebbe il riordino dei testi classici ed il confucianesimo assunse a ruolo di dottrina di stato.

Il confucianesimo ebbe pero’ anche diversi estimatori in occidente avendo al seguito uomini religiosi, economisti e uomini di cultura.

In particolare il gesuita Matteo ricci (1552-1610) fu un grande estimatore del Maestro Kong ed anzi contribui’ a farne conoscere la sua opera presso altri religiosi del suo ordine, tanto che alla fine del milleseicento furono editi alle stampe, soprattutto in francia, i testi del confucianesimo tradotti in francese, latino ed inglese. Il testo piu’ importante fu il Confucius Sinarum Philosophus.

Anche la dottrina politica applicata nel campo delle scienze economiche suscito’ l’ammirazione di diversi studiosi di questo campo. Tra questi si ricorda il fondatore della scuola fisiocratica francese, François Quesnay (1694-1774) che nel Tableau economique del 1758 mise a compimento un proprio progetto di produzione e consumo. .

Anche il noto filosofo Voltaire (1694-1778) apprezzo’ molto Confucio. In particolare ne condivideva l’impostazione razionalista e la tolleranza nel pensiero sintetizzabile nella massima secondo cui la virtu’ si esercita’ nel ” non fare agli altri quello che non si desidera sia fatto a se stesso”

Ammise inoltre come a quell’epoca Confucio fu il solo legislatore al mondo, senza ergersi a profeta o adulare l’imperatore del momento a “ non cercare il seguito presso le donne”.

Quali sono ste ora le tappe del pensiero di Confucio nella Cina del ventesimo secolo. Un contributo importante originale fu senz’altro quello dato da Kong Youwei (1858-1927) che formatosi presso la scuola di Canton identifico’ il pensiero e l’etica confuciana con il progresso e defini’ percio’ il pensiero del Maestro di Lu ( definito quale re saggio, re senza corona o re della cultura) come perfettamente compatibile con i valori di democrazia , emancipazione femminile ed eliminazione di qualsiasi uguaglianza sociale.

In verita’ le teorie di Kong Youwei non potevano ascriversi ad un confucianesimo autentico essendo il sistema di pensiero confuciano imperniato su una logica relazionale di natura gerarchica ed e’ noto come la donna fosse concepita di proprieta’ del padre prima del matrimonio e del marito dopo.

Cio’ nonostante Kong Ypuwei durante il periodo dei cento giorni nel 1898 riusci’ afar approvare, con il contributo di altri intellettuali dell’epoca riforma radicali e sostenere una monarchia di tipo costituzionale.

Questi tentativi furono pero’ bloccati dalla pronta reazione dei sostenitori dell’imperatrice Cixi allora al potere.

Il confucianesimo attraverso’ un periodo molto difficile durante l’instaurazione della Repubblica popolare cinese, avvenuta nel 1949 in seguito alla vittoria del Partito comunista cinese nei confronti dei nazionalisti. I testi classici del confucianesimo non furono messi all’indeice, ma se ne impose una chiave di lettura sulla base di un’interpretazione marxista-leninista. Quanto al pensiero di Confucio, esso fu considerato un “veleno del feudalesimo” soprattutto per la sua forte connotazione gerarchica e la dottrina espressa dal Maestro come un vero e proprio esempio di arretratezza culturale, ovviamente da non considerare quale modello ideale.

Il culmine di tale oscuramento avvenne durante la rivoluzione culturale imposta da Mao tze dong nel 1966, quando fu proibita la diffusione del confucianesimo e coloro che lo profesarono vennero condannati ai lavori forzati, se non alla morte. Per molti intellettuali si aprirono le porte dell’esilio, mentre altri furono necessariamente costretti a lasciare la Cina per diffondere il verbo confuciano altrove.

Ad Hong Kong fu infatti istituito l’Istituto Nuova Asia cui aderirono diversi diversi intellettuali confuciani dissenti al regime di Mao tze Dong e che diedero luogo ad una corrente di pensiero nota come “ Nuovi studi confuciani dell’era contemporanea”.

Tra questi intellettuali il piu’ noto fu senz’altro Khuong Shili (1885-1968) che sviluppo’ una teoria dell’animo umano riprendendo gli antichi precetticonfuciani riguardo il perfezionamento interiore.

L’animo umano e’ considerato dal pensatore confuciano come origine dell’attivita’ cognitiva e fonte di ogni comportamento umano. Esso e’ in grado di incidere sulle trasformazioni sociali. Cio’ significa che nessuna trasformazione potra’ essere mai approvata se non e’ stata raggiunta la piena consapevolezza dell’animo umano attraverso un’intrinseca benevolenza.

I nuovi confuciani elaborarono un nuovo manifesto ad Hong Kong noto come “Manifesto della cultura cinese per gli intellettuali di tutto il mondo” (1958) in cui si riaffermo’ la centralita’ della cultura cinese e si riaffermarono i valori confuciani.

Pur in un contesto di apertura nei confronti dell’occidente fu comunque condannato l’asservimento totale nei suoi confronti e il tentativo di distruggere la cultura autocna della Cina, in particolare i testi classici dell’antica Cina che raggiunsero il massimo splendore durante la dinastia Han. Essi dovevano invece rappresentare una fonte di conoscenza indispensabile per ogni cinese cinese. Per quanto fu attuata una critica al pensiero del Maestro fu affermato senza remore come i valori confuciani fossero pienamente compatibili con la democrazia, la scienza ed il progresso. Anche rispetto al cristianesimo si trovo’ un punto di convergenza tra l’amore cristiano e la virtu’ della benevolenza quale antica pratica confuciana. Questo ricordando come in ogni caso nell’etica confuciana non esista la dimensione di un unico Dio trascendente e alla concezione cristiana di peccato originale il confucianesimo abbia opposto l’innata virtu’ della bonta umana ( ovviamente trascurando la versione del confuciano eterodosso Xunzi).

La sviluppo di tale teorie che possiamo definire di “Nuovo confucianesimo” e che ebbero anche contaminazioni buddhiste non ebbero molto seguito nella Cina marxista e ovviamente nel periodo della Rivoluzione culturale, mentre un nuovo filone di pensiero ebbe seguito qualche decennio piu’ tardi. Fu nel 1994 infatti che sorse un “Nuovo post confucianesimo” secondo l’interpretazione dell’intellettuale Lin Anwu. Un filone di pensiero in cui i confuciani dovevano essere il giusto contrappeso all’esasperato individualismo dell’occidente, al decadimento delle relazioni famigliari e alla mancanza di umanita’, altri fenomeni tipici dell’occidente capitalistico..

Questa nuova corrente di pensiero ha sempre cercato una terza via che superasse il materialismo di stampo marxista quanto l’individualismo occidentale.

Guo qi Yong in particolare elaboro’ una propria teoria secondo cui i valori confuciani di senso dell’umanita’ e giustizia, benevolenza ed osservanza delle norma rituali dovevavo essere trasformati in principi normativi per curare i mali della societa’ contemporanea..

Non estraneo a questo filone di pensiero anche un intellettuale di formazione marxista quale Li Zehou che riaffermo’ la compatibilita’ tra valori confuciani e la necessita’ di democrazia. modernizzazione, scienza e progresso tecnologico, tanto da considerare il confucianesimo non un mero sistema filosofico ma una vera e propria etica.

A ben vedere questo “nuovo post confucianesimo” riprese i valori confuciani attuando alcune correzioni quali la maggior attenzione portata all’etica sociale rispetto al perfezionamento interiore ed il passaggio da una metafisica sull’animo umano ad un’autentica elaborazione dottrinaria su un modello di Stato ideale.

In epoca di globalizzazione finanziaria e decadenza morale dell’occidente questo filone di pensiero si e’ rivelato particolarmente seguito e considerato nella Cina odierna. Ogni giorno un famoso docente dellUniversita’ di Pechino quale Yu Dan puo’ liberamente leggere e commentare passi dei Dialoghi sulla rete televisiva di Stato senza alcun scandalo ed anzi in memoria a Confucio oggiAggiungi un appuntamento per oggi sono eretti numerosi templi in ogni angolo della Cina

Nessun cittadino della Cina attuale si vergognerebbe di affermare liberamente, come invece poteva essere un tempo, che “se occidentale e’ la pratica, cinese e’ la sostanza”

Il confucianesimo sfida l’individualismo occidentale (http://www.centrostudilarcoelaclava.it/sito/?p=945)

agaragar
13-08-10, 10:32
Fantastico !

Ti consiglio anche la Nuova Economia del Terrorismo :)
Ma in fondo chi era Mao rispetto a un craxi? o Deng xiaoping rispetto ad Amato? :sofico:

agaragar
13-08-10, 10:59
CINA, STATI UNITI: IL SORPASSO (http://www.lacinarossa.net/?p=326)

Nel corso del 2009 la Cina Popolare è diventata la più grande potenza economica mondiale ed il suo prodotto interno lordo (PNL) reale ha superato quello degli Stati Uniti. C’è ormai un nuovo “numero uno” a livello mondiale, in altri termini, dato che la Cina socialista ha scavalcato senza alcun dubbio gli USA per massa di ricchezze reali prodotte, anche se è ancora molto indietro per livelli di produttività pro-capite: i mass-media occidentali che straparlano di un futuro sorpasso economico della Cina sugli USA nel 2025, 2035 o 2050, semplicemente (e strumentalmente)… straparlano.

Passiamo ai dati di fatto: nel 2008 il PNL degli Stati Uniti era pari, a valori nominali e di mercato, a 14204 miliardi di dollari secondo la Banca Mondiale, mentre anche i dati della Cia e del FMI su questo tema variano di pochissimo.

Sempre nel 2008 l’ufficio Nazionale di statistica della Cina ha rilevato che il PNL della Cina risultava invece pari a 4590 miliardi di dollari in base ai valori nominali e di mercato. (1)

Nel 2009 il PNL degli USA nel migliore dei casi vedrà una caduta dell’1,5%: PNL USA, pari quindi a 14000 miliardi di dollari a fine anno.

Sempre nel 2009 il PNL della Cina è aumentato dell’8,7%: il PNL è pari quindi a 5000 miliardi di dollari (4560 miliardi + 8,7%).

E allora, si potrebbe subito replicare? 14000 miliardi di dollari sono sempre 2,8 volte più di 5000, il dislivello tra i due stati in esame rimane ancora enorme, seppur in diminuzione: bel segreto, che ci avete propinato!

Fino ad ora abbiamo parlato di prodotti nazionali lordi ai valori nominali, ma il punto essenziale è che tutti gli economisti, ivi compresi quelli occidentali e statunitensi, sono d’accordo da molti decenni sul fatto che il processo di comparazione della potenza economica reale/PNL reale tra due o più stati deve sempre tener conto del criterio della parità di potere d’acquisto (PPA), con il suo effetto moltiplicatore/divisore sul PNL delle nazioni che vengono esaminate in modo combinato.

Il criterio della parità di potere d’acquisto riequilibra infatti il valore reale del PNL dei vari stati rispetto al valori nominali dei loro PNL, in base appunto all’eventuale diversità dei prezzi nominali, (e dei rispettivi poteri d’acquisto nominali) degli stessi beni/servizi prodotti dalle diverse nazioni: se un bene X costa ad esempio un dollaro nel paese A, e lo stesso bene X costa quattro dollari nel paese B, si deve riequilibrare lo scarto fasullo e fittizio di 4:1 tra la ricchezza prodotta dalle nazioni A e B.

Astraendo da mille fattori, supponiamo per assurdo che sia gli Stati Uniti che la Cina producano entrambi nello stesso anno solo ed esclusivamente un chilo di riso della stessa qualità, ma che negli Stati Uniti l’isolato chilo di riso venga venduto a 3,9 dollari, ed in Cina invece a un dollaro.Ai valori nominali, il PNL degli USA (che in tutto l’anno, nel caso assurdo ed esemplificativo proposto, è composto da un solo chilo di riso) risulterebbe maggiore di 3,9 volte rispetto a quello cinese, ma ai valori reali ( anche la Cina produce nello stesso anno 1 chilo di riso, della stessa qualità) tale superiorità nominale risulta fittizia e deve essere annullata e sostituita appunto con la parità del potere d’acquisto reale.

Ora, tra il PNL degli USA e quello della Cina Popolare., il coefficiente di riequilibrio utilizzato dalla CIA (si, proprio dalla CIA di Langley nel suo World Factbook) e dal FMI/Banca Mondiale, per misurare il potenziale economico globale cinese a parità di potere d’acquisto, risultava pari a 4,1 fino al 2002, e poi a 3,94 fino al 2005*. Con quest’ultimo moltiplicatore, ad esempio, il PNL nominale cinese del 2005 veniva moltiplicato x 3,94: visto che a livello nominale il PNL cinese risultava pari a 2680 miliardi di dollari, quest’ultima cifra moltiplicata per 3,94 portava il PNL reale, calcolato dalla CIA in termini di parità di potere d’acquisto diventava l’equivalente a circa 10500 miliardi di dollari. (2)

Prendendo una calcolatrice si verifica facilmente che, se moltiplichiamo i 5000 miliardi di dollari del PNL cinese 2009 (nominale) per il coefficiente di 3,94 (utilizzato dalla CIA, dal FMI e dalla Banca Mondiale fino al 2005, per il PNL cinese), otteniamo inevitabilmente la notevole cifra di 19700 miliardi di dollari nel 2009: e 19700 miliardi di dollari sono sicuramente una cifra molto più alta di quei 14000 miliardi di dollari che esprimono la ricchezza globale ed il PNL statunitense nel 2009.

19700 miliardi (Cina Popolare)contro 14000 (Stati Uniti):nel 2009 il sorpasso su scala mondiale è avvenuto senza alcun ombra di dubbio, utilizzando proprio il coefficiente di moltiplicazione -targato CIA, lo ripetiamo volutamente- pari a 3,94.

Non solo: la Cina avrebbe scavalcato nel 2009 gli Stati Uniti, per quanto riguarda il PNL a parità di potere d’acquisto, anche utilizzando un moltiplicatore pari a 2,81 (5000 x 2,81 = 14050).

Certo, si potrà obiettare, i calcoli numerici sembrano inequivocabili : ma allora perché nessuno parla di questo “super segreto” in giro per il mondo?

Per una semplice ragione: a partire dal 2006, CIA, FMI e Banca Mondiale hanno fatto crollare senza alcuna spiegazione il coefficiente usato per il PNL cinese ed il suo calcolo a PPA dal 3,94 sopracitato fino a …1,85, dimezzandolo senza alcun motivo plausibile.

Con il nuovo coefficiente creato dalla CIA dopo il 2006, il PNL cinese del 2009 risulta pertanto pari a “soli” 9250 miliardi di dollari, cifra ancora sensibilmente inferiore ai 14000 del PNL USA.

Secondo il coefficiente 3,94 utilizzato dalla CIA, FMI e Banca Mondiale fino al 2006, pertanto, lo storico sorpasso cinese si sarebbe, verificato sicuramente nel 2009 (ed anche nel 2008…); invece, secondo il nuovo coefficiente di 1,850 nessun sorpasso di Pechino su Washington nel 2009 e per quasi un altro decennio, con tutta probabilità .

“D’accordo: ma perché ritenere valido il criterio della Cia del 2004/2006, e non invece il nuovo criterio adottato da Longley nel 2007/2009?”

Per molti e validi motivi.
- Nel 2006/2007 non è successo niente di sconvolgente, sia nell’economia cinese sia in quella statunitense: nessun nuovo (e grave) fenomeno oggettivo che spiegasse l’enorme riduzione del coefficiente da 3,94 a 1,85.

- La CIA, il FMI e la Banca Mondiale non hanno inoltre fornito alcun elemento concreto per giustificare la legittimità del passaggio del coefficiente da 3,94 a 1′85.

- Un chilo di riso, una macchina, un elettrodomestico non costano in Cina due volte meno che negli Stati Uniti, anche a Shangai o Pechino. E il riso cinese equivale di regola a quello statunitense, gli elettrodomestici di Pechino sono di regola come quelli di New York (e spesso vengono esportati a New York , Los Angeles, ecc.): pertanto il coefficiente di 3,94, anche a prima vista è più credibile del “nuovo” 1,85. Nel 2005 T. Fishman notava che secondo gli esperti statunitensi “in Cina, con un dollaro si compra all’incirca quello che a Indianapolis si acquista con 4,70 dollari” (3)

- Nel 2005 in Cina venivano immatricolati solo sei milioni di veicoli, contro i circa 12 milioni degli Stati Uniti. Nel 2009 gli USA hanno immatricolato , nel migliore dei casi 10 milioni di veicoli, la Cina invece ha raggiunto quota 13 milioni di veicoli. Nelle vendite di auto il sorpasso cinese c’è stato sicuramente, rispetto all’ex numero uno americano. (4)

- Già nel 2008, secondo i dati di Wikipedia, la Cina aveva sorpassato gli USA per autoveicoli prodotti (9345000 Pechino, 8705000 Washington); nel 2009, la Cina raggiungerà almeno quota 13 milioni di veicoli prodotti, e gli USA rimarranno al massimo attorno a quota nove milioni. (5)

- Ogni anno in Cina vengono costruiti due miliardi di metri quadrati di nuove abitazioni, metà circa dell’intera produzione mondiale e molto più che negli Stati Uniti anche in termini di indotto di impianti elettrici ed idraulici, piastrellature, ecc. (6)

- Già nel 2003 la Cina deteneva il primato mondiale nella produzione mondiale di acciaio, cemento, articoli di abbigliamento, cotone, carbone e oro.

- Nel 2008 la Cina Popolare aveva prodotto 528,5 milioni di tonnellate di cereali, mentre gli USA erano rimasti a circa tre quarti di tale cifra.

- Nel 2009 la capacità energetica globale installata in Cina toccava 860 GW e si avvicinava al dato USA, a dispetto del pauroso spreco di benzina/energia che avviene in America ogni anno.

- Già nel 2004 la Cina era leader mondiale nella produzione di TV, computer, lettori CD e DVD, condizionatori e piccoli elettrodomestici. (7)

- Secondo le proiezioni contenute nel rapporto del 2007 del World Energy Outlook, era già previsto il sorpasso della Cina sugli USA entro il 2010 in termini di consumi di energia primaria. (8)

- Già nel 2004, secondo Lester Brown, vi erano in Cina una volta e mezza più televisori che nel “concorrente” americano e quasi tre volte più cellulari. (9)

- Nel giugno 2009 gli utenti di Internet in Cina erano pari a 338 milioni, molto più dei circa 240 milioni di internauti statunitensi: nelle aree rurali, più di 155 milioni di contadini cinesi ormai usano Internet grazie al telefonino. Alla fine del 2009 gli internauti cinesi erano saliti a quota 384 milioni. (10)

- Nel 2009 la Cina è diventata il leader delle esportazioni mondiali, scavalcando (di poco) la Germania e di molto gli USA.

IL sorpasso, lo storico sorpasso della Cina (prevalentemente) socialista rispetto al capitalismo di stato degli USA costituisce ormai una realtà attuale, molto sgradevole sotto tutti gli aspetti per la borghesia mondiale; diversa è invece la situazione nella produttività pro-capite della forza-lavoro cinese, ancora inferiore di circa quattro volte a quella statunitense anche a causa della gigantesca popolazione rurale tuttora esistente in Cina.

Il segreto sta nel fatto che il sorpasso non avverrà tra due o tre decenni, come prevedono con spudorata falsa coscienza i mass-media occidentali e la CIA, ma che esso si è invece trasformato in un pesante dato di fatto del presente e dei nostri giorni, con evidente ricaduta sui rapporti di forza mondiali sia a livello economico che politico.

Proprio in tale sottoprodotto politico-economico sta la ragione del cambiamento radicale nel coefficiente di riequilibrio, operato nel 2006: anche a Langley sanno contare (e modificare i calcoli…), sanno prevedere le dinamiche economiche almeno nel breve termine, sanno da sempre come “cambiare le carte in tavola” quando fa loro comodo.

NOTE
1 ) “China GDP growt revised upwards “, 26 dicembre 2009, in nextbigfuture.com
2 ) List of countries by GDP (nominal)”, 2006 in en.wikipedia.org;
John Tkacik junior, Questioning the CIA’s claim of a drop in China’s military spending”, 31 agosto 2007, in www.heritage.org;
T. Fishman, ” Cina SPA”, pag 20, ed Nuovi Mondi Media
3 ) T. Fishman, op. cit., pag. 20
4 ) “Cina primo produttore mondiale di auto”, 8 gennaio 2010, in AGI China 24 - Home (http://www.agichina24.it) ;
“Automobile industry in China”, in en.wikipedia.org
5 ) “Cina primo produttore mondiale di auto”, op. cit.
6 ) “E’ il terremoto edilizio cinese”, 3 marzo 2007, in eddyburg.it
7 ) A. Blua, “Report says China overtakes U. S. as World’s leading consumer”, 18 febbraio 2005, in wwwvferl.org
8 ) A. Pascucci, “La lunga marcia della Cina. I. La politica energetica”, 19 novembre 2008, in www.cartogeafareilpresente.org
9 ) A. Blua, “Report says China overtakes U. S.
10 ) C. Buckley, “China Internet population hits 384 million”, 15 gennaio 2010, in Business & Financial News, Breaking US & International News | Reuters.com (http://www.reuters.com)

* Dati da verificare(nota mia)

Spetaktor
16-08-10, 22:07
Un istruttivo viaggio in Cina. Riflessioni di un filosofo



di Domenico Losurdo

Dal 3 al 16 luglio ho avuto il privilegio di visitare alcune città e realtà della Cina, nell’ambito di una delegazione invitata dal Partito comunista cinese, della quale facevano parte altresì esponenti dei partiti comunisti del Portogallo, della Grecia e della Francia e della Linke tedesca; per l’Italia, oltre al sottoscritto, hanno partecipato al viaggio Vladimiro Giacché e Francesco Maringiò. Il testo che segue non è un diario o una cronaca; si tratta di riflessioni stimolate da un’esperienza straordinaria.



1. La prima cosa che colpisce nel corso del colloquio con gli esponenti del Partito comunista cinese e con i dirigenti delle fabbriche, delle scuole e dei quartieri visitati è l’accento autocritico, anzi la passione autocritica di cui danno prova i nostri interlocutori. Su questo punto, netta è la rottura con la tradizione del socialismo reale. I comunisti cinesi non si stancano di sottolineare che lungo è il cammino da percorrere e numerosi e giganteschi sono i problemi da risolvere e le sfide da affrontare, e che comunque il loro paese è ancora parte integrante del Terzo Mondo.

Per la verità, nel corso del nostro viaggio il Terzo Mondo non l’abbiamo mai incontrato. Non certo a Pechino, che affascina già con il suo aeroporto modernissimo e luccicante, e tanto meno a Qingdao, dove si sono svolte le regate delle Olimpiadi 2008 e che fa pensare ad una città occidentale di particolare bellezza ed eleganza e con un elevato tenore di vita. Il Terzo Mondo non l’abbiamo incontrato neppure allontanandoci di 1500 chilometri dalle regioni orientali e costiere, quelle più sviluppate, e atterrando a Chongqing, l’enorme megalopoli che complessivamente conta 32 milioni di abitanti e che sino a qualche anno fa sembrava inseguire faticosamente il miracolo economico. Non c’è dubbio che il Terzo Mondo ancora esiste nell’immenso paese asiatico, ma il mancato incontro con esso è il risultato non della volontà di nascondere i punti deboli della Cina di oggi, ma del fatto che l’impetuosa crescita economica ormai in corso da oltre tre decenni sta riducendo, assottigliando e spezzettando a ritmo accelerato l’area del sottosviluppo, che sfuma così in una lontananza sempre più remota.

In Occidente non mancheranno certo coloro che a questo punto storceranno la bocca: sviluppo, crescita, industrializzazione, urbanizzazione, miracolo economico di ampiezza e durata senza precedenti nella storia, che volgarità! Questo snobismo da gran signore sembra considerare irrilevante il fatto che centinaia di milioni di persone siano sfuggite ad un destino che le condannava alla denutrizione, alla fame e persino alla morte per inedia. Quanti poi ritengono che lo sviluppo delle forze produttive sia solo una questione di benessere economico e di consumismo farebbero bene a rileggere (o a leggere) le pagine del Manifesto del partito comunista che mettono in evidenza l’idiotismo di una vita rurale circoscritta nella miseria anche culturale di confini ristretti e invalicabili. Visitando oggi le meraviglie della Città imperiale a Pechino e, a pochi chilometri di distanza, la Grande muraglia, ci si imbatte in un fenomeno assente non solo nel lontano 1973 ma anche nel 2000, negli anni cioè dei due miei precedenti viaggi in Cina. Ai giorni nostri balza subito agli occhi la presenza massiccia di visitatori cinesi: sono turisti dalle caratteristiche particolari; spesso vengono da un angolo remoto dell’immenso paese; forse è la prima volta che ne visitano la capitale; sul piano culturale cominciano ad appropriarsi in qualche modo della nazione di antichissima civiltà di cui fanno parte; cessano di essere dei semplici contadini legati alla zolla da essi coltivata come ad una prigione e diventano realmente cittadini di un paese sempre più aperto al mondo.

Ancora oltre l’orario previsto per la visita ai monumenti e ai musei, piazza Tienanmen continua a brulicare di gente: sono in molti ad attendere e ad osservare con orgoglio l’alzabandiera della Repubblica popolare cinese. No, non si tratta di sciovinismo: i cinesi amano farsi fotografare assieme ai visitatori occidentali (anche chi scrive ha ricevuto e accolto con piacere richieste del genere); è come se essi invitassero il resto del mondo a festeggiare il ritorno di un’antichissima civiltà a lungo oppressa e umiliata dall’imperialismo. Non c’è dubbio: il prodigioso sviluppo delle forze produttive non si è limitato a strappare dalla miseria e dagli stenti centinaia di milioni di uomini, ha assicurato loro dignità individuale e nazionale, ha consentito loro di allargare enormemente il proprio orizzonte guardando al grande paese di cui fanno parte e, al di là di esso, al mondo intero.



2. Ma lo sviluppo delle forze produttive non è sinonimo di degradazione e distruzione della natura? Siamo in presenza di una preoccupazione, anzi di una certezza spesso strombazzata in modo particolarmente stridente dalla sinistra occidentale. Affiora qui una strana visione della natura, che risulta malata se le piante intristiscono e rinseccano ma che, a quanto pare, è da considerare perfettamente sana, se a deperire e a morire in massa sono le donne e gli uomini. Un certo ecologismo finisce con lo scavare ancora di più il solco tra mondo umano e mondo naturale che pure dice di voler criticare. Ma concentriamoci pure sulla natura intesa in senso stretto. Qualche tempo fa uno storico assai famoso (Niall Ferguson) ha scritto un articolo, pubblicato anche sul «Corriere della Sera», che a partire dal titolo denunciava «la guerra della Cina alla natura». In realtà, già nel lungo tratto che dall’aeroporto di Pechino ci conduce alla Grande muraglia e nel lungo tratto che, seguendo un percorso diverso, dal centro della città ci riconduce all’aeroporto, notiamo una quantità impressionante di alberi chiaramente piantati di recente, nell’ambito di un progetto assai ambizioso di rimboschimento e di estensione della superficie forestale che investe l’intero paese. Qualche giorno prima della conclusione del nostro viaggio abbiamo la possibilità di visitare un’area ecologica di 10 chilometri quadrati collocata nelle vicinanze di Weifang, una città del Nord-Est in rapida espansione, impegnata nello sviluppo dell’alta tecnologia ma che al tempo stesso vuole distinguersi per la sua vivibilità. L’area ecologica, il cui accesso è libero e gratuito per tutti e che può essere visitata solo a piedi o facendo ricorso a un minuscolo pulmino aperto e a trazione elettrica, è stata ricavata recuperando un territorio sino a qualche tempo fa fortemente degradato e che ora invece risplende nella sua incantevole bellezza e serenità. Lo sviluppo industriale e economico non è in contraddizione con la tutela dell’ambiente. Certo, l’equilibrio tra queste due esigenze risulta particolarmente difficile in un paese come la Cina, che deve nutrire un quinto della popolazione mondiale pur avendo a disposizione solo un settimo della superficie coltivabile: in questo quadro vanno collocati gli errori commessi e i danni gravi inferti all’ambiente negli anni in cui la priorità assoluta era costituita da un decollo economico chiamato a porre fine il più rapidamente possibile alla denutrizione e alla miseria di massa. Ma questa fase è per fortuna superata: ora è possibile promuovere un ecologismo che, assieme alla vita e alla salute delle piante e dei fiori, sappia garantire la vita e la salute delle donne e degli uomini.



3. Ho già detto della passione autocritica che sembra caratterizzare i comunisti cinesi. Sono a essi a insistere sull’intollerabilità in particolare del crescente divario tra città e campagna, tra zone costiere da un lato e il centro e l’Ovest del paese dall’altro. Tali fenomeni non sono la dimostrazione della deriva capitalistica della Cina? E’ una tesi che è largamente diffusa nella sinistra occidentale e che sembra trovare un’eco in alcuni membri della nostra delegazione multipartitica. Nel dibattito franco e vivace che si sviluppa intervengo con una puntualizzazione per così dire «filosofica». E’ possibile procedere a due confronti tra loro assai diversi. Possiamo paragonare il «socialismo di mercato» con il socialismo da noi auspicato, con il socialismo in qualche modo maturo, e quindi mettere in evidenza i limiti, le contraddizioni, le disarmonie, le diseguaglianze che caratterizzano il primo: sono gli stessi comunisti cinesi a insistere sul fatto che il paese da loro da loro diretto è soltanto nello «stadio primario del socialismo», uno stadio destinato a durare sino alla metà di questo secolo, a conferma della lunghezza e complessità del processo di transizione chiamato a sfociare nell’edificazione di una nuova società. Ma non per questo è lecito confondere il «socialismo di mercato» con il capitalismo. A illustrazione della radicale differenza che sussiste tra i due possiamo far ricorso a una metafora. In Cina siamo in presenza di due treni che si allontanano dalla stazione chiamata «Sottosviluppo» per avanzare in direzione della stazione chiamata «Sviluppo». Sì, uno dei due treni è superveloce, l’altro è di velocità più ridotta: per questo la distanza tra i due aumenta progressivamente, ma non bisogna dimenticare che entrambi avanzano verso il medesimo traguardo e occorre altresì tener presente che non mancano certo gli sforzi per accrescere la velocità del treno relativamente meno veloce e che comunque, in seguito al processo di urbanizzazione, i passeggeri del treno superveloce diventano sempre più numerosi. Nell’ambito del capitalismo, invece, i due treni in questione marciano in direzione contrapposta. L’ultima crisi ha messo sotto gli occhi di tutti un processo in atto da alcuni decenni: l’immiserimento delle masse popolari e lo smantellamento dello Stato sociale vanno di pari passo con la concentrazione della ricchezza sociale nelle mani di una ristretta oligarchia parassitaria.



4. E, tuttavia, tra i comunisti cinesi cresce l’insofferenza per il divario tra zone costiere e aree centro-occidentali, tra città e campagna e nell’ambito stesso della città. E’ un atteggiamento recepito con sorpresa e con compiacimento dall’intera delegazione dell’Europa occidentale. Questa insofferenza si avverte in modo acuto a Chongqing, la metropoli collocata a 1500 chilometri di distanza dalla costa. La parola d’ordine (Go West!), che chiama a estendere al centro e all’Ovest dell’immenso paese il prodigioso sviluppo dell’Est, è stato lanciata già dieci anni fa. I primi risultati si vedono: ad esempio, il Tibet e la Mongolia interiore vantano negli ultimi anni un tasso di sviluppo superiore alla media nazionale. Non è il caso del Xinjiang dove nel 2009 (l’anno della crisi), rispetto a una media nazionale dell’8, 7%, il Pil è cresciuto «solo» dell’8, 1%. E proprio sul Xinjiang si è rovesciata nelle settimane e nei mesi scorsi una nuova ondata di finanziamenti e di incentivi. Ma ora, al di là delle regioni abitate da minoranze nazionali, alle quali il governo centrale riserva ovviamente un’attenzione particolare, si tratta di imprimere a livello generale un’accelerazione decisiva e un significato nuovo e più radicale alla politica del Go West!

Divenuta una municipalità autonoma alle dirette dipendenze del governo centrale (in questa situazione si trovano anche Pechino, Shanghai e Tianjin) e potendo così usufruire di incentivi e sostegni di ogni genere, Chongqing aspira a divenire la nuova Shanghai, aspira cioè non solo a superare l’arretratezza ma a raggiungere il livello della Cina più avanzata e a costituire un punto di riferimento anche sul piano mondiale. La megalopoli collocata all’interno del grande paese asiatico si rivela ai nostri occhi come un enorme cantiere: fervono i lavori per il potenziamento delle infrastrutture, per la costruzione di fabbriche, di uffici, di civili abitazioni; balzano agli occhi le file di alberi piantati di recente e gelosamente custoditi, le siepi verdi che fiancheggiano e talvolta dividono anche strade e autostrade. Sì, perché al di là del miracolo economico Chongqing insegue un obiettivo ancora più ambizioso: intende proporsi all’intera nazione come «nuovo modello» di sviluppo, regolando meglio e in modo più «armonico» i rapporti all’interno della città, tra città e campagna e tra uomo e natura. In quella che dovrebbe divenire la nuova Shanghai, costante è il riferimento a Mao Zedong, e non si tratta solo del doveroso omaggio al grande protagonista della lotta di liberazione nazionale del popolo cinese, al padre della patria che non a caso campeggia in piazza Tienanmen così come nelle banconote; si tratta di prendere sul serio il rinvio al «pensiero di Mao Zedong», sancito nello Statuto del Partito comunista cinese. A Chongqing si ha la netta impressione che siano già iniziati il dibattito e, presumibilmente, la lotta politica in preparazione del Congresso previsto tra due anni.

A questo punto, occorre subito sgomberare il campo da un possibile equivoco: non è in discussione la politica di riforma e di apertura sancita oltre trent’anni fa dalla Terza sessione plenaria dell’XI Comitato centrale (18-22 dicembre 1978): nello Statuto del Pcc è sancito anche il rinvio alla «teoria di Deng Xiaoping» e all’«importante idea delle tre rappresentanze», anche se la categoria di «pensiero» vuole avere una rilevanza strategica maggiore della categoria di «teoria» (che fa riferimento a una congiuntura e sia pure a una congiuntura di lungo periodo) e della categoria di «idea» (la quale ultima, per «importante» che sia, sta a designare un contributo su un aspetto determinato). Soprattutto, nessuno vuole ritornare alla situazione in cui in Cina c’era più «eguaglianza» solo nel senso che i due treni della metafora da me più volte utilizzata erano entrambi fermi alla stazione «Sottosviluppo» o da essa si allontanavano con lentezza. No, ormai si può considerare definitivamente acquisita la consapevolezza per cui il socialismo non è la distribuzione eguale della miseria. Tanto più che tale «eguaglianza» è del tutto illusoria e anzi può rovesciarsi nel suo contrario. Allorché la miseria raggiunge un certo livello, essa può comportare il pericolo della morte per inedia. In tal caso, il pezzo di pane che garantisce ai più fortunati la sopravvivenza, per modesto e ridotto che esso sia, sancisce pur sempre una diseguaglianza assoluta, la diseguaglianza assoluta che sussiste tra la vita e la morte. E’ quello che, prima dell’introduzione della politica di riforma e di apertura, si è verificato negli anni più tragici della Repubblica Popolare Cinese, in conseguenza sia del retaggio catastrofico consegnato dal saccheggio e dall’oppressione imperialista, sia dell’impietoso embargo imposto dall’Occidente, sia dei gravi errori commessi dalla nuova dirigenza politica. Resta ferma dunque la centralità del compito dello sviluppo delle forze produttive, ma tale centralità può essere interpretata in modo sensibilmente diverso…



5. A dirigere Chongqing è stato chiamato Bo Xilai, già brillante ministro del commercio estero. E’ una circostanza che ci consente di riflettere sul processo di formazione del gruppo dirigente in Cina. Un esponente del governo centrale, che nello svolgimento del suo compito, si è distinto e ha acquisito prestigio anche sul piano internazionale, è inviato in provincia per affrontare un compito di diversa natura e di proporzioni gigantesche. Colpendo in modo capillare e radicale la corruzione, e proponendo nella teoria e nella pratica reale di governo un «nuovo modello», impegnato a bruciare le tappe nella liquidazione delle diseguaglianze divenute intollerabili e nella realizzazione della «società armoniosa», Bo Xilai ha suscitato un dibattito nazionale: è facile prevedere la sua presenza in posizione eminente nel gruppo dirigente che scaturirà dal XVIII Congresso del Pcc, anche se sarebbe un errore dare per scontato il risultato del dibattito (e della lotta politica) in corso. E così: a conclusione di un periodo di incertezze, conflitti e lacerazioni, alla prima generazione di rivoluzionari con al centro Mao Zedong ha fatto seguito la seconda generazione di rivoluzionari con al centro Deng Xiaoping. Hanno fatto poi seguito la terza e la quarta generazione di rivoluzionari con al centro rispettivamente Jiang Zemin e Hu Jintao. Dal prossimo Congresso del Partito scaturirà la quinta generazione di rivoluzionari. E’ un’impostazione data a suo tempo da Deng Xiaoping, che ha confermato così la sua lungimiranza e la sua lucidità nella costruzione del Partito e dello Stato: superati sono la personalizzazione del potere e il culto della personalità; si è posto fine all’occupazione vita natural durante delle cariche politiche; si è affermato un processo di formazione e selezione dei gruppi dirigenti che ha dato sinora ottimi risultati.



6. Ma sino a che punto si può considerare socialista il «socialismo di mercato» teorizzato e praticato dal Partito comunista cinese? Nella variegata delegazione che arriva dall’Occidente non mancano i dubbi, le perplessità, le critiche aperte. Si sviluppa un dibattito aperto e vivace, ancora una volta incoraggiato dai nostri interlocutori e ospiti. Non c’è dubbio che, con l’affermarsi della politica di riforma e di apertura, si è ristretta l’area dell’economia statale e si è allargata l’area dell’economia privata: siamo in presenza di un processo di restaurazione del capitalismo? I comunisti cinesi fanno notare che resta fermo il ruolo centrale e dirigente dello Stato (e del Partito comunista): è così?

Il panorama economico e sociale della Cina di oggi è caratterizzato dalla compresenza delle più diverse forme di proprietà: proprietà statale; proprietà pubblica (in questo caso il proprietario è costituto non dallo Stato centrale bensì, ad esempio, da una municipalità); società per azioni nell’ambito delle quali la proprietà statale o la proprietà pubblica detiene la maggioranza assoluta, ovvero la maggioranza relativa o una quota significativa del pacchetto azionario; proprietà cooperativa; proprietà privata. In tali condizioni, risulta ben difficile calcolare con precisione la percentuale dell’economia statale e pubblica. Di ritorno a casa, trovo un numero particolarmente interessante dell’«International Herald Tribune»: vi leggo un calcolo effettuato da un professore della prestigiosa università di Yale, per l’esattezza da Chen Zhiwu (dunque un americano di origine cinese, in condizioni forse privilegiate per orientarsi nella lettura dell’economia del grande paese asiatico), in base al quale «lo Stato controlla tre quarti della ricchezza della Cina» (7 luglio 2010, p. 18). A ciò bisogna aggiungere un dato generalmente trascurato: in Cina la proprietà del suolo è interamente nelle mani dello Stato; della terra da essi coltivata i contadini detengono l’usufrutto, che possono anche vendere, ma non la proprietà. Per quanto riguarda l’industria, altri calcoli attribuiscono un peso più ridotto allo Stato. In ogni caso, chi pensasse ad un processo graduale e irreversibile di ritiro dello Stato dall’economia sarebbe del tutto fuori strada. Su «Newsweek» del 12 luglio un articolo di Isaac Stone Fish richiama l’attenzione sulle «imprese di proprietà statale che dominano in modo crescente l’economia cinese». In ogni caso - ribadisce il settimanale statunitense - nello sviluppo dell’Ovest (che ormai si delinea in tutta la sua ampiezza e profondità) il ruolo dell’impresa privata sarà ben più ridotto di quello a suo tempo svolto nello sviluppo dell’Est.

I compagni cinesi ci fanno notare che, introducendo forti elementi di concorrenza, l’area economica privata ha contribuito in ultima analisi al rafforzamento dell’area statale e pubblica, che è stata costretta a scuotersi di dosso il burocratismo, il disimpegno, l’inefficienza, il clientelismo. In effetti, proprio grazie alle riforme di Deng Xiaoping, le aziende statali o controllate dallo Stato godono ai giorni nostri di una solidità e di una competitività internazionali senza precedenti nella storia del socialismo. E’ un punto che può essere chiarito a partire da un numero dell’«Economist» (10-16 luglio 2010) che acquisto e leggo nel confortevole aeroporto di Pechino, in attesa di ripartire per l’Italia: l’articolo di fondo sottolinea che quattro tra le più importanti dieci banche mondiali sono ora cinesi. Esse, al contrario delle banche occidentali, sono in ottima salute, «guadagnano soldi», ma «lo Stato detiene il pacchetto di maggioranza e il Partito comunista nomina i massimi dirigenti, la cui retribuzione è una frazione di quella dei loro omologhi occidentali». Per di più, questi dirigenti «devono rispondere a un’autorità superiore a quella della borsa», e cioè alle autorità di uno Stato diretto dal Partito comunista. Il prestigioso settimanale finanziario inglese non riesce a capacitarsi di queste novità inaudite; spera e scommette che le cose cambieranno in futuro. Resta per ora un fatto che è sotto gli occhi tutti: l’economia statale e pubblica non è sinonimo di inefficienza, come pretendono i paladini del neoliberismo, né le banche devono pagare i loro dirigenti come nababbi per essere competitive sul mercato interno e internazionale.



