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Visualizza Versione Completa : Contro il feticismo e il culto del lavoro



GILANICO
18-05-21, 15:11
di Paolo Mottana

Il lavoro è il grande imperativo. Esaurita e vituperata oltre ogni limite (anche da molti dei suoi protagonisti ahimè) la controcultura degli anni Sessanta e Settanra, nessuno osa più criticare quello che a buon diritto si può considerare il ritrovato e unanimemente plaudito mito del lavoro, anzi il feticismo del lavoro.

Tutti vogliono lavorare (anche nelle condizioni di sfruttamento più spaventose), la mancanza di lavoro precipita in uno stato di prostrazione con aggiunta di senso di colpa e frustrazione che ha pochi rivali. Non solo: quando lo si ha, se ne vuole di più, la gara a riempire la propria agenda di impegni è, senza ombra di dubbio, una delle gare più spietate e brutali. La sbirciatina che il collega getta sulla tua agenda, sperando che si riveli semivuota, è inevitabile. Per quanto mi riguarda, concedo molte soddisfazioni ai colleghi. E temo di non riuscire a far loro capire che, per me, si tratta di un motivo di vanto.

Questa è la situazione, su cui bivaccano i manipoli del fascismo culturale che promuovono la nostra vita all’incontrario, nella quale le esigenze dell’economia e la gogna del lavoro sono considerati gli unici parametri in base ai quali regolarsi. Chi non ha lavoro non è solo un disoccupato o inoccupato ma anche un reietto. Lavorare non “stanca” più, lavorare è un imperativo etico, sociale e persino estetico. Il lavoro rende liberi e belli. Evviva. Il lavoro è una religione, come dice bene Antonio Saccoccio (in Sopravvivere alla maturità. Il colloqui finale, Avanguardia 21 Edizioni).

Certo, qualcuno arcignamente mi obietterà che criticare il lavoro, in modo poi così generico, è non solo stantìo, ma anche ingiusto, considerato che senza lavoro non si campa. Considerato che il lavoro fornisce l’autonomia, è il fondamento della “cittadinanza”. Vero. Ma senza critica, una critica serrata, spietata, anche solo la remota possibilità che si possa intravedere all’orizzonte una società dove il lavoro, quello “alienato”, si intende, possa ridursi, sarà sempre più inverosimile.

Certo, una quota di lavoro alienato dovrà, e a giusto titolo, essere distribuita come impegno sociale, a carico di tutti (pena l’essere non socialmente legittimati, come spiegava bene André Gorz), ma è del tutto chiaro che il lavoro umano è sempre meno necessario e che per renderlo tale occorre continuamente inventarlo o inventare crisi che simulino la sua mancanza: il lavoro, sembra incredibile doverlo dire ancora, lo fanno ormai in larga misura le macchine. Ed è necessario arginare quel mostro divoratore che è l’imperativo della “crescita”, su cui è fondata in larga misura la produzione di merci e lavoro del tutto superflui.

Se le cose si allineassero con la costellazione dei nostri bisogni più autentici, al centro delle nostre preoccupazioni dovrebbe esserci un ben altro tipo di lavoro, lavoro creativo, autodeterminato. Di quello, un lavoro non retribuito, gratuito, frutto della pura volontà di creare, di agire – stante la congiuntura sulle cui logiche fittizie agisce l’ideologia di questo decrepito capitalismo -, si parla invece sempre pochissimo. Il lavoro lavoro, quello che garantisce ricavi ai “padroni”, quello invece continua a ricattarci, sottomettendoci alle sue sempre più raffinate tecniche di sfruttamento, di soggiogamento, di condizionamento profondo. Ma soprattutto al furto sistematico delle nostre vite e del nostro tempo che, come noto (ai più lucidi), è l’unica autentica ricchezza cui si possa seriamente aspirare. Tempo da scegliere e da dedicare a ciò che si ama, che ci appassiona, che ci soddisfa. Solo pochissimi privilegiati (a spese degli altri), o vagabondi e obiettori consapevoli spesso emarginati (sotto osservazione e pronti ad essere “recuperati” dai servizi sociali), oggi hanno la possibilità di esercitare la libertà di disporre di gran parte del proprio tempo. Tutti gli altri sono schiavi, schiavi anzitutto dell’ideologia dominante ma poi però drammaticamente di sé stessi, dei propri complessi, della propria avidità e della terribile congiuntura che li vede incapaci di reggere un pensiero che non sia già in partenza castrato dalle ovvietà del conformismo globale.