7. E’ probabile che l’area economica privata soddisfi ulteriori esigenze. Intanto essa rende più agevole l’introduzione della tecnologia più avanzata dei paesi capitalistici: non dimentichiamo che su questo punto gli Usa cercano ancora di imporre un embargo ai danni della Cina. Ma c’è un altro punto, di cui mi rendo conto visitando l’avanzatissimo parco industriale di Weifang. In alcuni casi a fondare le aziende private sono stati cinesi d’oltremare: hanno studiato all’estero (soprattutto negli Usa), conseguendo altissimi risultati e accumulando talvolta un certo capitale. Ora ritornano in patria, con una decisione che suscita sgomento nei paesi in cui si erano stabiliti: com’è possibile che intellettuali di primissimo piano abbandonino la «democrazia» per ritornare alla «dittatura»? Oltre che dal richiamo patriottico, che li invita a partecipare allo sforzo corale di tutto un popolo perché la Cina raggiunga i livelli più avanzati di sviluppo, di tecnologia e di civiltà, questi cinesi d’oltremare sono attratti anche dalla prospettiva di far valere il loro talento e la loro esperienza nelle Università come anche nelle aziende private ad alta tecnologia che essi aprono. In altre parole, siamo in presenza della continuazione della politica di fronte unito teorizzata e praticata da Mao non solo nel corso della lotta rivoluzionaria ma anche per diversi anni dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese.

Ma entriamo finalmente in queste aziende di proprietà privata. Con o senza cinesi d’oltremare, esse ci riservano grandi sorprese. A venirci incontro sono in primo luogo membri del Comitato di Partito, le cui foto sono bene in evidenza nei diversi reparti. Dal loro racconto emergono quasi casualmente i condizionamenti che pesano sulla proprietà. Essa è stimolata o pressata a reinvestire una parte consistente dei profitti (talvolta sino al 40%) nello sviluppo tecnologico dell’impresa; un’altra parte dei profitti, la cui percentuale è difficile da calcolare, è utilizzata per interventi di carattere sociale (ad esempio la costruzione di scuole professionali successivamente donate allo Stato o a una municipalità, ovvero il soccorso alle vittime di una catastrofe naturale). Se si tiene presente che queste aziende private dipendono largamente dal credito erogato da un sistema bancario controllato dallo Stato e se si riflette altresì sulla presenza al loro interno di Partito e sindacato, una conclusione s’impone: nelle stesse aziende private il potere della proprietà privata è bilanciato e limitato da una sorta di contropotere.

Ma qual è il ruolo svolto dal Partito e dal sindacato? Le risposte che riceviamo non soddisfano tutti i membri della nostra delegazione. Alcuni, riecheggiando una tendenza assai diffusa nella sinistra occidentale, concentrano la loro attenzione esclusivamente sul livello dei salari. Gli interlocutori cinesi, invece, fanno capire che, al di là del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle maestranze, essi si preoccupano del contributo che le loro aziende possono fornire allo sviluppo dell’economia e della tecnologia dell’intera nazione. Da questo scambio di idee vediamo riemergere la contrapposizione tra le due figure su cui insiste il Che fare? di Lenin. L’esponente della sinistra occidentale, che chiama gli operai cinesi a respingere ogni compromesso col potere statale nella loro lotta per più alti salari, crede di essere radicale e persino rivoluzionario. In realtà, egli si colloca sulla scia del riformista o, peggio, del corporativo «segretario di una qualunque trade-union» al quale Lenin rimprovera di perdere di vista la lotta di emancipazione nei suoi diversi aspetti nazionali e internazionali, divenendo così talvolta il puntello di «una nazione che sfrutta tutto il mondo» (a quei tempi l’Inghilterra). Ben diversamente si atteggia il rivoluzionario «tribuno popolare». Certo, rispetto al 1902 (l’anno di pubblicazione del Che fare?), la situazione è radicalmente cambiata. Nel frattempo in Cina il «tribuno popolare» può contare sul sostegno del potere politico; resta il fatto che, per essere rivoluzionario, egli, facendo tesoro dell’insegnamento di Lenin, deve saper guardare l’insieme dei rapporti politici e sociali a livello nazionale e a livello internazionale. Un consistente aumento dei salari si impone ed è già in atto, favorito o promosso dallo stesso potere centrale (come riconosce la grande stampa internazionale) ma esso, al di là del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle maestranze, mira ad accrescere il contenuto tecnologico dei prodotti industriali e quindi a consolidare l’economia cinese nel suo complesso, rendendola altresì meno dipendente dalle esportazioni. Le (giuste) rivendicazioni salariali immediate non devono compromettere il conseguimento dell’obiettivo strategico del rafforzamento di un paese che sempre più, già col suo sviluppo economico, imbriglia i piani dell’imperialismo ovvero dell’«egemonismo», come più diplomaticamente preferiscono dire gli interlocutori cinesi.



8. Infine, l’ultima pietra dello scandalo: da qualche anno, in omaggio all’«importante idea delle tre rappresentanze», anche gli imprenditori sono ammessi nelle file del Partito comunista cinese. E di nuovo emergono le preoccupazioni e le angosce di alcuni membri della delegazione europea: è in atto l’imborghesimento del Partito che dovrebbe garantire il senso di marcia socialista dell’economia di mercato? In via preliminare gli interlocutori cinesi fanno notare che il numero degli imprenditori ammessi nelle file del Partito (a conclusione di un processo rigoroso di verifica e selezione) è del tutto insignificante se messo a confronto con una massa di militanti che ammonta a poco meno di 80 milioni; in altre parole, si tratta di una presenza simbolica. Ma tale spiegazione è insufficiente. Abbiamo visto che alcuni di questi imprenditori svolgono una funzione nazionale: in alcuni settori dell’economia hanno cancellato o ridotto la dipendenza tecnologica della Cina dall’estero; talvolta, non solo sul piano oggettivo ma in modo consapevole qualcuno tra di loro si è collocato in prima fila nella lotta ingaggiata dal Partito comunista già nel 1949, la lotta per dare scacco all’imperialismo passando dalla conquista dell’indipendenza sul piano politico alla conquista dell’indipendenza anche sul piano economico e tecnologico. In un mondo sempre più caratterizzato dalla knowledge economy, cioè da un’economia basata sulla conoscenza, può accadere che lo stakhanovista eroe del lavoro dell’Urss di Stalin assuma le sembianze del tutto nuove di un tecnico superspecializzato che, aprendo un’azienda ad alto valore tecnologico, fornisce un importante contributo alla difesa e al rafforzamento della patria socialista.

Si può fare un’ulteriore considerazione. Sull’onda del «socialismo di mercato» si è venuto a costituire un nuovo strato borghese in rapida espansione. La cooptazione di alcuni suoi membri nell’ambito del Partito comunista comporta una decapitazione politica di questo nuovo strato, allo stesso modo in cui in una società borghese la cooptazione da parte della classe dominante di alcuni personalità di estrazione operaia o popolare stimola la decapitazione politica delle classi subalterne.



9. E’ venuto il momento di trarre le conclusioni. Nel mio inglese claudicante le espongo in occasione di alcuni banchetti e, soprattutto, della cena che precede il viaggio di ritorno e che vede la presenza fra gli altri di Huang Huaguang, Direttore generale dell’Ufficio per l’Europa occidentale del Dipartimento internazionale del Comitato Centrale del Pcc. Tutti i partecipanti al viaggio sono chiamati a esprimersi con grande franchezza. Nei miei interventi cerco di interloquire anche con gli altri membri della delegazione dell’Europa occidentale e forse soprattutto con loro.

Allorché dichiarano di trovarsi solo allo stadio primario del socialismo e prevedono che questo stadio duri sino alla metà del XXI secolo, i comunisti cinesi riconoscono indirettamente il peso che i rapporti capitalistici continuano a esercitare nel loro immenso e variegato paese. D’altro canto, è sotto gli occhi di tutti il monopolio del potere politico detenuto dal Partito comunista (e dagli 8 Partiti minori che riconoscono la sua direzione). All’osservatore attento non dovrebbe neppure sfuggire il fatto che, collocate come sono in una posizione di subalternità sul piano economico, politico e sociale, le stesse aziende private, più che la logica del massimo profitto, sono stimolate, spinte e pressate a rispettare una logica diversa e superiore: quella dello sviluppo sempre più generalizzato e sempre più capillarmente diffuso dell’economia nonché del potenziamento della tecnologia nazionale. In ultima analisi, attraverso una serie di mediazioni, le stesse aziende private risultano assoggettate o subordinate al «socialismo di mercato». E, dunque, le prediche moraleggianti che una certa sinistra occidentale non si stanca di fare al Partito comunista cinese sono per un verso ridondanti e superflue, per un altro verso infondate e inconsistenti. Ovviamente, è del tutto legittimo formulare dubbi e critiche sul «socialismo di mercato». Ma almeno su un punto ritengo che a sinistra dovrebbe essere possibile pervenire a un consenso. La politica di riforma e di apertura introdotta da Deng Xiaoping non ha significato affatto l’omologazione della Cina all’Occidente capitalistico come se tutto il mondo fosse ormai caratterizzato da una calma piatta. In realtà, proprio a partire dal 1979 si è sviluppata una lotta che è sfuggita agli osservatori più superficiali ma la cui importanza si manifesta con sempre maggiore evidenza. Gli Usa e i loro alleati speravano di ribadire una divisione internazionale del lavoro, in base alla quale la Cina avrebbe dovuto limitarsi alla produzione, a basso prezzo, di merci prive di reale contenuto tecnologico. In altre parole speravano di conservare e accentuare il monopolio occidentale della tecnologia: su questo piano la Cina, come tutto il Terzo Mondo, avrebbe dovuto continuare a subire un rapporto di dipendenza rispetto alla metropoli capitalistica. Ben si comprende che i comunisti cinesi abbiano interpretato e vissuto la lotta per far fallire tale progetto neocolonialista come la continuazione della lotta di liberazione nazionale: non c’è reale indipendenza politica senza indipendenza economica; almeno coloro che si richiamano al marxismo dovrebbero aver chiara tale verità! Grazie all’agognato mantenimento del monopolio della tecnologia, gli Usa e i loro alleati intendevano continuare a dettare i termini delle relazioni internazionali. Col suo straordinario sviluppo economico e tecnologico, la Cina ha aperto la strada alla democratizzazione dei rapporti internazionali. Di questo risultato dovrebbero essere lieti non solo i comunisti ma anche ogni autentico democratico: ci sono ora condizioni migliori per l’emancipazione politica e economica del Terzo Mondo.

A questo punto conviene sgomberare il campo da un equivoco che rende difficile la comunicazione tra Pcc e sinistra occidentale nel suo complesso. Sia pure tra oscillazioni e contraddizioni di vario genere, sin dalla sua fondazione la Repubblica Popolare Cinese si è impegnata a lottare contro non una ma due diseguaglianze, l’una di carattere interno, l’altra di carattere internazionale. Nell’argomentare la necessità della politica di riforma e di apertura da lui auspicata, in una conversazione del 10 ottobre 1978, Deng Xiaoping richiamava l’attenzione sul fatto che si stava allargando il «gap» tecnologico rispetto ai paesi più avanzati. Questi si stavano sviluppando «con una velocità tremenda», mentre la Cina rischiava di restare sempre più indietro (Selected Works, vol. 3, p. 143). Ma se avesse mancato l’appuntamento con la nuova rivoluzione tecnologica, essa si sarebbe venuta a trovare in una situazione di debolezza simile a quella che l’aveva consegnata inerme alle guerre dell’oppio e all’aggressione dell’imperialismo. Se avesse mancato questo appuntamento, oltre che a se stessa, la Cina avrebbe arrecato un danno enorme alla causa dell’emancipazione del Terzo mondo nel suo complesso. E’ da aggiungere che, proprio per il fatto che ha saputo ridurre drasticamente la diseguaglianza (economica e tecnologica) sul piano internazionale, la Cina è oggi in condizioni migliori, grazie alle risorse economiche e tecnologiche nel frattempo accumulate, per affrontare il problema della lotta contro la diseguaglianze sul piano interno.

Il «secolo delle umiliazioni» della Cina (il periodo che va dal 1840 al 1949, e cioè dalla prima guerra dell’oppio alla conquista del potere da parte del Pcc) ha coinciso storicamente col secolo di più profonda depravazione morale dell’Occidente: guerre dell’oppio con lo scempio inflitto a Pechino al Palazzo d’Estate e con la distruzione e il saccheggio delle opere d’arte in esso contenute, espansionismo coloniale e ricorso a pratiche schiavistiche o genocide a danno delle «razze inferiori», guerre imperialiste, fascismo e nazismo, con la barbarie capitalista, colonialista e razzista che raggiunge il suo apice. Dal modo in cui l’Occidente saprà guardare alla rinascita e al ritorno della Cina, si potrà valutare se esso è deciso a fare realmente i conti col secolo della sua più profonda depravazione morale. Che almeno la sinistra sappia farsi interprete della cultura più avanzata e più progressista dell’Occidente!

Spetaktor
19-08-10, 17:03
La nuova Cina che abbiamo sottovalutato

di Vladimiro Giacchè

su il Fatto Quotidiano del 16/08/2010

Sino a non molto tempo fa un viaggio in Cina era l’occasione per misurare le molte distanze tra “noi” e “loro”. Oggi se ne misura soprattutto un’altra: quella tra l’immagine della Cina offerta dai nostri media e la realtà di quel Paese.

La Cina che ho incontrato a luglio in un viaggio che ha toccato Pechino e diverse altre città, nel corso del quale ho potuto visitare numerose imprese e impianti industriali e discutere (molto apertamente) con esponenti del mondo della politica e dell’economia, è molto distante da quell’immagine. Soprattutto dal punto di vista economico.

La competizione non è più sul costo

Cominciamo dalla competitività delle imprese cinesi. Noi continuiamo a pensare che sia basata esclusivamente sul bassissimo costo del lavoro. È senz’altro vero che la Cina, con una popolazione di oltre 1 miliardo e 300 milioni di persone, ha potuto giovarsi per anni di abbondante manodopera a basso costo. È stato questo che ha attratto le 690 mila imprese straniere (400 le grandi multinazionali) che oggi hanno uffici e soprattutto fabbriche in Cina. In questi anni la crescita dell’economia è stata spettacolare. Ma lo è stata anche quella del reddito disponibile per la popolazione: nel 2009 è stato più che doppio nelle città rispetto a quello del 2002, e nelle campagne i poveri sono scesi dai 250 milioni del 1978 ai 20 milioni attuali. Inoltre quest’anno scioperi e proteste hanno investito molte fabbriche. E sono stati coronati da successo: alla Foxconn, gli aumenti salariali sono stati del 40%, cifre non molto inferiori sono state ottenute alla Honda e alla Omron.

La stampa ufficiale (il “Quotidiano del popolo” e il “China Daily”) ha preso apertamente posizione per gli scioperanti, e lo stesso hanno fatto diversi esponenti del partito comunista. La cosa non sorprende. Questi aumenti infatti non rispondono soltanto ad ovvie logiche di equità: sono funzionali alla creazione di un mercato interno. Puntare sul suo sviluppo è fondamentale per ridurre la dipendenza dell’economia cinese dalle esportazioni, ed è un obiettivo esplicito del governo. Non è un caso che negli ultimi mesi siano state più volte rilanciate dalla stampa ipotesi di un progetto governativo per un raddoppio delle retribuzioni in 5 anni.

Yao Jian, portavoce del Ministero del commercio, già adesso non ha dubbi: “la forza lavoro a buon mercato non è più il maggiore vantaggio comparato della Cina per attrarre gli investimenti stranieri”. Dopo aver visto come funzionano alcune aree di attrazione di quegli investimenti, penso che abbia ragione.

Beibei, per esempio, è uno dei nove distretti della municipalità di Chongqing (33 milioni di abitanti), e si trova nella parte centro-occidentale della Cina, tuttora in ritardo di sviluppo rispetto all’est e alla zona costiera. I potenziali investitori ricevono un volume con dettagliate informazioni sul distretto, i suoi istituti universitari, le tipologie di imprese già presenti negli 8 parchi industriali dell’area (oltre 2000, 345 delle quali di grandi dimensioni), le infrastrutture attuali e quelle che si stanno costruendo, i prezzi dei vari fattori di produzione (costo medio dei salari, ma anche prezzo di acqua, elettricità, gas) e le agevolazioni previste per chi investe. Nell’area è presente letteralmente di tutto: da grandi estensioni di terreno dedicate all’agricoltura biologica a un centro di acquacoltura gestito da una cooperativa agricola di produzione e vendita; da industrie farmaceutiche a fabbriche di motori e automobili.

L’ossessione per l’energia verde

Ho visitato la fabbrica di automobili Lifan. Privata, fondata nel 1992 con 9 dipendenti e un investimento di appena 200.000 renminbi (1 euro è pari a circa 8 rmb), oggi impiega 13.200 persone e costruisce auto, motori, motociclette, fuoristrada e autocarri. Nel 2009 il fatturato è stato di 13,3 miliardi di rmb, con profitti pari al 10% del fatturato. I suoi prodotti sono esportati in 160 nazioni, e quest’anno nel suo settore la Lifan è stata seconda solo a Chery quanto ad esportazioni. Lifan ha già anche numerose fabbriche all’estero: in Vietnam, Thailandia, Turchia, Russia, Egitto ed Etiopia. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono pari al 4% del fatturato e in questi anni hanno consentito alla società di registrare qualcosa come 4448 brevetti. L’impianto di assemblaggio non ha nulla da invidiare a quelli occidentali, tanto in termini di macchinari utilizzati quanto di condizioni di lavoro.

Stessa musica a migliaia di chilometri di distanza, nella zona di sviluppo per industrie hi-tech di Weifang, nella penisola di Shandong: anche in quest’area di 39 kmq specializzata in elettronica, software e servizi avanzati, dove sono già insediate 130 imprese, ho trovato industrie di avanguardia.

La Goer-Tek produce componentistica audio per imprese quali Nokia, Samsung, LG, Panasonic, Harman. Fondata nel 2001, fatturato e profitti sono decuplicati dal 2005 al 2008. In questo caso l’utile netto è superiore al 10% del fatturato. Ha numerosi centri di ricerca e sviluppo, e quest’anno stima di riuscire a registrare 200 nuovi brevetti. La AOD (Advanced Optronic Devices) è invece specializzata in sistemi di illuminazione avanzata. Il Vicepresidente e Chief Operating Officer, Keen Chen, mi spiega che la società è stata fondata nel 2004 da un cinese residente all’estero, grazie alle particolari agevolazioni statali previste per il rientro degli espatriati. Oggi l’organico è di 600 persone. Le lampade a led prodotte da AOD consentono un risparmio di energia sino al 70% e durano cinquanta volte di più di una lampada normale (e 10 volte di più delle usuali lampade a basso consumo). L’illuminazione stradale che mi aveva colpito al mio arrivo a Weifang è tutta a led ed è il risultato delle lampade di AOD. È facile immaginare cosa questo significhi in termini di risparmio energetico per una città di 8 milioni e 700 mila abitanti.

L’attenzione a produzioni eco-compatibili accomuna le imprese del parco tecnologico di Weifang. Nella direzione generale della Weichai Power, società che costruisce motori diesel per automezzi, navi e generatori di energia (ma anche autocarri e componentistica per auto), ad esempio, un’intera sala è dedicata al motore “verde” a basse emissioni messo in produzione nel 2005. La Weichai Power è una società a prevalente partecipazione pubblica: quotata alle borse di Hong Kong e di Shanghai, ha lo Stato come primo azionista, con il 14% delle azioni. Esporta in Europa dagli anni Ottanta e nel 2009 ha acquisito una società francese, la Moteurs Baudouin. L’utile netto atteso per il 2010 dovrebbe superare il 12% dei ricavi (15 miliardi di rmb).

È invece privato il capitale della Byvin, un’impresa che costruisce biciclette, motocicli e auto con motore elettrico. Queste produzioni non sono un’eccezione. La Chery, il maggiore produttore cinese di automobili, sviluppa automezzi ibridi dal 2001, e dal 2009 ha prodotto la sua prima macchina completamente elettrica. Lo stesso ha fatto la Byd (che ha Warren Buffett tra i suoi azionisti).

Sempre nello Shandong, a Qingdao, si trovano la direzione generale e gli stabilimenti di Haier. Si tratta di una grande multinazionale cinese, quotata a Hong Kong ma tuttora di proprietà pubblica. Fondata nel 1984, ha cominciato ad internazionalizzarsi nel 1998. Oggi ha 29 impianti industriali nel mondo, di cui 24 all’estero, anche se i tre quarti del fatturato provengono dalla Cina. Nel 2009 è risultata prima al mondo nella vendita di elettrodomestici bianchi (frigoriferi e lavatrici), con una quota del 5,1% del mercato mondiale, battendo la Whirlpool. Han Zhendong, membro del consiglio di sorveglianza, mi spiega che Haier ha raggiunto una quota di mercato del 10% nelle vendite di frigoriferi in Francia, ma – cosa molto più importante – nel 2009 ha accresciuto del 50% la quota di mercato dei propri prodotti di punta in Cina, grazie a 100.000 (!) punti vendita nelle campagne. Ha otto centri di ricerca e sviluppo tecnologico. Per la sua attenzione ai problemi ambientali ha ricevuto già nel 2000 il “Global Climate Award”dal programma UNDP dell’Onu. Produce tra l’altro lavatrici a basso consumo di acqua e di energia, pannelli solari per riscaldamento e condizionatori d’aria a energia solare.

Obiettivo: attirare capitali esteri

Una prima conclusione: in Cina, a differenza di quanto siamo portati a credere, l’emergenza ambientale è presa molto sul serio. E non soltanto da parte delle imprese più avanzate. Anche la skyline di diverse città cinesi lo conferma. Dal treno ad alta velocità che mi riportava da Weifang a Pechino ho notato che praticamente tutte le case della città di Dezhou avevano il tetto coperto di pannelli solari: e in effetti il 95% delle abitazioni di quella città è dotato di scaldabagni ad alimentazione solare. Il produttore di pannelli è una società locale, la Himin Solar Energy. La superficie della sua produzione ha già superato i 2 milioni di mq di pannelli, ossia il totale dei pannelli solari in uso nell’intera Unione Europea.

Anche le multinazionali che operano in Cina sono state chiamate a fare la loro parte. Il 13 aprile scorso il governo ha pubblicato le "Opinioni su come continuare a fare un buon lavoro nell'utilizzo degli investimenti esteri". Il titolo del documento, come spesso accade in Cina, è piuttosto generico e indiretto: ma vi si delinea una vera e propria nuova politica nei confronti degli investimenti esteri in Cina. Si intende incoraggiare gli investitori stranieri ad investire in produzioni manifatturiere di qualità, nei servizi, nell’energie alternative e nella protezione ambientale, e al contempo esercitare serie restrizioni sulle produzioni che comportano “inquinamento elevato, alto consumo di energia e elevata dipendenza dalle risorse naturali”.

Siamo insomma di fronte ad una complessiva strategia nei confronti del problema ambientale. Che può essere riassunta in uno slogan: trasformare il problema in opportunità. Si vuole fare della questione ambientale una leva per accelerare il progresso tecnologico, creare occupazione e accrescere la competitività. Per questo una parte non piccola dello stimolo economico messo in campo tra 2008 e 2009 contro la crisi è stata destinata a progetti ambientali, e adesso l’Amministrazione Nazionale dell’Energia ha fissato un piano di investimento nelle energie alternative per 5.000 miliardi di rmb tra il 2011 e il 2020. Si tratta di una cifra enorme, che consentirà di dotare la Cina, ed in particolare le sue aree di nuova industrializzazione, di tecnologie e infrastrutture di avanguardia a livello mondiale. In questo campo, del resto, la Cina vanta già dei primati: i 6.920 km di linee ferroviarie ad alta velocità, ad esempio, sono già superiori a quelli di ogni altro Stato del mondo, ma li si vuole raddoppiare entro il 2012 con un investimento di 800 miliardi di rmb; i treni sono già i più veloci del mondo (350 km/h), ma nei prossimi anni la velocità massima sarà portata a 380 km/h.

L’opportunità della crisi

Sul volo che mi riporta in un aeroporto del terzo mondo (Fiumicino) provo a tirare le somme di quello che ho visto. Crescente utilizzo di alta tecnologia a basso impatto ambientale, competitività sempre più basata sulla elevata produttività del lavoro anziché sul basso costo della forza-lavoro, manodopera qualificata, aumenti salariali al fine di creare un grande mercato interno, efficienza delle infrastrutture fisiche e amministrative (come lo sportello unico per le imprese che ho visto nel Comune di Qingdao: un solo interlocutore e 8 giorni per avviare un’impresa). In una parola: il contrario di quanto sta accadendo da noi. La Cina ha trasformato la crisi mondiale in opportunità per ridurre la propria dipendenza dalle esportazioni e puntare sulla crescita accelerata del mercato interno, così come sta rovesciando il problema ambientale in opportunità per conquistare un primato tecnologico.

Conclusione: la nostra immagine di una Cina che vince grazie al basso costo del lavoro e all’uso irresponsabile delle risorse naturali non è soltanto sbagliata, ma pericolosa. Perché ci impedisce di capire su quali nuovi terreni si gioca oggi la competizione globale.

Molte imprese tedesche hanno capito la situazione e stanno riemergendo dalla crisi proprio grazie alle esportazioni in Cina. Da noi, invece, c’è ancora qualcuno che pensa di recuperare competitività abbassando i salari e peggiorando le condizioni di lavoro, anziché aumentando gli investimenti in ricerca. O producendo automobili in Serbia (a spese della Bers e del governo di Belgrado) per venderle in Italia. Tanti auguri.

Spetaktor
23-08-10, 23:10
L’economia cinesa supera il Giappone e balza al secondo posto dopo Usa

Nel secondo trimestre, la Cina, considerando i valori ufficiali, ha registrato un Pil di 1.339 miliardi di dollari, contro i 1.288 miliardi del Giappone, ma in base ai dati diffusi oggi da Tokyo, il Pil nipponico semestrale si è attestato a 2.578 miliardi di dollari, contro i 2.532 miliardi di Pechino. Per Bruce Kasman, capo economista di JPMorgan Chase si tratta di un risultato storico: “è impressionante il fatto che la Cina sia riuscita a mantenere elevati tassi di crescita anche quando molti paesi si trovavano ad affrontare tempi duri”. Tuttavia il gap che divide la Cina dagli Stati Uniti rimane elevato: 5.000 miliardi di dollari dell’economia cinese e i quasi 15.000 miliardi di quella americana. Un dato significativo secondo il Wall Street Journal, il quale scrive che ci vorranno almeno dieci anni o più per Pechino per raggiungere gli Stati Uniti.
Ma la Cina non è da sottovalutare. Circa 10 anni fa era la settima economia al mondo, poi ha superato la Germania e nel 2007 Pechino ha conquistato il terzo posto. Per il 2010 gli analisti si attendono che la Germania confermi il quarto posto, la Francia il quinto, il Regno Unito il sesto e l’Italia il settimo.

La Cina e il Giappone: testa a testa in economia. Davanti solo gli Usa (http://www.dazebao.org/news/index.php?option=com_content&view=article&id=11700:leconomia-cinesa-supera-il-giappone-e-balza-al-secondo-posto-dopo-usa&catid=77:econimia&Itemid=177)

Spetaktor
23-08-10, 23:10
Il Paese di Mezzo tra modernità e tradizione


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Roberto De Tullio
“Zhongguó”, il Paese di Mezzo, ha sempre suscitato interessi diversificati a seconda delle interpretazioni del mondo politico e intellettuale di ogni nazione. In realtà, le infinite sfaccettature che delineano quella che per noi è il paese “Cina” ci impediscono ancora di comprendere, nel complesso, come funziona quel motore millenario che ha reso il Paese di Mezzo l’entità politica e territoriale più progredita e illuminata di qualsiasi nazione o istituzione da quando è stata scritta la storia dell’uomo. Tradizione e progresso, socialismo e capitalismo, sono esempi del mutamento perpetuo, yin e yang che regola la concezione di vita dei cinesi, dal semplice contadino, al massimo esponente del governo. Per capire finalmente la Cina, è d’obbligo scrollarsi di dosso qualsiasi pregiudizio e mentalità occidentale, e fare proprio il pensiero orientale, nella specificità quello cinese, adattandolo al contesto adatto. I cinesi la chiamano “flessibilità”, che se per noi è solo una parola, per i cinesi è il cardine principale su cui basa tutta la sua attuale potenza. Una potenza mantenuta in equilibrio da un altro concetto, molto importante per la politica attuale cinese, propugnato da Hu Jintao nei suoi continui richiami alla società armoniosa, quello del Wei-Wu-Wei, l’azione senza azione, che può essere applicato in ogni contesto. In quello tipicamente strategico e quindi politico, si può tradurre come il raggiungimento del massimo profitto con il minimo sforzo.
Concetti antichi quanto la Cina stessa, ma attuali come non mai, hanno permesso alla Cina comunista di Mao, grazie agli insegnamenti di maestri millenari come Lao-Tse, di transitare un paese statico, debole, sottomesso (Yin), in una paese attivo, forte, indipendente (Yang), il mutamento è così compiuto. Mao, rispetto al suo avversario, generale Chiang-Kai-shek, aveva un grande vantaggio che nonostante l’evidente debolezza delle proprie forze, gli ha permesso di sopraffare un nemico potente che controllava già vasti territori. Ha assorbito totalmente l’esperienza filosofo-bellica dei propri predecessori, applicandolo intelligentemente in un contesto moderno.
Si avverà così un’altra frase del libro più importante della Cina, il Libro dei Mutamenti: “La forza diminuisce, la debolezza aumenta.”. Ancora una volta quindi, Yin si riversa in Yang. Mao Zedong conquista la Cina, le forti armate del generale Chiang allo sbaraglio. Si infrange così, grazie alla tradizione di cui Mao è stato attento e scrupoloso guardiano, il piano degli USA di una Cina cristiana e governata dal modello occidentale contrapposta all’URSS e traghetta invece la Cina verso una nuova era progressista.
Questo è solo un esempio, ma concetti come quello dei mutamenti sono ben radicati in ogni singolo cinese e soprattutto in ogni dirigente del paese, concetti che hanno permesso una commistione unica nel suo genere e potentissima, tra comunismo e tradizione, tra modernità e passato.

Spetaktor
24-08-10, 17:14
(AGI) Mosca - La Russia tenta una nuova rotta commerciale per la Cina
attraverso il mar Artico. La prima tratta sperimentale servira' a
capire se la rotta potra' essere vantaggiosa economicamente. La
lunghezza del viaggio e' drasticamente ridotta: 13.000 chilometri
contro i 22.000 del passaggio dal canale di Suez.

Spetaktor
02-09-10, 11:30
L'ANNO DEL DRAGONE (di G. Gabellini)


L'ANNO DEL DRAGONE (di G. Gabellini) | CONFLITTI E STRATEGIE (http://conflittiestrategie.splinder.com/post/23226438/lanno-del-dragone-di-g-gabellini)


E' notizia relativamente fresca di cronaca quella che rivela il "sorpasso" economico del colosso cinese sul suo grande, storico rivale estremorientale, il Giappone. Questo mero dato di fatto altro non è che il coronamento dell’acuta politica estera ed economica portata avanti dai facinorosi strateghi di Pechino da diversi anni a questa parte.
I fattori fondamentali che hanno contribuito al successo sono diversi, ma riconducibili a una civiltà marcatamente ispirata al confucianesimo tradizionale, che è una dottrina particolarmente radicata nella cultura cinese. La Cina basa la propria efficacia su una società fortemente centralizzata, autocratica e autoritaria, sull'elemento demografico letteralmente esorbitante e, last but not least, su un tipo di politica scevro da condizionamenti ideologici, sacrificati sul benemerito altare del pragmatismo operativo. Se il vecchio statista Deng Xiao Ping indicava a suo tempo la necessità di "Nascondere gli artigli mentre si sviluppa la propria potenza”, i suoi eredi (Hu Jintao in particolare) hanno dimostrato di aver tenuto in notevole considerazione tale suggerimento. La Cina è infatti estremamente restia a scoprire le carte e a rivelare apertamente i propri progetti economici, politici e geopolitici. E’ proprio di fronte a questa saggia discrezionalità cinese che molti “esperti” di relazioni internazionali sono rimasti letteralmente impietriti, quando sono venuti a sapere che gli abili diplomatici di Pechino avevano chiuso un contratto d'oro per lo sfruttamento della gigantesca miniera di rame situata nella provincia afghana di Lowgar, corrompendo alcuni dirigenti del burlesco governo guidato da Hamid Karzai; o quando uscì la notizia relativa al fatto che Pechino stava letteralmente "comprandosi" vastissime zone dell'Africa per adibirle ai propri scopi (non ultimo dei quali, la coltivazione intensiva di cereali, utili a far fronte alla crescente domanda di quel miliardo e passa di persone), riproponendo una versione, pur rivisitata e corretta, del vecchio colonialismo britannico. Questo pragmatismo, da molti "utili idioti" considerato "cinico", in realtà estremamente "realista" nel senso schmittiano del termine, ha portato la Cina ad eludere la strada ipocrita dei diritti umani (tanto cara agli yankees) in favore di una tacita noncuranza nei confronti del tasso di moralità e dell'operato dei principali interlocutori politici ed economici, cosa ampiamente dimostrata dall'appoggio incondizionato fornito al governo sudanese in occasione della patetica e gonfiatissima campagna mediatica costruita ad arte sul regime di Karthoum, reo, secondo i soliti “umanitaristi” a corrente alternata e geometria variabile (gli stessi, per intendersi, che cianciano di "democrazia in Iraq"), di perpetrare il solito "massacro indiscriminato" a danno dell’inerme popolazione civile. Con questo paese Pechino vanta rapporti economici estremamente redditizi (specie per quanto riguarda il petrolio), che vanno ben oltre il mero saccheggio di materie prime. Intrattenendo rapporti internazionali sulla falsariga di quello con il Sudan, in chiave, cioè, chiaramente strategica, la Cina non si limita infatti a trarre vantaggi diretti (in termini di conquista di materie prime), ma mira a conquistare mercati su mercati, a forza di infrastrutture, corruzione ed investimenti rigidamente gestiti dal fondo sovrano nazionale ("China Investment Company"), di proprietà dello stato. Lo stato è detentore, tra l'altro, della quota di maggioranza del colosso energetico "China National Petroleum Corporation" (CNPC), la più grande compagnia petrolifera (al di fuori di qualche "Sorella" americana) in termini di capitalizzazione. Questa compagnia statale ha stipulato una serie di contratti energetici molto vantaggiosi con la russa Gazprom, mediante i quali è stato spianato il terreno per l'odierna intensificazione dei rapporti diplomatici tra le due grandi potenze asiatiche, dalla quale è scaturita la "Organizzazione per la Cooperazione di Shangai", un patto sottoscritto da Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tajikistan in chiave politica, economica e militare. Diversi analisti hanno indicato la possibilità che l'organizzazione in questione celasse in realtà una sorta di "Patto di Varsavia" renaissance, finalizzato a proteggere l'area dalle sortite statunitensi. E’ effettivamente probabile che dietro le motivazioni ufficiose della cosiddetta "lotta ai tre mali" (estremismo, separatismo e terrorismo) vi sia un concreto progetto difensivo, che impegna tutte le nazioni a uno sforzo congiunto per il perseguimento di un obiettivo in grado di garantire cospicui vantaggi. Tuttavia la Cina non si è fermata alla fase difensiva, ma si è spinta ben oltre i propri confini, giungendo, addirittura, a mettere le mani sulla grande struttura economica statunitense. Pechino ha fatto leva sulla sua esorbitante capacità produttiva per inondare il mercato americano con le proprie merci, dalle quali ha ottenuto, e continua ad ottenere, lauti profitti da destinare poi all'acquisto di titoli di stato americani, fondamentali per il sistema economico statunitense, incentrato com’è sul deficit pubblico. Gli Stati Uniti hanno però approfittato della situazione, che a breve e forse medio termine farà ricadere vantaggi anche su di loro, per esportare i propri prodotti verso il mercato orientale, alimentando a loro volta la crescita economica cinese, in ciò favoriti da un tasso di cambio tra yuan e dollaro che ha subito ben poche alterazioni in questi anni. In questo modo le due nazioni hanno legato i propri destini in maniera apparentemente equanime, non fosse che il debito pubblico statunitense è a livelli soverchianti, e che la Cina è il primo esportatore negli USA, mentre questi ultimi non dispongono di un potere analogo per quanto concerne le importazioni cinesi. Fino a un quindicennio fa circa, l’equilibrio commerciale tra i due grandi paesi in questione era infatti in parità, mentre ora l’esubero cinese negli scambi con Washington è di circa 275 miliardi di dollari. Queste condizioni favorevoli potrebbero portare la Cina a diminuire gradualmente la quota dei profitti derivanti dall’export che normalmente investono per l’acquisto dei titoli di stato statunitensi, e di destinarli alla costruzione o al potenziamento delle infrastrutture strategiche (quelle, per intendersi, relative all’energia e al trasporto), in modo da svincolarsi parzialmente dal pericoloso legame con gli USA. La Cina è pur sempre titolare del 25% circa del debito pubblico americano (si parla di 800 miliardi di dollari, all’incirca), e anche frenando i flussi finanziari da destinare agli USA, rimarrebbe in posizione dominante rispetto a Washington. Scegliendo di operare in questa direzione, gli abili strateghi cinesi verrebbero, seppur a lungo termine, messi nella condizione di poter decidere arbitrariamente di far leva su questa situazione favorevole alla Cina per assestare un durissimo colpo all’economia statunitense. Al momento la strada è impraticabile, in quanto il dislivello tra le due nazioni non ha ancora raggiunto certi livelli. In sintesi, la Cina dispone al momento dei mezzi per colpire l’economia statunitense, ma non può ancora permettersi di adoperarli, poiché, tra le altre cose, vedrebbe quegli 800 miliardi di dollari di debito statunitense di cui è titolare volatilizzarsi in poco tempo. Nel non lontanissimo 1973, successe qualcosa di simile, sotto certi aspetti; successe che L’OPEC aveva decretato un aumento del prezzo del petrolio, determinando una crisi economica che era andata a ripercuotersi soprattutto sull’industria automobilistica americana. Il calo vertiginoso della domanda di automobili costrinse le varie Ford e General Motors a licenziare circa otto milioni di lavoratori (mai realmente riassorbiti) e regalò all’amministrazione guidata da Richard Nixon una recessione economica come raramente se n’erano viste fino a quel momento. In ogni caso, risulta evidente anche agli atlantisti più incalliti l’inoppugnabile fatto che la Cina sta bruciando le tappe, ed è, a lungo andare, destinata a scalzare gli Stati Uniti e ad assurgere, di conseguenza, a principale potenza economica mondiale. I laboriosi strateghi di Washington paiono in fibrillazione, e cercano visibilmente di trovare contromisure credibili a questa brutta situazione. E’ probabile però che nemmeno l’Azzeccagarbugli riuscirebbe a individuare una via di fuga percorribile per loro.

Spetaktor
22-09-10, 23:36
Cina, le ragioni di un grande Balzo (http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=307%3Acina-le-ragioni-di-un-grande-balzo&catid=3%3Apolitica-estera&Itemid=35)

Spetaktor
24-09-10, 22:49
The Geopolitics Of China
The Geopolitics Of China - John Mauldin's Outside the Box - InvestorsInsight.com | Financial Intelligence, Advice & Research / Investment Strategies & Planning for Individual Investors. (http://www.investorsinsight.com/blogs/john_mauldins_outside_the_box/archive/2008/06/12/the-geopolitics-of-china.aspx)

No matter where in the world I am, in South Africa, in Europe, in La Jolla, there's one question I get asked over and over, "What about China?" And small wonder. The increasing impact of China in the last generation is just staggering and seemingly accelerating every day. If you're in the market for oil, minerals, arable land, equities or debt, you're bidding against Chinese government-sponsored entities with a $1 trillion warchest. And the list of markets where China is a key player grows every day. Bottom line: whether you're filling up your gas tank or trading credit default swaps, China's decisions impact your pocket book.

The only thing that's crystal clear about China is the need to look long term, at the underlying forces that don't change day by day. Nobody does this better than my friend George Friedman and his team at Stratfor. Their geopolitical focus filters out the noise in the popular press and concentrates on the real drivers behind national policy. This is especially critical for a market like China, where traditional financial statement analysis is impossible and profit motives just don't apply.

On Monday, George and his team are releasing the second in their series of Geopolitical Monographs, called The Geopolitics of China. I've received an advance copy of the report below, and it is today's Special Edition of Outside the Box. Click this link to take advantage of a special pre-release offer on a Stratfor Membership that George is offering just to my readers. Did you know that China is functionally an island? Want to understand China's strategy behind their sovereign wealth funds? Policy in Tibet and Darfur? Join Stratfor now. You'll get a whole year of Stratfor's insights, plus you'll get The Geopolitics of China and their other Geopolitical Monographs included free. You really don't want to miss out on this opportunity.

Look at the map below that shows how China is functionally an island. Fascinating. It's just one of the maps George uses to illustrate what makes China, China. I hope you find this report intriguing, and do take George up on his offer for a free copy of the entire series included with your Stratfor Membership.

John Mauldin, Editor
Outside the Box
THE GEOPOLITICS OF CHINA: A Great Power Enclosed

Contemporary China is an island. Although it is not surrounded by water (which borders only its eastern flank), China is bordered by terrain that is difficult to traverse in virtually any direction. There are some areas that can be traversed, but to understand China we must begin by visualizing the mountains, jungles and wastelands that enclose it. This outer shell both contains and protects China.

China as an Island Internally, China must be divided into two parts: The Chinese heartland and the non-Chinese buffer regions surrounding it. There is a line in China called the 15-inch isohyet. On the east side of this line more than 15 inches of rain fall each year. On the west side annual rainfall is less than that. The bulk of the Chinese population lives east and south of this line. This is Han China, the Chinese heartland. It is where the vast majority of Chinese live and the home of the ethnic Han, what the world regards as the Chinese. It is important to understand that over a billion people live in an area about half the size of the United States.

The Chinese heartland is divided into two parts, northern and southern, which in turn is represented by two main dialects, Mandarin in the north and Cantonese in the south. These dialects share a writing system but are almost mutually incomprehensible when spoken. The Chinese heartland is defined by two major rivers -- the Yellow River in the north and the Yangtze in the South, along with a third lesser river in the south, the Pearl. The heartland is China's agricultural region. However -- and this is the single most important fact about China -- it has about one-third the arable land per person as the rest of the world. This pressure has defined modern Chinese history -- both in terms of living with it and trying to move beyond it.

A ring of non-Han regions surround this heartland -- Tibet, Xinjiang province (home of the Muslim Uighurs), Inner Mongolia and Manchuria. These are the buffer regions that historically have been under Chinese rule when China was strong and have broken away when China was weak. Today, there is a great deal of Han settlement in these regions, a cause of friction, but today Han China is strong.

China Provinces These are also the regions where the historical threat to China originated. Han China is a region full of rivers and rain. It is therefore a land of farmers and merchants. The surrounding areas are the land of nomads and horsemen. In the 13th century, the Mongols under Ghenghis Khan invaded and occupied parts of Han China until the 15th century, when the Han reasserted their authority. Following this period, Chinese strategy remained constant: the slow and systematic assertion of control over these outer regions in order to protect the Han from incursions by nomadic cavalry. This imperative drove Chinese foreign policy. In spite of the imbalance of population, or perhaps because of it, China saw itself as extremely vulnerable to military forces moving from the north and west. Defending a massed population of farmers against these forces was difficult. The easiest solution, the one the Chinese chose, was to reverse the order and impose themselves on their potential conquerors.

There was another reason. Aside from providing buffers, these possessions provided defensible borders. With borderlands under their control, China was strongly anchored. Let's consider the nature of China's border sequentially, starting in the east along the southern border with Vietnam and Myanmar. The border with Vietnam is the only border readily traversable by large armies or mass commerce. In fact, as recently as 1975, China and Vietnam fought a short border war, and there have been points in history when China has dominated Vietnam. However, the rest of the southern border where Yunnan province meets Laos and Myanmar is hilly jungle, difficult to traverse, with almost no major roads. Significant movement across this border is almost impossible. During World War II, the United States struggled to build the Burma Road to reach Yunnan and supply Chiang Kai-shek's forces. The effort was so difficult it became legendary. China is secure in this region.

China Terrain Hkakabo Razi, almost 19,000 feet high, marks the border between China, Myanmar and India. At this point, China's southwestern frontier begins, anchored in the Himalayas. More precisely, it is where Tibet, controlled by China, borders India and the two Himalayan states, Nepal and Bhutan. This border runs in a long ark past Pakistan, Tajikistan and Kirgizstan, ending at Pik Pobedy, a 25,000-foot mountain marking the border with China, Kirgyzstan and Kazakhstan. It is possible to pass through this border region with difficulty; historically, parts of it have been accessible as a merchant route. On the whole, however, the Himalayas are a barrier to substantial trade and certainly to military forces. India and China -- and China and much of Central Asia -- are sealed off from each other.

The one exception is the next section of the border, with Kazakhstan. This area is passable but has relatively little transport. As the transport expands, this will be the main route between China and the rest of Eurasia. It is the one land bridge from the Chinese island that can be used. The problem is distance. The border with Kazakhstan is almost a thousand miles from the first tier of Han Chinese provinces, and the route passes through sparsely populated Muslim territory, a region that has posed significant challenges to China. Importantly, the Silk Road from China ran through Xinjiang and Kazakhstan on its way west. It was the only way to go.

China Ethnolinguistic Groups There is, finally, the long northern border first with Mongolia and then with Russia, running to the Pacific. This border is certainly passable. Indeed, the only successful invasion of China took place when Mongol horseman attacked from Mongolia, occupying a good deal of Han China. China's buffers -- Inner Mongolia and Manchuria -- have protected Han China from other attacks. The Chinese have not attacked northward for two reasons. First, there has historically not been much there worth taking. Second, north-south access is difficult. Russia has two rail lines running from the west to the Pacific -- the famous Trans-Siberian Railroad (TSR) and the Baikal-Amur Mainline (BAM), which connects those two cities and ties into the TSR. Aside from that, there is no east-west ground transportation linking Russia. There is also no north-south transportation. What appears accessible really is not.

The area in Russia that is most accessible from China is the region bordering the Pacific, the area from Russia's Vladivostok to Blagoveschensk. This region has reasonable transport, population and advantages for both sides. If there were ever a conflict between China and Russia, this is the area that would be at the center of it. It is also the area, as you move southward and away from the Pacific, that borders on the Korean Peninsula, the area of China's last major military conflict.

Then there is the Pacific coast, which has numerous harbors and has historically had substantial coastal trade. It is interesting to note that, apart from the attempt by the Mongols to invade Japan, and a single major maritime thrust by China into the Indian Ocean -- primarily for trade and abandoned fairly quickly -- China has never been a maritime power. Prior to the 19th century, it had not faced enemies capable of posing a naval threat and, as a result, it had little interest in spending large sums of money on building a navy.

China, when it controls Tibet, Xinjiang, Inner Mongolia and Manchuria, is an insulated state. Han China has only one point of potential friction, in the southeast with Vietnam. Other than that it is surrounded by non-Han buffer regions that it has politically integrated into China. There is a second friction point in eastern Manchuria, touching on Siberia and Korea. There is, finally, a single opening into the rest of Eurasia on the Xinjiang-Kazakh border.

China's most vulnerable point, since the arrival of Europeans in the western Pacific in the mid-19th century, has been its coast. Apart from European encroachments in which commercial interests were backed up by limited force, China suffered its most significant military encounter -- and long and miserable war -- after the Japanese invaded and occupied large parts of eastern China along with Manchuria in the 1930s. Despite the mismatch in military power and more than a dozen years of war, Japan still could not force the Chinese government to capitulate. The simple fact was that Han China, given its size and population density, could not be subdued. No matter how many victories the Japanese won, they could not decisively defeat the Chinese.

China is hard to invade; given its size and population, it is even harder to occupy. This also makes it hard for the Chinese to invade others -- not utterly impossible, but quite difficult. Containing a fifth of the world's population, China can wall itself off from the world, as it did prior to the United Kingdom's forced entry in the 19th century and as it did under Mao Zedong. All of this means China is a great power, but one that has to behave very differently than other great powers.
China's Geopolitical Imperatives

China has three overriding geopolitical imperatives:

1. Maintain internal unity in the Han Chinese regions.
2. Maintain control of the buffer regions.
3. Protect the coast from foreign encroachment.

Maintaining Internal Unity
China is more enclosed than any other great power. The size of its population coupled with its secure frontiers and relative abundance of resources, allows it to develop with minimal intercourse with the rest of the world, if it chooses. During the Maoist period, for example, China became an insular nation, driven primarily by internal interests and considerations, indifferent or hostile to the rest of the world. It was secure and, except for its involvement in the Korean War and its efforts to pacify restless buffer regions, was relatively peaceful. Internally, however, China underwent periodic, self-generated chaos.

China Population Density The weakness of insularity for China is poverty. Given the ratio of arable land to population, a self-enclosed China is a poor China. Its population is so poor that economic development driven by domestic demand, no matter how limited it might be, is impossible. However, an isolated China is easier to manage by a central government. The great danger in China is a rupture within the Han Chinese nation. If that happens, if the central government weakens, the peripheral regions will spin off, and China will then be vulnerable to foreigners taking advantage of Chinese weakness.

For China to prosper, it has to engage in trade, exporting silk, silver and industrial products. Historically, land trade has not posed a problem for China. The Silk Road allowed foreign influences to come into China and the resulting wealth created a degree of instability. On the whole, however, it could be managed.

The dynamic of industrialism changed both the geography of Chinese trade and its consequences. In the mid-19th century, when Europe -- led by the British --compelled the Chinese government to give trading concessions to the British, it opened a new chapter in Chinese history. For the first time, the Pacific coast was the interface with the world, not Central Asia. This in turn, massively destabilized China.

As trade between China and the world intensified, the Chinese who were engaged in trading increased their wealth dramatically. Those in the coastal provinces of China, the region most deeply involved in trading, became relatively wealthy while the Chinese in the interior (not the buffer regions, which were always poor, but the non-coastal provinces of Han China) remained poor, subsistence farmers.

The central government was balanced between the divergent interests of coastal China and the interior. The coastal region, particularly its newly enriched leadership, had an interest in maintaining and intensifying relations with European powers and with the United States and Japan. The more intense the trade, the wealthier the coastal leadership and the greater the disparity between the regions. In due course, foreigners allied with Chinese coastal merchants and politicians became more powerful in the coastal regions than the central government. The worst geopolitical nightmare of China came true. China fragmented, breaking into regions, some increasingly under the control of foreigners, particularly foreign commercial interests. Beijing lost control over the country. It should be noted that this was the context in which Japan invaded China, which made Japan's failure to defeat China all the more extraordinary.

Mao's goal was three-fold, Marxism aside. First, he wanted to recentralize China -- re-establishing Beijing as China's capital and political center. Second, he wanted to end the massive inequality between the coastal region and the rest of China. Third, he wanted to expel the foreigners from China. In short, he wanted to recreate a united Han China.

Mao first attempted to trigger an uprising in the cities in 1927 but failed because the coalition of Chinese interests and foreign powers was impossible to break. Instead he took the long march to the interior of China, where he raised a massive peasant army that was both nationalist and egalitarian and, in 1948, returned to the coastal region and expelled the foreigners. Mao re-enclosed China, recentralized it, and accepted the inevitable result. China became equal but extraordinarily poor.

China's primary geopolitical issue is this: For it to develop it must engage in international trade. If it does that, it must use its coastal cities as an interface with the world. When that happens, the coastal cities and the surrounding region become increasingly wealthy. The influence of foreigners over this region increases and the interests of foreigners and the coastal Chinese converge and begin competing with the interests of the central government. China is constantly challenged by the problem of how to avoid this outcome while engaging in international trade.

Controlling the Buffer Regions
Prior to Mao's rise, with the central government weakened and Han China engaged simultaneously in war with Japan, civil war and regionalism, the center was not holding. While Manchuria was under Chinese control, Outer Mongolia was under Soviet control and extending its influence (Soviet power more than Marxist ideology) into Inner Mongolia, and Tibet and Xinjiang were drifting away.

At the same time that Mao was fighting the civil war, he was also laying the groundwork for taking control of the buffer regions. Interestingly, his first moves were designed to block Soviet interests in these regions. Mao moved to consolidate Chinese communist control over Manchuria and Inner Mongolia, effectively leveraging the Soviets out. Xinjiang had been under the control of a regional war lord, Yang Zengxin. Shortly after the end of the civil war, Mao moved to force him out and take over Xinjiang. Finally, in 1950 Mao moved against Tibet, which he secured in 1951.

The rapid-fire consolidation of the buffer regions gave Mao what all Chinese emperors sought, a China secure from invasion. Controlling Tibet meant that India could not move across the Himalayas and establish a secure base of operations on the Tibetan Plateau. There could be skirmishes in the Himalayas, but no one could push a multi-divisional force across those mountains and keep it supplied. So long as Tibet was in Chinese hands, the Indians could live on the other side of the moon. Xinjiang, Inner Mongolia and Manchuria buffered China from the Soviet Union. Mao was more of a geopolitician than an ideologue. He did not trust the Soviets. With the buffer states in hand, they would not invade China. The distances, the poor transportation and the lack of resources meant that any Soviet invasion would run into massive logistical problems well before it reached Han China's populated regions, and become bogged down -- just as the Japanese had.

China had geopolitical issues with Vietnam, Pakistan and Afghanistan, neighboring states with which it shared a border, but the real problem for China would come in Manchuria or, more precisely, Korea. The Soviets, more than the Chinese, had encouraged a North Korean invasion of South Korea. It is difficult to speculate on Joseph Stalin's thinking, but it worked out superbly for him. The United States intervened, defeated the North Korean Army and drove to the Yalu, the river border with China. The Chinese, seeing the well-armed and well-trained American force surge to its borders, decided that it had to block its advance and attacked south. What resulted was three years of brutal warfare in which the Chinese lost about a million men. From the Soviet point of view, fighting between China and the United States was the best thing imaginable. But from Stratfor's point of view, what it demonstrated was the sensitivity of the Chinese to any encroachment on their borderlands, their buffers, which represent the foundation of their national security.

Protecting the Coast
With the buffer regions under control, the coast is China's most vulnerable point, but its vulnerability is not to invasion. Given the Japanese example, no one has the interest or forces to try to invade mainland China, supply an army there and hope to win. Invasion is not a meaningful threat.

The coastal threat to China is economic, and most would not call it a threat. As we saw, the British intrusion into China culminated in the destabilization of the country, the virtual collapse of the central government and civil war. It was all caused by prosperity. Mao had solved the problem by sealing the coast of China off to any real development and liquidating the class that had collaborated with foreign business. For Mao, xenophobia was integral to natural policy. He saw foreign presence as undermining the stability of China. He preferred impoverished unity to chaos. He also understood that, given China's population and geography, it could defend itself against potential attackers without an advanced military-industrial complex.

His successor, Deng Xiaoping, was heir to a powerful state in control of China and the buffer regions. He also felt under tremendous pressure politically to improve living standards, and he undoubtedly understood that technological gaps would eventually threaten Chinese national security. He took a historic gamble. He knew that China's economy could not develop on its own. China's internal demand for goods was too weak because the Chinese were too poor.

Deng gambled that he could open China to foreign investment and reorient the Chinese economy away from agriculture and heavy industry and toward export-oriented industries. By doing so he would increase living standards, import technology and train China's workforce. He was betting that the effort this time would not destabilize China, create massive tensions between the prosperous coastal provinces and the interior, foster regionalism or put the coastal regions under foreign control. Deng believed he could avoid all that by maintaining a strong central government, based on a loyal army and communist party apparatus. His successors have struggled to maintain that loyalty to the state and not to foreign investors, who can make individuals wealthy. That is the bet that is currently being played out.
China's Geopolitics and its Current Position

From a political and military standpoint, China has achieved its strategic goals. The buffer regions are intact and China faces no threat in Eurasia. It sees a Western attempt to force China out of Tibet as an attempt to undermine Chinese national security. For China, however, Tibet is a minor irritant; China has no possible intention of leaving Tibet, the Tibetans cannot rise up and win, and no one is about to invade the region. Similarly, the Uighur Muslims represent an irritant in Xinjiang and not a direct threat. The Russians have no interest in or capability of invading China, and the Korean peninsula does not represent a direct threat to the Chinese, certainly not one they could not handle.

The greatest military threat to China comes from the United States Navy. The Chinese have become highly dependent on seaborne trade and the United States Navy is in a position to blockade China's ports if it wished. Should the United States do that, it would cripple China. Therefore, China's primary military interest is to make such a blockade impossible.

It would take several generations for China to build a surface navy able to compete with the United States Navy. Simply training naval aviators to conduct carrier-based operations effectively would take decades -- at least until these trainees became admirals and captains. And this does not take into account the time it would take to build an aircraft carrier and carrier-capable aircraft and master the intricacies of carrier operations.

For China, the primary mission is to raise the price of a blockade so high that the Americans would not attempt it. The means for that would be land- and submarine-based-anti-ship missiles. The strategic solution is for China to construct a missile force sufficiently dispersed that it cannot be suppressed by the United States and with sufficient range to engage the United States at substantial distance, as far as the central Pacific.

In order for this missile force to be effective, it would have to be able to identify and track potential targets. Therefore, if the Chinese are to pursue this strategy, they must also develop a space-based maritime reconnaissance system. These are the technologies that the Chinese are focusing on. Anti-ship missiles and space-based systems, including anti-satellite systems designed to blind the Americans, represent China's military counter to its only significant military threat.

China could also use those missiles to blockade Taiwan by interdicting ships going to and from the island. But the Chinese do not have the naval ability to land a sufficient amphibious force and sustain it in ground combat. Nor do they have the ability to establish air superiority over the Taiwan Strait. China might be able to harass Taiwan but it will not invade it. Missiles, satellites and submarines constitute China's naval strategy.

For China, the primary problem posed by Taiwan is naval. Taiwan is positioned in such a way that it can readily serve as an air and naval base that could isolate maritime movement between the South China Sea and the East China Sea, effectively leaving the northern Chinese coast and Shanghai isolated. When you consider the Ryukyu Islands that stretch from Taiwan to Japan and add them to this mix, a non-naval power could blockade the northern Chinese coast if it held Taiwan.

Taiwan would not be important to China unless it became actively hostile or allied with or occupied by a hostile power such as the United States. If that happened, its geographical position would pose an extremely serious problem for China. Taiwan is also an important symbolic issue to China and a way to rally nationalism. Although Taiwan presents no immediate threat, it does pose potential dangers that China cannot ignore.

There is one area in which China is being modestly expansionist -- Central Asia and particularly Kazakhstan. Traditionally a route for trading silk, Kazakhstan is now an area that can produce energy, badly needed by China's industry. The Chinese have been active in developing commercial relations with Kazakhstan and in developing roads into Kazakhstan. These roads are opening a trading route that allows oil to flow in one direction and industrial goods in another.

In doing this, the Chinese are challenging Russia's sphere of influence in the former Soviet Union. The Russians have been prepared to tolerate increased Chinese economic activity in the region while being wary of China's turning into a political power. Kazakhstan has been European Russia's historical buffer state against Chinese expansion and it has been under Russian domination. This region must be watched carefully. If Russia begins to feel that China is becoming too assertive in this region, it could respond militarily to Chinese economic power.

Chinese-Russian relations have historically been complex. Before World War II, the Soviets attempt to manipulate Chinese politics. After World War II, relations between the Soviet Union and China were never as good as some thought, and sometimes these relations became directly hostile, as in 1968, when Russian and Chinese troops fought a battle along the Ussuri River. The Russians have historically feared a Chinese move into their Pacific maritime provinces. The Chinese have feared a Russian move into Manchuria and beyond.

Neither of these things happened because the logistical challenges involved were enormous and neither had an appetite for the risk of fighting the other. We would think that this caution will prevail under current circumstances. However, growing Chinese influence in Kazakhstan is not a minor matter for the Russians, who may choose to contest China there. If they do, and it becomes a serious matter, the secondary pressure point for both sides would be in the Pacific region, complicated by proximity to Korea.

But these are only theoretical possibilities. The threat of an American blockade on China's coast, of using Taiwan to isolate northern China, of conflict over Kazakhstan -- all are possibilities that the Chinese must take into account as they plan for the worst. In fact, the United States does not have an interest in blockading China and the Chinese and Soviets are not going to escalate competition over Kazakhstan.

China does not have a military-based geopolitical problem. It is in its traditional strong position, physically secure as it holds its buffer regions. It has achieved it three strategic imperatives. What is most vulnerable at this point is its first imperative: the unity of Han China. That is not threatened militarily. Rather, the threat to that is economic.
Economic Dimensions of Chinese Geopolitics

The problem of China, rooted in geopolitics, is economic and it presents itself in two ways. The first is simple. China has an export-oriented economy. It is in a position of dependency. No matter how large its currency reserves or how advanced its technology or how cheap its labor force, China depends on the willingness and ability of other countries to import its goods -- as well as the ability to physically ship them. Any disruption of this flow has a direct effect on the Chinese economy.

The primary reason other countries buy Chinese goods is price. They are cheaper because of wage differentials. Should China lose that advantage to other nations or for other reasons, its ability to export would decline. Today, for example, as energy prices rise, the cost of production rises and the relative importance of the wage differential decreases. At a certain point, as China's trading partners see it, the value of Chinese imports relative to the political cost of closing down their factories will shift.

And all of this is outside of China's control. China cannot control the world price of oil. It can cut into its cash reserves to subsidize those prices for manufacturers but that would essentially be transferring money back to consuming nations. It can control rising wages by imposing price controls, but that would cause internal instability. The center of gravity of China is that it has become the industrial workshop of the world and, as such, it is totally dependent on the world to keep buying its goods rather than someone else's goods.

There are other issues for China, ranging from a dysfunctional financial system to farm land being taken out of production for factories. These are all significant and add to the story. But in geopolitics we look for the center of gravity, and for China the center of gravity is that the more effective it becomes at exporting, the more of a hostage it becomes to its customers. Some observers have warned that China might take its money out of American banks. Unlikely, but assume it did. What would China do without the United States as a customer?

China has placed itself in a position where it has to keep its customers happy. It struggles against this reality daily, but the fact is that the rest of the world is far less dependent on China's exports than China is dependent on the rest of the world.

Which brings us to the second, even more serious part of China's economic problem. The first geopolitical imperative of China is to ensure the unity of Han China. The third is to protect the coast. Deng's bet was that he could open the coast without disrupting the unity of Han China. As in the 19th century, the coastal region has become wealthy. The interior has remained extraordinarily poor. The coastal region is deeply enmeshed in the global economy. The interior is not. Beijing is once again balancing between the coast and the interior.

The interests of the coastal region and the interests of importers and investors are closely tied to each other. Beijing's interest is in maintaining internal stability. As pressures grow, it will seek to increase its control of the political and economic life of the coast. The interest of the interior is to have money transferred to it from the coast. The interest of the coast is to hold on to its money. Beijing will try to satisfy both, without letting China break apart and without resorting to Mao's draconian measures. But the worse the international economic situation becomes the less demand there will be for Chinese products and the less room there will be for China to maneuver.

The second part of the problem derives from the first. Assuming that the global economy does not decline now, it will at some point. When it does, and Chinese exports fall dramatically, Beijing will have to balance between an interior hungry for money and a coastal region that is hurting badly. It is important to remember that something like 900 million Chinese live in the interior while only about 400 million live in the coastal region. When it comes to balancing power, the interior is the physical threat to the regime while the coast destabilizes the distribution of wealth. The interior has mass on its side. The coast has the international trading system on its. Emperors have stumbled over less.
Conclusion

Geopolitics is based on geography and politics. Politics is built on two foundations: military and economic. The two interact and support each other but are ultimately distinct. For China, securing its buffer regions generally eliminates military problems. What problems are left for China are long-term issues concerning northeastern Manchuria and the balance of power in the Pacific.

China's geopolitical problem is economic. Its first geopolitical imperative, maintain the unity of Han China, and its third, protect the coast, are both more deeply affected by economic considerations than military ones. Its internal and external political problems flow from economics. The dramatic economic development of the last generation has been ruthlessly geographic. This development has benefited the coast and left the interior -- the vast majority of Chinese -- behind. It has also left China vulnerable to global economic forces that it cannot control and cannot accommodate. This is not new in Chinese history, but its usual resolution is in regionalism and the weakening of the central government. Deng's gamble is being played out by his successors. He dealt the hand. They have to play it.

The question on the table is whether the economic basis of China is a foundation or a balancing act. If the former, it can last a long time. If the latter, everyone falls down eventually. There appears to be little evidence that it is a foundation. It excludes most of the Chinese from the game, people who are making less than $100 a month. That is a balancing act and it threatens the first geopolitical imperative of China: protecting the unity of the Han Chinese.

Your working hard to understand China Analyst,

John Mauldin

Canaglia
07-10-10, 20:19
(Teleborsa) - Roma, 7 ott - In occasione della visita a Palazzo Chigi del primo ministro del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese, Wen Jiabao, sono stati firmati alcuni accordi tra Italia e Cina.

Gli accordi firmati:

1. Trattato di estradizione tra Italia e Cina;

2. Memorandum d'intesa sul rafforzamento ulteriore della cooperazione economica;

3. Accordo quadro sulla cooperazione e l'innovazione;

4. Memorandum d'intesa sulla cooperazione nel trasporto sostenibile;

5. Memorandum d'intesa sulla cooperazione della promozione del patrimonio culturale.


Gli accordi sono stati sottoscritti - da parte italiana - rispettivamente dai ministri: Alfano (Giustizia), Romano (Sviluppo economico), Brunetta (Innovazione e pubblica amministrazione), Prestigiacomo (Ambiente e tutela territorio) e Bondi (Beni e attività culturali).

La cerimonia si è svolta alla presenza del Presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi, e del primo ministro cinese.

http://www.teleborsa.it

Spetaktor
07-10-10, 20:41
http://static.sky.it/static/contentimages/original/sezioni/tg24/mondo/2010/10/07/wen_jabao_silvio_berlusconi_ansa.jpg

Spetaktor
09-10-10, 20:15
Quando “pace ” vuol dire politica

Da anni la politica ha occupato il palco dei Nobel. In vista dunque del sempre più crescente ed ingiustificato timore verso la Repubblica Popolare Cinese da parte degli ambienti politici ed economici occidentali, ecco che anche un’onorificenza può diventare uno strumento nelle mani della propaganda anti-cinese e anti-comunista.

Liu Xiaobo è stato recentemente insignito del prestigioso premio, il “Nobel per il mantenimento della pace”, nonostante egli sia stato condannato dalla giustizia cinese come un sovvertitore dell’ordine costituzionale che sta facendo passi avanti in ogni campo, compreso quello sviluppo della democrazia socialista. Non è un mistero che l’Occidente oggi in piena crisi economica e sociale tenti di evitare – in pieno stile imperialista – che nasca un ordine multipolare e pacifico su iniziativa di Pechino e non è un mistero che per fare questo siano necessari dei traditori del proprio paese.

Liu Xiaobo è pure uno dei firmatari della “Carta 08”, un documento che al di là di negare i benefici ottenuti dal Partito Comunista Cinese, vorrebbe farla finita con la Rivoluzione e vorrebbe aprire al mercato anche quei settori economici strategici che lo Stato socialista cinese non intende liberalizzare. Liu Xiaobo fa parte, insomma, di quella schiera di cinesi che hanno ceduto alle lusinghe e alle paranoie dei potentati occidentali nemici della Repubblica Popolare e della sua sovranità sia politica sia economica, fra cui ricordiamo anche l’influente cardinale Joseph Zen Ze-kiun, ardente promotore dell’influenza della Curia pontificia sulla Cina, in contrapposizione ad una Chiesa popolare che non si piega alle incomprensibili manovre del Vaticano.

La Repubblica Popolare Cinese è un paese orgoglioso, fiero della sua indipendenza. Dopo secoli passati sotto il dominio occidentale, che hanno portato fame e miseria, la maggioranza dei cinesi vede nel governo e nel Partito Comunista (che guida la società assieme a otto altri partiti antifascisti non comunisti!) l’unico garante della propria sovranità e della propria crescita. Purtroppo l’Occidente si cura solo di dare risalto alle notizie riguardanti quei pochi mercenari che agiscono con metodi anti-costituzionali disegnando la Cina come una nazione nemica dell’uomo, dimenticando invece che proprio sull’uomo e sulla comunità collettiva è costruita la Cina che ha saputo unire maoismo e confucianesimo, portandola a vette mai raggiunte da nessun paese capitalista al mondo.

Hands off China (http://giulemanidallacina.wordpress.com/)

Anton Hanga
09-10-10, 22:47
Esercitazione aerea congiunta turco-cinese


Il Pentagono ha confermato che per la prima volta l'aviazione militare turca e quella della Repubblica popolare cinese hanno tenuto un'esercitazione congiunta presso la base aerea turca di Konya, a partire dal 20 settembre sino al 4 ottobre compreso.

Spetaktor
10-10-10, 00:18
Esercitazione aerea congiunta turco-cinese


Il Pentagono ha confermato che per la prima volta l'aviazione militare turca e quella della Repubblica popolare cinese hanno tenuto un'esercitazione congiunta presso la base aerea turca di Konya, a partire dal 20 settembre sino al 4 ottobre compreso.

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Colonna
10-10-10, 08:32
Esercitazione aerea congiunta turco-cinese

Il Pentagono ha confermato che per la prima volta l'aviazione militare turca e quella della Repubblica popolare cinese hanno tenuto un'esercitazione congiunta presso la base aerea turca di Konya, a partire dal 20 settembre sino al 4 ottobre compreso.

Esercitazione aerea congiunta turco-cinese (http://italian.irib.ir/notizie/notizie-in-breve/item/85460-esercitazione-aerea-congiunta-turco-cinese)

Colonna
10-10-10, 08:35
Turkey conducted war games with China, news report says

The Turkish and Chinese air forces secretly participated in a military drill in Konya as part of the “Anatolian Eagle” war games, prompting a reaction from Washington, daily Taraf reported Thursday.

Taraf based its report on Turkish and Western military sources, who confirmed that the military drills took place but did not state the exact dates of the games or what kind of aircraft were involved.

Washington has requested information on the matter from Turkey, the report added.

Last year, Ankara excluded Israel from the war games, reportedly because of political tension that arose with Tel Aviv after the Israeli-led war in Gaza in January 2009.

The Turkish government decided to freeze all military exercises with Israel in response to the killing by Israeli commandos of nine people on a Gaza-bound aid flotilla in May. Last year, Ankara excluded Tel Aviv from the same exercise, which prompted fellow NATO members the United States and Italy to withdraw from the drills. Turkey had to conduct the exercise on a national instead of an international level.

Since the early 2000s, Turkey, a NATO member, has conducted war games in the central Anatolian province of Konya with other members of the alliance or non-member friendly nations. But this year was the first time a military drill was conducted with China.

The U.S. administration reportedly contacted the Turkish foreign and defense ministries and asked why the drill was conducted and what kind of maneuvers were practiced.

Joint missile production

Turkey and China took their first step in military cooperation in the late 1990s with joint missile production, manufacturing weapons with a 150-kilometer range.

The multinational NATO “Anatolian Eagle” exercise is hosted by the Turkish Air Forces and is aimed at boosting aerial cooperation and training air forces of other participatory countries. The exercises have been performed since the first Anatolian Eagle, or AE-01, in June 2001.

Turkey conducted war games with China, news report says - Hurriyet Daily News and Economic Review (http://www.hurriyetdailynews.com/n.php?n=turkey-conducted-wargames-with-china-report-says-2010-09-30)

Spetaktor
11-10-10, 22:20
Zjuganov e il maxi-accordo siglato con la Repubblica Popolare Cinese

di Mauro Gemma

su l'Ernesto Online del 07/10/2010

Il leader del Partito Comunista nella delegazione presidenziale russa che ha siglato il recente maxi-accordo con la Repubblica Popolare Cinese

L’invito ricevuto dal presidente russo Dmitrij Medvedev a far parte della delegazione russa che siglato il maxi-accordo con la Repubblica Popolare Cinese, alla fine di settembre, ha indotto Ghennadij Zjuganov, leader del Partito Comunista della Federazione Russa (PCFR), a concedere al giornale del suo partito, “Pravda”, un’intervista (ripresa nel sito del PCFR Èíòåðâüþ Ã.À. Çþãàíîâà äëÿ «Ïðàâäû» î ïîåçäêå â Êèòàé - KPRF.RU (http://kprf.ru/international/83089.html)) sul significato della visita, sui successi dell’economia cinese e, più in generale, su alcuni aspetti della politica estera della Federazione Russa.

Non è la prima volta – ha sottolineato Zjuganov – che il presidente del più importante partito dell’opposizione russa viene coinvolto in simili iniziative. Era già successo con Vladimir Putin, in occasione dello storico viaggio nella Repubblica Socialista del Vietnam, che aveva rinsaldato la tradizionale amicizia che lega Mosca ad Hanoi fin dai tempi della lotta di liberazione vietnamita contro l’imperialismo USA.

E non è certo privo di significato che il leader dell’autorevole partito comunista russo, in entrambi i casi, abbia potuto partecipare agli incontri delle massime autorità statali di Mosca proprio con i gruppi dirigenti di paesi socialisti. Segno anche questo delle complesse dinamiche che caratterizzano la politica dei vertici del potere in Russia, che non possono certo essere ricondotte alle semplificazioni e ai luoghi comuni prevalenti nei mezzi di comunicazione occidentali e anche in larga parte della nostra sinistra.

Dall’intervista emerge la consapevolezza che l’alleanza strategica in corso tra i due giganti asiatici rappresenta l’asse portante della politica estera russa e che l’accordo delle settimane scorse ne costituisce un tassello fondamentale. Su questo versante, fa capire con chiarezza il leader del PCFR, l’opzione strategica dei comunisti è rappresentata dalla “difesa egli interessi nazionali”, che nel rapporto con Pechino vengono più ampiamente salvaguardati. E’ un terreno sul quale la convergenza con gli attuali dirigenti della Federazione Russa non può che essere totale.

Che la Cina socialista, al cui modello economico i comunisti russi guardano con ammirazione, rappresenti l’interlocutore principale della Russia nella costruzione di quel “mondo multipolare” che viene ripetutamente invocata sia da Mosca che da Pechino, è evidenziato da Zjuganov, quando nell’intervista riconosce la piena disponibilità dimostrata in pù di un’occasione sia da Medvedev che da Putin a proseguire sulla strada del rafforzamento dell’alleanza strategica.

Tra i tanti esempi di stretta intesa tra leader russi e cinesi, nell’intervista Zjuganov ha voluto ricordare in particolare quello estremamente significativo dell’accoglienza riservata ai massimi dirigenti della Cina popolare in occasione del 65° anniversario della Vittoria sul nazifascismo, quando, tra le decine di leader di grandi paesi presenti per l’occasione, Putin e Medvedev hanno deciso di incontrare solo il segretario del più importante partito comunista presente su scala mondiale.

sitoaurora
11-10-10, 23:50
Zjuganov, la “verità” sul viaggio in Cina | Aurora (http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/?p=393)

Simone.org
12-10-10, 13:35
Che si formi un'alleanza Mosca-Pechino è tatticamente utile.
Ho sempre visto un mai dichiarato asse tra Cina e Usa, nemici pubblicamente, ma concordi sui temi ultimi della politica economica e internazionale (a partire dal fatto che la Cina è il maggior "cliente" del debito pubblico Usa). Pertanto è positivo che qualcosa si incunei in questo strana alleanza silenziosa.

Combat
14-10-10, 16:09
I cinesi fanno quello che dovrebbe fare l'Europa

Spetaktor
14-10-10, 19:05
Cina - Francescaglia: "Premio Nobel a Liu Xiaobo è oscenità"

di Francesco Francescaglia, responsabile Esteri PdCI-FdS

In piena guerra valutaria mondiale, gli Usa vorrebbero continuare ad imporre al mondo le scelte a loro più convenienti, ma si scontrano con le resistenze della Cina, che chiede un governo delle monete e non è disposta a favorire una svalutazione competitiva del dollaro a discapito della Cina stessa e di tutte le economie dei paesi emergenti.

Gli Usa hanno alzato i toni, ma non ottengono i risultati sperati. In questo quadro è arrivato un utile aiuto da Oslo: il premio Nobel per la
pace a Liu Xiaobo è una formidabile arma di pressione contro Pechino. Che la commissione per il Nobel della pace (tutta politica: i 5 membri sono eletti dal Parlamento norvegese) sia un covo al soldo dei neoliberisti è ormai acclarato, ma stavolta hanno davvero esagerato. Bisogna leggere “Charta 08”, il documento redatto da Liu Xiaobo, per capire di cosa stiamo parlando.

In quel testo si afferma che “Lo shock dell’impatto occidentale sulla Cina nel diciannovesimo secolo ha messo a nudo un sistema autoritario decadente”. Insomma, il brutale colonialismo occidentale in Cina avviato con le guerre dell’oppio, avrebbe avuto il positivo effetto di disvelare la decadenza della Cina imperiale. La Cina, prima del “secolo delle umiliazioni”, cominciato nel 1840, con gli attacchi dell’Inghilterra, era la più grande e prospera economia del mondo; la fine dell’impero e la (tormentatissima) repubblica arrivarono solo nel 1911-1912. Il colonialismo in Cina fu una enorme tragedia (cui partecipò anche l’Italia), che portò sangue, povertà ed impedì l’autodeterminazione del popolo cinese.

C’è, però, un’altra affermazione ancor più incredibile nel testo di "Charta08", questa: “La sconfitta dei nazionalisti a opera dei comunisti durante la guerra civile spinse la nazione verso l’abisso del totalitarismo”. Liu Xiaobao si rammarica della sconfitta di fascisti nazionalisti di Chiang Kai-shek!!! Quelli che dopo aver massacrato i comunisti e portato il paese alla guerra civile con l’appoggio Usa, si rifugiarono a Taiwan dove instaurarono una lunga dittatura di destra.

Ricapitolando: parlare degli effetti positivi del colonialismo e piangere la sconfitta del fascismo porta dritti dritti al premio Nobel per la pace!!! Hanno ragione i cinesi: una vera oscenità.

Cina - Francescaglia: "Premio Nobel a Liu Xiaobo è oscenità" :: Partito dei Comunisti Italiani :: www.pdci.it (http://www.comunisti-italiani.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=7092)

Spetaktor
14-10-10, 20:47
Cosa difendono Liu Xiaobo e Carta 08 ?

Click the image to open in full size.

a cura dell'Associazione Cina Rossa

Liu Xiaobo è stato uno dei principali estensori dell’anticomunista “Carta 08” pubblicata nel dicembre 2008, che apertamente faceva riferimento a quella “Charta 77” elaborata dai dissidenti anticomunisti cecoslovacchi guidati da Vaclav Havel: il Vaclav Havel coautore della piena restaurazione del capitalismo e dell’adesione alla Nato della Repubblica Ceca, dopo aver ingannato quasi tutta la sinistra antagonista occidentale.

L’essenza del programma di “Carta 08” e degli anticomunisti cinesi?

Ovviamente la “tutela della proprietà privata” (la proprietà pubblica, ai loro occhi sapienti, non è degna certo di tutela), un programma ben conosciuto in Europa orientale dopo il 1989!

La loro analisi della storia cinese? Basta riportare, dal loro documento, due sole perle.

“L’impatto con l’occidente nel XIX secolo ha prodotto uno shock che ha portato alla caduta di un sistema autoritario e decadente…”

Basta andare sul sito anticomunista Asianews.it, e si troverà questa incredibile deformazione della realtà cinese (“Il testo integrale di Carta 08”).

Dal 1840, infatti, l’imperialismo occidentale ha occupato militarmente la Cina per più di un secolo…

Dal 1840, l’imperialismo occidentale ha spacciato oppio e morte a milioni di cinesi per un secolo…

Ma per gli autori di “Carta 08” si è trattato solamente di uno “shock” (salutare…) che ha tra l’altro portato, a loro avviso, “alla caduta di un sistema autoritario decadente”. Un fenomeno tutto sommato positivo, sempre a loro parere, e questo per una triste fase storica nella quale le truppe d’invasione occidentali ed i marines statunitensi erano dislocati in forze in Cina (1900 e 1945/47, nel caso dei marines), portando i soliti doni del colonialismo liberale: stupri, massacri e sfruttamento bestiale dei lavoratori delle nazioni occupate, in tutto o in parte.

Ma la “perla” migliore è un’altra.

“La vittoria sul Giappone nel 1945 ha dato una nuova possibilità alla Cina di fare un passo in avanti verso un governo moderno” (moderno e capitalistico, secondo Carta 08), “ma la sconfitta dei Nazionalisti” (di Chiang Kai-Shek, della borghesia e dei latifondisti cinesi che erano i mandatari politici del partito “nazionalista”) “nella guerra civile contro i Comunisti, ha gettato la nazione” (=la Cina) “nell’abisso del totalitarismo”.