Lavorare meno, lavorare tutti, lavorare meglio. E poi: non lavorare. Occorre ancora una volta rivolgersi a chi, da secoli, e specie da quando il lavoro, con l’avvento della civiltà industriale, è diventato quello che è oggi, cioè, paradossalmente, un valore (mentre non lo è stato pressocchè mai in alcuna altra civiltà compresa la nostra, almeno fino a che il fare non è stato sottoposto alla legge infernale del profitto), lotta contro il lavoro, per spezzare il suo rinato feticismo e per esigere ciò che ci è dovuto: il nostro tempo, la nostra libertà, il nostro desiderio. Da Gorz a Vaneigem, da Hakim Bey a Marcuse a Russell a Illich, da Kropotkin al “Gruppo Krisis”, da Nietzsche a Lafargue al recente Philippe Godard (Il non-lavoro è un modo di fare la rivoluzione? No, di viverla), occorre dire basta al culto del lavoro e rivendicare ancora una volta e poi ancora il “tempo liberato”, una (anti)pedagogia del “tempo liberato” che si muova violentemente in antitesi con l’ideologia massiccia che, dalle organizzazioni sociali alle imprese, alle istituzioni, ai ministeri, ci vuole inchiodare alla ruota del supplizio che da sempre, e non a caso, si chiama lavoro. Un tempo liberato che non emargini, tempo di tutti, tempo di vita, tempo di integrazione, tempo festivo, tempo di intense passioni.

Occorre rovesciare un mondo fondato sulle esigenze dell’economia e sostituirlo, al più presto, con un mondo fondato sul desiderio, il desiderio irrinunciabile di riappropriazione, di godimento del proprio tempo. “si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’ amare, all’odiare” (F.Nietzsche).

* Docente di Filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca, ha insegnato Filosofia immaginale e didattica artistica all’Accademia di Brera e si occupa dei rapporti tra immaginario, filosofia e educazione. Scrive un blog dal titolo Controeducazione (dove è stato pubblicato questo articolo). Tra le sue pubblicazioni: Formazione e affetti (Armando, 1993); Miti d’oggi nell’educazione. E opportune contromisure (Franco Angeli 2000); L’opera dello sguardo (Moretti e Vitali, 2002); Piccolo manuale di controeducazione (Mimesis, 2012); Cattivi maestri. La controeducazione di René Schérer, Raoul Vaneigem e Hakim Bey (Castelvecchi, 2014).

DA LEGGERE
Il rifiuto creativo dell’ideologia del lavoro

Chris Carlsson La vita moderna ha per fulcro il lavoro salariato. L’agenda neoliberale e l’etica protestante hanno speso molte energie per una campagna ideologica con cui fare del lavoro il centro di tutto, la strada per accedere al credito e ai beni di consumo. Quel mondo è in crisi. Sempre più persone quando non sono al lavoro a fare soldi, sono impegnate duramente su progetti che hanno scelto, in cui possono creare e, lavorando gratuitamente, smettono di sostenere l’ideologia del lavoro. Capita, ad esempio, negli spazi di riparazione di bici fai da te, negli orti comunitari, nei progetti di software libero indipendente che il mercato, infatti, vorrebbe fagocitare. Ma quando la vita quotidiana si basa su “collettività orizzontali autogestite nei luoghi di lavoro, nel vicinato, nelle scuole, città”, spiega Chris Carlsson, la trasformazione sociale è profonda

Cosa vuoi fare da grande?

Michael Zezima È la domanda più comune che ci viene rivolta da bambini. Presuppone che siamo qualcuno soltanto in quanto lavoratori. Il più grande scrittore che si è scagliato contro questa idea probabilmente è Charles Bukowski

Smettiamola di preoccuparci del lavoro

Francesco Gesualdi La domanda giusta da porci non è come si fa a creare lavoro, ma come si fa a garantire a tutti una vita dignitosa. Qualche risposta la offrono la riduzione dell’orario di lavoro, gli scambi non monetari, l’autogestione delle cooperative

Lavorare meno e viver meglio

Florent Marcellesi Nei movimenti spagnoli di resistenza all’austerity si ragiona della proposta di riduzione dell’orario di lavoro a ventuno ore e di reddito di cittadinanza. I lavoratori vanno tutelati ma l’idea di lavoro va ripensata. Attività domestiche, di volontariato, artistiche, sociali: c’è vita oltre la crescita

Dalla precarietà alla convivialità

Gustavo Esteva e Irene Ragazzini Pezzi di società latinoamericana mettono in discussione le condizioni di precarietà costruendo relazioni di mutuo soccorso e solidarietà tra buen vivir e convivialità. Un lungo saggio le analizza e le confronta con il contesto europeo

Il non-lavoro è un modo di fare la rivoluzione? No, di viverla

Philippe Godard Abbiamo interiorizzato il lavoro da non poterlo più mettere in discussione, se non ragionando sul senso della vita. Ebbene, è ora di farlo

Trabajar menos, vivir más: un tema per archeologi?