Proprio così, parole degne della peggior destra reaganiana: nella guerra civile del 1945/49, secondo l’orrenda “Carta 08” elaborata dagli anticomunisti cinesi (e secondo i suoi alleati internazionali, a partire dalla borghese occidentale), sarebbe stata sicuramente utile e proficua la vittoria di Chiang Kai-Shek e dei suoi protettori americani, con un bello sterminio dei comunisti cinesi simile a quello effettuato (grazie alla CIA) contro i comunisti indonesiani nel 1965/66, oppure in Cile nel 1973, ecc.

Alcune domande per i compagni onesti.

Ci hanno già fregato nel 1977/89, vendendoci Havel, Walesa e compagnia come dei “sinceri democratici” che “lottavano contro il totalitarismo”: siamo pronti a farci imbrogliare un’altra volta, con la solita benedizione del Manifesto ora alleato di Vendola (di Vendola, e non solo…)?

Siamo già pronti a dimenticarci che il “grande” premio Nobel l’hanno conferito nel 2009 anche al “grande” Obama, all’eroe statunitense della guerra in Afghanistan e Pakistan, oltre che del golpe (“soft e democratico”) in Honduras?

Ci devono in…culcare la loro presunta e borghesissima “verità” nei secoli dei secoli?

“Chi non ricorda il proprio passato” (Indonesia, Cile, Honduras 2009, ecc.) “è destinato a riviverlo”: su questa bella frase siamo d’accordo, o dobbiamo ancora appoggiare gli aspiranti Havel, Walesa ed Eltsin del presente e del futuro, in Cina come a Cuba?

Non è certo un caso che il Dalai Lama si sia subito complimentato con Liu Xiabo, proprio per la sua appartenenza al fronte mondiale dell’anticomunismo assieme ai vari Pannella, Yoan Sanchez, ecc.

Spetaktor
14-10-10, 20:49
CINA Il testo integrale di Carta 08, per i diritti umani in Cina - Asia News (http://www.asianews.it/notizie-it/Il-testo-integrale-di-Carta-08,-per-i-diritti-umani-in-Cina-14313.html)

Spetaktor
24-10-10, 01:02
I rapporti tra Cina e Myanmar | eurasia-rivista.org (http://www.eurasia-rivista.org/6516/i-rapporti-tra-cina-e-myanmar)

Spetaktor
29-10-10, 23:28
Il 12mo piano quinquennale

Prenderà il via, a partire dal 2011, il 12 piano quinquennale della Repubblica Popolare Cinese.

Non sono ancora stati resi noti i punti programmatici del piano, tuttavia sono già trapelate informazioni ufficiali sui contenuti del documento che imposterà le priorità del Partito Comunista e del Governo cinese per i prossimi cinque anni.

Priorità assoluta al miglioramento del tenore di vita degli abitanti, perfezionando il sistema dei servizi pubblici in conformità alle esigenze nazionali e promuovendo l’imparzialità dei servizi pubblici, rafforzando nel contempo la capacità di protezione del Governo.

Se attualmente le aziende cinesi si sono concentrare sull’aumento del PIL nazionale, d’ora in avanti la priorità sarà per i governi locali misure efficaci per il miglioramento dell’industria, risparmiando sull’elettricità e tagliando con le emissioni.

Il Ministro della tutela ambientale, Zhou Zhengxian, ha dichiarato che “la Cina e’ sotto una pressione senza precedenti, sia dal punto di vista dello sviluppo economico che da quello della tutela ambientale col suo 1,3 miliardi di abitanti. Il vecchio modello di crescita, basato sull’inquinamento e portato avanti negli ultimi 300 anni dai paesi sviluppati, non e’ applicabile in Cina, e la Cina non puo’ permettersi le perdite causate da un modello di sviluppo simile”.

E’ chiara quindi la politica cinese, accusata, falsamente, di non voler rispettare l’ambiente a favore della sua immensa macchina produttiva.

Il Dragone cinese (ricordo che il drago in oriente è considerata una creatura potente ma benevola) va avanti dunque, incurante degli attacchi sleali dei suoi nemici, esterni ed interni, per dare un via salda e sicura ad un nuovo Socialismo millenario.

29/10/2010
Hands off China (http://giulemanidallacina.wordpress.com/)

José Frasquelo
30-10-10, 12:57
Il 12mo piano quinquennale

Prenderà il via, a partire dal 2011, il 12 piano quinquennale della Repubblica Popolare Cinese.

Non sono ancora stati resi noti i punti programmatici del piano, tuttavia sono già trapelate informazioni ufficiali sui contenuti del documento che imposterà le priorità del Partito Comunista e del Governo cinese per i prossimi cinque anni.

Priorità assoluta al miglioramento del tenore di vita degli abitanti, perfezionando il sistema dei servizi pubblici in conformità alle esigenze nazionali e promuovendo l’imparzialità dei servizi pubblici, rafforzando nel contempo la capacità di protezione del Governo.

Se attualmente le aziende cinesi si sono concentrare sull’aumento del PIL nazionale, d’ora in avanti la priorità sarà per i governi locali misure efficaci per il miglioramento dell’industria, risparmiando sull’elettricità e tagliando con le emissioni.

Il Ministro della tutela ambientale, Zhou Zhengxian, ha dichiarato che “la Cina e’ sotto una pressione senza precedenti, sia dal punto di vista dello sviluppo economico che da quello della tutela ambientale col suo 1,3 miliardi di abitanti. Il vecchio modello di crescita, basato sull’inquinamento e portato avanti negli ultimi 300 anni dai paesi sviluppati, non e’ applicabile in Cina, e la Cina non puo’ permettersi le perdite causate da un modello di sviluppo simile”.

E’ chiara quindi la politica cinese, accusata, falsamente, di non voler rispettare l’ambiente a favore della sua immensa macchina produttiva.

Il Dragone cinese (ricordo che il drago in oriente è considerata una creatura potente ma benevola) va avanti dunque, incurante degli attacchi sleali dei suoi nemici, esterni ed interni, per dare un via salda e sicura ad un nuovo Socialismo millenario.

29/10/2010
Hands off China (http://giulemanidallacina.wordpress.com/)

Bello.

Lucio Vero
30-10-10, 13:51
Pianificazione e mobilitazione - quasi - totale! :gluglu:

Spetaktor
01-11-10, 23:48
RAPPORTI CINA-VENEZUELA


19 APRILE 2010
FIRMATO ACCORDO PETROLIFERO CINA-VENEZUELA

Pechino, 19 apr. - China National Petroleum Corp. (CNPC) e la compagnia petrolifera statale venezuelana (PDVSA) hanno firmato un memorandum d'intesa che comprende l'accordo di cooperazione petrolifera del blocco Junin 4 e siglato un accordo quadro di cooperazione finanziaria a lungo termine, cui hanno preso parte anche China Development Bank (CDB), Venezuelan Social Development Bank (BANDES), il Ministero della finanza e il Ministero dell'energia e del petrolio venezuelani e cinesi. Il giacimento di Junin 4 e' situato in Venezuela nella cinta di olio pesante dell'Orinoco, il blocco ha una superficie di 325 km quadrati, una riserva recuperabile di petrolio di 8 miliardi e 700 milioni di barili e una capacita' produttiva annuale di 20 milioni di tonnellate. Per quanto riguarda l'accordo quadro sulla cooperazione finanziaria di lungo termine, la Cina prevede un finanziamento di 20 miliardi di dollari entro 10 anni. PDVSA e CNCP hanno firmato un contratto di import-export petrolifero a garanzia di rimborso. La firma di tali accordi rafforzano ulteriormente la cooperazione tra i due paesi in campo energetico, segnando per la Cina l'inizio della fase di sviluppo nel settore petrolifero in Venezuela. -



Sole 24 Ore di martedì 20 aprile 2010, pagina 12
Prestito di 20 miliardi dalla Cina al Venezuela - Da Pechino 20 miliardi a Caracas

di Da Rin Roberto

Prestito di 20 miliardi dalla Cina al Venezuela

La Cina concederà al Venezuela di ugo Chavez un prestito di 20 miliardi di dollari. In cambio Pechino otterrà da Caracas un netto aumento delle forniture di petrolio. In cambio del maxi-prestito la Cina si è garantita un netto aumento delle forniture di greggio.
Ieri, 19 aprile, era giornata di celebrazioni in Venezuela, l'anniversario del bicentenario dall'indipendenza dalla Spagna. Pochi a Palacio Miraflores, fino a qualche settimana fa, avrebbero sperato di poter festeggiare con un annuncio così eclatante. Invece è andata bene, benissimo per il caudillo che, nel pieno di una crisi di consensi, ha incassato un prestito miliardario.
«È il più grande mai concesso dalla Cina a un Paese straniero» ha tuonato Hugo. Che ora più che mai ha bisogno di liquidità per oliare la macchina elettorale in vista delle prossime elezioni legislative; fronteggiare la recessione economica (il PIL nel 2009 si è contratto del 3,3%); tamponare la piaga dei blackout energetici che continuano a interrompere l'attività economica. I termini del prestito non sono stati diffusi né dal Venezuela né dalla Cina «L'unica certezza - spiega Boris Segura, analista di Rhs securities - è che a Caracas arriveranno tutti questi soldi e in cambio verrà inviato petrolio a Pechino». «Tutto il petrolio di cui la Cina averebbe bisogno per consolidarsi come potenza mondiale è qui», ha detto Chavez.

Indiscrezioni trapelate nei giorni scorsi in occasione della visita a Brasilia del premier cinese, Hu Jintao, evidenziano la chiara volontà del governo asiatico di creare società di servizi petroliferi in America Latina. Un'operazione che potrebbe infastidirele società americane ed europee.

La strategia potrebbe inoltre essere facilitata dalla scelta di molte compagnie petrolifere occidentali che, negli ultimi tempi, hanno fatto un passo indietro in Venezuela e non si sono ritirate del tutto dal Paese, mentre Royal Dutch Shell e Bp non hanno partecipato alle ultime gare d'appalto rifiutando il modo sempre più dominante di Pevsa, la società petrolifera venezuelana. La Cina ne ha approfittato e si è incuneata occupando gli spàzi liberi. Al di là delle dichiarazioni rassicuranti della diplomazia asiatica si sono susseguite tensioni sottotraccia tra Pechino e Washington. Pochi giorni fa Michael Shifter, presidente del Dialogo Interamericano, con sede nella capitale Usa, ha polemicamente dichiarato che ai cinesi non interessa affatto l'irritazione degli Stati Uniti» e che «continuerarino ad attuare politiche aggressive nel subcontinente».

Per la politica interna del governo venezuelano i dollari cinesi sono una vera e propria manna. Il dibattito sul ruolo di Simon Bolivar, El Libertador, e sulle conquiste della Revolucion Bolivariana è un pò meno sterile, se accompagnato da iniezioni di sussidi e da una propaganda convincente: il populismo economico è un'arma che Chavez sa adoperare con molta destrezza.

Proprio nelle scorse settimane le milizie rivoluzionarie - giovani che cercano di rilanciare l'immagine del paese attraverso Facebook, Twitter e una propaganda capillare con sms e mail - hanno iniziato a rilanciare le chance di Chavez in vista delle amministrative di dicembre.

TENSIONI CON WASINGTON In programma La creazione di società petrolifere miste per sostituire le compagnie americane ed europee in rotta con il regime di Chavez. Il prestito da 20 miliardi di dollari promesso al Venezuela di Hugo Chavéz è uno dei maggiori mai concessi dalla Cina. Secondo Chavez, l'accordo prevede condizioni che non hanno nulla a che vedere con quelle chieste dagli organismi di credito multilaterali. Cresce da parte di Pechino l'interesse nei confronti dei mercati latinoamericani e la volontà di rafforzare i legami con i grandi produttori di petrolio. Alla nuova apertura di credito da parte di Pechino corrisponde infatti l'impegno di Caracas nelle forniture di petrolio: Chavez ha ricordato come oggi il Venezuela invii in Cina 500mila barili al giorno che diventeranno 900mila da novembre. La Cina, fino a qualche anno fa esportatore di petrolio, è oggi il terzo importatore al mondo di greggio. ll Venezuela è il nono produttore mondiale. Pechino si è inoltre impegnata a fornire tecnologie per realizzare tre centrali elettriche. La nuova intesa si aggiunge al fondo da 12 miliardi di dollari che Pechino ha messo a disposizione di Caracas per infrastrutture ed edilizia popolare della settimana scorsa; accordo col quale la Cina ha concesso un prestito di 10 miliardi di dollari al Brasile sempre in cambio di forniture petrolifere. Al vertice di San Paolo, il presidente brasiliano Lula da Silva ha sottolineato che il Bric rappresenta ormai il 16% del PIL mondiale e un mercato con il 40% della popolazione del pianeta. Nonostante la crisi economica internazionale, il commercio bilaterale tra Brasile e Cina è cresci to del 50% nell'ultimo anno.

Dialego

Spetaktor
01-11-10, 23:50
CINA: LA SUPERPOTENZA DELL’ENERGIA

DI MICHAEL T. KLARE
atimes.com

Se volete sapere da quale parte tira il vento globale (oppure da quale parte splende il sole, o brucia il carbone), guardate la Cina. Queste sono le notizie sul nostro futuro energetico e sulle politiche delle grandi potenze della Terra. Washington sta già guardando - con ansia.

Poche volte è capitato che una semplice conferenza stampa abbia detto di più sui cambiamenti di potere su scala globale che si stanno verificando nel nostro pianeta. Il 20 luglio, l’economista capo dell’Agenzia Internazione dell’Energia (IEA), Faith Birol, ha dichiarato al Wall Street Journal che la Cina ha sorpassato gli Stati Uniti diventando il primo consumatore d’energia al mondo. Si può leggere questo sviluppo in diversi modi: come evidenza del continuo sviluppo della potenza industriale cinese, del protrarsi della recessione negli Stati Uniti, della crescente popolarità delle automobili in Cina, e perfino della maggiore efficienza energetica dell’America in confronto alla Cina. Tutte queste osservazioni sono valide, ma non prendono in considerazione il punto centrale: diventando il primo consumatore d’energia del mondo, la Cina sarà sempre di più una figura di grande peso internazionale, facendo da battistrada nel modellare il futuro del pianeta.

Poiché le risorse energetiche sono legate a così tanti aspetti dell’economia mondiale, e poiché crescono i dubbi sulla futura disponibilità di petrolio e altri combustibili di vitale importanza, le decisioni prese dalla Cina riguardo il suo pacchetto energetico avranno conseguenze di lunga portata. Nel ruolo di attore principale sul mercato energetico globale, la Cina determinerà in maniera significativa non solo i prezzi che pagheremo tutti per i combustibili importanti, ma anche il tipo di sistemi energetici su cui faremo affidamento.

Ancor più importante, saranno le decisioni cinesi in materia d’energia a determinare un’eventuale conflitto con gli Stati Uniti sul greggio importato e se mai il mondo sfuggirà ad un cambiamento climatico catastrofico.

Come raggiungere il primato mondiale

Non si può apprezzare veramente l’importanza dell’appena raggiunta prominenza energetica se non guardiamo prima da vicino il ruolo dell’energia nella strada verso il primato mondiale dell’America.

La regione a nordest dei giovani Stati Uniti era molto ricca di energia idraulica e di giacimenti di carbone e fu d’importanza chiave per la prima industrializzazione così come per la vittoria finale del Nord nella Guerra di Secessione. Tuttavia l’evento chiave che avrebbe fatto degli Stati Uniti il primo attore sulla scena internazionale fu la scoperta del petrolio ad ovest della Pennsylvania, nel 1859. La trivellazione e le esportazioni generarono la prosperità americana agli inizi del XX secolo - un’epoca in cui il Paese era il primo produttore mondiale - nutrendo allo stesso tempo l’ascesa delle sue immense corporazioni.

Non bisogna dimenticare che la prima grande azienda multinazionale - la Standard Oil di John D. Rockefeller - venne fondata sullo sfruttamento e l’esportazione del petrolio americano. Le leggi antimonopolio degli Stati Uniti la divideranno nel 1911, ma due delle sue compagnie figlie, la Standard Oil di New York e la Standard Oil del New Jersey si unirono successivamente creando quella che oggi è l’azienda maggiormente quotata e scambiata in borsa, l’ExxonMobil. Un’altra azienda figlia, la Standard Oil della California, divenne la Chevron - oggi, la terza azienda americana più ricca.

Il petrolio ebbe anche un ruolo fondamentale nell’ascesa degli Stati Uniti nel ruolo di prima potenza militare al mondo. Questo Paese fornì la maggior parte del petrolio usato dagli alleati nelle due guerre mondiali. Tra le grandi potenze dell’epoca, solo gli Stati Uniti avevano l’autosufficienza petrolifera, il che volle dire che erano in grado di schierare grandi eserciti in Europa e in Asia ed essere in grado di soverchiare le ben equipaggiate (ma affamate di petrolio) armate tedesche e giapponesi. Al di là degli Franklin D. Roosvelt e degli architetti della vittoria americana nella II Guerra Mondiale, oggi in pochi si rendono contro che è stata la maggiore disponibilità di petrolio ad essere decisiva e non la bomba atomica.

Avendo creato un’economia e un establishment militare basato sul petrolio, i leader americani si sono sentiti obbligati ad adottare misure sempre più complesse e costose per assicurare ad entrambi un’adeguata fornitura energetica. Dopo la II Guerra Mondiale, con le scorte domestiche che già allora cominciavano a scendere, una serie di presidenti americani modellarono una strategia globale basata sull’assicurare agli Stati Uniti l’accesso al petrolio straniero.

Per iniziare, l’Arabia Saudita e gli altri regni del Golfo Persico furono scelti come “stazioni di rifornimento” estere per le raffinerie americane e per le forze armate. Le compagnie del petrolio americane, soprattutto le figlie della Standard Oil, furono complici nello stabilire una presenza massiccia in quelle nazioni. In effetti una buona parte dei pronunciamenti strategici del dopoguerra - la dottrina Truman, la dottrina Eisenhower, la dottrina Nixon e soprattutto la dottrina Carter - furono legati alla protezione di queste “stazioni di rifornimento”.

Anche oggi, il petrolio gioca un ruolo fondamentale nei piani globali e nelle mosse di Washington. Il Dipartimento di Stato, ad esempio, mantiene ancora un ampia, complessa e costosa rete di strutture militari profondamente trincerate nel Golfo Persico per assicurare la “sicurezza” e “garantire” le esportazioni di petrolio dalla regione. Ha esteso inoltre il suo raggio d’azione militare fino a quelle importanti regioni produttrici di greggio come il Caucaso e l’Africa Occidentale. La necessità di mantenere rapporti d’amicizia e anche militari con i fornitori più importanti come il Kuwait, la Nigeria e l’Arabia Saudita continua a dominare la politica estera degli USA. Allo stesso modo, in un mondo sempre più caldo, il crescente interesse americano per un Polo Nord che si sta sciogliendo è alimentato dal desiderio di sfruttare le risorse vergini di idrocarburi presenti nella regione polare.

Pianeta carbone?

Il fatto che la Cina abbia superato gli Stati Uniti nel ruolo di primo consumatore d’energia è destinato a modificare radicalmente le sue politiche globali, così come il predominio energetico lo fece per l’America. Senza dubbio questo, a sua volta, modificherà il corso dei rapporti tra Cina e Stati Uniti, senza dimenticare gli avvenimenti mondiali. Tenendo presente l’esperienza americana, cosa ci dobbiamo aspettare dalla Cina?

Per iniziare, nessuno tra coloro che leggono le pagine economiche sui giornali dubitano che i leader cinesi considerino che le risorse energetiche siano una delle loro preoccupazioni principali - se non la più importante - per il Paese e hanno impegnato ingenti risorse e pianificazione per assicurarsi le forniture future. Nell’occuparsi di questo, questi leader affrontano due sfide fondamentali: assicurarsi l’energia sufficiente per venire incontro alla domanda sempre crescente e decidere su quali combustibili fare affidamento per soddisfare queste richieste. Le risposte a questi interrogativi da parte della Cina avranno forti conseguenze sulla scena globale.

Secondo le più recenti proiezioni fatte dal Dipartimento per l’Energia americano (DoE), il consumo energetico cinese crescerà del 133% tra il 2007 e il 2035 - vale a dire da 78 biliardi di BTU (NdelT: British Thermal Unit, 1 BTU è pari a circa 1,055 kilojoule) per salire fino 182 biliardi di BTU. Pensatelo in questo modo: i 104 biliardi di BTU che dovranno essere aggiunti in qualche modo alla sua fornitura energetica nei prossimi 25 anni sono equivalenti al consumo totale d’energia dell’Europa e del Vicino Oriente nel 2007. Trovare e incanalare così tanto petrolio, gas naturale e altri combustibili fino alla Cina sarà senz’altro la più grande sfida economica e industriale affrontata da Pechino - e in quella sfida sono presenti le possibilità di scontri e conflitti veri.

Anche se la maggior parte dei fondi per l’energia vengono spesi internamente, quello che viene speso nell’importazione di combustibili (petrolio, carbone, gas naturale e uranio) e l’attrezzatura energetica (raffinerie, centrali elettriche e reattori nucleari) determineranno in maniera significativa il prezzo mondiale di questi prodotti - un ruolo che, fino ad oggi, è stato assunto dagli Stati Uniti. Tuttavia, è più importante la decisione che prenderà la Cina al momento di scegliere il tipo di fonte energetica sul quale farà affidamento.

Se i leader cinesi dovessero seguire le loro propensioni naturali, senza dubbio eviterebbero di fare affidamento sui combustibili importati, sapendo quanto vulnerabile può rendere una nazione l’interruzione delle forniture dall’estero, o nel caso della Cina, pensando ad un ipotetico blocco navale da parte degli Stati Uniti (se mai si dovesse verificare un conflitto prolungato su Taiwan). Li Junfeng, funzionario d’altro rango nel settore energetico, è stato citato recentemente dicendo: “Le fonti d’energia si dovrebbero trovare nel posto dove pianti i piedi” - cioè, da fonti interne.

La Cina possiede in abbondanza una fonte energetica: il carbone. Secondo le più recenti proiezioni del Dipartimento per l’Energia americano, il carbone coprirà circa il 62 % del fabbisogno netto d’energia nel 2035, poco poco al di sotto del livello attuale. Una forte dipendenza dal carbone, tuttavia, inasprirà i problemi d’inquinamento del Paese, trascinando giù l’economia con l’aumento dei costi sanitari. Inoltre, grazie al carbone, ora la Cina è il maggiore produttore al mondo di anidride carbonica, sostanza in grado di modificare il clima. Secondo il Department of Energy, la quota d’emissioni cinesi di anidride carbonica sul totale mondiale salirà dal 19,6 % del 2005, quando si trovava appena sotto gli USA al 21,1 %, per arrivare al 31,4 % nel 2035, quando supererà le emissioni nette di tutti gli altri Paesi .

Finché Pechino si rifiuterà di ridurre in maniera significativa la sua dipendenza dal carbone, ignorate la sua retorica a proposito del riscaldamento globale. Sostanzialmente non sarà in grado di fare dei passi veramente credibili nell’affrontare il cambiamento climatico. In questo modo, inoltre, modificherà la faccia del pianeta.

Ultimamente i capi della nazione sembra siano diventati più sensibili nei confronti del rischio di un’eccessiva dipendenza dal carbone. C’è una forte enfasi sullo sviluppo delle energie rinnovabili, soprattutto l’eolico e il solare. La Cina è oramai diventata il primo produttore al mondo di turbine a vento e di pannelli solari, e ha iniziato a esportare la sua tecnologia in America. (In effetti, alcuni economisti e sindacati, sostengono che la Cina sussidi in maniera iniqua le esportazioni di prodotti del comparto rinnovabili, in violazione delle regole dell’OMC).

La rinnovata attenzione da parte della Cina nei confronti dell’energie rinnovabili sarebbe una buona notizia se ciò causasse una sostanziale riduzione dell’uso di carbone. Allo stesso modo, la spinta del Paese verso l’eccellenza in questa tecnologia potrebbe collocarlo all’avanguardia di una rivoluzione tecnologica, seguendo l’esempio del dominio americano sulla tecnologia del petrolio che portò quel Paese ad occupare un ruolo fondamentale tra le potenze mondiali del XX secolo. Se gli Stati Uniti non riescono a stare al passo della Cina, il suo passo verso il declino come potenza mondiale sarebbe più veloce.

Di chi sono i sauditi?

La sete d’energia cinese potrebbe portarla abbastanza velocemente verso lo scontro e il conflitto con gli Stati Uniti, soprattutto nella competizione globale per le sempre più scarse fonti di petrolio. Mentre la quantità d’energia richiesta dalla Cina continua a salire, la Cina usa sempre più petrolio, il che potrebbe portarla ad un maggiore coinvolgimento politico, economico e un giorno forse perfino militare nelle regioni produttrici di petrolio - zone a lungo considerate da Washington come una riserva privata d’energia per gli Stati Uniti all’estero.

Soltanto nel 1995, la Cina consumava solo approssimativamente 3,4 milioni di barili di petrolio al giorno - un quinto circa del totale usato dagli Stati Uniti, il primo consumatore al mondo, e due terzi della quantità bruciata dal Giappone, allora al secondo posto. Sin da allora la Cina ha pompato 2,9 milioni di barili al giorni dai propri giacimenti quell’anno, essendo la quantità importata di appena 500.000 barili al giorno quando all’epoca gli USA importavano 9,4 milioni di barili e il Giappone 5,3 milioni.

Nel 2009, la Cina era al secondo posto con 8,6 milioni di barili al giorno, ancora al di sotto dei 18,7 milioni di barili degli Stati Uniti. Producendo soltanto 2,8 milioni di barili al giorno, tuttavia, la produzione interna non era in grado di star dietro al consumo - lo stesso problema affrontato dagli USA durante la Guerra Fredda. La Cina importava ormai 4,8 milioni di barili al giorni, molti di più del Giappone (il quale in realtà aveva ridotto la sua dipendenza dal petrolio) e quasi la metà del totale importato dagli americani. Nei decenni a venire, è sicuro che queste cifre andranno peggiorando.

Secondo il Department of Energy, la Cina sorpasserà gli USA come primo importatore mondiale di petrolio, con circa 10,6 milioni di barili al giorno, intorno al 2030. (Alcuni esperti sono convinti che lo spostamento potrebbe succedere molto prima). Qualsiasi sia l’anno, i leader cinesi sono coinvolti nello stesso “ginepraio” di potere affrontato in passato dalle loro controparti in America, dipendenti come sono da una sostanza vitale che può essere acquistata soltanto da una manciata di produttori poco affidabili presenti aree in perenne crisi e conflitto

Attualmente, la Cina ottiene la maggior parte del proprio fabbisogno di petrolio da Arabia Saudita, Iran, Angola, Oman, Sudan, Kuwait, Russia, Kazakhstan, Libia e Venezuela. Desiderosa di garantire l’affidabilità del flusso di petrolio da questi Paesi, la Cina ha stabilito legami stretti con i loro leader, in alcuni casi fornendo loro cospicui aiuti economici e in campo militare. E’ esattamente la stessa strada intrapresa in passato dagli USA - e con alcuni degli stessi Paesi.

Le aziende energetiche di proprietà statale hanno anche fatto “alleanze strategiche” con le loro controparti in questi Paesi e in alcuni casi hanno acquisito il diritto di trivellare aree in cui si trovano importanti giacimenti. Desta particolare attenzione il modo in cui Pechino tenta di ridurre l’influenza americana in Arabia Saudita e presso altri produttori di petrolio del Golfo Persico.

Nel 2009, la Cina per la prima volta ha importato più petrolio saudita degli Stati Uniti, un cambiamento geopolitico di grande importanza, conoscendo la storia dei rapporti America - Arabia Saudita. Anche se non è in grado di competere con Washington per quanto riguarda gli aiuti militari, Pechino ha spedito i suoi leader di maggior rilievo a corteggiare Riyadh, promettendo sostegno alle aspirazioni dei sauditi senza far ricorso alla retorica dei diritti umani e pro-democrazia che di solito viene associata alla politica estera americana.

Molte di queste affermazioni sembra siano perfino troppo note. Dopo tutto, gli Stati Uniti in passato cercarono di ingraziarsi i sauditi in modo similare quando Washington iniziò a concepire questo regno come la sua pompa di benzina d’oltremare e lo fece diventare un suo protettorato militare. Nel 1945, mentre la II Guerra Mondiale era ancora in corso, il Presidente Roosvelt fece un viaggio speciale per incontrare il Re dell’Arabia Saudita Abdul Aziz e stipulare un accordo petrolifero in cambio di protezione che resta in vigore fino ai nostri giorni. Non sorprende che i leader americani non abbiano visto (o non siano interessati a riconoscere) l’analogia; invece, i funzionari di più alto rango guardano di traverso il modo in cui la Cina si comporta da bracconiere all’interno del territorio americano in Arabia Saudita e altre nazioni petrolifere, giudicando tali mosse antagonistiche.

Mentre aumenta la dipendenza cinese da fornitori esteri, è probabile che la Cina galvanizzi i suoi legami con i leader di questi Paesi, creando ulteriori tensioni sulla scena politica internazionale. La riluttanza cinese all’ora di mettere a repentaglio i legami energetici di vitale importanza con l’Iran ha già frustrato gli sforzi americani atti a imporre nuove sanzioni economiche su quella nazione per costringerla ad abbandonare le sue attività di arricchimento dell’uranio.

Allo stesso modo, il recente prestito di 20 miliardi di dollari all’industria petrolifera venezuelana ha rafforzato lo status del Presidente Hugo Chavez proprio in questo periodo segnato da un calo della sua popolarità a livello domestico e quindi della sua capacità di contrastare le politiche degli Stati Uniti. I cinesi hanno anche mantenuto legami d’amicizia con il Presidente Omar Hassan Ahmad al-Bashir del Sudan, malgrado gli sforzi degli americani che mirano a dipingerlo come un paria internazionale per via del suo presunto ruolo di organizzatore dei massacri nel Darfur.

La diplomazia delle armi in cambio di petrolio in un pianeta pericoloso

Gli sforzi dei cinesi tesi a migliorare i propri legami con i fornitori di petrolio stranieri hanno già prodotto tensioni geopolitiche con gli Stati Uniti. C’è il rischio di un conflitto sino - americano ben più serio ora che stiamo entrando nell’era del “petrolio difficile” e le scorte mondiali di petrolio facilmente raggiungibile vanno ad esaurirsi rapidamente.

Secondo fonti del Dipartimento per l’Energia americano, le scorte mondiali di petrolio e altri liquidi petroliferi nel 2035 saranno pari a 110,6 milioni di barili al giorno - precisamente ciò che basta per coprire la domanda mondiale prevista per quell’anno. Molti geologi credono, tuttavia, che la produzione mondiale raggiungerà il picco massimo di produzione ben al di sotto dei 100 milioni di barili al giorno entro il 2015 e comincerà successivamente a diminuire. Inoltre, il petrolio che resta sarà trovato sempre di più in posti di difficile accesso oppure in regioni altamente instabili. Se queste previsioni si riveleranno corrette, gli Stati Uniti e la Cina - i primi due importatori di petrolio al mondo - potrebbero restare intrappolati in una contesa a somma zero tra grandi potenze per l’accesso alle scorte di petrolio esportabile in continuo calo.

E’ certamente impossibile predire cosa succederebbe in uno scenario simile, soprattutto da quando le possibilità di un conflitto abbondano. Se entrambi i Paesi continuano sulla strada attuale - armando i propri fornitori preferiti in un tentativo disperato di assicurarsi un vantaggio a lungo termine - gli stati petroliferi fortemente armati potrebbero diventare sempre più paurosi oppure più avidi nei confronti dei loro vicini (anch’essi ben equipaggiati).

Con un numero sempre crescente di consiglieri militari e istruttori inviati da Cina e Stati Uniti in quei Paesi, lo scenario potrebbe essere pronto perché entrambe queste nazioni restino coinvolte in guerre locali e conflitti di confini. Né Pechino né Washingotn cercano attivamente questo coinvolgimento, ma la logica della diplomazia delle armi in cambio di petrolio fa di questo un rischio inevitabile.

Non è difficile, quindi, immaginare un momento nel futuro in cui gli Stati Uniti e la Cina saranno bloccati in un conflitto mondiale sulle rimanenti scorte di petrolio. E’ un fatto che molti nella Washington ufficiale siano convinti dell’inevitabilità di uno scontro del genere. “Gli interessi a breve termine della Cina l’hanno portata a preparasi per qualsiasi imprevisto nello Stretto di Taiwan...è un importante motore della sua modernizzazione [militare]” come notato dal Dipartimento della Difesa americano nell’edizione 2008 della sua relazione annuale, “Il potere militare della Repubblica Popolare Cinese”. “Tuttavia, un esame delle acquisizioni militari cinesi e del suo pensiero strategico suggerisce che Pechino stia anche sviluppando risorse da usare in altre eventualità, come ad esempio per un conflitto sulle risorse...”

Tuttavia, uno scontro sulle scorte mondiali di petrolio non è l’unica strada che potrebbe aprire il nuovo status energetico della Cina. E’ possibile immaginare un futuro in cui Cina e Stati Uniti cooperino nel perseguire alternative al petrolio che potrebbero ovviare alla necessità di convogliare grosse somme di denaro in una corsa al riarmo dell’esercito e della marina. Il Presidente Barack Obama e la sua controparte cinese, Hu Jintao, sembra abbiano intravisto una simile possibilità lo scorso novembre quando si sono accordati durante un vertice a Pechino per collaborare allo sviluppo di mezzi di trasporto e di combustibili alternativi.

A questo punto, soltanto una cosa è chiara: quanto maggiore sarà la dipendenza cinese dal petrolio importato, tanto maggiore il rischio di scontri e di attrito con gli Stati Uniti, il quale dipende dagli stessi e sempre più problematici fornitori di risorse energetiche. Quanto maggiore sia la dipendenza dal carbone, tanto minore sarà il nostro benessere in questo pianeta. Quanto maggiore sia l’enfasi sui combustibili alternativi, tanto più probabile sarà il dominio cinese nel XXI secolo. A questo punto resta a noi ignoto il modo in cui la Cina sceglierà di approvvigionarsi d’energia dalle diverse fonti a disposizione. Qualsiasi siano le scelte della Cina, tuttavia, le sue decisioni in materia d’energia scuoteranno il mondo.

Michael T Klare è professore di pace e studi sulla sicurezza mondiale presso il Hampshire College. Inoltre ha recentemente pubblicato Rising Powers, Shrinking Planet. Il suo libro precedente, Blood and Oil, è stato portato sullo schermo come documentario ed è disponibile su Michael T. Klare's "Blood and Oil" (http://www.bloodandoilmovie.com)

Fonte: Asia Times Online :: Asian news hub providing the latest news and analysis from Asia (http://www.atimes.com)
Link: Asia Times Online :: Asian news and current affairs (http://www.atimes.com/atimes/Global_Economy/LI21Dj05.html)
21.09.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di NIKLAUS47
ComeDonChisciotte - CINA: LA SUPERPOTENZA DELL’ENERGIA (http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=7597&mode=thread&order=0&thold=0)

sitoaurora
03-11-10, 15:39
Ancora più vicini alla Cina | Aurora (http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/?p=523)

Spetaktor
15-11-10, 15:53
L’azione della Cina in Africa ha sconvolto tutte le strategie precedenti
I padiglioni africani all' Expo 2011 di Shanghai

Se la Cina dà la sveglia al mondo sull’Africa

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 27 Settembre 2010
Romano Prodi | L’azione della Cina in Africa ha sconvolto tutte le strategie precedenti (http://www.romanoprodi.it/articoli/italia/lazione-della-cina-in-africa-ha-sconvolto-tutte-le-strategie-precedenti_2072.html)

Si fa gran festa a Pechino ogni volta che arriva un politico africano. Può essere il capo di Stato di un grande o piccolo paese o anche un semplice ministro, ma l’accoglienza è sempre solenne e in ogni caso tale da rendere felice l’interlocutore. Se poi si dedica uno sguardo approfondito all’immensa Expo di Shanghai, si viene a sapere che il costo dei padiglioni della maggior parte degli espositori africani (fatta eccezione per alcuni paesi maggiori) è stata interamente sostenuta dal governo cinese. Se infine a Pechino si partecipa a una tavola rotonda sui problemi africani l’attenzione dei media è ampia, profonda e puntuale, e i partecipanti cinesi pongono ai responsabili africani tutte le domande possibili riguardo alla modalità degli investimenti, alla possibilità di acquisto dei terreni agricoli e su ogni dettaglio utile per aprire una rete di affari.
Ragazzi liberiani durante la visita del Presidente Cinese Hu Jintao (2007)

Ragazzi liberiani durante la visita del Presidente Cinese Hu Jintao (2007)

Non si tratta di episodi isolati ma di tessere di un mosaico di una poderosa politica lanciata nel 2000 con il progetto Focac (Forum for China-Africa Cooperation) che ha avuto il suo culmine con il grandioso vertice cino-africano del novembre 2006 e con il trionfale viaggio del presidente cinese Hu Juntao in alcuni tra i più importanti Paesi africani nel febbraio del 2007.

Una politica che ha come obiettivo strategico non solo quello di garantire al miliardo e trecento milioni di cinesi il rifornimento di cibo, di energia e di materie prime, ma anche quello di preparare un terreno favorevole alla Cina in un continente che è sempre rimasto fuori dai grandi giochi della politica mondiale ma che ne è ora al centro per la sua importanza geografica e per la grande disponibilità di risorse naturali. Gli strumenti di questa politica sono strumenti pubblici e privati, come la remissione dei debiti ai paesi più poveri, linee di credito a lungo termine, colossali investimenti in infrastrutture, assistenza tecnica, sanitaria e scolastica, investimenti nel settore petrolifero, minerario agricolo, bancario e industriale. Il tutto con una visione globale che comprende il continente intero, anche se si esprime attraverso rapporti bilaterali con i singoli Paesi.

La strategia continentale è stata già completata e la Cina ha ormai stretti rapporti diplomatici con 50 su 54 Paesi africani e conduce rapporti economici anche con i rimanenti quattro. Si tratta di un evento totalmente nuovo perché i Paesi europei concentrano la loro presenza quasi esclusivamente sulle loro antiche colonie, mentre gli Stati Uniti hanno costantemente diviso l’Africa fra Paesi amici e Paesi nemici. L’altra grande novità, mai avvenuta in modo così massiccio nella storia, è che la Cina esporta insieme merci, capitali, tecnologie e mano d’opera per cui, nei paesi africani, avremo sempre più imprese e sempre più operatori cinesi in tutti i settori dell’economia. Sono naturalmente sensibile alla diffusa obiezione che tutto questo è facilitato dal fatto che i cinesi, nella loro strategia africana, non si pongono il problema dei diritti civili e politici vigenti nei paesi in cui operano.

Tuttavia, mentre rifletto su questo, mi chiedo quale sia stato in passato e quale sia tuttora il concreto comportamento europeo e americano. Non mi sembra proprio che nessuno, a partire dalle vecchie potenze coloniali, sia legittimato a dare lezioni di morale in questa materia. Tanto più che, se esaminiamo il commercio estero africano, non troviamo sostanziali differenze nella tipologia e nella qualità delle esportazioni verso la Cina rispetto a quelle che si dirigono verso l’Europa o verso gli Stati Uniti. Di sicuro, tuttavia, lo sviluppo africano ha ricevuto negli ultimi anni grande giovamento dall’enorme aumento delle esportazioni verso la Cina. Ed è anzi incontrovertibile che solo l’irruzione cinese ha messo in primo piano l’attenzione degli americani e degli europei nei confronti del continente prima dimenticato.

Invece di continuare con inutili recriminazioni mi sembra perciò venuta l’ora di smettere di considerare l’Africa come un terreno di scontro fra le vecchie o le nuove grandi potenze. È venuto cioè il momento in cui esse debbano decidere di collaborare al decollo africano con un grande progetto fondato sulla collaborazione fra Unione Europea, Cina e Stati Uniti. Un progetto di lungo periodo e di grandi dimensioni sostenuto e garantito dalle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale.

L’Africa, con le sue potenzialità, il suo territorio e le sue risorse, è essenziale per lo sviluppo futuro di tutti noi. L’azione cinese in Africa ha sconvolto tutte le strategie precedenti. Cerchiamo di costruirne una nuova che aiuti la cooperazione fra i Paesi africani a che, nello stesso tempo, costituisca l’inizio delle forme di collaborazione fra le grandi potenze mondiali che sono necessarie per impedire nuovi conflitti.

sitoaurora
21-11-10, 01:17
Il supercomputer cinese spaventa il Pentagono | Aurora (http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/?p=622)

Spetaktor
21-11-10, 22:14
Avionica e missili cinesi per il Pakistan | Aurora (http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/?p=629)

Spetaktor
25-11-10, 00:24
xi jinping and his wife peng liyuan (http://blog.chinesehour.com/?p=779)

Spetaktor
02-12-10, 01:03
Cina e Russia, addio al dollaro tra politica ed economia

Yuan e rubli negli scambi bilaterali. Paolo Manasse: "Ricerca di stabilità e di autonomia da Washington. Ma non è guerra delle valute"
Cina e Russia hanno deciso di effettuare le transazioni commerciali bilaterali nelle proprie valute (yuan-renminbi e rublo), rinunciando al dollaro come moneta universale di scambio.
L'anno scorso, il commercio tra i due Paesi è stato stimato attorno ai quaranta miliardi di dollari. Si pensa che a fine 2010 ammonterà a sessanta miliardi.
Nell'accordo siglato da Vladimir Putin e Wen Jiabao a San Pietroburgo il 24 novembre, molti hanno visto un capitolo di quella "guerra delle valute" che agita sia i mercati finanziari sia la geopolitica mondiale, con il rinnovato interesse dell'amministrazione Obama per l'Estremo Oriente e la crescita record della Cina, nuova superpotenza.
PeaceReporter ha chiesto un parere a Paolo Manasse, professore di Macroeconomia e di Politica Economica Internazionale all'Università di Bologna, docente di Macroeconomia all'Università Bocconi di Milano.

Come si spiega la decisione di Russia e Cina?

C'è un motivo economico e ce ne è uno politico.
Dal punto di vista economico, siamo in un periodo di volatilità dei cambi legato alla crisi. Quando si parla di volatilità, ci si riferisce soprattutto al rapporto tra euro e dollaro. La Russia ha un grande volume di scambi con l'Europa, idem la Cina che ce l'ha anche con gli Usa, quindi sono esposte ai rischi di questa volatilità. E' probabile che almeno nello scambio bilaterale vogliano tutelarsi dai rischi di cambio delle valute, utilizzando le proprie.
L'aspetto politico sta nel fatto che soprattutto la Cina, così facendo, afferma la propria sovranità anche valutaria, mostrando di poter fare a meno del dollaro, cioè contrastando il privilegio tutto statunitense di battere moneta. Può essere letto in chiave di sfida.

C'entra con la cosiddetta "guerra delle valute"?

La guerra delle valute dura da anni. Muove dall'accusa Usa secondo cui la Cina terrebbe la propria moneta artificialmente bassa per guadagnare competitività. Nei meccanismi di mercato, alla domanda molto alta di merci cinesi dovrebbe corrispondere anche una domanda molto alta di yuan per pagarle. La conseguenza naturale dovrebbe essere la crescita di valore della moneta cinese e il deprezzamento del dollaro. Qui invece interviene la banca centrale cinese comprando dollari e vendono yuan per calmierarne il prezzo. Le conseguenze sono il valore basso dello yuan e un accumulo di dollari nelle riserve cinesi.
E' comunque una faccenda che riguarda soprattutto gli Usa, perché sono loro ad avere un enorme deficit commerciale con la Cina. L'Europa molto meno.
Tecnicamente, la scelta di Russia e Cina non c'entra molto con la guerra delle valute.
Anzi, potrebbe avere come effetto la riduzione della domanda di dollari e quindi l'indebolimento della valuta Usa. Chiaramente, non è scontato che ci sia un simile effetto, dipende da quali saranno i volumi degli scambi tra Cina e Russia. Ma comunque l'accordo non può essere visto come un tassello della guerra delle valute.

C'è anche il tentativo di diversificare le proprie riserve valutarie, riducendo la parte in dollari?

Il monopolio del dollaro come moneta di riserva [cioè la valuta con cui le banche centrali dei diversi Paesi accumulano le proprie riserve, date generalmente dal surplus commerciale, ndr] è già finito con l'avvento dell'euro. In genere le banche centrali tengono un portafoglio abbastanza bilanciato, diversificato, per evitare che fluttuazioni nel mercato dei cambi provochino problemi. Non si punta mai al cento per cento su una sola valuta.
In questo caso, mi sembra che si punti più a evitare l'impatto delle fluttuazioni sulle transazioni, sul commercio. A parte la valutazione politica, certo, cioè l'affermazione di indipendenza da parte della Cina.
Se un cinese esporta merci facendosi pagare in dollari o euro, e una delle due monete crolla, ci perde un sacco di soldi. Dal momento in cui si fanno le transazioni al momento in cui vengono liquidate, si rischia. Di solito ci si assicura con il mercato a termine: uno vende i dollari di domani a un prezzo che conosce oggi. Ma se fa gli scambi con la moneta nazionale, ha risolto il problema alla radice.

Gabriele Battaglia

PeaceReporter - Cina e Russia, addio al dollaro tra politica ed economia (http://it.peacereporter.net/articolo/25601/Cina+e+Russia,+addio+al+dollaro)

Spetaktor
11-12-10, 01:36
Carta 08 dei (http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=19947)

Carta 08 dei “diritti umani”: un tentativo di controrivoluzione in Cina

di Heinz Dieterich*

su Rebelión (http://www.rebelion.org) del 09/12/2010

Traduzione di l'Ernesto online

*Heinz Dieterich, sociologo e analista politico tedesco attualmente residente in Messico, collabora a diversi giornali in Europa e America Latina ed è autore di una trentina di volumi sull'America Latina, la società globale, le controversie ideologiche del XX secolo ed altre questioni di carattere filosofico e sociologico.

Contenere e distruggere la Cina

Quanto più insistono Hillary Clinton e Barack Obama sul fatto che non cercherebbero di contenere la Cina, tanto più vengono contraddetti dall'evidenza della loro stessa politica, ad esempio: la campagna dei “diritti umani” per l'incarcerato premio Nobel della pace Liu Xiaobo; il tentativo di creare un blocco politico-militare anti-cinese intorno ai conflitti del Mar Cinese Meridionale; i tentativi di guerra monetaria e di isolamento di Pechino al vertice del G-20 di Seul e le prove di alleanza strategica con Indonesia e India.

La classe politica statunitense aveva sfruttato nel 1990 la “vittoria di A. F. Kerenski” sul Partito Comunista dell'Unione Sovietica. Nei suoi documenti confidenziali si afferma che non oltre il 2025,
Chiang Kai shek trionferà sul Partito Comunista Cinese. Non è senza fondamento questo calcolo. Oggi, circa il cinquanta per cento degli intellettuali cinesi appoggerebbe questo progetto.

L'imprigionamento di Liu Xiaobo e Carta 08

Dietro l'imprigionamento del premio Nobel della pace, Liu Xiaobo, intelligentemente promosso nell'apparato mediatico dal peruviano-spagnolo Mario Vargas Llosa e dal Comitato Nobel del Parlamento norvegese, c'è la cosiddetta Carta 08, un manifesto reso noto nel dicembre 2008, da circa 300 intellettuali e attivisti cinesi, che chiedono in diciannove punti riforme politiche, diritti umani e “la democratizzazione” della Repubblica Popolare Cinese. L'autore principale è lo scrittore Liu Xiaobo.

La Carta 08 ricorda la Carta 77 della Cecoslovacchia che rappresentò il modello ideologico per il successo della “Rivoluzione di velluto” e l'installazione alla presidenza dello scrittore Vaclav Havel. Havel, il principale autore di Carta 77, è in questo momento, insieme ad Aznar, uno dei nemici più feroci di stati socialisti, come Cuba e Cina (“regime tirannico”), e di governi popolari come quello venezuelano. La cosa più rilevante non è, certamente, l'eventuale carattere reazionario degli intellettuali che hanno scritto e promosso Carta 08, ma il carattere politico del documento. Il suo contenuto classista è la resurrezione di un regime capitalista neoliberale, con sovrastruttura parlamentare e multipartitismo borghese.

Tutto il potere alla borghesia

Il punto 14 della Carta, “Protezione della proprietà personale”, chiede che si debba “stabilire e proteggere il diritto alla proprietà personale e promuovere un sistema economico di mercato libero e onesto. Dobbiamo abolire i monopoli governativi sul commercio e l'industria, e garantire la libertà di creare nuove imprese. Dobbiamo avviare una riforma agraria che favorisca la proprietà privata della terra, che garantisca il diritto di comprare e vendere la terra, al vero valore della proprietà privata di riflettersi sul mercato”.

La Democrazia deve essere una “democrazia parlamentare”, quindi retta da molti partiti politici. Ciò significa la fine del ruolo dirigente e del monopolio politico del Partito Comunista Cinese (PCC), “attraverso l'abolizione di tutti i Comitati politici e legali che permettono oggi alle alte cariche del Partito Comunista di decidere in merito a tutte le questioni di fondo fuori da un contesto giuridico”. I militari, a loro volta, “devono prestare giuramento alla costituzione” e “rimanere neutrali”.

La risposta della Cina e il pericolo per la Patria Grande

E' evidente che la Carta 08 pretende di abolire l'ordine politico esistente in Cina. E', pertanto, anticostituzionale e sovversiva. Il governo cinese ha risposto a questa minaccia con la forza della legge, con argomenti e con il suo potere economico-politico. Ha proibito a due noti attivisti dei diritti umani cinesi, di partecipare alla cerimonia della consegna del premio Nobel, il 10 dicembre a Oslo; Ha spiegato alla popolazione all'interno della Cina che la consegna del premio Nobel a Liu Xiaobo è una manovra della Nuova Guerra Fredda Asiatica (NGFA) di Obama/Clinton, e che molte delle richieste (ambiente, lotta alla corruzione, uguaglianza città-campagna, ecc.) fanno parte della stessa politica del governo; infine, sul piano internazionale ha ammonito i governi borghesi a non assecondare il circo di Oslo per non “patirne le conseguenze” (Cui Tiankai, sottosegretario agli Affari Esteri).

Il governo cinese ha affrontato l'imperialismo di Washington anche di fronte al vertice del G-20, abbassando la qualità del credito (credit rating) di Washington, a causa della “decrescente capacità degli Stati Uniti a ripagare i suoi debiti” e i “seri difetti nel suo modello di sviluppo economico e nel management”. Sono risposte dignitose e necessarie a tenere in riga il pericoloso complesso militare-industriale statunitense. Purtroppo, Cuba e Venezuela non possono difendersi allo stesso modo dalla Nuova Guerra Fredda, che con la vittoria del fondamentalismo repubblicano presto si farà sentire nell'emisfero occidentale. Il nuovo potere della mafia cubana (Dip. Ileana Ross-Lethinen), e l'accresciuto peso della reazionaria imperiale Hillary Clinton, preannunciano tempi estremamente difficili per i governi popolari dell'America Latina. Occorrerà vedere fino a dove la Cina è disposta ad appoggiarli, davanti alla crescente pressione di Washington.

Just a joke

It is just a joke, ha definito recentemente Noam Chomsky il premio Nobel della pace: “non è che uno scherzo di cattivo gusto”. E ha tutte le ragioni. Speriamo che la Sinistra mondiale capisca questo dirty joke e che non si unisca ai pagliacci scandinavi della Nuova Guerra Fredda di Obama/Clinton: peones del Complesso Militare-Industriale statunitense. Il governo cinese, nel frattempo, dovrà sviluppare la democrazia partecipativa e l'economia di equivalenze del post-capitalismo, come unica blindatura duratura contro questo tipo di sovversione dell'Occidente.

Dovrà creare, in una parola, l'indistruttibile Muraglia Cinese del Socialismo del XXI Secolo.

Spetaktor
11-12-10, 01:37
Un manifesto di guerra (http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=19951)

Un manifesto di guerra

di Domenico Losurdo

su Junge Welt del 10/12/2010

Sul Premio Nobel a Liu Xiaobo

Trasmesso in diretta da tutte le più importanti reti televisive del mondo, il discorso pronunciato dal presidente del Comitato Nobel in occasione del conferimento del premio per la pace a Liu Xiaobo si presenta come un vero e proprio manifesto di guerra. Il concetto fondamentale è chiaro quanto sgangherato e manicheo: le democrazie non si sono mai fatte guerra e non si fanno guerra tra di loro; e dunque per far trionfare una volta per sempre la causa della pace occorre diffondere la democrazia su scala planetaria. Colui che così parla ignora la storia, ignora ad esempio la guerra che tra il 1812 e il 1815 si sviluppa tra Gran Bretagna e Usa. Sono due paesi «democratici» e per di più fanno entrambi parte del «pragmatico» e «pacifico» ceppo anglosassone. Eppure tale è il furore della guerra che Thomas Jefferson paragona a «Satana» il governo di Londra e giunge persino a dichiarare che Gran Bretagna e Usa sono impegnati in una «guerra eterna» (eternal war), la quale è destinata a concludersi con lo «sterminio (extermination) di una o dell’altra parte».

Identificando causa della pace e causa della democrazia, il presidente del Comitato Nobel abbellisce la storia del colonialismo, che ha visto spesso paesi «democratici» promuovere l’espansionismo, facendo ricorso alla guerra, alla violenza più brutale e persino a pratiche genocide. Ma non si tratta solo del passato. Col suo discorso il presidente del Comitato Nobel ha legittimato a posteriori la prima guerra del Golfo, la guerra contro la Jugoslavia, la seconda guerra del Golfo, tutte condotte da grandi «democrazie» e in nome della «democrazia».

Ora, il più grande ostacolo alla diffusione universale della democrazia è rappresentato dalla Cina, che dunque costituisce al tempo stesso il focolaio più pericoloso di guerra; lottare con ogni mezzo per un «regime change» a Pechino è una nobile impresa al servizio della pace: questo è il messaggio che da Oslo è stato trasmesso e bombardato in tutto il mondo, ed è stato trasmesso e bombardato mentre la flotta militare Usa non cessa di «esercitarsi» a poca distanza dalle coste cinesi.

A suo tempo, un illustre filosofo «democratico» e occidentale, John Stuart Mill, ha difeso le guerre dell’oppio contro la Cina come un contributo alla causa della libertà, della «libertà «dell'acquirente» prima ancora che «del produttore o del venditore». E’ sulla scia di questa infausta tradizione colonialista che si sono collocati i signori della guerra di Oslo. Il manifesto lanciato dal presidente del Comitato Nobel deve suonare come un campanello d’allarme per tutti coloro che hanno realmente a cuore la causa della pace.

Spetaktor
19-12-10, 02:05
La Serbia e il Nobel

Sanja Lučić
14 dicembre 2010

Il 10 dicembre scorso alla cerimonia di assegnazione del Premio Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, la Serbia non avrebbe voluto esserci. Questa era l’intenzione del ministro serbo Vuk Jeremić. Poi però, sotto il peso del biasimo generale, Belgrado ha fatto marcia indietro

All’inizio le autorità di Belgrado avevano annunciato che la Serbia non avrebbe inviato un suo rappresentante alla cerimonia del premio Nobel assegnata al dissidente cinese Liu Xiaobo, che sta scontando una pena a 11 anni nella prigione di Jinzhou, per “istigazione alla sovversione” e per aver promosso il manifesto ‘Carta’08, il documento favorevole alla democrazia firmato da 2000 cinesi. E che la decisione era stata presa da Vuk Jeremić, il ministro degli Esteri, senza alcuna consultazione con il presidente Boris Tadić che a sua volta dichiarava di non voler rilasciare nessun commento ufficiale visto che la sua opinione personale non coincide con la decisione di Jeremić.
Successivamente era anche stato sottolineato che i diritti umani sono una priorità della Serbia che spera di far parte dell’Unione europea, ma che la tutela dei rapporti con la Cina fosse ancora più importante.
Alla fine, dopo le dure critiche dell’Unione europea e la “incomprensione” di un gesto simile da parte di un paese che è candidato ad entrare nell’Ue, la Serbia ha fatto marcia indietro e ha inviato alla cerimonia l’ombudsman Saša Janković. Così, ancora una volta, si è venuta a creare una situazione in cui la Serbia si è presentata come un paese indeciso e diviso, fortemente influenzato dagli interessi economici e dagli alleati storici da una parte, ma anche dalla Unione europea dall’altra. Un paese che fa un passo avanti e due indietro. E che non sa da che parte stare.

Diritti umani sì, ma la Cina è più importante

Sin dallo scorso 8 ottobre il governo di Pechino, dopo aver definito la scelta operata dal Comitato per il Nobel un’“oscenità” nonché un’interferenza negli affari giuridici cinesi, aveva messo in atto pressioni politiche e ricatti economici a livello mondiale per far sì che in tanti disertassero la cerimonia.
Inizialmente i paesi che non avrebbero dovuto partecipare alla consegna erano 19, tutti “amici” della Cina e legati ad essa da interessi economici, tra i quali anche la Serbia. Il ministro degli Affari esteri serbi, Vuk Jeremić, aveva dichiarato che non ci sarebbe stato nessuno alla cerimonia perché anche se la Serbia presta un’attenzione particolare alla difesa dei diritti umani, i suoi rapporti con la Cina rappresentano uno dei primi interessi nazionali della politica estera di Belgrado .
“La Serbia presta grande attenzione al rispetto e alla difesa dei diritti umani che sono uno dei requisiti per l’integrazione del paese nell’Unione Europea, tuttavia i rapporti con la Cina sono troppo importanti e tutte le decisioni prese dalle autorità statali sono legate agli interessi nazionali del paese. La Cina è anche uno dei quattro pilastri della nostra politica estera, insieme a Russia, Usa e Unione europea”, aveva dichiarato il ministro serbo.
Questa sua decisione aveva diviso sia l’opinione pubblica sia i partiti politici in Serbia. Jelko Kacin,rapporteur del Parlamento europeo per la Serbia ha dichiarato che il paese si dimostra ancora una volta troppo “servile” verso la Cina e che un candidato per l’Unione europea non si può permettere un comportamento simile, manifestando a tal punto il proprio servilismo.

Critiche al comportamento della Serbia

Čedomir Jovanović, leader del partito serbo LDP, aveva interpretato la decisione di Jeremić come una vergogna per il paese.“Russia e Cina sono due potenze che il mondo accetta così come sono, ma non accetteranno mai una piccola Serbia grazie a questo comportamento ed anche la Cina non ci apprezzerà di più per questo gesto”, sottolineava Jovanović. Critiche alla decisione di Belgrado di disertare la cerimonia sono venute anche dal Comitato dei giuristi per i diritti umani (Yucom), secondo il quale la Serbia, intendendo di boicottare la cerimonia, mostra di essere ancora lontana da una posizione di autentico rispetto dei diritti umani e dei valori caratteristici delle società europee moderne e democratiche. [SIC]
Laszlo Varga, Presidente della Commissione per l’integrazione europea dell’Assemblea nazionale serba, aveva definito la decisione della Serbia come catastrofica, aggiungendo che se la Serbia mira a far parte della comunità europea non dovrebbe mettersi al fianco dei paesi che in nessun modo rispondono ai criteri di paesi democratici. “E’ un messaggio estremamente negativo” aveva sottolineato Varga, ribadendo che “in Serbia non è ancora maturata l’idea che l’Ue non è solo un’unione economica ma soprattutto un’unione di valori”.
Štefan Füle, Commissario europeo per l’allargamento e la politica europea di vicinato, si era dimostrato preoccupato e deluso per la decisione della Serbia perché tutti i paesi dell’Unione europea avrebbero partecipato alla cerimonia. Invece il capo della delegazione per i Balcani del Parlamento europeo, Eduard Kukan riteneva che il boicottaggio del premio Nobel, come anche l’ultimo rapporto sulla “non collaborazione” della Serbia con il tribunale dell’Aja, sono solo delle informazioni negative che arrivano a Bruxelles. Con una nota Bruxelles, infatti, aveva ricordato a Belgrado che democrazia e diritti umani sono valori fondanti del Vecchio continente, da tutelare ovunque nel mondo.
“In Europa ci sono dei valori. Chi non li rispetta, non può farne parte”, forse è proprio questa dura posizione di Bruxelles nei confronti dei paesi che avrebbero boicottato la cerimonia, che alla fine ha spinto Serbia a mandare il suo rappresentante. Il primo ministro Mirko Cvetković aveva deciso l’invio dell’ombudsman dopo essere stato a Bruxelles per incontrare alti esponenti dell’Ue. “Spero che la Cina capirà che sono stato alla cerimonia non per portare un messaggio politico ma perché i diritti umani e la democrazia sono importanti per la Serbia”, ha dichiarato Saša Janković.

Addio Jeremić?

Il settimanale “Vreme” scrive che Belgrado ancora una volta si è dimostrata poco seria e soggetta alle pressioni di tutti: da una parte Bruxelles per quanto riguarda la risoluzione sul Kosovo davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, e dall’altra la Cina, quando c’è qualcosa che non piace a Pechino. E poi, aggiunge il settimanale belgradese, “E’ poco serio che la Serbia prima non voglia partecipare alla cerimonia ma alla fine accetti, con l’ombudsman Saša Janković che era lì come emissario personale del premier Mirko Cvetković e non in qualità di rappresentante ufficiale dello Stato. Così si crea l’immagine di un paese che ancora una volta non sa cosa vuole.”
Il 18 dicembre in Serbia ci saranno le elezioni nel Partito democratico (Ds). Il leader democratico e presidente, Boris Tadić, ha ripetuto tante volte di non essere soddisfatto del lavoro di alcuni ministeri e che è urgente ridimensionare il governo. Le ultime notizie che arrivano da Belgrado confermano l’intenzione di Boris Tadić di sostituire Jeremić per “aver preso decisioni importanti per il paese senza prima consultarlo”.
“Si parla di una mia sostituzione da quando sono diventato ministro. Io sto solo facendo il mio lavoro e penso siano dannose queste speculazioni perché inviamo un segnale negativo al mondo e il messaggio è ancora una volta quello della mancanza d’unità sugli obiettivi e le priorità della politica estera della Serbia”, ha dichiarato Jeremić.
Si riscaldano così i vecchi stereotipi sulla Serbia come un paese che non ha abbastanza coscienza quando si tratta di diritti umani. E che vorrebbe far parte dell’Europa ma non è ancora pronta fino in fondo ad accettare i valori della comunità europea. [SIC]

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La Serbia e il Nobel / Serbia / aree / Home - Osservatorio Balcani e Caucaso (http://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/La-Serbia-e-il-Nobel/(showcomments)/yes)

Spetaktor
20-12-10, 00:13
Cina-Pakistan. Piccoli imperi crescono
Cina-Pakistan. Piccoli imperi crescono | Esteri | Rinascita.eu - Quotidiano di Sinistra Nazionale (http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=5575)
di: Pietro Fiocchi
p.fiocchi@rinascita.eu
Dopo l’Afpak, ecco un’altra espressione geografica, dove però a Washington riuscirà meno facile giocare a Risiko: il Cinpak. Partito dall’India, il premier cinese Wen Jiabao è da venerdì in Pakistan: una visita ufficiale che si conclude domenica. La missione, fa sapere la stampa pakistana, è “un’occasione unica per rafforzare i rapporti commerciali ed economici tra i due Paesi”. Pechino non avrà difficoltà a rassicurare Islamabad, che potrebbe essersi insospettita dal miglioramento dei rapporti tra la Repubblica popolare e l’India. Sul fronte economico è prevista la firma di contratti per un valore di circa 20 miliardi di dollari. Ad accompagnare Wen, c’è una delegazione di decine di capitani d’industria e 250 uomini d’affari cinesi.
Il Pakistan conta sulla Cina per l’ammodernamento del suo apparato della Difesa e come fonte d’investimenti per lo sviluppo delle sue infrastrutture. Durante la sua permanenza in Pakistan, Wen incontrerà l’omologo Yusuf Raza Gilani e il presidente Asif Ali Zardari, poi domenica interverrà in Parlamento.
A luglio durante la visita di Zardari a Pechino sono state siglate sei intese per consolidare la cooperazione economica e quella in materia di sicurezza. A proposito. Le attenzioni cinesi sono sempre puntate sul porto di Gwadar per il quale sono già stati investiti 200 milioni di dollari. Lo scalo, nel Pakistan meridionale, è considerato da Islamabad un’opportunità notevole per dare nuovo impulso alla sua economia: si tratterebbe di punto di collegamento tra l’Afghanistan e l‘Asia Centrale, e da Pechino è visto come un’area strategica per il passaggio delle forniture di petrolio. In ballo anche il discorso su possibili misure da adottare per migliorare la cooperazione nelle questioni regionali e internazionali di reciproco interesse: per esempio la situazione della sicurezza in Pakistan e della guerra in corso nell’adiacente Afghanistan. Preoccupata dalla minaccia rappresentata dalle “tre forze del male” (terrorismo, estremismo e separatismo), la Cina conduce regolarmente esercitazioni anti-terrorismo con il Pakistan.
In agenda dovrebbe esserci anche la collaborazione in materia di energia nucleare: il 24 giugno scorso è stata firmata un’intesa per aprire un cantiere finalizzato alla costruzione di due reattori ad acqua pressurizzata per la centrale nucleare pachistana di Chasma, addette ai lavori saranno due società cinesi (la China nuclear industry fifth construction company e la Cnnc China Zhongyuan engineering corp).
In Pakistan sono attive oltre 120 aziende della Repubblica popolare e più di diecimila cinesi vivono nel Paese centroasiatico. Per loro le autorità cinesi hanno più volte chiesto a Islamabad garanzie di sicurezza. In Pakistan sono stati completati progetti gestiti da cinesi del valore di circa 20 miliardi di dollari, altri progetti per circa 14 miliardi sono in corso. P.F.

Spetaktor
25-12-10, 01:21
Pechino snobba gli Usa e punta l´euro "E´ importante per noi, lo aiuteremo"
di Angelo Aquaro - 24/12/2010

Fonte: La Repubblica [scheda fonte]


Continua il duello Cina-America. Washington ricorre al Wto
Pechino sarebbe pronta ad acquistare un quarto del debito di Lisbona

Gli americani l´hanno già ribattezzata «China Klaus» ma l´ironia non inganni. L´ultimo travestimento di Pechino, quello da Santa Klaus, Babbo Natale, non piace per niente a Washington, che guarda anzi con diffidenza e preoccupazione al regalo promesso da Pechino all´Europa.
«Siamo pronti ad aiutare i paesi dell´eurozona a superare la crisi finanziaria e a rilanciare la ripresa» ha annunciato la portavoce del ministro dell´Estero Jang Ju. Una dichiarazione d´intenti arrivata a stretto giro dopo il «là» del vicepremier Wang Quishan, che aveva parlato di «azioni concrete». E che ha finito così per confermare le voci riportare dalla stampa portoghese, secondo cui Pechino sarebbe pronta ad acquistare 5 miliardi di buoni del tesoro di Lisbona: praticamente un quarto del debito che sta affondando il paese facendo riemergere le paure di crisi in Europa.
E´ solo l´inizio: sulla lista della spesa dei cinesi ci sarebbe già il tribolatissimo debito greco. E il segnale è stato subito accolto positivamente dai mercati. L´euro ha arrestato la sua discesa sul dollaro che lo stava portando pericolosamente sotto la soglia dei 1300 ed è risalito anche dal cambio storicamente più basso mai raggiunto con il franco svizzero. Ma l´aiuto promesso del Dragone è solo l´ultimo passo di una danza di avvicinamento inaugurata dal tour europeo di Wen Jabao all´inizio dell´anno. E irrobustita - suggeriscono le analisi più prudenti - dall´acquisto di azioni in euro per il valore di sette, otto miliardi di dollari al mese.
Chiaro che l´espansione del Dragone non sia vista di buon occhio da questa parte dell´Oceano. Prima di tutto perché finora Pechino ha generosamente finanziato il debito americano: con quasi mille miliardi di acquisti, la Cina è il miglior clienti dei 13mila miliardi di debito Usa. E poi perché la potenza asiatica sta evidentemente barattando il regalo di Natale con l´impegno dell´Europa a fare ancora più spazio ai suoi prodotti.
Per gli Usa è un ulteriore campanello d´allarme. Già gli americani hanno aperto da tempo il contenzioso sul deprezzamento dello yuan - anche se per la verità neppure loro sono senza peccato, vedi l´indebolimento del dollaro grazie all´acquisto dei buoni del tesoro da parte della Fed. Ma la sfida a distanza tra i due giganti si è arricchita ieri di una nuova tenzone.
Washington ha portato Pechino davanti al tribunale del Wto accusandola di concorrenza leale. E´ la seconda volta nel giro di quattro mesi che gli States si rivolgono all´organizzazione mondiale del commercio. Ma stavolta l´accusa riguarda un settore particolarmente caro a Barack Obama - e su cui il presidente ha insistito anche nel discorso prenatalizio. E cioè lo sviluppo dell´industria energetica alternativa. Un fondo speciale del governo assicurerebbe fino a 22 milioni di finanziamenti per le industrie cinesi che si lanciano nell´eolico: per gli americani si tratta di veri e propri «sussidi», vietati dal Wto, che «opererebbero come una barriera alle esportazioni Usa.
Insomma ce n´è abbastanza perché l´annunciata visita di Hu Jintao negli Usa rischi di trasformarsi in un vero show down. Il tour americano era programmato da tempo ma ieri gli Usa hanno reso nota la data esatta della visita: il 19 gennaio. Proprio alla vigilia del Discorso sulla Stato dell´unione in cui Barack Obama - ha annunciato il suoo portavoce Robert Gibbs - si concentrerà guarda caso sui piani per il taglio del deficit.

Spetaktor
29-12-10, 19:04
Una più assertiva PLA | eurasia-rivista.org (http://www.eurasia-rivista.org/7538/una-piu-assertiva-pla)

Spetaktor
29-12-10, 19:05
L'enigma cinese
di Joseph Halevi - 28/12/2010

Fonte: Il Manifesto [scheda fonte]



Stiamo entrando nel quarto anno dall'inizio della crisi economica mondiale senza che si profilino delle soluzioni interne al sistema economico, segnatamente all'assenza totale di lotte e strategie forti alternative. Ma la crisi è veramente globale? Inizialmente lo era quando la Cina ne venne coinvolta per un periodo di circa cinque o sei mesi e quando la borsa di Bombay venne posta sotto pressione. Col varo di ampie spese reali la Cina riprese la sua crescita caratterizzata dalla preminenza degli investimenti pesanti e delle esportazioni. L'India subì un lieve calo del tasso di espansione per poi riprendersi anch'essa interamente sulla base della domanda interna. Pertanto, dalla seconda metà del 2009 l'accumulazione capitalistica mondiale si suddivide in due. Se Stati uniti, l'Europa ed il Giappone sono in condizioni di crisi e stagnazione, continua l'espansione della Cina e dell'India inflazionando i prezzi delle materie prime, trainando e gonfiando le economie dei paesi produttori, dall'Australia al Brasile.

Una caratteristica fondamentale dell'assetto politico post 2007-8 è l'enorme rafforzamento del potere del capitalismo finanziario - soprattutto delle banche - per cui le prospettive del 2011 dipendono molto dalle aspettative di questi centri di potere. In tale contesto la Cina è l'elemento determinante delle aspettative dinamiche, mentre Usa ed Europa devono rimanere una fonte inesauribile cui attingere per ottenere soldi pubblici. Qualche settimana fa l'International Herald Tribune pubblicò un dettagliato articolo sull'esistenza di un vero comitato esecutivo segreto formato dalle principali banche, il cui scopo è di proteggerne il potere e di orientare in tal senso tutte le proposte di riforma del sistema finanziario. Emerge nitidamente che i fondi speculativi sul rischio, gli hedge funds, sono oggi il punto focale da difendere, il che rappresenta la conferma che i lati più pericolosi del capitalismo finanziario hanno acquisito un peso ben maggiore rispetto agli anni precedenti.
Negli Usa ed in forme anodine e contorte in Europa, la crisi unita all'intoccabilità delle grandi banche, ha trasformato l'erogazione di denaro pubblico in elargizioni alle medesime. Malgrado i bassissimi tassi di interesse questi soldi non vengono indirizzati verso l'investimento reale né verso il credito alle famiglie. Il sistema finanziario pieno di liquidità a costo zero anela a collocazioni in attività di lucro, cioè di rischio. Le attività che contano sul piano mondiale sono quelle collegate alla Cina ed al suo vortice che va dai futures della soia in Brasile ed Argentina ai minerali australiani, al gas dell'Asia centrale, alle foreste indonesiane ed ai mercati borsistici di questi paesi, fino all'Africa. La dinamica cinese determina quindi le aspettative di lucro del comparto capitalistico che la crisi ha rafforzato. La crescita cinese è accompagnata da una bolla speculativa interna di grandi proporzioni nel campo immobiliare e azionario cui si collega la bolla del collocamento della liquidità «occidentale». Ne consegue che esiste una connessione realmente dialettica tra la crisi negli Stati uniti ed in Europa e la crescita cinese. Un non improbabile rovescio del mercato immobiliare delle maggiori città cinesi e della borsa di Shanghai, comporterebbe un radicale capovolgimento nelle aspettative delle società occidentali che maneggiano i fondi hedge con tutte le loro negative ripercussioni sui mercati finanziari statunitensi ed europei. Se le aspettative del capitalismo finanziario dipendono in gran parte dall'espansione cinese è necessario vagliarne la solidità. Vedremo che questa è assai problematica.

Spetaktor
30-12-10, 00:01
Cina: La dialettica di autonomia e apertura



di Wang Hui *

Scritto alla vigilia del sessantesimo anniversario della Repubblica popolare di Cina

Lo sviluppo economico della Cina ha smentito numerose previsioni: dopo il 1989 erano diffuse le teorie sul crollo della Cina, ma la Cina non è crollata, sono invece crollate quelle teorie.

Ci si è quindi cominciato a chiedere perché questo crollo non sia avvenuto, anzi, al contrario, la Cina si sia sviluppata. Nel corso delle riforme ci sono state continue discussioni sulla loro validità o meno, che toccavano anche la questione di come valutare il periodo socialista e il periodo delle riforme. Sono sempre più numerosi coloro che ritengono che comunque si valutino successi e intoppi del periodo socialista e di quello di apertura e riforme, l’esperienza cinese è radicata su queste due tradizioni. D’altronde, la contraddizione tra l’attuale crisi finanziaria globale e l’accumulazione di lungo periodo mostra che la Cina non può né deve ritornare ai vecchi modelli di sviluppo, sia il modello di pianificazione tradizionale, sia il modello finalizzato unicamente allo sviluppo del PIL. Dobbiamo cambiare il nostro modo di valutare l’esperienza di questi sessanta anni della Cina.

Le implicazioni politiche dell’ “indipendenza e autonomia”.


Nelle discussioni sul modello cinese molti studiosi mettono l’accento sulla stabilità dello sviluppo e ritengono che la Cina non abbia conosciuto grandi crisi. Questa tesi non è corretta. Il 1989 è stato l’anno della crisi maggiore dei trent’anni di riforme economiche; la Cina ha attraversato questa crisi ma ancora oggi ne possiamo vedere le tracce in diversi campi. Quella crisi era anche parte integrante di una crisi mondiale, che peraltro era soprattutto una crisi politica e non economica. La crisi cinese del 1989 può essere considerata come il preludio della crisi dell’Urss e i paesi dell’Est europeo, con la differenza però che questi paesi sono crollati mentre la Cina ha mantenuto fondamentalmente la stabilità del suo sistema. Quei paesi erano anch’essi, come la Cina, stati socialisti diretti da partiti comunisti: come mai invece la Cina non è crollata? Quali fattori hanno consentito alla Cina di conservare la sua stabilità e creato le condizioni per una rapida crescita? Dopo trent’anni di riforme quali variazioni si sono verificate in tali condizioni? Se si parla di «via cinese» o di «peculiarità della Cina», ecc., sono questi anzitutto i problemi a cui bisogna rispondere.

La disgregazione del sistema dell’Urss e dei paesi dell’Est Europeo ha avuto complesse e profonde cause storiche, come ad esempio la contrapposizione tra il sistema burocratico e la popolazione, le politiche arbitrarie attuate durante la Guerra fredda, nonché le condizioni di vita della popolazione dovute a una “economia della penuria” eccetera. In confronto a ciò, la volontà di auto-rinnovamento del sistema cinese è stata molto più forte. Il sistema cinese ha conosciuto gli assalti del periodo della “Rivoluzione culturale”, durante il quale i funzionari medi e superiori del partito e dello stato erano stati mandati da Mao Zedong a lavorare e vivere nelle fabbriche, nelle campagne e in altre situazioni sociali di base. Quando alla fine degli anni ’70 questi ritornarono alle loro precedenti posizioni di potere, grazie a questa esperienza lo Stato acquisì forti capacità di rispondere alle esigenze della società reale, mostrando una grande diversità rispetto all’Urss e ai Paesi dell’Est.

Non ho qui il tempo di discutere nei dettagli le origini e implicazioni di questa questione; posso soltanto concentrarmi sulla principale peculiarità che distingue il sistema cinese da quello dell’Urss e dei Paesi dell’Est, ossia l’indipendenza e l’autonomia nell’esplorazione di una strada per lo sviluppo sociale e la posizione di sovranità che deriva da questa scelta. L’ultimo segretario del partito comunista della Germania dell’Est Egon Krenz nelle sue memorie spiega che tra le numerose cause del crollo del Paese dopo il 1989, la principale fu la svolta dell’Urss e i conseguenti cambiamenti all’interno dei paesi del blocco sovietico.

Durante la guerra fredda, i politici occidentali usavano spesso il concetto di “dottrina Breznev” per ridicolizzare la “sovranità limitata” dei Paesi dell’Est Europa. Con il Patto di Varsavia, i paesi dell’Est europeo non avevano una piena sovranità, ma dipendevano dal controllo dell’Urss e quando l’Urss entrò in crisi ne seguì il crollo dell’intero blocco sovietico. Dopo la seconda guerra mondiale fu affermata stabilmente la sovranità degli stati nazionali, ma in realtà ben pochi su scala mondiale erano i Paesi con una reale sovranità. Questo valeva non solo per i Paesi dell’Est europeo: non era forse la stessa cosa anche per i paesi del Patto Atlantico? In Asia, nel quadro della Guerra fredda la sovranità del Giappone, della Corea del sud e di altri Paesi era condizionata dalle strategie globali dell’America e anch’essi erano paesi a sovranità limitata. Nel quadro strutturale della Guerra fredda i due campi costituivano ciascuno un sistema di alleanze tra stati e i cambiamenti o le svolte politiche del paese egemone di ciascuno dei due campi avevano profonde ripercussioni su tutti gli altri Paesi.

Con la fine della guerra civile in Cina e la fondazione della Repubblica popolare cinese nacque un nuovo stato socialista. All’inizio, con il costituirsi dei due poli della guerra fredda, la Cina si schierò nel campo socialista, e in particolare nel corso della guerra di Corea dei primi anni Cinquanta, la Cina si trovò impegnata in un confronto militare diretto con gli Stati Uniti e i loro alleati. Durante questo periodo e in particolare nel corso del primo piano quinquennale la Cina ricevette un immenso aiuto dall’Unione sovietica, sia per lo sviluppo industriale e per la ripresa post-bellica, sia per ritrovare una posizione internazionale, e in un certo senso ebbe relazioni di una certa sudditanza nei confronti dell’Urss. Tuttavia, così come il processo rivoluzionario cinese aveva seguito una propria strada, allo stesso modo la Cina nel periodo della costruzione del socialismo esplorava una via di sviluppo basata sull’indipendenza e l’autonomia. A partire dalla metà degli anni Cinquanta la Cina sostenne attivamente il “movimento dei non allineati” e successivamente ingaggiò una polemica aperta con il partito comunista sovietico. La Cina si svincolò gradualmente da ciò che alcuni studiosi chiamano “rapporti di dipendenza coloniale” con l’Unione sovietica, non solo sul piano politico, ma anche su quello economico e militare, stabilì la propria posizione indipendente all’interno dei sistemi socialisti e dunque nell’insieme delle relazioni mondiali. Sebbene lo stretto di Taiwan tenga ancora l’isola separata dalla Cina, tuttavia la natura politica dello Stato cinese è improntata alla sovranità e ad un alto grado di indipendenza ed autonomia e ciò ha determinato la creazione di un sistema economico-industriale nazionale autonomo e indipendente. Senza il prerequisito di questa sovranità sarebbe stato difficile immaginare la strada delle riforme e dell’apertura, così come anche il destino della Cina dopo 1989. Il fatto che la Cina fosse già dotata di un sistema economico indipendente ed autonomo ha costituito la precondizione della politica di riforme e di apertura.

Le riforme cinesi hanno una loro logica interna e un carattere autonomo, sono riforme attive e non passive, molto diverse dalle varie “rivoluzioni colorate”, frutto di un contesto complesso dell’Est europeo e dell’Asia centrale. Lo sviluppo della Cina non solo è diverso dalle economie dipendenti dell’America Latina, ma anche da quello del Giappone, della Corea e di Taiwan. Nel caso di questi paesi non si può semplificare parlando di “modello asiatico”, benché il ruolo dello Stato, le politiche industriali di questi governi e alcune strategie di sviluppo abbiano caratteristiche simili e interagiscano fra loro. In effetti, dal punto di vista politico la premessa delle riforme in Cina è stata l’autonomia, mentre lo sviluppo dei paesi sopra citati può essere definito in larga misura uno “sviluppo dipendente”. La differenza con i paesi dell’America Latina è però che i rapporti di dipendenza di questi ultimi durante la guerra fredda sono diventati proprio la premessa politica dello sviluppo.

Queste caratteristiche di sovranità relativamente indipendente e compiuta si sono realizzate nell’attività pratica del partito politico, il che costituisce una caratteristica saliente della politica del XX secolo. Nel bilancio che ne faceva Mao Zedong, il fronte unito, la lotta armata e la costruzione del partito erano “le tre armi magiche” della rivoluzione cinese, ma la costruzione del partito non doveva staccarsi dalla linea di massa. Mao parlava di classe e di lotta di classe, ma sul piano teorico parlava della società cinese con concetti che non corrispondevano completamente a quelli classici. I concetti che lui usava più frequentemente, quelli di popolo e di contraddizioni in seno al popolo, si erano tutti sviluppati a partire dall’esperienza della rivoluzione cinese. Per quanti errori teorici e pratici abbia commesso il partito comunista cinese, le lotte contro l’imperialismo del periodo rivoluzionario e la successiva polemica con l’Unione Sovietica rimangono i fattori basilari della realizzazione della sovranità cinese e su queste questioni non ci si può limitare a dare giudizi basati su singoli dettagli.

Con la polemica aperta con il PCUS la Cina si è svincolata dai precedenti rapporti di dipendenza prima a livello di partito e in seguito a livello di Stato, dando vita a un nuovo modello di indipendenza. In altre parole, le radici di questa sovranità sono politiche: dall’evolversi dei rapporti fra partiti politici è sorta una peculiare indipendenza politica che si è manifestata nello Stato, nell’economia e in altri settori. Se si tralascia questa prospettiva politica, è difficile comprendere chiaramente le caratteristiche della sovranità cinese. In realtà ciò è collegato al disgregamento progressivo della polarizzazione della Guerra Fredda, e alle incessanti lotte e critiche rivolte dalla Cina contro questi due blocchi. In questo senso la Cina ha dato un contributo originale alla conclusione della guerra fredda e alla pace nel mondo.
Date queste caratteristiche di indipendenza del partito e dello Stato in Cina si è anche formato un meccanismo di correzione degli errori. Nei campi dell’economia, della politica e della cultura, sia nel periodo della ricerca di una via socialista, sia in quello dei tentativi di riforma si sono verificati errori di vario tipo, con conseguenze talvolta drammatiche; tuttavia, nel corso degli anni ’50, ’60 e ’70 lo Stato e il partito cinese hanno costantemente riaggiustato le loro politiche. Queste rettifiche non derivavano da suggerimenti esterni, ma furono attuate affrontando i problemi sorti nella pratica. In quanto meccanismi di rettifica della linea del partito, i dibattiti teorici, in particolare quelli pubblici, hanno svolto una funzione importante nell’aggiustamento e nella capacità di auto-riformarsi del partito e dello Stato. Poiché all’interno del partito comunista mancava un meccanismo democratico, le lotte politiche degeneravano spesso in attacchi spietati o in lotte di potere, ma ciò non deve oscurare l’importante ruolo storico svolto da questi dibattiti sulla linea politica e sulla teoria. Da questo punto di vista occorre ripensare alcuni temi ricorrenti dalle riforme in poi, come ad esempio il fatto che le riforme non sono frutto di un modello o di politiche precostituite, ma sono il risultato del “guadare il fiume a tentoni”: questo modo di dire è certamente corretto, ma in realtà non avere seguito un modello precostituito è una costante di tutta la rivoluzione cinese, e Mao Zedong nel suo saggio Sulla contraddizione ha usato parole simili. Su che cosa reggersi in assenza di modello? Sul dibattito teorico, sulla lotta politica e sulla pratica sociale. E’ ciò che viene detto “dalla pratica alla pratica”. Tuttavia questo bilancio della pratica è di per sé teorico, perché la pratica non può essere priva di premesse ed orientamenti. Senza ispirarsi a valori fondamentali, “passare il guado a tentoni” non porterà molto lontano. Nel suo testo Sulla Pratica Mao Zedong ha citato Lenin: “Senza teoria rivoluzionaria non può esserci movimento rivoluzionario”. Creare e promuovere una teoria rivoluzionaria può svolgere una funzione decisiva nei momenti cruciali. Quando si deve fare una cosa, qualunque essa sia, ma non si posseggono ancora orientamenti, metodi, piani o politiche precise, stabilirne di nuovi svolge un ruolo decisivo. Nei momenti in cui la politica, la cultura, la sovrastruttura eccetera sono di ostacolo allo sviluppo della base economica, cultura e politica costituiscono il punto centrale sul quale prendere decisioni. Questo illustra le lunghe lotte dell’epoca in cui il partito comunista era alla ricerca del suo modello.

Il dibattito teorico ha svolto funzioni importanti sia nel processo rivoluzionario sia in quello delle riforme. La fonte teorica delle riforme – il concetto di un’economia di mercato socialista – nasce dai dibattiti teorici sulla merce, l’economia mercantile, la legge del valore, il diritto borghese ecc. ed è emersa anche nella sperimentazione pratica socialista. Le discussioni a proposito della legge del valore sono iniziate negli anni cinquanta, con la pubblicazione degli articoli di Sun Yefang e di Gu Zhun, nel contesto della rottura cino-sovietica e dell’analisi delle contraddizioni sociali di Mao Zedong. A metà degli anni ’70 questo problema tornò al centro del dibattito in seno al partito. Senza queste discussioni sarebbe stato molto difficile immaginare che le future riforme potessero seguire la logica della legge del valore, del principio “a ciascuno secondo il proprio lavoro”, e dell’economia di mercato socialista. Oggi i dibattiti sulla via di sviluppo non sono più come in passato confinati all’interno del partito, ma svolgono altresì un ruolo importante nei riaggiustamenti della linea politica. Se non ci fosse un sistema per criticare e contrastare l’esclusiva attenzione allo sviluppo del PIL, non potremmo portare all’ordine del giorno la ricerca di nuovi modelli scientifici per lo sviluppo. Negli anni ’90, con il mutamento della struttura politica cinese, i dibattiti nel mondo intellettuale cinese sostituirono in parte il ruolo precedente dei dibattiti all’interno del partito. L’attenzione nei confronti della “triplice questione agraria” [la campagna, i contadini e l’agricoltura] cominciata alla fine degli anni ‘90, la riflessione critica sulla riforma dell’assistenza sanitaria dopo il 2003, l’attenzione al problema della riforma delle imprese statali e dei diritti del lavoro nel 2005, i movimenti sociali e la diffusione delle tesi per la protezione dell’ambiente eccetera hanno tutti esercitato una grande influenza sul riaggiustamento delle politiche statali. Il dibattito teorico, assieme alle relative lotte e sperimentazioni sociali, svolge un grande ruolo nel guidare gli orientamenti politici. Altrimenti non esiste una forza politica in grado di auto-riformarsi dall’alto verso il basso.

Oggi si parla della democrazia come di un meccanismo di rettifica degli errori, ma di fatto i dibattiti teorici e di linea sono anch’essi meccanismi di rettifica per il partito politico. Nel XX secolo l’assenza di un meccanismo democratico all’interno del partito ha fatto sì che il dibattito sulla linea politica abbia manifestato caratteristiche arbitrarie e violente, sulle quali è necessario condurre una lunga e profonda riflessione; tuttavia la critica alla violenza della lotta politica nel partito non equivale a negare il dibattito teorico e quello sulla linea. In realtà, solo tali dibattiti costituiscono il meccanismo e la via che ci permetteranno di evitare una dittatura e di compiere delle rettifiche. “La pratica è l’unico criterio valido per la ricerca della verità”: questo slogan indica l’importanza assoluta della pratica, ma esso ha di per sé un carattere teorico e solo nel dibattito teorico possiamo comprenderne il significato.
Il protagonismo dei contadini

Poiché la rivoluzione cinese è avvenuta in una società agricola tradizionale, i contadini sono diventati il soggetto rivoluzionario. Sia nella fase iniziale della rivoluzione e della guerra, sia durante il periodo dell’edificazione della società e delle riforme, i sacrifici e il contributo dei contadini sono stati immensi, il loro spirito intrepido, assieme alla loro creatività, hanno lasciato segni molto profondi.

A confronto con gli altri Paesi del terzo mondo, la mobilitazione della società rurale in tutto il XX secolo e le trasformazioni nell’organizzazione sociale nelle campagne possono essere dette sconvolgenti e senza precedenti. Con la rivoluzione e la riforma agraria, l’intero ordinamento sociale delle campagne è stato radicalmente riorganizzato. Questa lunga e acuta trasformazione rivoluzionaria ha generato tre risultati importanti:

1 – Con la rivoluzione agraria e lo sconvolgimento dell’ordine nelle campagne, la classe contadina ha conquistato una forte determinazione politica. Né nei paesi dell’Est europeo, e nemmeno in Unione Sovietica vi è stata una lotta armata e una rivoluzione agraria di così lunga durata. Senza questo contesto sarebbe stata impossibile la lunga mobilitazione dei contadini per la trasformazione dei rapporti agrari. Rispetto a molti paesi socialisti o ex socialisti, il valore dell’uguaglianza ha radici profonde nel cuore del popolo cinese.

2 – Per capire davvero il rapporto tra movimento socialista cinese e movimento contadino bisogna chiarire il ruolo del partito nella rivoluzione cinese. La fondazione del partito comunista cinese è stato anche un prodotto del movimento comunista internazionale, ma con una differenza: il compito politico centrale di questo partito era la mobilitazione dei contadini e la creazione di una nuova politica e di una nuova società attraverso il movimento contadino. Attraverso trent’anni di rivoluzione armata e di lotte sociali questo partito politico si è radicato nei movimenti sociali di base e in particolare è divenuto il partito politico del movimento contadino e operaio, la cui capillare forza organizzativa e di mobilitazione sono molto diverse da quelle dei partiti dei paesi socialisti dell’Europa dell’Est. Oggi giornalisti e osservatori vari esagerano nell’attribuire a singoli dirigenti vittorie o sconfitte della rivoluzione cinese, ma discutono in modo insufficiente dei processi rivoluzionari in quanto tali, hanno una visione superficiale del problema della violenza nella rivoluzione cinese, e negano perfino che questo processo abbia generato una nuova soggettività sociale. Nel corso di una rivoluzione socialista condotta in una società a prevalenza contadina le iniziative e la volontà soggettiva dei singoli dirigenti hanno svolto sì un ruolo cruciale, ma questo fattore da solo non spiega la storia.

3 – I nuovi rapporti agrari creati nel corso della rivoluzione e della costruzione socialista costituiscono la premessa della politica delle riforme in Cina. In assenza di cambiamenti sociali di tale profondità, sarebbe molto difficile ipotizzare che dei contadini e delle organizzazioni rurali di tipo tradizionale potessero manifestare uno spirito di iniziativa così forte.

A questo proposito, basta considerare la stato dei contadini che operano in un quadro di società agricola di mercato in Asia, e più particolarmente nel sud-Est asiatico, o in America latina, per avere la netta sensazione che fino ad oggi queste società non hanno avuto una riforma agraria radicale, e i contadini sono ostaggi dei proprietari fondiari o di latifondi, senza la possibilità di acquisire una radicale coscienza autonoma. Il processo della riforma agraria è strettamente connesso con la diffusione dell’istruzione, con l’alfabetizzazione, e con l’aumento delle capacità di auto-organizzazione e delle competenze tecniche. Nelle condizioni della riforma su base di mercato, questi elementi ereditati dal periodo precedente si sono trasformati in prerequisiti per un mercato della forza lavoro piuttosto svuluppato.

Nell’ ondata di neo-liberismo la società cinese, in confronto ad altre società, rivendica una maggior uguaglianza, non tollera la corruzione e svolge quindi una funzione di forte contrappeso dal basso. Su questo punto ci sono varie differenze rispetto ai paesi che all’inizio degli anni ’90 sono rapidamente diventati delle oligarchie, e ciò non si può solo spiegare con l’organizzazione dello Stato o del partito politico, ma dipende anche dalla spinta delle forze sociali. Ciò avvenuto , ad esempio alla fine degli anni Novanta, quando tornarono ad essere nuovamente temi chiave in Cina le discussioni sulla “triplice questione agraria” [i problemi dei contadini, della campagna e dell’agricoltura sollevati in particolare dall’economista Wen Tiejun], sui migranti contadini, su come risolvere le relazioni città-campagna in regime di mercato e su come risolvere in Cina il problema della terra. Data la forte dipendenza dell’economia agricola da quella urbana e dall’urbanizzazione, si è avuta un’ampia migrazione dei contadini che si trasformano in classe operaia urbana, mentre quei contadini che continuano a tener come base il rapporto con la terra si trasformano in forza lavoro a basso costo nelle zone costiere e nelle imprese industriali e commerciali delle città. Questo processo è in stretta relazione con la crisi attuale delle campagne; tuttavia il problema chiave non è solo quello di come trattare o sistemare questa popolazione contadina fluttuante, ma di capire se in questo processo di trasformazione i contadini cinesi riusciranno o no a ricostruire la loro soggettività politica autonoma ed il loro attivismo. Possiamo affermare che il solo modello del “capitale che va in campagna” non aiuterà i contadini a costituire una loro soggettività politica e il loro spirito d’iniziativa. All’opposto, l’autonomia dei contadini e persino la loro identità si dissolveranno con la trasformazione dei rapporti agrari.

Il ruolo dello Stato.

Un altro fattore chiave per capire la Cina del periodo delle riforme riguarda come interpretare la natura dello Stato cinese e la sua evoluzione. Molti storici hanno evidenziato che l’Asia possiede un’antica tradizione dell’intervento dello Stato e delle relazioni fra Stati. Giovanni Arrighi scrive nel suo recente libro Adam Smith a Pechino: “paragonando i sistemi tra Stati e Stati-nazione, il mercato nazionale non è una scoperta dell’occidente. …Nel diciottesimo secolo il più grande mercato nazionale non si trovava in Europa, ma in Cina”. Nell’analizzare poi le dinamiche dello sviluppo economico cinese e in particolare la forza di attrazione dei capitali stranieri, Arrighi scrive: “la forza d’attrazione dei capitali esteri verso la Cina non risiede nelle sue ricche risorse di mano d’opera a buon mercato. […] Questa forza di attrazione risiede essenzialmente nella buona salute di questa forza lavoro, nei suoi livelli di istruzione e nelle sue capacità di auto-gestione, nonché sul rapido allargamento delle sfere lavorative e produttive in cui fluttuano all’interno della Cina.” Secondo Arrighi, Smith non era l’apologeta di un ordine spontaneo del mercato, ma un pensatore con una chiara conoscenza del controllo del mercato da parte dello Stato. Seguendo questa strada di pensiero Yao Yang, professore di economia all’Università di Pechino, nel fare un bilancio delle condizioni dello sviluppo economico cinese, sostiene che il governo “neutrale” o lo stato “neutrale” sia stato la premessa del successo ottenuto dalle riforme in Cina.

Le risorse statali sono un problema importante nel corso della riforma . Vorrei aggiungere due chiarimenti riguardo alla discussione tra Arrighi e Yao Yang. Arrighi descrive il mercato statale in Cina e in Asia come fondato su una lunga tradizione, tuttavia senza la rivoluzione cinese e la sua riorganizzazione dei rapporti sociali, è difficile immaginare che il “mercato statale” tradizionale avrebbe potuto automaticamente trasformarsi in un mercato statale di tipo nuovo. Gli sforzi compiuti verso la fine della dinastia Qing per costruire con la forza dello stato un sistema militare e commerciale, e le incessanti rivoluzioni per la terra avvenute dopo la rivoluzione del 1911, hanno creato rapporti interni ed esterni nuovi, diversi dal mercato statale tradizionale. Nel commentare “Programma per la costruzione nazionale” di Sun Yatsen Lenin rilevò questo punto, ossia che la rivoluzione agraria e i nuovi programmi statali, con orientamenti socialisti o popolari, costituivano una premessa per lo sviluppo capitalistico nell’agricoltura. Nel discutere del carattere dello stato nella Cina moderna, non si può tralasciare la trasformazione dei rapporti fondiari e dello status dei contadini che la rivoluzione cinese ha comportato. Per esempio, molti criticano l’esperienza delle comuni popolari, ma pochi discutono su come questo esperimento sia stato il frutto del continuo mutamento dei rapporti fondiari nella Cina moderna: da una parte è finita la piccola economia contadina basata sulla famiglia o sul clan; d’altra parte i rapporti familiari, di clan e su base locale sono stati riorganizzati con altre modalità nei nuovi rapporti sociali. La politica di riforme [dalla fine degli anni Settanta] nelle campagne è stata una riforma del sistema delle comuni popolari, ma al tempo stesso si è basata sulle trasformazioni dei rapporti sociali portati dall’ esperimento delle comuni. Inizialmente la politica di riforme nelle campagne promossa dallo Stato era centrata su una gestione diversificata e sul riaggiustamento dei prezzi dei prodotti agricoli. Questo movimento di riforma in realtà ha assimilato molti elementi importanti della situazione precedente, come nel caso dello sviluppo delle industrie di distretto in imprese di distretto; il che non è assimilabile ad una logica neoliberista. Il cambiamento sostanziale della situazione nelle campagne avvenuto nel processo di sviluppo di un’economia di mercato si verificò con l’ondata neoliberista degli anni ’90, ma la crisi che ne seguì ( benché fosse già iniziata alla fine degli anni Ottanta) non va confusa con la situazione delle prime trasformazioni nelle campagne all’inizio delle riforme.

Quanto al punto di vista di Yao Yang, secondo cui lo “Stato neutrale” sarebbe stato generato dalla storia della rivoluzione moderna e del socialismo, va rilevato che le premesse politiche di tale Stato non sono state né la neutralità né l’equidistanza. La pratica socialista della Cina mirava a creare uno Stato in grado di rappresentare gli interessi generali della maggioranza, e la recisione dei legami tra Stato e interessi particolari ne costituiva la condizione. Sul piano teorico la pratica di questo paese socialista è nata con la revisione delle tesi iniziali del marxismo sulla lotta di classe, e ha avuto come base teorica i testi di Mao Zedong come “I dieci grandi rapporti”, “Sulla soluzione delle contraddizioni in seno al popolo” e altri. Visto che lo Stato socialista ha come principio guida di rappresentare gli interessi della maggioranza del popolo, nelle condizioni di mercato, diversamente da altre forme di Stato, si distacca dai rapporti con gruppi di interesse. Solo in questo senso si può parlare di “Stato neutrale”. Questo è stata la chiave del successo iniziale delle riforme, e della loro legittimità; senza tale condizione i diversi strati della società difficilmente avrebbero potuto credere che le riforme promosse dallo Stato rappresentassero i loro interessi. La “neutralità” dello Stato in Cina, si fondava sul fatto che lo Stato socialista rappresentasse gli interessi generali e le riforme, almeno nel periodo iniziale, hanno anch’esse fondato su questo la loro legittimità.

E’ difficile determinare la natura dello Stato cinese partendo da un’unica formula prescrittiva; al suo interno esistono tradizioni differenti. Nel corso delle riforme sono stati spesso usati termini come “riforme”, “antiriforme”, “progressisti”, “conservatori” eccetera per descrivere le lotte e le contraddizioni tra queste differenti tradizioni. In effetti, se le si considera in una prospettiva storica, si vede che i compromessi, gli equilibri e le contraddizioni fra queste tradizioni hanno svolto una funzione importante.

Durante il periodo socialista abbiamo visto l’alternarsi tra due o più forze per il superamento o dell’ “estremismo di sinistra” o dell’ “estremismo di destra”. Quando la corrente principale delle riforme fu quella dello sviluppo del mercato, se non ci fosse stato un contrappeso di forze socialiste all’interno dello Stato, del partito e dei vari settori della società, lo Stato si sarebbe velocemente appoggiato a determinati gruppi di interesse. Alla proposta avanzata a meta degli anni ’80 di diffondere le privatizzazioni, vi fu una violenta opposizione, dentro e fuori dal sistema, con il risultato che prevalse il concetto che occorresse anzitutto costituire dei sistemi di regolamentazione del mercato. Questo è stato il motivo principale per cui la Cina non ha usato la “terapia shock” della Russia. In altre parole, le risorse sociali accumulate durante il periodo socialista si trasformarono successivamente in un vincolo per le politiche sociali, tuttavia non si possono considerare queste forze critiche come contrarie alle riforme. Nelle polemiche ideologiche esplose degli anni Novanta, si possono riconoscere fenomeni analoghi. La critica della concezione dello “sviluppo a tutti costi” ha contribuito alla formulazione di una concezione dello sviluppo basato su principi scientifici e di modelli di sviluppo alternativi. L’indignazione generale e la resistenza della società cinese contro la corruzione costituiscono una delle forze in grado di dare impulsi alla riforma del sistema. La cosiddetta “neutralità” dello Stato è in realtà costituita dall’interazione tra le suddette forze che certamente non sono neutrali.

Spetaktor
30-12-10, 00:01
Segue

Molte esperienze della riforma cinese meritano un’attenta analisi, come ad esempio le strategie nei riguardi della valorizzazione dei talenti personali, la riforma dell’insegnamento e l’attuazione di altre politiche economiche. Ritengo però che gli argomenti sopra discussi siano essenziali ed anche per questo sono spesso ignorati. Questi punti costituiscono una parte delle esperienze più singolari della Cina del XX secolo.

Le variazioni della struttura della sovranità

La globalizzazione, il regionalismo e l’apertura al mercato prospettano sfide importanti: le basi dei rapporti sociali, delle attività economiche e dei soggetti politici stanno attraversano grandi mutamenti. Se non saremo in grado di cogliere le condizioni storiche e la direzione di questi cambiamenti, ci sarà difficile creare nuovi meccanismi politici efficaci. In questa tendenza verso la mondializzazione, sono in corso variazioni rispetto alle forme di potere tradizionale. Per comprendere queste variazioni occorre fare un bilancio delle nuove tendenze del mondo attuale.

In primo luogo, nella tendenza verso la globalizzazione, sono in atto enormi variazioni della sovranità tradizionale. L’attuale processo di globalizzazione si realizza in due direzioni. In primo luogo si ha il movimento transnazionale dei capitali, e assieme a ciò il carattere transnazionale della produzione, del consumo e della circolazione delle merci, le migrazioni su larga scala, le interdipendenze dei mercati causate dal commercio e dagli investimenti e infine la globalizzazione dei rischi. In secondo luogo, c’è stata la creazione di organi di controllo per gestire e fare fronte ai movimenti multinazionali e controllarne i rischi, come il WTO, la Comunità europea, e altri organismi internazionali o regionali. I primi sembrano una forza anarchica, i secondi invece sono organismi di controllo e moderazione di questa forza anarchica; entrambe queste forze sono compresenti.

A seguito di questi importanti cambiamenti cambia necessariamente anche la forma della sovranità statale. A proposito del primo punto, la Cina alla fine degli anni ‘80 è diventata gradualmente un’economia orientata verso le esportazioni; la produzione sovranazionale ha fatto della Cina la “fabbrica del mondo”, il che ha comportato un nuovo assetto nella disposizione della forza lavoro e delle materie prime totalmente diverso dal passato, nonché nuovi rapporti tra zone costiere e zone interne, tra città e campagne. Con la graduale apertura al sistema finanziario, la Cina è balzata al primo posto dei detentori di valuta estera, il rapido sviluppo economico è altamente dipendente dai mercati internazionali, in particolare da quello americano. “Chimerica” può sembrare una concetto eccessivo, ma quando un’economia nazionale relativamente indipendente si trasforma in un’economia dipendente, questa parola diventa molto suggestiva.

Quanto al secondo punto, poiché la Cina ha aderito al WTO e ad altri trattati e accordi internazionali, e partecipa attivamente a diversi organismi regionali, il concetto di sovranità nel senso tradizionale può difficilmente descrivere la struttura della sovranità cinese oggi. L’attuale crisi finanziaria mostra che la crisi trae origine da oscillazioni sociali autonome, e dunque una crisi in un qualunque luogo può diventare la nostra stessa crisi; inoltre i modi per superare le crisi non possono essere puramente la riaffermazione delle vecchie forme di sovranità. (Ad esempio, nel commercio internazionale, la Cina ha dovuto subire l’anti-dumping, rifiuti di finanziamenti, problemi di special safeguard non risolvibili sulla base della sovranità statale, ma solo tramite un arbitraggio internazionale; i rischi legati al possesso di elevate quantità di valuta estera non possono essere protetti da una sovranità tradizionale, ma solo da accordi e protezioni internazionali; le pandemie e la loro prevenzione sono anch’esse un affare internazionale.) La cooperazione internazionale è quindi una scelta inevitabile. Come creare nuove forme di autonomia nelle condizioni della globalizzazione e nella rete internazionale dell’apertura è un problema che merita di essere studiato in una prospettiva storica, ma costituisce anche un tema nuovo da esplorare.

Inoltre il ruolo dello Stato sta cambiando non solo nel campo delle relazioni internazionali ma anche nei rapporti interni. Descrivere il ruolo dello Stato cinese usando semplicemente il concetto di “Stato totalitario” tende a confondere gli aspetti positivi e negativi del ruolo dello stato. Le riforme in Cina non hanno seguito la “terapia shock” come in Russia e lo Stato ha forti capacità regolatrici dell’economia. Il sistema finanziario cinese ha mostrato una certa stabilità, proprio perché la Cina non ha totalmente imboccato la via del neoliberismo; il fatto che la terra non sia stata privatizzata (ma si può disporne con una certa libertà secondo le necessità del mercato) ha non solo gettato le basi per salvaguardare il basso reddito della società rurale, ma ha anche reso possibile l’apertura a organismi che sfruttano le risorse della terra per conto dello Stato. L’enorme gettito fiscale proveniente dalle imprese statali ha fornito inoltre un supporto per le forze regolatrici del governo nei confronti della crisi economica. Tutto ciò ha un rapporto con la capacità e le aspirazioni dello Stato. Lo Stato cinese deve farsi carico delle sue responsabilità, per esempio risolvere attivamente la crisi nelle campagne, ristabilire il sistema delle garanzie sociali, difendere l’ambiente, aumentare gli investimenti per l’educazione e intraprendere una riforma del sistema educativo; sotto quest’aspetto, il governo cinese deve trasformarsi da governo finalizzato principalmente allo sviluppo a governo al servizio della società. Questa svolta consentirà la transizione da un’economia dipendente dalle esportazioni ad un’economia orientata ai bisogni interni.

La realizzazione di queste politiche sociali non dipende puramente dalla volontà dello Stato. Attraverso trent’anni di riforme, in quanto promotore dello sviluppo del mercato, l’apparato dello Stato si è profondamente integrato nelle attività dello mercato stesso. E per quanto riguarda i vari settori dello Stato, descriverli oggi in base al concetto di Stato neutrale è del tutto inadeguato. Lo Stato non è isolato, ma profondamente inserito nella struttura sociale e nei rapporti di interesse della società. Oggi il problema della corruzione non riguarda solo la corruzione dei singoli funzionari, ma riguarda anche le politiche sociali, le politiche economiche e i rapporti tra interessi particolari.

Per esempio gli sviluppi dei progetti per le industrie dell’alto carbonio e lo sfruttamento delle fonti energetiche sono spesso condizionati e perfino diretti da particolari gruppi d’interesse. L’influenza che questi ultimi esercitano sulle politiche comuni è stata frenata, con discussioni collettive, movimenti di protezione della società, e da varie “tradizioni” insite nello stato e nel partito. Ad esempio, alla fine degli anni Novanta, l’ampia discussione sul triplice problema agrario ha condotto a rettifiche delle politiche statali in questo campo; la crisi della “Sars” nel 2003 e le discussioni sulla protezione sanitaria hanno portato modifiche negli orientamenti delle politiche in questo settore. Il dibattito, nel 2005 sulla riforma delle imprese statali, e le vaste mobilitazioni operaie, hanno provocato l’eliminazione di una serie di misure politiche. Gli appelli che vengono dall’interno dello Stato per richiedere la punizione della corruzione e una più severa disciplina di partito hanno costituito la forza interna per il movimento anti corruzione in Cina, tuttavia potenti interessi internazionali e interni hanno contaminato in un modo senza precedenti l’apparato dello Stato e persino i procedimenti legislativi. In queste condizioni come mettere lo Stato in grado di rappresentare gli interessi della maggioranza è diventato un problema acutissimo.

Il paradosso della statalizzazione del partito.

La discussione sullo Stato è strettamente legata alle questioni dei meccanismi democratici. Questa discussione sullo Stato in Cina deve affrontare un paradosso di fondo. Rispetto ai governi di altri Paesi, le capacità del governo cinese sono largamente riconosciute: da un lato, la mobilitazione per salvare i terremotati nello Sichuan, il piano avanzato con tempestività per salvare il mercato dopo la tempesta finanziaria, il successo dei Giochi Olimpici, l’efficienza dei governi regionali nel fronteggiare la crisi, sono tutti fatti che hanno innalzato il prestigio dello Stato cinese. D’altro lato, però, nonostante che i vari sondaggi d’opinione mostrino un grado di soddisfazione abbastanza alto della popolazione nei confronti del governo, acute sono le contraddizioni tra funzionari e popolo in alcune regioni e in alcuni momenti, al punto che vengono messe in dubbio le capacità e la probità di alcuni livelli del governo. La questione chiave è che questo tipo di contraddizioni spesso giunge a toccare un problema di crisi della legittimità. Se però confrontiamo la situazione in altri paesi, troviamo che anche dove c’è un declino dello Stato, un governo incompetente, un’economia in riflusso, e delle politiche sociali inapplicate, tuttavia non c’è una crisi politica del sistema. Questa questione è strettamente legata a quella della democrazia come fonte della legittimità politica.

Negli anni ’80, la questione della democrazia sembrava abbastanza semplice; dopo vent’anni di ondate di democratizzazione, da un lato la democrazia rimane la principale fonte di legittimità politica, ma d’altro lato la semplice trasposizione in Asia della democrazia occidentale non esercita più il fascino degli anni ’80 e ’90. Con lo sbiadimento delle “rivoluzioni colorate” dopo la crisi di queste nuove democrazie, i movimenti per la democrazia dopo il 1989 nell’Europa dell’Est, in Asia centrale e altre regioni sono in declino; nello stesso tempo, nella società occidentale e in altri paesi democratici del terzo mondo (come l’India) lo svuotamento della democrazia porta alla sua crisi generalizzata. Questa crisi è strettamente collegata con il mercato e la globalizzazione:

1 – La forma principale di democrazia politica dopo la II guerra mondiale era quella parlamentare bipartitica o multi partitica, ma nelle condizioni del mercato, i partiti smarriscono sempre più l’originaria rappresentatività democratica e, pur di vincere le elezioni i valori della politica sono diventati sempre più confusi, svuotando la democrazia rappresentativa;

2 – Nella globalizzazione i rapporti tra democrazia e Stato affrontano nuove sfide: poiché le relazioni economiche scavalcano ogni giorno di più le categorie tradizionali dell’economia nazionale e le transazioni economiche non sono confinate in un solo Paese, qualunque azione politica dello Stato deve corrispondere ad un sistema internazionale;

3 – A seguito del fatto che gli interessi dei partiti si identificano con gruppi di interessi particolari, e persino con oligarchie, la democrazia formale diventa gradualmente una struttura politica staccata dalla società ai livelli di base, e le rivendicazioni di quest’ultima non ottengono una rappresentanza politica, cosicché essa viene costretta ad azioni difensive anarchiche, (come ad esempio l’insorgenza “maoista” in India). In tal modo non soltanto la democrazia formale, ma anche lo Stato in sé si sono svuotati in molte regioni del mondo-

4 – In diversi stati democratici, le elezioni dipendono da massici finanziamenti e l’illegalità convive con la legalità, il che mina il prestigio delle elezioni.

Non intendo dire che il valore della democrazia sia declinato. Il problema è quale democrazia e con quali forme? In che modo far si che la democrazia non sia solo una forma vuota, ma abbia un significato reale?

Ci sono stati importanti mutamenti nel sistema politico cinese, fra i quali il cambiamento del ruolo del partito. Negli anni ’80, la separazione tra Stato e partito costituiva uno degli obbiettivi della riforma. Dagli anni Novanta invece, la separazione di partito e stato non è stata più uno slogan di moda, anzi nella pratica concreta la fusione di partito e Stato è diventata ancora più comune. Ho definito questo fenomeno come la tendenza alla statalizzazione del partito. Questa tendenza merita un’analisi approfondita. Secondo le teorie politiche tradizionali, il partito politico rappresenta la volontà popolare che attraverso la lotta parlamentare e mediante un processo democratico determina la volontà nazionale, detta anche volontà sovrana. In Cina, il meccanismo della cooperazione di più partiti sotto la guida del partito comunista è anch’esso fondato sulla rappresentatività di ogni partito. Tuttavia, nelle condizioni di una società di mercato gli apparati dello Stato partecipano direttamente alle attività economiche, vari settori dello Stato sono in commistione con interessi particolari e la “neutralità” dello Stato che vigeva nel periodo iniziale delle riforme si sta modificando. Se il partito ha una relativa distanza dalle attività economiche può rappresentare in modo autonomo e “neutrale” le intenzioni della società: ad esempio la lotta contro la corruzione dipende dall’efficienza delle strutture del partito. Dopo gli anni Novanta, la volontà dello Stato si esprime attraverso gli obbiettivi del partito, attraverso parole d’ordine come le “tre rappresentatività”, la “società armoniosa”, o la “visione scientifica dello sviluppo” che non esprimono più una rappresentatività particolare del partito, ma fanno appello direttamente agli interessi di tutto il popolo. In questo senso il partito è diventato il nucleo della sovranità.

Tuttavia la statalizzazione del partito implica due pesanti sfide. In primo luogo, se i confini tra Partito e Stato scompaiono del tutto, quali forze e quali meccanismi potranno garantire che il partito non sia immerso nei rapporti di interesse della società di mercato come avviene per lo Stato? Inoltre, la vasta rappresentatività del Partito tradizionale (la “neutralità” dello Stato prima delle riforme, o più precisamente la separazione dello stato dai gruppi di interesse) era possibile con dei valori politici chiari, mentre la statalizzazione del partito ne implica l’indebolimento o comunque un mutamento. Se l’esistenza di “uno Stato neutrale” ha stretti rapporti con i valori politici del partito, nelle nuove condizioni, quale forza politica garantirà allo Stato la sua rappresentatività? Su quali forze si deve appoggiare il Partito per rinnovarsi? Come dare voce al popolo nei settori pubblici? Come portare correzioni nello Stato o nel partito attraverso un dibattito libero, organismi di consultazione e iniziative popolari? Come creare una larga democrazia con l’aiuto di forze nazionali e internazionali? E il partito a quali forze può appoggiarsi per realizzare il proprio autorinnovamento? In che modo far sì che la voce del popolo comune possa esprimersi nella sfera pubblica? In che modo è possibile realizzare dei continui riaggiustamenti nei confronti della linea fondamentale e delle politiche dello stato e del partito attraverso una vera libertà di parola, meccanismi di consultazione e l’interazione tra funzionari e popolo. In che modo assorbire nel modo più vasto le forze interne e internazionali per creare la più ampia democrazia? Questi sono problemi in aggirabili su per la discussione sull’autorinnovamento del partito.

Nel riflettere sulle trasformazioni politiche in Cina, dobbiamo affrontare questi problemi per individuare la strada della democrazia cinese. In concreto, secondo me occorre meditare su tre aspetti: in primo luogo, poiché la Cina del XX secolo ha attraversato una lunga e profonda rivoluzione, e la società cinese ha forti aspirazioni di giustizia ed uguaglianza, come è possibile tradurre questa tradizione storica e politica in una rivendicazione democratica nelle condizioni contemporanee? Vale la dire, qual è la linea di massa e la democrazia di massa in quest’epoca nuova? In secondo luogo, il PCC è un enorme partito che ha conosciuto grandissime trasformazioni, e che di giorno in giorno si mescola con la macchina dello Stato: come rendere il Partito più democratico e rifondarne il suo carattere politico? Come con il cambiamento del ruolo del Partito si possa garantire uno Stato in grado di rappresentare gli interessi delle masse popolari? In terzo luogo, in che modo le nuove forme politiche costituitesi alla base della società possono far sì che le grandi masse acquisiscano delle energie politiche per superare la situazione di “depoliticizzazione” che si è costituita c on l’espansione del mercato neo liberista. La Cina è una società aperta, ma operai, contadini e semplici cittadini non hanno spazi e garanzie sufficienti per prendere parte alla vita pubblica. Come permettere a queste voci e rivendicazioni di esprimersi ai livelli politici dello Stato e circoscrivere l’energia monopolista del capitale? Qui sta il nodo del problema. Libertà dei capitali o libertà sociale, tra i due vi sono distinzioni di principio. Queste domande sono concrete, ma sono pregne di temi teorici vitali, come ad esempio: quale orientamento deve prendere il cambiamento politico della Repubblica popolare cinese nelle condizioni del mercato e della globalizzazione? Come creare nelle condizioni dell’apertura economica della Cina un’autonomia della società cinese? Nell’attuale crisi universale della democrazia è evidente il significato globale di queste questioni e la necessità di esplorarne delle soluzioni.

Crisi finanziaria o crisi economica?

Osserviamo il comportamento della Cina in questa crisi finanziaria per esaminare le sfide che la Cina dovrà affrontare. Sulla crisi finanziaria, sia fra gli esperti che nella società si esprimono pareri diversi. Fra questi uno dei temi in discussione è se si tratti di una crisi finanziaria o economica. Le due crisi sono all’origine intrecciate, ma sul piano teorico è importante operare delle distinzioni. Dopo lo scoppio della crisi, i media hanno messo l’accento sulla crisi creditizia dei subprime e sulla speculazione finanziaria dell’America, ma alcuni esperti di economia politica come Robert Brenner hanno rilevato che non si tratta questa volta di una normale crisi finanziaria, o solo un problema dei prodotti finanziari derivati, ma che l’origine è riconducibile ad una crisi economica di sovrapproduzione.

Il rapporto tra crisi economica e crisi finanziaria merita attenzione. Se si tratta solo di derivati finanziari allora è un problema di speculazione transitoria e di assenza di efficaci strumenti di controllo. Se invece è una crisi economica, questo mostra una crisi strutturale del capitalismo, non una speculazione di una minoranza di persone, ma una crisi del modo di produzione. In effetti le due cose sono collegate: la crisi finanziaria non può non avere una relazione con l’insieme del modo di produzione. La differenza tra la situazione cinese e quella americana è che la crisi in Cina si è concentrata soprattutto sull’economia reale; vista la forte dipendenza della struttura economica cinese dal mercato internazionale e la grave insufficienza dei consumi interni, benché lo Stato abbia garantito lo sviluppo economico con stimoli e diminuzione delle tasse, se non si riesce a modificare la struttura economica stimolando la domanda interna con l’aumento delle garanzie sociali e l’uguaglianza sociale, c’è il rischio che si generi una nuova crisi di sovrapproduzione. Anche nel campo della finanza i due aspetti del problema si intrecciano: per esempio, la questione della sicurezza della detenzione di ingenti riserve di valute estere e di titoli di stato americani, oltre ad essere collegati a una struttura economica che dipende in larga misura dalle esportazioni e dall’egemonia del dollaro americano, costituisce un problema generato da speculatori internazionali che hanno operato sulla previsione di un rialzo della moneta cinese. La crisi dell’economia reale è inscindibile da quella finanziaria.

L’altro punto in discussione riguarda il carattere ciclico oppure strutturale della crisi. Considerando la situazione attuale vi è una correlazione tra i due aspetti. Parlare di crisi ciclica implica che l’economia possa da sé ripristinare la situazione preesistente; parlare invece di crisi strutturale implica che sia improbabile un ritorno alla struttura precedente e che possa esservi un mutamento strutturale. La situazione presente mostra che vi sarà un ristabilimento dell’economia, quindi che la crisi ha un carattere di ciclicità, tuttavia l’economia non potrà ritornare semplicemente alla struttura preesistente. Ad esempio, potrebbe il sistema finanziario ritornare al modello neoliberista? Nell’affrontare la crisi, in Europa e in America gli organismi finanziari sono stati in gran parte nazionalizzati, i governi nei vari Paesi sono intervenuti con forza nell’economia e nella finanza. Benché i governi abbiano poi cominciato a riaggiustare i loro piani di stimolo economico e a ritirarsi dal sistema bancario, è poco probabile che si possa tornare totalmente al modello preesistente.

Altri esempi: a causa della crisi ambientale, della questione energetica e del fatto che i rapporti sociali danneggiati dal precedente processo di sviluppo devono essere ricostruiti, il modello di saccheggio delle risorse che sosteneva una rapida crescita economica non è più sostenibile, mentre sono divenuti processi irreversibili quello di un aumento consistente del trattamento sociale degli operai semplici e il miglioramento progressivo delle condizioni dell’ambiente. Recentemente in America è stato posto il problema del riscaldamento globale e del risparmio delle fonti energetiche, e le questioni ambientali sono all’ordine del giorno della politica internazionale. C’è in Cina chi dice che ciò comporta il problema di un imperialismo di tipo nuovo. Usare i problemi ambientali per esercitare pressioni sul terzo mondo e sfuggire alle proprie responsabilità di paesi sviluppati è un dato reale, ma non possiamo negare l’impatto globale portato dai mutamenti climatici. Il fenomeno del riscaldamento dell’atmosfera è grave e cresce velocemente, i ghiacci dei poli e dell’Himalaya si sciolgono, alcune zone sono scomparse, altre sono in via di desertificazione, il grave inquinamento dei corsi d’acqua della Cina, la mancanza d’acqua nel nord del paese: questi sono tutti fenomeni che indicano la non sostenibilità del recente modo di vita. Per spiegare gli sforzi intrapresi dalla Cina in questo campo, Wen Jiajun nei suoi articoli basati su un lungo lavoro di ricerca ed inchiesta cita gli impianti per il riscaldamento solare dell’acqua, gli impianti a biogas usati nelle campagne, il recente primato nel campo delle tecnologie per l’uso pulito del carbone e il rapido sviluppo dell’energia eolica (ci sono tuttavia dei critici che sostengono che si tratti di uno sviluppo alla cieca) . Lo sviluppo ad ogni costo e il consumismo continuano a condizionare il modo di sviluppo e ad intralciare il miglioramento dell’ambiente.

Come abbiamo detto sopra, devono intervenire dei mutamenti importanti nell’economia orientata all’esportazione.

1 – Evitare i rischi a lungo termine nell’economia, stimolare la domanda interna per cambiare l’eccessiva dipendenza dalle importazioni, impongono un cambiamento della struttura economica. Tuttavia come stimolare la domanda interna? Come ricostruire le relazioni tra zone costiere e zone interne, tra città e campagna?

2 – Nel mercato mondializzato l’upgrading dei prodotti di esportazione corrisponde alla struttura della nuova economia globalizzata e ciò rende necessaria la scelta di porre fine in Cina alla spoliazione delle risorse del lavoro e delle risorse naturali. Tuttavia il problema è: i trasferimenti industriali che questa trasformazione comporta quali ripercussioni potrebbero avere sui rapporti tra la Cina e i paesi del terzo mondo più poveri e con una forza lavoro più a buon mercato?

3 – Con il graduale declino dell’economia americana, nel medio periodo l’economia globale conoscerà delle svolte che coinvolgeranno anche l’economia cinese, come per esempio il mutamento della posizione del dollaro americano, il rafforzamento della moneta cinese, il rafforzamento di alcune economie regionali ecc.; tutti questi probabilmente non sono normali cambiamenti ciclici, ma hanno anche carattere globale e strutturale. L’economia cinese dà segnali di uscita dalla crisi, ma senza riaggiustamenti strutturali andrà incontro a nuove crisi, dovuti all’instabilità del sistema finanziario e ai problemi sociali indotti da una nuova fase di sovrapproduzione. Ricreare un sistema di garanzie sociali, elevare il livello dei progetti per l’ambiente, stimolare l’innalzamento della struttura dell’economia, ricreare relazioni egualitarie e reciproche tra città e campagne, aumentare gli investimenti nell’educazione, riparare i guasti alle relazioni sociali causati da una concezione cieca dello sviluppo a tutti i costi, sono scelte inevitabili, a lungo termine e di struttura.

Storicamente, a una crisi di vaste proporzioni seguono mutamenti che si riflettono nel sistema sociale e nelle correnti di pensiero. Le crisi economiche, oltre a far emergere nuove politiche sociali, hanno sempre come prodotti collaterali guerre, rivoluzioni e movimenti sociali. I grandi movimenti sociali del passato, come quelli contadini, operai e di lotte di classe, sembrano mutati; ci sono guerre limitate non paragonabili alle passate due guerre mondiali; le guerre locali non hanno provocato tempeste rivoluzionarie come nel XX secolo, ma nuovi tipi di resistenza. In Cina il conflitto sulle riforme delle aziende statali si trascina da molti anni, e poiché non ha ancora trovato una soluzione efficace certi gruppi di interesse e governi locali perseguono un piano di privatizzazione forzato, che ha portato recentemente a fenomeni violenti di lotte sociali; segni acuti hanno lasciato le contraddizioni tra le nazionalità diverse all’interno del paese, legate a diversità regionali, differenze città e campagna, e differenze tra ricchi e poveri; rappresaglie sociali e mezzi violenti hanno sostituito le forme dei movimenti sociali precedenti, e non possiamo non chiederci quali misure politiche siano state alla base di queste differenze e contraddizioni. Da un punto di vista politico, crisi economica e mutazioni politiche hanno legami in parte aleatori: per esempio in America Obama è diventato presidente, promuove un progetto per garantire l’assistenza sanitaria, e che lo realizzi o no, esprime fino a un certo punto un’evoluzione di sinistra, benché i risultati finali non ispirino ottimismo. L’Europa invece va politicamente verso destra: Sarkozy, Merkel, Berlusconi ne sono un esempio, come anche le bufere politiche, non si sa se di sinistra o non di sinistra, nel partito laburista inglese. Le recenti vicende della Corea del Nord e dell’Iran sono invece il proseguimento di politiche locali. In questo contesto, come analizzare questi grandi cambiamenti? Non si tratta di cambiare questo dirigente o quel dirigente, anche se sembra progressista il suo ruolo sul piano internazionale rimarrà incerto.

Secondo me, l’effetto più positivo di questa crisi economica è il declino del dominio del neoliberismo. L’egemonia del neoliberismo si è andata affermando negli anni ’80, ha raggiunto un picco massimo negli anni ’90, ma dopo la guerra del Kosovo e dopo l’incidente dell’11 settembre il neoliberismo e l’imperialismo neo liberista hanno incontrato ovunque delle sfide e la loro egemonia è stata messa in dubbio dall’attuale crisi. Con questa crisi gli argomenti incentrati sulle dottrine economiche neoclassiche non hanno più un credito assoluto nella società. Ciò non vuole certo dire che l’influenza del neoliberismo avrà un rapido declino, né che i suoi effetti sfumeranno velocemente; in realtà questi effetti ci accompagneranno a lungo, tuttavia la sua egemonia è stata scossa radicalmente e quindi la ricerca di nuovi modelli di sviluppo è entrata in una certa misura a far parte della coscienza sociale ed è divenuta un valore politico. Queste discussioni proseguiranno, ma in un quadro di declino del neoliberismo.

Un altro cambiamento importante è intervenuto nelle relazioni regionali. Le relazioni tra potere regionale e potere mondiale sono il frutto di un lungo processo, ma la crisi economica rappresenta qualcosa di emblematico. Se si guarda alla storia del capitalismo, ogni crisi importante è seguita da un cambiamento nei rapporti di potere. L’egemonia americana si è costituita gradualmente dopo la prima guerra mondiale, quella sovietica dopo la seconda guerra mondiale, e la Guerra fredda costituiva la struttura di controllo di entrambe. Con la creazione di nuove egemonie il sistema egemonico precedente è andato declinando. Oggi non si tratta più semplicemente dell’era dell’imperialismo e del colonialismo, ma occorre analizzare i cambiamenti nelle nuove relazioni politiche regionali e nei rapporti di potere. Durante la crisi finanziaria, l’egemonia del dollaro americano non è stata radicalmente scossa, ma si è indebolita e la perdita del suo ruolo sarà un processo lungo. Quando Hillary Clinton è andata in Cina, Wen Jiabao ha espresso con franchezza la “preoccupazione” della Cina sulla sicurezza degli investimenti in America. Queste preoccupazioni dei dirigenti cinesi sono reali, e si basano sui rapporti di dipendenza economica della Cina; tuttavia, visto dall’esterno, dieci anni fa era impensabile che il dirigente di un paese in via di sviluppo potesse esprimere direttamente ad un dirigente americano la sua preoccupazione sull’affidabilità della loro moneta. Se la fiducia della Cina nei confronti dell’America vacilla, e hanno successo gli sforzi per modificare questo modello di dipendenza, ciò avrà necessariamente ripercussioni profonde sulla posizione egemonico dell’America. Prima della crisi, la riforma del sistema finanziario cinese andava in una direzione neoliberista, tuttavia durante la crisi le banche cinesi sono state quelle con il mercato valutario più alto al mondo, e il sistema bancario cinese è stato relativamente stabile; per alcuni grazie alle politiche adottate, per altri grazie alle circostanze; in ogni caso il sistema economico finanziario centrato sull’America è sotto tiro. Ci sono adesso discussioni sul fatto se esista o meno un “modello cinese”, il cui unico significato è, a mio parere, la messa in dubbio dei vecchi modelli e delle vecchie forze egemoniche; anche per questo in altre regioni si caldeggia un modello cinese più dei cinesi stessi.

Da alcune centinaia di anni i centri di potere del mondo si sono più volte trasferiti, ma sempre all’interno dell’Occidente. Questa volta tuttavia Europa e America sono di fronte a delle serie sfide, dei mutamenti sono intervenuti nella posizione dell’Asia e in particolare della Cina. L’America conserverà ancora a lungo una posizione egemone, ma non più assoluta, la sua sarà un’egemonia il declino. Con questo cambiamento ci saranno ripercussioni mondiali a lungo termine. Merita attenzione il fatto che questi cambiamenti non riguardano solo la Cina; durante una recente riunione del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) e in seguito al summit dei Sei a Shanghai sono state espresse opinioni diverse sulla mondializzazione. Le opinioni e divergenze sul BRIC sono tante, ma la sfida rivolta al vecchio mondo rimane evidente. Nel commercio estero cinese i pagamenti avvengono sempre più in renminbi, e questo nuovo modo di contabilità bilaterale ha un significato che va oltre le parti in causa, ha un valore globale e costituisce una sfida all’egemonia esistente. I problemi sollevati a proposito dei “diritti speciali di prelievo” (special drawing rights) non sono appliccabili nell’immediato, ma costituiscono un’importante segnale di cambiamento.

Con lo spostamento del centro di gravità dello sviluppo economico verso il Pacifico e l’Asia Orientale sono in atto mutamenti strutturali dei rapporti di potere mondiali. Anche se con la crisi economica lo sviluppo economico cinese si è in un certo modo raffreddato, rimane comunque quello più rapido a livello mondiale. Questa crescita è un fattore positivo per l’economia mondiale, ma in quanto mera crescita economica pone anche alla Cina non pochi problemi di riaggiustamenti strutturali. Questa forte crescita economica della Cina non è un fenomeno isolato; a confronto con altre regioni, l’intera Asia orientale sta avendo uno sviluppo rapido, e altrettanto rapidamente sta costituendo forme di integrazione economica a livello regionale. L’ascesa della Cina non equivale al fatto che possa prendere il posto degli Stati Uniti, ma lo sviluppo della Cina e di questa regione del mondo trasformano la classica disposizione dei tre mondi e contribuisce al multipolarismo. Questa crisi finanziaria è emblematica, non rappresenta un banale riaggiustamento, ma l’anello di un grande mutamento strutturale.

Merita la nostra attenzione il fatto che le precedenti strutture dell’egemonia mondiale non erano meramente di natura economica, ma costituivano una serie di relazioni socio-politiche e di valori culturali. Mentre sta già iniziando il riaggiustamento della struttura economica, i mutamenti politici e culturali richiederanno più lavoro creativo; questi nuovi modelli e nuovi rapporti sociali non nascono spontaneamente ma devono essere modellati dall’uomo. Anche se le trasformazioni strutturali portate da questa crisi sono soltanto trasformazioni dei rapporti regionali, si tratta comunque di uno spostamento dei rapporti di egemonia.

Un problema cruciale che dobbiamo discutere oggi è quale posizione internazionale vuole la Cina? Quali rapporti sociali vuole la Cina? Quale cultura politica? In altri termini dobbiamo riflettere ai rapporti tra la crisi economica di una nuova politica e con una nuova cultura. Come nel corso della prima guerra mondiale, vi fu in Cina il movimento di Nuova Cultura dal quale è nata una nuova politica, ci dobbiamo ora interrogare sulle relazioni tra crisi finanziaria e politica.

In seguito alla sua crescita economica la Cina sta cercando forme di cooperazione e mercati internazionali sempre più vasti e la sua presenza in Africa e altre regioni suscita in Occidente discussioni e inquietudini. Il problema è: in questo processo di globalizzazione dell’economia la Cina sarà in grado di trovare un’altra via di sviluppo che non sia una replica di quella praticata dall’Occidente? Questa è una sfida importante. La Cina ha avuto una tradizione internazionalista, ha dato grande importanza al destino del Terzo mondo, e il prestigio di cui gode ancora in Africa o in America Latina proviene da questa tradizione, ma nel quadro dello sviluppo del mercato e della globalizzazione potrà ancora svolgere un ruolo? L’economia capitalista è di per sé espansionista, sia nel campo internazionale che nazionale, allo scopo di soddisfare i suoi bisogni di energia e di altre risorse. In questo senso ritengo che la tradizione internazionalista debba essere riformulata, non secondo il modello rivoluzionario dal quale proviene, ma attraverso la sincera attenzione e il rispetto per l’esistenza, lo sviluppo e i diritti sociali dei paesi del terzo mondo, con la ricerca a livello mondiale di una via di sviluppo comune, ugualitaria e democratica. Se rinunciamo ad analizzare la struttura mondiale dell’egemonismo, non ci sarà possibile formulare un’analisi profonda e corretta sulla collocazione mondiale della Cina.

La questione della posizione internazionale è strettamente correlata ai cambiamenti nei rapporti interni. Che tipo di commercio e di cultura politica intende sviluppare la Cina? Quali differenze ci sono con l’egemonia di tipo americano? Deve essere diverso dal capitalismo delle origini. Sebbene il mercato svolga un ruolo importante nella politica e nella cultura, non si può lasciare che la logica di mercato si trasformi in una logica di dominio. Nel sistema economico il posto dei lavoratori deve essere innalzato considerevolmente e si deve anche migliorare l’ambiente naturale e l’ecologia. Il punto principale è la trasformazione dei rapporti tra politica ed economia, ma oggi questo è il punto di cui si discute meno. L’attuale crisi strutturale è anche la crisi del modello guida precedente, è il momento di creare una nuova politica.

La fine degli anni Novanta è marcata dall’anno 2008. Questo lungo processo post ‘89 già negli anni scorsi aveva mostrato i segni di un imminente epilogo, anche se si prolungava in parte l’influenza di quell’evento. Tuttavia col 2008 questo processo può dirsi concluso; questa conclusione a livello mondiale è segnata dalla grande crisi della linea economica neoliberista, e sul piano interno cinese da una serie di eventi: dagli “incidenti del 14 marzo” (ribellione nel Tibet), al terremoto dello Sichuan, dai giochi olimpici di Pechino alla crisi finanziaria, dall’”incidente del 5 luglio”(i disordini di Urumqi) all’anniversario dei 60 anni della Repubblica popolare cinese. All’interno della società cinese ci sono modi diversi di interpretare i rischi sociali e la posizione della Cina nel mondo, e di conseguenza i meccanismi di gestione di tali rischi in Cina hanno comportamenti diversi. Nelle società occidentali si parla dell’ascesa della Cina da un certo tempo, ma solo durante questa crisi molti hanno bruscamente capito che la Cina è un sistema economico con il quale bisogna confrontarsi, secondo solo a quello americano, il cui ritmo di sviluppo ha superato le previsioni, e con ciò ha manifestato una corrispondente fiducia in se stessa. Questa svolta così drammatica, è in parte una coincidenza, ma non è casuale. Il problema è forse questo: la società cinese rispetto a se stessa non si è ancora adattata al nuovo status che ha acquisito nella comunità internazionale; nel processo di mercato e nella globalizzazione, la società cinese ha accumulato contraddizioni e rischi senza precedenti. La posizione sempre più rilevante della Cina nell’economia globale e l’acuirsi delle contraddizioni e dei conflitti nella società cinese non si escludono l’un l’altro. Come dimostra l’esperienza di questi ultimi vent’anni, con l’attuale modello di sviluppo, la rapida crescita dell’economia non solo non è incompatibile con l’acuirsi di contraddizioni e conflitti sociali, ma tra loro si dà una stretta correlazione di causa ed effetto. Il vero significato del tema “fine degli anni ’90” consiste nella ricerca di una nuova politica, di una nuova strada e di un nuovo orientamento. Ripensare il nostro modello di sviluppo è inevitabile.

Nota: Una parte di questo testo è stata tratta dall’intervento al convegno “Sessant’anni di Repubblica e il modello cinese”, che si è svolto all’Università di Beijing alla fine del 2008, ed è stato riveduto nel mese di Settembre 2009. Traduzione di Mireille de Gouville, editing di Claudia Pozzana e Alessandro Russo.

* da Inchiesta, n. 168, 2010. ripubblicato da Tutto il notiziario - ControLaCrisi.org

Spetaktor
02-01-11, 21:36
Petrolio: nuovo oleodotto Russia-Cina
Prima infrastruttura per export energetico tra i due Paesi


Petrolio: nuovo oleodotto Russia-Cina (ANSA) - ROMA, 2 GEN - La Russia guarda ad est e rafforza la sua cooperazione energetica con la Cina con il nuovo oleodotto che, attraversando la Siberia, unisce le due potenze i cui scambi petroliferi avevano viaggiato finora solo su strada. Con il nuovo pipeline, che segna l'espansione verso est della rete russa di oleodotti, Mosca prevede di esportare 15 milioni di tonnellate di greggio l'anno nei prossimi due decenni con un flusso di 300 mila barili al giorno. Il progetto ha un costo di circa 16 miliardi di dollari.


Petrolio: nuovo oleodotto Russia-Cina - Mondo - ANSA.it (http://ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2011/01/02/visualizza_new.html_1644917262.html)

sitoaurora
06-01-11, 16:43
J-20: lo stealth cinese | My Blog (http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/?p=932)

Spetaktor
15-01-11, 11:42
3 articoli interessanti sull'Armata di Liberazione Popolare:

Una più assertiva PLA | eurasia-rivista.org (http://www.eurasia-rivista.org/7538/una-piu-assertiva-pla)

PLA, il barometro delle relazioni USA-Cina | eurasia-rivista.org (http://www.eurasia-rivista.org/7584/pla-il-barometro-delle-relazioni-usa-cina)

Marines cinesi: di meno è meglio | eurasia-rivista.org (http://www.eurasia-rivista.org/7600/marines-cinesi-di-meno-e-meglio)

EURIDICE
18-01-11, 21:03
G20: CINA, UNA POTENZA GLOBALE INSODDISFATTA / ANSA
UN BEST SELLER RIVELA INSICUREZZA E VOLONTA' DI RIVALSA
(di Beniamino Natale)
(ANSA) - PECHINO, 2 APR - Tutti i giornali cinesi aprono
oggi con la foto del numero uno cinese, Hu Jintao, che stringe
la mano al presidente americano Barack Obama in quello che tutti
sono d'accordo nel definire l' incontro bilaterale piu'
importante del vertice di Londra del G20.

La ricetta degli
autori di ''La Cina non e' felice'' per migliorare la posizione
internazionale del loro Paese e' aumentare le spese per gli
armamenti e perseguire una politica estera piu' aggressiva,
quello che chiamano ''usare la spada per proteggere gli
affari''.
(ANSA).



i Cinesi hanno per l'Africa un piano di colonizzazione su vasta scala paragonabile alla conquista europea delle Americhe o all'abortito "Generalplan Ost" del Terzo Reich. In sostanza, il problema è questo:

-La Cina vuole svilupparsi e lo sta facendo. Mentre una parte della popolazione vive con un tenore di vita accettabile già oggi, centinaia di milioni di persone sono ancora poverissime rispetto agli standard giapponesi o europei.
-La Cina è un paese enormemente sovrappopolato - nella sua porzione non desertica, quindi effettivamente abitabile. I Cinesi non sono tanti, sono TROPPI, e questo a Pechino lo sanno benissimo.
- Anche solo per portare il cinese medio ad un livello di reddito come il cittadino romeno o kazako medio, ci vuole un balzo industriale immenso, per il quale in Cina non esistono le risorse fisiche, in particolare l'ACQUA ed il SUOLO agricolo. Dove prendere queste risorse, per centinaia di milioni di persone?

Risposta: In Africa.

L'Africa è il "ventre molle " del mondo, il continente che ancora ospita popolazioni indigene non in grado di vivere nella modernità industriale (come America e Australia prima della colonizzazione), un continente senza potenze geopolitiche autoctone a presidiare stabilmente il controllo del territorio (come invece sono riusciti a fare gli Asiatici, pur tra molti problemi negli ultimi 200 anni), ma solo semi-stati post-coloniali, con la parziale eccezione del Sudafrica, il quale tuttavia, dopo la fine dell'apartheid, sta lentamente ma inesorabilmente scivolando nel caos.

Quindi: i Cinesi puntano a "spostare" una parte della loro popolazione, diciamo alcune centinaia di milioni di persone, in Africa, per creare una Cina 2.0, ricchissima di acqua, spazio, minerali. Con una eccellente posizione di accesso all'Oceano Indiano e all'Atlantico. Con diretto accesso all'Europa e al Medioriente, e proprio dio fronte al Sudamerica. Naturalmente, questo non deve avvenire dall'oggi al domani, ma gradualmente, alla cinese. Prima si costruiscono contatti e infrastrutture di base (la fase attuale), poi si cerca un controllo formale su alcuni territori (delle Hong Kong alla rovescia). Poi, in un futuro in cui tutto il discorso liberal sarà tramontato lasciando campo libero a politiche più "machiavelliche", i Cinesi potranno passare alla riduzione della popolazione indigena, con vari mezzi (malattie, guerre, carestie, quello che hanno fatto gli Europei in America, in sostanza). Un'immigrazione cinese di massa chiuderà l'opera

Spetaktor
22-01-11, 14:59
Aurora - L’ascesa della Cina: significato e implicazioni (http://sitoaurora.altervista.org/Eurasia/Cina77.htm)

Spetaktor
15-02-11, 23:52
Riarmo in Cina, egemone insoddisfatto dello status quo
Cina :::: Erica Saltarelli :::: 15 febbraio, 2011 ::::
Riarmo in Cina, egemone insoddisfatto dello status quo

E’ stato riscontrato come nell’esperienza umana sia tipico percepire un incremento del senso di insicurezza quando le minacce e le paure per cui si è abituati vengono meno, la cosiddetta perdita della ‘sicurezza ontologica’ in un sistema dove prolificano nuovi attori e scenari non sempre rientranti nella tradizionale matrice statuale[1].

Così la Cina sembra essersi conquistata, oltre lo status di grande potenza, quello di nemico, una minaccia, in grado di compromettere la stabilità globale sul breve periodo.

Riarmo in Cina, egemone insoddisfatto dello status quo | eurasia-rivista.org (http://www.eurasia-rivista.org/8304/riarmo-in-cina-egemone-insoddisfatto-dello-status-quo)

Spetaktor
15-02-11, 23:52
LA POTENZA DELL’IMPERO DI MEZZO

di Andrea Fais

http://rivistastrategos.files.wordpress.com/2011/02/hu_jintao_01.jpg?w=300&h=198

approfondimento / LA CINA NEL NUOVO ORDINE MULTIPOLARE (http://rivistastrategos.wordpress.com/2011/02/12/approfondimento-la-cina-nel-nuovo-ordine-multipolare/)

Spetaktor
28-02-11, 20:00
Chi sarà il nuovo leader del Paese di Mezzo
di Giulietto Chiesa - 27/02/2011

Fonte: megachip [scheda fonte]




Al posto di Hu ci sarà Xi. Toccherà a Xi gestire la fase in cui la Cina diverrà, a tutti gli effetti, il numero uno mondiale. La partita, sulla scacchiera del potere cinese, è arrivata alla sua penultima mossa. L’ultima non porterà sorprese. Lo scorso ottobre il Consiglio Militare Centrale della Repubblica Popolare Cinese ha fatto avanzare il signor Xi Jinping al posto di vice-presidente. Nessuno, tra quelli che seguono da vicino queste faccende, è rimasto stupito. Xi Jinping era stato da poco nominato vice-presidente di un altro, più importante organismo: il Consiglio Militare del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese. Prima il partito e poi lo Stato. Xi Jinping è ora al secondo posto in antrambi i due massimi organismi militari del paese.
Questo passo doppio “militare” è il coronamento di un analogo, e cruciale, passo doppio già realizzato nelle strutture “politiche” della Cina. Xi è infatti il Primo Segretario della Segreteria del Comitato Centrale del PCC e membro permanente del Politburò. Sopra di lui, dunque, c’è solo Hu Jintao. E, nello stesso tempo Xi è già vice-presidente della Repubblica Popolare Cinese. Anche qui, sopra di lui c’è solo Hu Jintao. La prossima e ultima mossa vedrà Xi Jinping passare al primo posto su tutte e quattro le scacchiere. Il tutto avverrà in due tappe: la prima alla fine del 2012, quando il XVIII Congresso del PCC accoglierà le dimissioni di Hu Jintao. La seconda nel marzo 2013, quando il Congresso dei Deputati del Popolo eleggerà il nuovo Presidente dello Stato, e tutto il potere sarà stato, in tal modo, trasferito.

Solo il diluvio universale, o l’avverarsi della profezia Maya, potrà cambiare queste decisioni. Potere dittatoriale di un uomo? Davvero ben strana dittatura, sarebbe. È l’esatta prosecuzione dello stato di cose presente, che vide l’avvento di Hu Jintao: un meccanismo perfetto (fino a questo momento, dalla scomparsa di Deng Xiaoping) con il quale il vertice supremo del Partito Comunista si assicura collegialmente il trasferimento del potere. Continuità e consenso interno. Xi Jinping sarà la propaggine più visibile di questo organismo collettivo. Niente più e niente meno. La procedura è cristallina, senza trucchi. Non c’è nemmeno il tentativo di fornirle un qualche maquillage.

Inutile fare confronti con le commedie che si recitano negli analoghi passaggi di mano delle democrazie occidentali dove, come sappiamo per esperienza, non è il merito o l’intelligenza che porta alla vittoria, ma l’abilità di procurarsi il denaro che la garantisce. Cioè l’abilità di vendersi al miglior offerente.

Quindi la domanda giusta da porsi è questa: come ha fatto Xi Jinping ad arrivare dove è arrivato?

Potrei sbagliare ma ho l’impressione che la dote principale per effettuare il percorso sia quella di tenere il giusto mezzo. E non è detto che questo giusto mezzo sia sinonimo di mediocrità, o di conformismo. In Cina, per lo meno. Xi Jinping, per quello che se ne sa, non è uomo banale. La sua biografia ha momenti brillanti, mostra capacità di innovazione, scelte lungimiranti e rischiose. Non ha dormito di certo e gli allori se li è procurati.

Certo il cambio generazionale sarà netto. Non solo per la differenza d’età. Xi Jinping ha 58 anni. Non risulta che parli russo. Jian Zemin, che precedette Hu Jintao, ancora lo parlava. Aveva lavorato a Mosca nella famosa fabbrica di automobili intestata a Stalin. Adesso Mosca è lontana, altra storia, sebbene il giovanotto provenga da illustri lombi rivoluzionari, essendo il figlio di Xi Zhongxun, veterano del partito e, a suo tempo, addirittura vice-premier. Papà rimase però impigliato nei gorghi della Rivoluzione Culturale e finì confinato nella lontana provincia di Henan. Dunque si può presumere che il figlio non abbia potuto godere di una infanzia particolarmente dorata.

Quelli che già hanno steso i primi rapporti biografici della giovinezza del nuovo leader segnalano che il luogo della sua origine, la provincia dello Shaanxi, è ancora oggi una delle più povere della Cina. Figuriamoci nel 1953!

Ma le cose devono essersi messe assai meglio con la riabilitazione del padre. Infatti ritroviamo Xi Jinping studente della prestigiosa università Xinhua, la stessa dove ha studiato Hu Jintao, facoltà di chimica organica. Il giovane Jinping sta dunque movendo i primi passi nella categoria dei cosiddetti “ingegneri”, qualcosa di assai simile al sistema di selezione dei quadri che era stato elaborato in Unione Sovietica durante lo stalinismo e per tutta la fase brezhneviana del cosiddetto “socialismo reale”. Cioè dirigenti politici in pectore che, per divenire tali, dovevano avere competenze tecnico-scientifiche di livello medio e superiore, in grado di farli passare attraverso esperienze di fabbrica, o di gestione politico-amministrativa di strutture produttive. I binari erano quelli. Su altri binari non si poteva salire nella scala politico burocratica. In genere i quadri con quelle caratteristiche dovevano poi passare in periferia, per farsi le ossa in condizioni particolarmente difficili. In Cina, a quanto pare, si seguono ancora queste procedure.

Ma si vede fin dall’inizio che Xi Jinping punta lontano e in alto. Se non lui, da solo, di certo chi lo guidava e consigliava. Infatti è lui stesso che si propone per fare un’esperienza nella provincia del nord di Hebei. Dal nord viene poi spostato al sud, per diventare vice-sindaco della città di Xiamen, dove si stava sperimentando con successo la creazione di una delle zone economiche speciali. Ultima delle esperienze periferiche sarà la nomina a governatore della provincia di Zhejiang. Con questo bagaglio sulle spalle, che a detta dei biografi gli valse la fama di implacabile combattente contro la corruzione, ma anche di accorto sostenitore dell’economia di mercato, Xi Jinping può ora muovere verso il centro e il vertice.

Tuttavia non è una marcia solitaria. Niente a che vedere con i miti occidentali del’uomo che si è fatto da sé. Un leader cinese, per definizione, non può e non deve “essersi fatto da sé”. S’intravvede infatti un’ascesa guidata sapientemente in nome dell’interesse collettivo dell’aristocrazia politica del Partito. L’ascensore si muove verso l’alto lungo corsie oliate dalla sapienza dei saggi che già abitano ai piani alti della torre in cui Xi Jinping ha già l’appartamento arredato. Non per niente qualcuno lo ha già definito come un “perfetto progetto cinese già realizzato”.

Per essere perfetto, appunto, deve essere centrista. Nessuna posizione estrema può essere ammessa in un contesto di tale complessità com’è la Cina in questa fase. Ed è per questo che l’agiografia preventiva del personaggio non lascia mai trapelare alcunchè che non sia “zhong”, mediano. Dunque niente di “filo-dogmatico” (cioè di troppo statalista). Niente di “filo-liberale” (nel senso di eccessiva propensione verso il libero mercato.

E nessuna propensione o sbandamento verso l’esterno. Di signifiativo, in questo senso, c’è stata una recente visita a Mosca; progettata come gesto molto misurato verso il più imprtante partner asiatico della futura Cina mondiale. Gli altri viaggi all’estero della fase preparatoria, in Corea del Nord, Mongolia, Arabia Saudita, Qatar, Venezuela (2009) possono essere considerati come allenamenti per il futuro.

Quando andò in Messico, sempre nel 2009, si distinse per una battuta che ha fatto il giro degli istituti di ricerca sinologica di mezzo mondo: “Primo: la Cina – disse Xi – non esporta la rivoluzione. Secondo: La Cina non esporta fame e povertà. Terzo:la Cina non esporta seccature. Cosa volete di più?”

Peng-Liyuanpeng_maggioreUnica concessione allo spettacolo, cui l’Occidente inclina ormai per inveterata abitudine, anche a costo di farsi ingannare dai suoi desideri, è la futura first lady cinese, Peng Liyuan, seconda moglie, cantante lirica di rara bellezza e grande fama. Il che non le impedisce di essere, al contempo, maggiore generale dell’Esercito Popolare di Liberazione.

Dunque non è detto che questo ritrattino familiare sia stato composto soltanto per uso e consumo dell’Occidente. Magari serve di più a introdurre un tratto di inedita modernità nella decisamente austera politica interna cinese (almeno di quella ufficiale che è dato conoscere ai comuni mortali).

L’ascesa preventiva di Xi Jinping, così ben calcolata, può essere interpretata in due modi opposti: o il segno di una quasi patologica preoccupazione del vertice per possibili sconvolgimenti sociali, e quindi come necessità di presentare al paese una compattezza assoluta dell’Aeropago (essendo chiaro che l’esperienza della Tien Anmen del 1989 non è stata dimenticata); oppure come il segno di una formidabile capacità di controllo fondata su un vasto consenso popolare. È un fatto, tuttavia, che tutte le prognosi occidentali di una prossima, sempre imminente, crisi interna, prodotta dalle gigantesche trasformazioni sociali e di classe, non si sono avverate.

Il motore del consenso, perfettamente visibile, è il formarsi di una classe media delle dimensioni di 100 milioni di persone, e l’accesso ai consumi di masse immense di popolo che, in un passato recente, mai avrebbero potuto neppure immaginare un tale presente. E, alle loro spalle, altre centinaia di milioni di contadini, che stanno per diventare operai, e per i quali il consumo di beni nuovi è già visibile come un prossimo futuro. Cose quasi inimmaginabili sono accadute nel corso di una sola generazione, come il dato di 325 milioni di persone che si sono trasferite dalla campagna alle città. Come la previsione, in corso di inveramento, che nel 2025 la Cina avrà otto megalopoli con popolazione superiore ai 10 milioni di abitanti: Pechino, Shanghai, Chengdu, Chongqing, Guangzhou, Shenzhen, Tianjin, Wuhan.

Ma, mentre per noi occidentali, il futuro è, al tempo stesso - in questa brusca svolta della storia umana - accumulo di angosce e accelerazione verso un cambio pieno di incertezze, per il “Paese di Mezzo” il futuro non può che avere un cuore antico. Il cambio di leadership deve essere corale, collettivo, concordato, “armonioso”, secondo le regole sincretiche di un marxismo corretto di confucianesimo.

Adesso per gli 80 milioni di membri del partito comunista cinese il compito non è più quello di agire nell’interesse dei contadini, degli operai e dei soldati, ma quello di rappresentare, anche all’ interno del partito, ciò che in lingua cinese si esprime con la formula “lao bai xin”, cioè i “cento nobili cognomi”. In altri termini l’obiettivo è il partito di tutto il popolo. Xi, come Hu, sono due dei 100 nobili cognomi, e non potrebbe essere diversamente.

E, in nome della stessa “armonia”, questa volta per non lasciar prevalere la gerontocrazia e dare spazio alla nuova generazione di “eupatridi”, non toccherà solo a Hu Jintao lasciare la sua poltrona.

Con lui se ne andranno in pensione, ordinatamente, programmaticamente, tutti i membri del Comitato Permanente del Politburò che hanno raggiunto l’età di 70 anni.

Se c’è una cosa che non si può fare a Pechino è scommettere sulla successione al potere.

Acciaio
01-03-11, 10:25
Articolo molto interessante.

Spetaktor
09-03-11, 18:00
Il Libro Bianco sullo sviluppo pacifico | eurasia-rivista.org (http://www.eurasia-rivista.org/8621/il-libro-bianco-sullo-sviluppo-pacifico)

Spetaktor
29-05-11, 19:49
“CINA CONTEMPORANEA E SOCIALISMO”

A marzo del 2011 la Cooperativa Editrice Aurora pubblicherà un libro sulla Cina contemporanea ed il socialismo, diviso in più parti e scritto da Sergio Ricaldone, Bruno Casati, Roberto Sidoli, Massimo Leoni.

Pubblichiamo uno stralcio della sezione inviataci ed elaborata da Roberto Sidoli e Massimo Leoni, intitolata “Cina: socialismo o capitalismo”.

Di Roberto Sidoli.

Di Massimo Leoni.

Capitolo I

Cina: socialismo o capitalismo?

Il processo di analisi della natura socioproduttiva della Cina contemporanea e della strategia politico- economica adottata negli ultimi decenni dal PCC (partito comunista cinese), dopo il 1976 e la morte di Mao Zedong, pone delle questioni teoriche e politiche di enorme rilievo, visto che nel gigantesco paese asiatico vive circa un quinto della popolazione mondiale e che proprio nel 2009 si è assistito ad un evento di portata eccezionale, il sorpasso della nuova superpotenza economica cinese rispetto al vecchio detentore del primato produttivo su scala mondiale, gli Stati Uniti (sorpasso in termini di parità nel potere d’acquisto dei rispettivi prodotti nazionali lordi).[1]

Per comprendere la matrice (contraddittoria, sdoppiata) socioproduttiva della Cina odierna, si deve partire dall’indagine sui suoi aspetti sociali di produzione, tenendo tra l’altro a mente che il “modello cinese” post-maoista è stato riprodotto largamente anche in Vietnam e Laos (paesi con circa 90 milioni di abitanti) a partire dal 1986, in base a decisioni prese in assoluta autonomia dai due partiti comunisti asiatici al potere.[2]

Contrariamente alle tesi diffuse in alcuni settori del movimento anticapitalistico occidentale, secondo i quali dopo la svolta del 1976/78 si sarebbe attuata una sorta di restaurazione borghese nel gigantesco paese asiatico, la “linea rossa” e le relazioni sociali di produzione/distribuzione collettivistiche risultano ancora oggi egemoni e centrali all’interno della variegata, composita e “sdoppiata” formazione economico-sociale cinese del 2000-2010.

Come punto di partenza riprendiamo alcuni recenti articoli sulla Cina di orientamento apertamente anticomunista, che forse possono servire a provocare uno shock salutare in alcuni lettori e compagni.

Il 16 novembre del 2010 J. Dean scriveva sul Wall Street Journal, la “bibbia” dei capitalisti di tutto il mondo, rilevando con preoccupazione come il governo e lo stato cinese possiedono “tutte le maggiori banche in Cina, le tre maggiori compagnie del settore petrolifero e delle telecomunicazioni, le più grandi aziende nei mass-media”. Sempre il Wall Street Journal ha notato che i beni di proprietà delle imprese statali nel 2008 equivalevano a ben 6000 miliardi di dollari, il 133% del prodotto nazionale lordo cinese di quello stesso anno ed in percentuale più di cinque volte del valore accumulato dalle imprese pubbliche (ferrovie, ecc.) francesi, il paese a sua volta più “dirigista” del mondo occidentale.

Una seconda sorpresa è arrivata il 7 luglio del 2010: un professore dell’università di Yale, Chen Zhiwu, ha rilevato sull’International Herald Tribune (pag. 18) che “lo stato cinese controlla tre quarti della ricchezza in Cina…”: il 75%, quindi, non lo 0,1% del processo produttivo del gigantesco paese asiatico.

A sua volta il giornalista Isaac Stone Fish, sulla rivista statunitense Newsweek del 12 luglio 2010, ha attirato l’attenzione sulle “imprese di proprietà statale, che dominano in modo crescente l’economia cinese…” pertanto negli ultimi anni si assiste ad un processo di incremento del peso specifico del settore pubblico all’interno della Cina, non alla sua riduzione.. [3]

Altro microshock. Il 28 settembre del 2009 il sito China Stakes rilevava che, tra l’aprile ed il settembre di quell’anno, il governo o le autorità locali della provincia dello Shanx, (la “capitale del carbone” della Cina) avevano nazionalizzato ben 2840 miniere appartenenti in precedenza ad investitori privati, autoctono o stranieri, con indennizzi di regola ritenuti da questi ultimi “insoddisfacenti”.

Tang Xiangyang, sulla rivista Economic Observer News del settembre 2009, ha preso in esame l’elenco che viene diffuso ogni anno in Cina sulle 500 principali aziende del paese, edito tra l’altro a partire dal 2002 da un organismo che comprende al suo interno anche tutte le principali imprese private, autoctone o multinazionali, che operano in esso.

Con tono sconsolato, Tang Xiangyang ha dovuto intitolare il suo articolo “I monopoli di stato dominano la top 500 della Cina”, notando subito che durante il 2008 tutte le prime 43 posizioni nell’elenco in oggetto erano occupate… da aziende, industrie e banche statali, completamente o a maggioranza in mano al settore pubblico. Le imprese private e i monopoli capitalistici, tanto decantati in occidente, svolgevano il ruolo di “cenerentola” nel processo produttivo cinese, tanto che Tang Xiangyang è stato costretto a rilevare con una certa angoscia come la più grande azienda privata cinese, la Huawei Tecnologies con base a Shenzen, occupasse solo il 44° posto nella lista; dato ancora peggiore per il povero Tang, solo un quinto e solo cento delle “top 500″ in Cina erano aziende capitalistiche, la cui percentuale sull’importo globale delle vendite ottenute nel 2008 dalle prime cinquecento imprese risultava pari a un deludente … 10%, ad un modesto decimo del reddito globale espresso da queste ultime nella Cina del 2008.[4]

Nella classifica sulle 500 imprese più grandi al mondo, inoltre, pubblicato dalla rivista Fortune nel luglio del 2010, risultano presenti 42 imprese della Cina continentale (con esclusione di Taiwan, Hong Kong e Macao): e su queste 42 (a partire dalla statale Sinopec, numero sette su scala planetaria), gigantesche aziende cinesi, risultano essere di proprietà pubblica, in tutto o in larga parte, beh…41: quarantuno società su quarantadue.

A sua volta Dick Morris, giornalista di sicura fede anticomunista, nel luglio del 2009 intitolava un suo articolo “Il socialismo non funziona nemmeno in Cina”, lamentandosi (dal suo punto di vista) che in Cina ben l’80% di tutte le attività di investimento venisse finanziata da banche statali, in tutto o in larga parte di proprietà pubblica, e che (orrore ancora maggiore) le imprese di stato cinesi esprimessero ben il 70% dell’insieme degli investimenti di capitali in Cina

Percentuale tra l’altro in crescita progressiva, protestava con vigore l’indignato Dick Morris, e che ingiustamente favoriva la “triste storia del settore socialista in Cina” sempre a giudizio del pubblicista occidentale.[5]

Quarantatre società statali ai primi quarantatre posti nella “top 500″, il 70% degli investimenti produttivi cinesi da imprese pubbliche: anche a prima vista, non si tratta certo di “residui” socioproduttivi di marca socialista dei (presunti) “bei tempi passati”.

Servono altri dati? Bene, ne troveremo altri facilmente.

Secondo l’autorevole economista statunitense Christopher Mcnally, nel 2009 le imprese statali (in tutto oppure in larga parte di proprietà pubblica) producevano circa il 60% del prodotto nazionale lordo cinese: senza tener conto del settore cooperativo, in una nazione spesso definita a torto come capitalista.[6]

Sul New Jork Times del 29 agosto 2010, Michael Wines notava infine con preoccupazione come la Cina negli ultimi anni avesse rafforzato il settore statale, tanto che delle 100 più grandi imprese cinesi quotate in borsa, affermava sconsolato il giornalista statunitense, ben 99 erano in maggioranza (quasi totale/egemoni) di proprietà statale, ed una sola invece privata e capitalista.[7]

L’egemonia contrastata della “linea rossa”, all’interno della proteiforme formazione economico-sociale cinese del 2000-2010, si compone e viene costituita innanzitutto da quattro “grandi anelli” materiali, strettamente interconnessi tra loro.

Il primo tassello socioproduttivo della “linea rossa”, nella Cina contemporanea, viene rappresentato dall’enorme ruolo e peso specifico mantenuto tutt’oggi dalle grandi imprese statali, in tutto o in larga parte di proprietà pubblica, che operano nel settore industriale e bancario, estrattivo e commerciale della grande nazione asiatica.

Il 3 settembre del 2007 il Quotidiano del Popolo di Pechino, l’organo di stampa più prestigioso del Partito Comunista Cinese (PCC), ha riportato che nel 2006 le 500 principali imprese della Cina (ivi comprese banche, settore petrolifero, ecc.) controllavano e possedevano l’83,3% del PNL cinese, in netto aumento rispetto al 78% del 2005 ed al solo 55,3% del 2001: tra questi 500 grandi colossi, 349 e quasi il 70% del totale erano di proprietà statale, in modo completo o con una quota di maggioranza appartenenti alla sfera pubblica.

Il trend generale è continuato anche nel 2009. Secondo i dati forniti il 4 settembre del 2010, l’anno precedente le prime 500 imprese cinesi avevano raggiunto un reddito operativo pari a più di quattromila miliardi di dollari, quasi il doppio del PNL italiano: di questi 4005 miliardi di dollari meno di un quinto era stato prodotto dalle imprese private, dimostrando ancora una volta l’egemonia (contrastata) del settore statale all’interno dell’economia cinese.

Sempre nel 2006 il giro di affari e le vendite delle imprese statali (completamente o in maggioranza statali) risultò di 14,9 migliaia di miliardi di yuan, su un totale di 17,5 migliaia di miliardi di yuan di vendita globale collezionati dalle prime 500 imprese, pari a circa l’85% dell’insieme del giro d’affari della ricchezza prodotta da queste ultime; visto che la quota dei “500 big”sul prodotto nazionale lordo cinese era pari al sopraccitato 83,3%, la quota percentuale delle 349 imprese statali sul PNL cinese ufficiale risultava pari al 70% ed a quasi tre quarti della ricchezza globale cinese.[8]

Nel 2008 il giro d’affari delle SOE (imprese statali cinesi, in tutto o a maggioranza) era ancora aumentato fin a quasi raggiungere i 18 migliaia di miliardi di yuan e per una quota sempre pari a circa il 70% del PNL interno, equivalente a 24,66 migliaia di miliardi di yuan nell’anno preso in esame, mentre il numero di impiegati in esse era pari a circa 35 milioni.[9]

Nel 2009 il giro d’affari della SOE superava a sua volta i 20 migliaia di miliardi di yuan, con un ulteriore e netto incremento rispetto all’anno precedente.

Anche se una parte nettamente minoritaria delle imprese statali risulta in mano ai privati, autoctoni o stranieri, come soci di minoranza, mentre una quota “sommersa” del PIL cinese non emerge dalle statistiche ufficiali, si tratta di dati assolutamente sconosciuti al reale capitalismo monopolistico di stato egemone nell’area occidentale e giapponese, segnata tra il 1979 ed il 2005 da processi giganteschi di privatizzazione delle imprese produttive statali, che hanno invece solo sfiorato in misura modesta l’economia cinese.

La principale debolezza del settore statale cinese consiste nel suo minor tasso medio di profitto rispetto alla sfera privata, autoctona o straniera. La massa di profitto ottenuta dalla SOE è passata dai 90 miliardi di yuan del 1995 fino ai 221 del 2002, balzando poi nel 2007 alla cifra di 1620 miliardi di yuan (221,9 miliardi di dollari): un incremento eccezionale, dovuto anche al doloroso processo di ristrutturazione delle imprese statali sviluppatosi tra il 1998 ed il 2006, ma che non è ancora sufficiente a far raggiungere alle SOE i margini di redditività ottenuti negli stessi anni dal settore privato, che tra il gennaio e il novembre del 2007 avevano raggiunto una massa di profitto di 400 miliardi di yuan solo nel segmento delle grandi imprese private, trascurando le medie, piccole e piccolissime imprese.[10]

Il secondo anello principale che garantisce tuttora l’egemonia contrastata della “linea rossa”, all’interno della variegata formazione economico-sociale cinese, viene rappresentato dalla proprietà pubblica del suolo cinese, che può essere concesso legalmente in usufrutto a privati solo in determinate condizioni e con l’approvazione preventiva dello stato. Ancora recentemente l’assemblea legislativa cinese ha rifiutato qualunque proposta di privatizzazione della terra in Cina: il 30 gennaio del 2007 Chen Xiwen, direttore dell’ufficio agricolo del governo centrale, dopo aver ribadito un secco diniego alle ipotesi di privatizzazione, ha notato che la terra veniva data in usufrutto ai contadini per trent’anni e che ogni ipotesi di subaffitto del suolo da parte dei contadini alle imprese industriali era pertanto da considerarsi come assolutamente illegale.[11]

Anche secondo le nuove leggi entrate in vigore dal primo ottobre 2007, la proprietà della terra in Cina si divide in due tipi fondamentali: quella statale per le aree urbane, e quella invece posseduta collettivamente dai singoli villaggi rurali nelle campagne del gigantesco paese asiatico, villaggi ed agglomerati riconosciuti come Organizzazioni Economiche Collettive (OEC), che distribuiscono l’usufrutto della terra alle famiglie contadine e/o alle cooperative di produzione agricola nei loro villaggi.

Proprio nell’ottobre del 2008, le autorità centrali hanno presentato un progetto di legge che tutelerà gli OEC dall’espropriazione di terre per i bisogni produttivi delle imprese, per nuove strade, ferrovie, ecc., consentendo allo stesso tempo alle famiglie contadine già usufruttuarie della terra un maggiore livello di protezione socioproduttiva e politica.

Il terzo segmento socioproduttivo che costituisce il mosaico della “linea rossa” in Cina è costituito dal settore cooperativo, in particolar modo dalle imprese cooperative (industriali ed artigianali) di villaggio, di proprietà di tutti gli abitanti dei villaggi o municipi interessati secondo una pratica produttiva regolarizzata da una legge del 1990.

Il Fondo Monetario internazionale (2004) ha stimato che se già nel 1980 le cooperative non agricole di villaggio impiegavano circa 30 milioni di lavoratori, nel 2003 la cifra era salita a più di 130 milioni di unità lavorative, rimanendo quasi invariata negli ultimi cinque anni e coprendo circa il 20% dell’attuale forza lavorativa cinese, anche se alcune di queste cooperative hanno perso il loro carattere originario ed hanno subito un processo mascherato di privatizzazione.

Come ha notato G. Arrighi, il momento fondamentale per il processo di sviluppo delle cooperative rurali non agricole è stato paradossalmente «l’introduzione, nel 1978/1983, del sistema di responsabilizzazione familiare, che faceva tornare il potere decisionale e il controllo sul sovrappiù agricolo alle famiglie, togliendoli alle comuni. Inoltre nel 1979, e poi ancora nel 1983, i prezzi pagati per gli approvvigionamenti di prodotti agricoli sono stati aumentati in misura significativa. Il risultato è stato un aumento importante della produttività delle fattorie e dei redditi agricoli, che a sua volta ha ringiovanito “l’antica” propensione delle comunità e delle brigate agricole a cimentarsi anche nella produzione non agricola. Tramite una serie di barriere istituzionali alla mobilità personale, il governo incoraggiava il lavoratore agricolo a “lasciare la terra senza abbandonare il villaggio”. Nel 1983, tuttavia, venne permesso ai residenti nelle aree rurali di intraprendere attività di trasporto e di commercio anche a grande distanza, alla scopo di trovare sbocchi di mercato ai loro prodotti. Era la prima volta nel corso di quella generazione che ai contadini cinesi veniva consentito di condurre affari fuori dai confini del proprio villaggio. Nel 1984 i regolamenti vennero ulteriormente addolciti, consentendo ai contadini di andare a lavorare nelle città vicine per presentare la loro opera in organismi collettivi noti come “imprese di municipalità e villaggio”.

Il risultato fu la crescita esplosiva della massa di forza-lavoro rurale impiegata in attività non agricole, dai 28 milioni del 1978 ai 136 milioni del 2003, con gran parte dell’aumento localizzato nelle imprese di municipalità e villaggio. Fra il 1980 e il 2004 le imprese di municipalità e villaggio hanno creato un numero di posti di lavoro quadruplo di quelli persi nello stesso periodo nelle città delle imprese statali o collettive. Nonostante fra il 1995 e il 2004 il tasso di crescita dell’occupazione nelle imprese di municipalità e villaggio sia stato inferiore al tasso di disoccupazione degli impieghi urbani statali e collettivi, il bilancio dell’intero periodo mostra che alla fine le imprese di municipalità e villaggio occupano ancora più del doppio dei lavoratori impiegati complessivamente nelle imprese urbane a proprietà straniera, a proprietà privata e a proprietà mista.

Il dinamismo delle imprese rurali ha colto di sorpresa i dirigenti cinesi. Come riconobbe Deng Xiaoping nel 1993, lo sviluppo delle imprese di municipalità e villaggio “fu del tutto inatteso”. Da allora il governo è intervenuto per regolare e dare una normativa alle imprese rurali e nel 1990 la proprietà delle imprese di municipalità e villaggio è stata conferita collettivamente a tutti gli abitanti del municipio o del villaggio interessato. Il potere di assumere o licenziare i direttori delle imprese fu però conferito alle autorità locali, con la possibilità di demandare tale scelta a una struttura governativa. Anche la distribuzione dei profitti è stata sottoposta a normativa, introducendo l’obbligo del reinvestimento nell’impresa di più del 50% dei profitti per modernizzare e ingrandire gli impianti e per finanziare servizi e grafiche per i lavoratori, mentre la quasi totalità di quel che resta deve essere impiegata per infrastrutture agricole, miglioramenti tecnologici, servizi pubblici e investimenti di nuove imprese».[12]

A fianco delle cooperative rurali (non agricole) di villaggio, tutt’ora esiste una grande e variegata rete di cooperative agricole ed edilizie, di consumo e/o urbane, che fanno parte della Federazione delle Cooperative cinesi, interessando in forme diverse buona parte della popolazione cinese a partire dei 10 milioni di persone che lavoravano direttamente al loro interno nel 2003.

Nel 2002 ammontavano invece a circa 100 milioni gli associati delle cooperative cinesi facenti parte dell’ Alleanza Internazionale delle Cooperative, mentre nel 2003 le 94.711 cooperative cinesi (di tutti i generi e tipologie) contavano al loro interno la “modica” cifra di 1.193.000.000 di uomini e donne, associati a vario titolo.[13]

Secondo una tesi assai diffusa nella sinistra occidentale, non sono esistite quasi più cooperative rurali in Cina dopo la morte di Mao.

Il Quotidiano del Popolo del 21 agosto 2010 (”China rural cooperatives Relp boost farmers’income”) a riportato invece che a marzo del 2010 esistevano ormai più di 270000 cooperative agricole in Cina, quasi il triplo di quelle operanti alla fine del 2008: coinvolgendo già ora decine di milioni di contadini associati alla “linea rossa”, e godendo del forte sostegno politico-economico da parte dello stato cinese.

Nel completo silenzio dei mass-media occidentali, dal 2007 nelle campagne cinesi stà ormai crescendo una gigantesca ondata cooperativa, assolutamente volontaria, la quale ha fatto in modo che all’inizio del 2010 più di un villaggio cinese su tre abbia al suo interno una cooperativa di produzione agricola: non a caso il Global Times (28 giugno 2010, “Small farrners are harvesting the big market”) ha sottolineato come sia la seconda volta, dopo il 1953/58, che i contadini cinesi su larga scala “si stiano “organizzando per lavorare assieme” e per produrre in modo cooperativo, creando un fenomeno assai importante sia su scala cinese che mondiale.

Un ulteriore tassello della “linea rossa” cinese viene costituito dal “tesorone” di proprietà statale che è stato accumulato progressivamente dopo il 1977, e cioè dalla massa enorme di valuta straniera e da titoli del tesoro esteri via via rastrellati negli ultimi tre decenni dall’apparato statale cinese.

Mentre nel 1978 le riserve valutarie statali risultavano pari solo a tre miliardi di dollari (M. Bergere), a fine giugno 2008 il “tesorone” di proprietà pubblica della Cina ha raggiunto la cifra astronomica di 1810 miliardi di dollari ed un valore pari a circa il 50% del prodotto nazionale lordo (nominale) del paese: detta in altri termini, al PNL cinese controllato dalle imprese statali va aggiunta un’altra massa enorme di denaro e risorse di proprietà pubblica convertibili in ogni momento con facilità, un’altra enorme quota di ricchezza saldamente in mano all’apparato statale ed a disposizione dei bisogni dello stato e del popolo cinese.[14]

Un “tesorone” in via di progressivo aumento che nel settembre 2010 ha raggiunto quota 2650 miliardi di dollari, risultando equivalente già ora a quasi il triplo delle riserve valutarie statali a disposizione del Giappone e superando nettamente l’intero PNL dell’Italia.

Oltre che dai “quattro anelli” principali sopra descritti,la supremazia (contrastata) del settore socialista sull’insieme dell’economia cinese viene garantita e rappresentata da numerosi altri strumenti, allo stesso tempo politici ed economici, quali:

- il possesso e controllo statale della stragrande maggioranza delle risorse naturali del paese, a partire da quelle idriche ed energetiche.

- il quasi totale monopolio statale del settore militar-industriale, spaziale e delle telecomunicazioni.

- la presenza di numerose imprese municipalizzate in quasi tutte le città cinesi, aziende possedute e controllate dagli organismi politici locali.

- la politica demografica del “figlio unico” (non applicata alle minoranze etniche del paese), con i suoi positivi riflessi sia sull’economia che sul processo complessivo di riproduzione della forza lavoro del gigantesco paese asiatico.

- il processo partigiano ed unidirezionale di concessione dei prestiti bancari, denunciato da Dick Morris: ancora nel primo decennio del ventunesimo secolo essi vengono destinati nella loro grande maggioranza a favore del settore statale e cooperativo, mentre solo per una porzione secondaria vanno alla sfera privata.[15]

- l’utilizzo del sistema finanziario principalmente al servizio dello stato, che se ne serve anche “per scopi come la lotta all’evasione fiscale”, riconosciuti persino da studiosi anticomunisti.[16]

- il progressivo aumento, negli ultimi dieci anni, della quota del PIL cinese amministrata direttamente dallo stato: percentuale passata dal 11% circa del 1998 fino al 23% del 2007.[17]

- il processo relativamente esteso di riacquisto dell’intera proprietà di alcune delle joint-ventures formatesi tra stato e multinazionali statali da parte del contraente pubblico cinese, come testimoniato da Luigi Vinci (Rifondazione Comunista) in un suo articolo sulla dinamica politico-sociale cinese.[18]

- molte delle principali multinazionali straniere che operano in Cina sono state costrette ad accettare di costruire joint-ventures alla pari (50 e 50 per cento) con aziende statali per poter operare in terra cinese, fuori dalle zone speciali: ad esempio la Volkswagen ha creato (fin dal 1984) una joint-venture paritaria con l’azienda statale SAIC che durerà almeno fino al 2030, imitata in questo senso dalla General Motors, da Microsoft, ecc

- l’intreccio spesso creatosi in Cina tra azionisti privati e proprietà pubblica/statale, all’interno di imprese apparentemente capitalistiche, a volte può ingannare. Basti pensare che se la Lenovo, una delle più importanti imprese al mondo nella produzione di computer, agli occhi occidentali rappresenta una compagnia privata, alla fine del febbraio 2008 almeno il 30% della Lenovo risultava in mano statale.

- il potere reale di fissare” dall’alto” e per via politica i prezzi di alcuni beni e servizi, come è successo nei primi mesi del 2008 per benzina , grano, latte e uova, al fine di combattere l’allora crescente inflazione (misure analoghe vennero prese nel 1996 e 2003)

- il pieno controllo statale su decisive condizioni generali della produzione quali dighe, centrali elettriche, canali di irrigazione, sistema ferroviario e stradale, ponti e sistema di internet, la ricerca scientifica ed il settore high-tech, ecc.

- il processo di creazione e riproduzione di nuovi settori produttivi attraverso l’azione statale, come sta avvenendo per la fusione termonucleare (progetto East, già in funzione), i supercomputer made in China ed il nuovo polo aeronautico civile autoctono (gestito e finanziato direttamente dalla sfera pubblica con l’erogazione della notevole somma di 19 miliardi di yuan, a partire dall’estate del 2008), le nanotecnologie e le infrastrutture per telecomunicazioni, ecc.[19]

- dal giugno 2010, il totale controllo della sfera pubblica cinese sui metalli rari, di cui il gigantesco paese asiatico è di gran lunga il maggior produttore. Nel 2009 ben il 94% del consumo mondiale degli essenziali metalli rari (antimonio,gallio, tungsteno, ecc.) proveniva dalle miniere statali cinesi, mentre già l’acuto Deng Xiaoping aveva notato verso la metà degli anni Novanta che “il Medioriente ha il petrolio, la Cina i metalli rari”

- il settore dei mass-media (dalla televisione fino agli studi cinematografici) risulta da sempre sotto il pieno controllo e di proprietà della sfera pubblica, egemonizzata dal partito comunista cinese: non esiste un Berlusconi cinese, un Murdoch cinese, ecc.

- l’economia “verde” in Cina risulta in realtà assai “rossa”: proprio recentemente è stato pubblicizzato un gigantesco piano statale, che prevede l’impiego dei fondi pubblici per cento miliardi di dollari al fine di sviluppare ulteriormente le fonti energetiche pulite, progetto definito negli USA come uno “Sputnik verde”.
[1] R. Sidoli, “Cina e Stati Uniti: il sorpasso”, in La Cina Rossa (http://www.lacinarossa.net), febbraio 2010

[2] Quotidiano del Popolo, 18 settembre 2009, “Can Chinese model be replicated? ”

[3] D. Losurdo, ” Un istruttivo viaggio in Cina”, 28 luglio 2010, in l'Ernesto Online - Rivista Comunista (http://www.lernesto.it)

[4] Tang Xiangyang, “State monopolies dominate China’s Top 500″, in Economic Observer News, 9 settembre 2009, www. eco.com.cn

[5] Dick Morris, “Socialism doesn’t work-not even in China”, 27 luglio 2009, in DickMorris.com (http://www.dickmorris.com)

[6] L. E. Eskildson, “China: SOEs produce 60% of its GDP” luglio 2010, in CPA Trade Reform (http://www.tradereform.org)

[7] M. Wines, “China fortifies state business to fuel growth”, 29 agosto 2010, in The New York Times - Breaking News, World News & Multimedia (http://www.nytimes.com)

[8] Quotidiano del Popolo, 3 settembre 2007 “Top 500 Enterprises 2006″ e 3 settembre 2006 “Top 500 Enterprises 2005″

[9] Quotidiano del Popolo, 24 gennaio 2008 “China’s state owned enterprises”; R. Sidoli, “I rapporti di forza”, cap.settimo, aprile 2009 (in I Rapporti di Forza: Home (http://www.robertosidoli.net))

[10] Quotidiano del Popolo, 24 gennaio 2008, articolo citato e 3 febbraio 2008 “Private economy develops rapidly”

[11] Quotidiano del Popolo, 30 gennaio 2007 “China says no to land privatization”

[12] G. Arrighi, “Adam Smitha Pechino”, pp. 398-399, ed. Feltrinelli

[13] www.ernac.net-coperatives, “China”; Statistiche FMI, 2004-Cina, in IMF -- International Monetary Fund Home Page (http://www.imf.org)

[14] la Repubblica, Affari e Finanza, 14 febbraio 2008, p. 3

[15] Le Monde, 13 novembre 2002 “Dossier Cina”; F. Sisci, “Made in China”, pp. 113-114, ed. Carrocci

[16] F. Sisci, op. cit., p. 113

[17] www.resistenze.org/sito/de/po/ci/poci8

[18] L. Vinci, rivista L’Ernesto, ottobre 2002

[19] la Repubblica, Affari e Finanza, 14 febbraio 2008, p. 40

“CINA CONTEMPORANEA E SOCIALISMO†| La Cina Rossa (http://www.lacinarossa.net/?p=422)

Spetaktor
29-05-11, 21:50
‎"La tragedia della Cina è stata che né una potenza occidentale né il Giappone l’hanno colonizzata almeno 300 anni fa. Questo a quanto pare l’avrebbe resa per sempre un Paese civile"

Liu Xiaobo

SimoneSSL
29-05-11, 22:33
‎"La tragedia della Cina è stata che né una potenza occidentale né il Giappone l’hanno colonizzata almeno 300 anni fa. Questo a quanto pare l’avrebbe resa per sempre un Paese civile"

Liu Xiaobo


Il «Nobel per la pace» a un campione del colonialismo e della guerra
di Domenico Losurdo

Nel 1988 Liu Xiaobo dichiarò in un’intervista che la Cina aveva bisogno di essere sottoposta a 300 anni di dominio coloniale per poter diventare un paese decente, di tipo ovviamente occidentale. Nel 2007 Liu Xiaobo ha ribadito questa sua tesi e ha invocato una privatizzazione radicale di tutta l’economia cinese.
Riprendo queste notizie da un articolo di Barry Sautman e Yan Hairong pubblicato sul «South China Morning Post» (Hong Kong) del 12 ottobre.
Non si tratta di un giornale allineato sulle posizioni di Pechino, che anzi in questo stesso articolo viene criticato per aver colpito un’opinione sia pure «ignobile» con la detenzione piuttosto che con la critica.
Da parte mia vorrei fare alcune osservazioni. Anche sui manuali di storia occidentali si può leggere che, a partire dalle guerre dell’oppio, inizia il periodo più tragico della storia della Cina: un paese di antichissima civiltà è letteralmente «crocifisso» – scrivono storici eminenti; alla fine dell’Ottocento, la morte in massa per inedia diviene noioso affare quotidiano. Ma, secondo Liu Xiaobo, questo periodo coloniale è durato troppo poco; avrebbe dovuto durare tre volte di più! Il meno che si possa dire è che siamo in presenza di un «negazionismo» ben più spudorato di quello rimproverato ai vari David Irving. Ebbene, l’Occidente non esita a rinchiudere in galera i «negazionisti» delle infamie perpetrate ai danni del popolo ebraico, ma conferisce il «Premio Nobel per la pace» ai «negazionisti» delle infamie a lungo inflitte dal colonialismo al popolo cinese! Purtroppo, in modo non molto diverso si atteggia spesso la sinistra occidentale, che si è ben guardata dal condannare l’arresto a suo tempo di David Irving e di altri esponenti della stessa corrente ancora in stato di detenzione, ma che in questi giorni inneggia a Liu Xiaobo.
Quest’ultimo, peraltro, non si è limitato a esprimere opinioni, sia pure «ignobili» (come riconosce il South China Morning Post»). Dopo aver invocato nel 1988 tre secoli di dominio coloniale in Cina, l’anno dopo è ritornato di corsa (di sua spontanea iniziativa?) dagli Usa in Cina, per partecipare alla rivolta di Piazza Tienanmen e impegnarsi a realizzare il suo sogno. E’ un sogno per la cui realizzazione egli continua a voler operare, come dimostra la sua celebrazione (in un’intervista del 2006 a una giornalista svedese) della guerra Usa per l’esportazione della democrazia in Iraq. Come si vede, siamo in presenza di un personaggio che contro il suo paese invoca direttamente il dominio coloniale e, indirettamente la guerra d’aggressione. E’ un sogno che gli ha procurato al tempo stesso la detenzione nelle galere cinesi e il «Premio Nobel per la Pace».

EURIDICE
29-05-11, 23:17
I Cinesi hanno per l'Australia un piano di colonizzazione su vasta scala paragonabile alla conquista europea delle Americhe o all'abortito "Generalplan Ost" del Terzo Reich. In sostanza, il problema è questo:

-La Cina vuole svilupparsi e lo sta facendo. Mentre una parte della popolazione vive con un tenore di vita accettabile già oggi, centinaia di milioni di persone sono ancora poverissime rispetto agli standard giapponesi o europei.
-La Cina è un paese enormemente sovrappopolato - nella sua porzione non desertica, quindi effettivamente abitabile. I Cinesi non sono tanti, sono TROPPI, e questo a Pechino lo sanno benissimo.
- Anche solo per portare il cinese medio ad un livello di reddito come il cittadino romeno o kazako medio, ci vuole un balzo industriale immenso, per il quale in Cina non esistono le risorse fisiche, in particolare l'ACQUA ed il SUOLO agricolo. Dove prendere queste risorse, per centinaia di milioni di persone?

Risposta: In Australia.

L'Africa è il "ventre molle " del mondo, il continente che ospita popolazioni numericamente irrilevanti e non in grado di competere con le grandi potenze continentali (come in America prima della colonizzazione), un continente senza potenze geopolitiche autoctone a presidiare stabilmente il controllo del territorio (come invece sono riusciti a fare gli Asiatici, pur tra molti problemi negli ultimi 200 anni).

Quindi: i Cinesi puntano a "spostare" una parte della loro popolazione, diciamo alcune centinaia di milioni di persone, in Australia, per creare una Cina 2.0, ricchissima di acqua, spazio, minerali. Con una eccellente posizione di accesso all'Oceano Indiano e all'Oceano Pacifico e proprio dio fronte al Sudamerica. Naturalmente, questo non deve avvenire dall'oggi al domani, ma gradualmente, alla cinese. Prima si costruiscono enclave (China Town) e infrastrutture di base (la fase attuale), poi si cerca un controllo formale su alcuni territori (delle Hong Kong alla rovescia). Poi, in un futuro in cui tutto il discorso liberal sarà tramontato lasciando campo libero a politiche più "machiavelliche", i Cinesi potranno passare alla riduzione della popolazione indigena, con vari mezzi (genocidio , sterminio,malattie, guerre, carestie, quello che hanno fatto gli Europei in America, in sostanza). Un'immigrazione cinese di massa chiuderà l'opera.

Spetaktor
29-05-11, 23:36
Il «Nobel per la pace» a un campione del colonialismo e della guerra
di Domenico Losurdo

Nel 1988 Liu Xiaobo dichiarò in un’intervista che la Cina aveva bisogno di essere sottoposta a 300 anni di dominio coloniale per poter diventare un paese decente, di tipo ovviamente occidentale. Nel 2007 Liu Xiaobo ha ribadito questa sua tesi e ha invocato una privatizzazione radicale di tutta l’economia cinese.
Riprendo queste notizie da un articolo di Barry Sautman e Yan Hairong pubblicato sul «South China Morning Post» (Hong Kong) del 12 ottobre.
Non si tratta di un giornale allineato sulle posizioni di Pechino, che anzi in questo stesso articolo viene criticato per aver colpito un’opinione sia pure «ignobile» con la detenzione piuttosto che con la critica.
Da parte mia vorrei fare alcune osservazioni. Anche sui manuali di storia occidentali si può leggere che, a partire dalle guerre dell’oppio, inizia il periodo più tragico della storia della Cina: un paese di antichissima civiltà è letteralmente «crocifisso» – scrivono storici eminenti; alla fine dell’Ottocento, la morte in massa per inedia diviene noioso affare quotidiano. Ma, secondo Liu Xiaobo, questo periodo coloniale è durato troppo poco; avrebbe dovuto durare tre volte di più! Il meno che si possa dire è che siamo in presenza di un «negazionismo» ben più spudorato di quello rimproverato ai vari David Irving. Ebbene, l’Occidente non esita a rinchiudere in galera i «negazionisti» delle infamie perpetrate ai danni del popolo ebraico, ma conferisce il «Premio Nobel per la pace» ai «negazionisti» delle infamie a lungo inflitte dal colonialismo al popolo cinese! Purtroppo, in modo non molto diverso si atteggia spesso la sinistra occidentale, che si è ben guardata dal condannare l’arresto a suo tempo di David Irving e di altri esponenti della stessa corrente ancora in stato di detenzione, ma che in questi giorni inneggia a Liu Xiaobo.
Quest’ultimo, peraltro, non si è limitato a esprimere opinioni, sia pure «ignobili» (come riconosce il South China Morning Post»). Dopo aver invocato nel 1988 tre secoli di dominio coloniale in Cina, l’anno dopo è ritornato di corsa (di sua spontanea iniziativa?) dagli Usa in Cina, per partecipare alla rivolta di Piazza Tienanmen e impegnarsi a realizzare il suo sogno. E’ un sogno per la cui realizzazione egli continua a voler operare, come dimostra la sua celebrazione (in un’intervista del 2006 a una giornalista svedese) della guerra Usa per l’esportazione della democrazia in Iraq. Come si vede, siamo in presenza di un personaggio che contro il suo paese invoca direttamente il dominio coloniale e, indirettamente la guerra d’aggressione. E’ un sogno che gli ha procurato al tempo stesso la detenzione nelle galere cinesi e il «Premio Nobel per la Pace».

http://www.freedomsphoenix.com/Uploads/Graphics/001-0725110909-Yao-Ming-Olympian---China.jpg

Con il governo della Repubblica Popolare Cinese!

SimoneSSL
30-05-11, 15:25
http://www.freedomsphoenix.com/Uploads/Graphics/001-0725110909-Yao-Ming-Olympian---China.jpg

Con il governo della Repubblica Popolare Cinese!

Grande Yao infiltrato dietro le linee nemiche!:gluglu:

Spetaktor
11-06-11, 00:05
Diego Angelo Bertozzi, La Cina da Impero a Nazione
:::: Redazione :::: 1 giugno, 2011 :::: Email This Post Print This Post
Diego Angelo Bertozzi, La Cina da Impero a Nazione

IN USCITA IL NUOVO SAGGIO DI DIEGO BERTOZZI: CAPIRE IL “SECOLO DELLE UMILIAZIONI” PER CAPIRE LA CINA

TITOLO: La Cina da Impero a Nazione – dalle guerre dell’oppio alla morte di Sun Yat-sen (1840-1925)

AUTORE: Diego Angelo Bertozzi

PREFAZIONE: AndreaFais ( La cina tra patriottismo e internazionalismo: dallo sviluppo nazionale alla proiezione strategica )

EDITORE: Edizioni Simple

ANNO: 2011

PREZZO: 14 euro PAGG: 159

ISBN: 978-88-6259-383-0

Per ordini e prenotazioni: ordini@edizionisimple.it

tel.: 0733265384

Un saggio interessantissimo quello di Diego Bertozzi, giovane autore bresciano, dottore in scienze politiche e studioso del complesso panorama storico-politico della Cina. Dopo una breve introduzione e presentazione delle ragioni analitiche fondamentali dell’opera, il saggio si snoda attraverso quattro capitoli principali, che ci consentono di ripercorrere con assoluta dovizia di particolari, il cosiddetto «secolo delle umiliazioni», ossia quei circa cento anni in cui l’immensa nazione orientale cadde in rovina, vittima del colonialismo occidentale e dell’imperialismo nipponico. Dalle complesse trame delle guerre dell’oppio alle rivolte dei Taiping, dalla corruzione dell’apparato burocratico dell’Impero alla sollevazione nazionalista di Sun Yat-sen, il massiccio contributo dell’autore costituisce una delle più lucide e disincantate analisi della Cina moderna, finalmente lontana dall’enfasi retorica ed ideologica, spesso opprimente in Occidente soprattutto negli Anni Sessanta e Settanta, allorquando la definitiva fase di decolonizzazione avviata in alcune aree del Terzo Mondo, innescò un clima trionfalistico accecante ed illusorio, specialmente per effetto dei frettolosi e fin troppo generici tentativi di comparazione storica tra XIX e XX secolo e di comparazione geopolitica tra aree del pianeta in realtà enormemente diverse tra loro. Quella di Bertozzi è una ricostruzione di grande spessore saggistico, capace non soltanto di coinvolgere l’aspetto storico in sé, ma anche di costituire un validissimo supporto per chiunque voglia conoscere più da vicino le vicissitudini del Celeste Impero. La Cina da Impero a Nazione rappresenta, infatti, uno strumento di rara precisione analitica, ai fini della comprensione del complesso e multiforme sentimento nazionalistico cinese, sin’anche ai suoi più recenti sviluppi attraverso l’epopea rivoluzionaria di Mao Zedong e della Repubblica Popolare nella sua totalità.

Spetaktor
17-07-11, 14:11
approfondimento / CINA-IRAN: IL PATTO DI FERRO (http://rivistastrategos.wordpress.com/2010/04/05/cina-iran-il-patto-di-ferro/)

EURIDICE
08-12-11, 16:30
.

EURIDICE
10-12-12, 02:47
up

M.V.Frunze
13-03-13, 12:13
La Cina non abbandona la Corea democratica, nonostante il sostegno alle sanzioni

La Cina dice che non abbandonerà la Corea democratica e che le sanzioni non sono la ‘strada fondamentale’ per risolvere i problemi relativi alla Corea democratica nonostante il sostegno di Pechino alla recente risoluzione delle Nazioni Unite contro Pyongyang. Il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi ha detto, in una conferenza stampa, che il sostegno di Pechino di una nuova serie di sanzioni Onu contro Pyongyang non deve essere interpretato come un radicale cambiamento nell’atteggiamento della Cina verso la Corea democratica. “Noi crediamo ancora che le sanzioni non iaono il fine delle azioni del Consiglio di Sicurezza, né le sanzioni la strada fondamentale per risolvere le questioni rilevanti“, ha detto ai giornalisti il ministro degli Esteri cinese........
[CONTINUA A LEGGERE: ]La Cina non abbandona la Corea democratica, nonostante il sostegno alle sanzioni - Stato & Potenza (http://www.statopotenza.eu/6343/la-cina-non-abbandona-la-corea-del-nord-nonostante-il-sostegno-alle-sanzioni)

M.V.Frunze
14-03-13, 16:57
LE MOSSE DELLA CINA NEL SETTORE DELLA DIFESA
3 gennaio, 2013


http://www.morningwhistle.com/uploadfile/2012/1025/20121025051850346.jpg

Con il Congresso andato in archivio lo scorso mese di novembre, il Partito Comunista Cinese ha ridefinito le sue gerarchie e i suoi quadri, assegnando le nuove cariche in seno al Comitato Centrale. Non appena il neoeletto segretario generale Xi Jinping assumerà l’incarico di presidente della Repubblica Popolare al posto di Hu Jintao, la nuova composizione del governo prenderà forma in maniera definitiva. Nel frattempo, il futuro presidente ha già ricevuto la nomina alla presidenza della Commissione Militare Centrale, duplice organo supremo (del Partito e dello Stato) per quanto riguarda il settore difensivo e strategico. Vista la sostanziale sovrapposizione tra le due diramazioni – quella del Partito e quella dello Stato – Xi Jinping, in attesa dell’insediamento previsto per il prossimo marzo, potrà valutare e indicare i nuovi quadri della Commissione Militare Centrale del Partito Comunista Cinese, che andrà a dettare la composizione della Commissione Militare Centrale della Repubblica Popolare Cinese. Ambedue gli organismi, come da prassi, saranno presieduti da Xi Jinping. Hu Jintao, infatti, ha rinunciato al diritto di mantenere la presidenza della Commissione Militare Centrale per altri due anni, lasciando al suo vicario un ampio margine di manovra.
C’è molta attesa nelle file degli alti gradi dell’Esercito Popolare di Liberazione prima di conoscere il nome del nuovo ministro della Difesa, che andrà a sostituire il generale Liang Guanglie, ormai prossimo al ritiro per sopraggiunti limiti di età (73 anni). Sebbene non siano da escludere sorprese o clamorose novità dell’ultimo momento, i “candidati” in lizza per la sua sostituzione sono sostanzialmente soltanto due: il generale Fan Changlong, attuale capo del Comando Militare Regionale di Jinan, e il generale Xu Qiliang, comandante in capo uscente dell’Aviazione Nazionale dell’Esercito Popolare di Liberazione. Durante lo scorso mese di novembre, entrambi sono stati promossi al grado di vicepresidenti della Commissione Militare Centrale(1), sostituendo rispettivamente il generale Guo Boxiong (71 anni) e il generale Xu Caihou (71 anni) nei due posti riservati ai militari delle tre cariche di vicepresidente, dove l’ultima spetta ad un dirigente politico (solitamente al vicepresidente della Repubblica Popolare Cinese). È perciò presumibile che, come da tradizione, uno dei due occuperà la carica più importante presso il dicastero della Difesa a partire dal prossimo mese di marzo. Non è possibile tirare le somme troppo in fretta, anche perché a certe regole consolidate non mancano le eccezioni, quali ad esempio quella relativa all’attuale ministro della Difesa, il generale Liang Guanglie, che non è mai stato vicepresidente della Commissione Militare Centrale bensì ne occupa un semplice posto di membro.......
CONTINUA A LEGGERE: LE MOSSE DELLA CINA NEL SETTORE DELLA DIFESA | eurasia-rivista.org (http://www.eurasia-rivista.org/le-mosse-della-cina-nel-settore-della-difesa/18342/)

M.V.Frunze
14-03-13, 17:00
INFORMAZIONE, COMUNICAZIONE E CULTURA. COSÌ PECHINO SFIDERÀ L’EGEMONIA STATUNITENSE
8 marzo, 2013


http://hothardware.com/newsimages/Item19327/uercom.jpg

Uno dei più importanti strumenti nelle relazioni internazionali dei nostri giorni è il soft-power e in generale tutto quanto collegato alla sfera della comunicazione e dell’attrattiva culturale. A partire dalla fine degli anni Ottanta, l’informazione e la comunicazione sono diventati fattori sempre più importanti all’interno delle strategie politiche delle maggiori nazioni. Molti analisti sono soliti riferirsi alla Guerra del Golfo come all’inizio di una nuova epoca. Per la prima volta nella storia dell’umanità, infatti, una guerra fu completamente filmata e proposta dal vivo in diretta televisiva. Il significato del termine “guerra simultanea” divenne immediatamente chiaro, non soltanto per la contemporaneità tattico-operativa tra le tre classiche dimensioni del conflitto moderno (terra, aria e mare) ma anche per l’integrazione, sempre più evidente, tra la guerra e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Come per qualsiasi trasformazione nell’alveo del pensiero strategico, anche in quel caso la pratica anticipò la teoria e le nuove condizioni storiche produssero una delle più discusse teorie dei nostri tempi: quella del network-centric warfare.
Nel loro libro del 1999 Network-Centric Warfare. Developing and Leveraging Information Superiority, David Alberts, John Gartska e Fred Stein definirono l’era informatica come un’era dove «le armi non sono i soli strumenti del potere», poiché «l’informazione, come si è spesso osservato, è potere […] le tecnologie informatiche stanno oltremodo migliorando la nostra capacità di acquisire e memorizzare dati, elaborandoli ed analizzandoli per creare informazione e distribuirla su larga scala». In poche parole, «l’informazione si sta trasformando da prodotto relativamente raro in uno abbondante; da bene costoso sta diventando assolutamente economico; da risorsa sottoposta al controllo di pochi sta diventando un mezzo quasi universalmente accessibile». Malgrado un generale ottimismo, i tre autori sollevarono anche diversi dubbi circa i possibili pericoli principali collegati a queste nuove condizioni storiche, quali ad esempio la proliferazione delle armi di distruzione di massa nel mondo, l’emersione di nuove imprevedibili minacce in termini di sicurezza collettiva e il crimine informatico.........
CONTINUA A LEGGERE: INFORMAZIONE, COMUNICAZIONE E CULTURA. COSÌ PECHINO SFIDERÀ L?EGEMONIA STATUNITENSE | eurasia-rivista.org (http://www.eurasia-rivista.org/informazione-comunicazione-e-cultura-cosi-pechino-sfidera-legemonia-statunitense/18616/)