Eduardo Galeano Il grande scrittore-uruguayano ragiona sul tema del lavoro. Storie e analisi su come ovunque le conquiste operaie vengono gettate nella spazzatura. Galeano dice anche che è il momento per ridurre il tempo di lavoro e ampliare gli spazi di libertà

Decrescita e diritto del lavoro

Serge Latouche Un punto di vista critico, da un blog dedicato al pensiero di Serge Latouche. La riduzione drastica del tempo di lavoro costituisce una prima protezione contro la flessibilità e la precarietà.

Fonte:

https://comune-info.net/contro-feticismo-lavoro/

Blake
18-05-21, 19:32
la cosa grave non è tanto il lavoro in se (un artigiano può lavorare 12 ore al giorno per passione),la cosa grave è che nel terzo millennio esista ancora il lavoro sotto padrone

GILANICO
18-05-21, 23:52
Anche, è vero, con la differenza che un artigiano non ha padrone, essendo lui il padrone di ste stesso, e poi bisogna sfatare quanto basta il lato della passione, dal momento che può lavorare anche 12 ore al giorno, ma il fine unico è il guadagno economico.
Quindi un altro punto interessante non è tanto il lavoro in sè, ma il lavoro associato unicamente e solo esclusivamente al guadagno, al ricavato, al produrre con il solo scopo del profitto.

Gian_Maria
19-05-21, 12:33
Anche l'artigiano ha un padrone: il mercato.

GILANICO
19-05-21, 13:03
Il mercato più che essere un padrone reale rimane una cosa con la quale l'artigiano deve fare i conti, ma senza che esso lo possa sottomettere, schiavizzare o sottopagare.
Il padrone delle partite IVA è lo Stato, attraverso le imposte che esso gli impone. Ma anche qui, rimane una figura che non è davvero presente, a meno che essi non decidano di non pagare più le tasse, a quel punto si materializzano gli autoritari legislatori, sotto forma di guardia di finanza.

Gian_Maria
19-05-21, 14:12
Il mercato più che essere un padrone reale rimane una cosa con la quale l'artigiano deve fare i conti, ma senza che esso lo possa sottomettere, schiavizzare o sottopagare.
Ma stai scherzando?

GILANICO
19-05-21, 14:20
Affatto, non scherzo mai su certe cose.

La pensi in maniera differente da me, bene, anzi benissimo.

Che vuoi che ti dica?

Di certo non cambio idea difronte al primo che non la pensa come me, ma neppure al secondo o al terzo.

GILANICO
19-05-21, 14:23
Per non parlar del fatto che buona parte di questi artigiani ti propongono sempre di pagare in nero, ed in culo alle logiche di mercato, come si suol dire. Quindi di cosa stiamo parlando se i prezzi in nero li decidono loro? Della fuffa più assoluta.

Lèon Kochnitzky
19-05-21, 15:35
la cosa grave non è tanto il lavoro in se (un artigiano può lavorare 12 ore al giorno per passione),la cosa grave è che nel terzo millennio esista ancora il lavoro sotto padrone

concordo. solo che alcuni ti dicono: ma l'operaio o l'impiegato chi li fa?
...

GILANICO
27-05-21, 12:25
Facendo finta che quel che vi sia scritto nei testi sumero accadici possa in qualche maniera essere veritiero:

https://s33.postimg.cc/9qm1x741r/annunaki.png

Fino a che punto gli esseri umani possano essere definiti realmente vivi al pari dei loro creatori?

La loro vita è solo un facsimile della vita reale dei precursori. Si che essi furono fabbricati appositamente con l'impostazione del lavoro, per fare in modo che essi si sostituissero al lavoro dei precursori.
In pratica non sono realmente vivi, ma neppure hanno un libero arbitrio: sono stati progettati sia per lavorare e sia per fare la guerra.

Sotto certi punti di vista i fabbricati stanno facendo la stessa identica cosa dei loro fabbricatori, ovvero creare delle macchine autonome che sostituiscano gli operai umani (creati dai precursori), con lo scopo di far gravare su loro il duro lavoro.

Per quanto si possa essere contro il feticcio e il culto del lavoro, sempre facendo finta che sia vero quel che c'è scritto, non riusciremo mai ad andare oltre, poichè il culto del lavoro è strettamente interconnesso con la pre impostazione degli stessi esseri umani, si che non serve ad altro che alimentare la necessità di lavorare.
Essendo stati fabbricati appositamente per questo, essi non lavorano per vivere, ma vivono per lavorare, poichè questo è il loro scopo e lo scopo per il quale sono stati creati.

Persino la riproduzione è strettamente interconnessa con queste due funzione primarie predisposte, visto che ogni essere umano che viene al mondo non diverrà altro che strumento di forza lavoro e bellica.

Se è vero che siamo stati creati come può il creato essere più vivo dei creatori?

GILANICO
27-05-21, 12:44
Difatti l'umano inoccupato viene percepito dalla stessa società come un peso, un nullafacente un reietto, oltre che come un parassita.

GILANICO
29-05-21, 14:03
Facendo finta che quel che vi sia scritto nei testi sumero accadici possa in qualche maniera essere veritiero:

https://s33.postimg.cc/9qm1x741r/annunaki.png

Fino a che punto gli esseri umani possono essere definiti realmente vivi al pari dei loro creatori?

La loro vita è solo un facsimile della vita reale dei precursori. Si che essi furono fabbricati appositamente con l'impostazione del lavoro, per fare in modo che essi si sostituissero al lavoro dei precursori.
In pratica non sono realmente vivi, ma neppure hanno un libero arbitrio: sono stati progettati sia per lavorare e sia per fare la guerra.

Sotto certi punti di vista i fabbricati stanno facendo la stessa identica cosa dei loro fabbricatori, ovvero creare delle macchine autonome che sostituiscano gli operai umani (creati dai precursori), con lo scopo di far gravare su loro il duro lavoro.

Per quanto si possa essere contro il feticcio e il culto del lavoro, sempre facendo finta che sia vero quel che c'è scritto, non riusciremo mai ad andare oltre, poichè il culto del lavoro è strettamente interconnesso con la pre impostazione degli stessi esseri umani, si che non serve ad altro che alimentare la necessità di lavorare.
Essendo stati fabbricati appositamente per questo, essi non lavorano per vivere, ma vivono per lavorare, poichè questo è il loro scopo e lo scopo per il quale sono stati creati.

Persino la riproduzione è strettamente interconnessa con queste due funzioni primarie predisposte, visto che ogni essere umano che viene al mondo non diverrà altro che strumento di forza lavoro e bellica.

Se è vero che siamo stati creati come può il creato essere più vivo dei creatori?

Difatti l'umano inoccupato viene percepito dalla stessa società come un peso, un nullafacente un reietto, oltre che come un parassita.



Piccole correzioni.:encouragement:

GILANICO
30-05-21, 10:39
Diciamo che questa rivoluzione robotizzata delle grandi industrie non ha come obbiettivo primario l'alleggerimento del duro lavoro per gli operai, cosi come fecero i precursori fabbricando il prototipo umano per alleggerire il lavoro dei cosiddetti Dei, ma è una scelta prettamente egoistica indirizzata al profitto e al risparmio.

Un robot automatizzato lavora più di un operaio umano, non fa soste, non si ammala, ed è più preciso e produttivo. Quindi fa guadagnare soldi in poco tempo, oltre al risparmio economico dovuto proprio al fatto che il robot non percepisce uno stipendio mensile..

Gli industriali se ne sbattono le palle degli operai umani, cosi come i precursori se ne sbattevano della forza lavoro umana fabbricata appositamente in sostituzione della forza lavoro degli Dei.

Non li consideravano al pari loro, perchè in effetti non lo erano.

I primi erano realmente vivi, mentre i secondi, fabbricati, avevano come unico scopo e fine il lavoro, essendo stati creati per questo e basta..

Ucci Do
31-05-21, 12:27
Silvano Agosti è già stato postato?

GILANICO
31-05-21, 12:30
Silvano Agosti è già stato postato?

Mi cogli impreparato. Non so chi sia questo Silvano Agostini.

Ucci Do
31-05-21, 12:45
Mi cogli impreparato. Non so chi sia questo Silvano Agostini.

Youtubalo e lo amerai.


https://youtu.be/AlQseedadSQ

Io mi emancipai da Agosti in tempo utile...

��

GILANICO
31-05-21, 13:08
Azz mi hai fatto scoprire una grande persona, ti ringrazio.

Ordino subito il libro in biblioteca.:encouragement: