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    Predefinito Giovanni Spadolini: un italiano



    Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)



    In “Nuova Antologia”, a. CXXIX, fasc. 2191, luglio-settembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp. I-VIII.



    “Quando non ci sarò più, sulla tomba voglio solo il nome e cognome, seguiti dalla data di nascita e di morte, e sotto una sola parola, che racchiude intero il senso della mia vita: UN ITALIANO”. Così mi ripeteva Spadolini in momenti di serena malinconia, quando il suo pensiero andava al di là dei cipressi di Pian dei Giullari, e degli ulivi, che si intrecciano fra loro in quel tipico paesaggio toscano che dal colle di Arcetri scende in dolce pendio verso via Pietro Tacca, per risalire poi al piazzale Michelangelo e alla chiesa di San Miniato al Monte, proprio di fronte al giardino della sua villa-biblioteca.
    Inizialmente, qualche anno fa, Spadolini aveva espresso il desiderio di essere sepolto là, nel terreno che circonda la villa, il più vicino possibile ai suoi libri. Erano insorte difficoltà per i regolamenti delle USL (occorrevano ettari di terreno senza abitazioni intorno e non so che altro), di fronte alle quali la rinuncia del senatore, che non voleva né forzature né privilegi, era stata immediata. La scelta allora non poteva cadere che su San Miniato, il cimitero monumentale che conserva nella cappella di famiglia le spoglie mortali dei genitori, il pittore Guido, medaglia d’oro, caduto in operazione di soccorso sotto i bombardamenti del’11 marzo 1944, e la madre Lionella.
    Su iniziativa del sindaco Giorgio Morales e della giunta di palazzo Vecchio, il Comune di Firenze ha deliberato mesi fa la donazione di un pezzo di terra, nel giardinetto prospicente la sua stessa cappella di famiglia, dove sono sepolti i fiorentini illustri, quali Pratolini e Annigoni, e dove andrà pure la salma di Mario Cecchi Gori.
    “Un italiano”. La scelta di quella semplice parola aveva un preciso richiamo storico: si tratta dello pseudonimo che nascondeva il nome di Giuseppe Mazzini, negli scritti pubblicati nell’ “Antologia” di Giovan Pietro Vieusseux, fra 1828 e 1831…
    “Un italiano”. Un legame costante con l’ “Antologia” e con la “Nuova Antologia”. Questo fascicolo dal numero particolarmente elevato di pagine è stato “licenziato” per la stampa dal direttore, Giovanni Spadolini, domenica 31 luglio, quattro giorni prima della sua improvvisa scomparsa, che ha suscitato il più profondo cordoglio dell’intero paese e in particolare dei collaboratori e amici della “Nuova Antologia”.
    Per questo, come vicedirettore responsabile – d’intesa col consiglio di amministrazione della Fondazione Nuova Antologia (di cui Spadolini era fondatore e presidente), proprietaria della testata – ho deciso di pubblicarlo tale e quale, con la sola aggiunta di un breve inserto in numeri romani dedicato al direttore (molto più di un direttore per scrive queste righe, e per molti di noi, piuttosto un padre e un maestro esemplare), evitando non la commozione ma la retorica, secondo i suoi desideri e la lezione coerente della sua stessa vita.
    Le pagine che seguono contengono un breve riepilogo degli ultimi avvenimenti, delle drammatiche settimane che dal primo intervento chirurgico del 10 marzo lo hanno visto intraprendere l’ultima, coraggiosa e insieme disperata battaglia contro un male rivelatosi improvviso e insieme incontenibile.
    Segue l’ultima lettera che Spadolini – assistito fino in fondo dall’affetto dei familiari e degli amici – ha dettato il 29 luglio, in risposta ad altra lettera appena ricevuta dell’amico fraterno di decennali comuni battaglie in difesa di quella che Bobbio chiama l’ “Italia civile”, Alessandro Galante Garrone, uno dei collaboratori più fedeli della “Nuova Antologia”. Una lettera particolarmente significativa perché conferma il profondo attaccamento di Spadolini per la “Nuova Antologia”, l’amore e insieme la preoccupazione profonda per l’Italia, impegnata nel difficile passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, la lucidità piena e totale che ha accompagnato il Professore fino all’ultimo, “pria che l’ombra avvolgami”, come amava ripetere egli stesso citando uno dei maestri più cari, Piero Calamandrei.
    […] È quanto potevamo fare, nel rispetto delle sue scelte, nella mancanza di tempo e di spazio, e soprattutto nel senso di smarrimento che dal 4 agosto pervade molti di noi. Dedicheremo tuttavia al nostro direttore il prossimo fascicolo, al quale già stiamo lavorando: riproponendo oltre alla commemorazione ufficiale in Santa Maria Sopra Minerva, affidata il 5 agosto alle parole di Leo Valiani, con gli affettuosi e autorevoli interventi del presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, e del presidente del Senato, Carlo Scognamiglio, e di numerose testimonianze dell’indomani della scomparsa, testi originali dei collaboratori più stretti e pagine di lui e su di lui scritte in momenti diversi della vita. Unitamente a una diffusa nota bio-bibliografica e alla rievocazione del suo lungo e appassionato rapporto con la “Nuova Antologia”.
    Un rapporto che continua, che va al di là della sua stessa vita terrena. Perché alla sua creatura, la “Nuova Antologia appunto, Spadolini è rimasto fino all’ultimo fisicamente e idealmente aggrappato. Consentitemi in questa sede di rivelare un particolare, relativo alle ultime ore, prima del progressivo e rapido abbandono della forze. Lunedì 1° agosto, alle 4.30 del mattino, Spadolini ha chiesto a Pino, il fedele infermiere della notte, di lasciare il letto per sedersi in poltrona: era l’ultima volta che lo avrebbe fatto. Accesa la luce, ha chiesto un libro a gesti più che a parole (così difficili ormai a pronunciare), ma non uno qualsiasi fra i tanti che affollavano i tavoli della stanza della clinica romana, divenuta ormai una biblioteca mobile (ha lavorato davvero fino all’ultimo), bensì uno preciso, sepolto fra molti altri. L’infermiere non comprendeva con la necessaria tempestività, ne alzava uno dietro l’altro porgendoli al Professore, che si inquietava sempre più, soprattutto con se stesso, per non riuscire a farsi subito capire. Finalmente un lampo negli occhi rasserenava il volto: Pino aveva “pescato” ciò che voleva, l’ultimo numero uscito della “Nuova Antologia”, quello dell’aprile-giugno 1994, con gli scritti di Valiani, Bobbio, Arnaldi, Galante Garrone, Bo e tanti altri amici. Ancora una volta, come faceva sempre quando gli consegnavo appena uscito dalla tipografia il fascicolo fresco di stampa, ha ripercorso lentamente il sommario, ha rivisto autori e titoli, uno ad uno. Soddisfatto, ha reso il fascicolo all’infermiere ed è tornato a coricarsi. Sono state quelle le ultime pagine che il destino gli ha consentito di leggere.
    Ho portato a Firenze quella copia, che esporrò all’ingresso della meravigliosa villa di Pian dei Giullari che Spadolini ha lasciato alla Fondazione Nuova Antologia, erede universale dei suoi beni, compresi quadri e libri, i circa settantamila volumi che compongono la biblioteca, destinata ad essere aperta al pubblico al più presto, grazie anche al concreto impegno degli amici della Cassa di Risparmio di Firenze, che hanno adibito appositi locali, sulla collina di Pian dei Giullari.
    Quella copia racchiude non solo i suoi ultimi sguardi, pensieri, sospiri, ma l’estremo atto di amore e di fede nella rivista e nei valori della cultura, della libertà, del confronto, della civile tolleranza che l’hanno ispirata e per i quali Spadolini si è sempre battuto e per i quali continueremo a batterci.
    Negli ultimi quarant’anni Spadolini è stato per la “Nuova Antologia” assai più di un direttore. Basta pensare alla passione con cui salvò la rivista da morte certa del 1977, riportandola a Firenze, da Roma, e rilanciandola con successo grazie all’aiuto disinteressato di amici che si chiamavano Montale, Jemolo, Romeo e tanti altri, oltre a quelli prima citati. È una pagina di storia che ripercorreremo con molte altre nel fascicolo speciale.
    Il Professore ci ha lasciati, ma la sua creatura deve continuare a vivere: non a caso l’ha affidata a una Fondazione, appositamente costituita e alimentata. Il suo insegnamento, la sua battaglia di educatore civile, la difesa della cultura, quella vera, libera e onesta, non asservita a nessun partito o fazione, restano vivi e limpidi in quanti hanno collaborato con lui.
    Il suo insegnamento, al pari della sua eredità è rivolto a tutti noi, e sta a noi mantenerlo vivo, a vantaggio soprattutto dei giovani e delle future generazioni. Con il consenso e l’aiuto di tutti la rivista potrà accentuare la propria diffusione. Se i collaboratori della testata – che conserverà inalterata la proprio linea politico-culturale sotto la vigilanza di un prestigioso comitato scientifico di garanti – manterranno inalterato il proprio impegno, e se gli associati di conserveranno la loro fiducia e le loro sottoscrizioni, del che siamo certi, la rivista continuerà ad uscire libera e aperta al confronto delle idee come è stato fino ad oggi. È un impegno e insieme un appello. Perché la lezione di una intera vita non rimanga inascoltata.

    Cosimo Ceccuti

    (...)
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini: un italiano

    I giorni della malattia

    I giorni della malattia e della sofferenza erano ancora lontani. Eppure Giovanni Spadolini, nel pieno della sua attività di presidente del Senato e di intellettuale partecipe della vita culturale del paese, non nascondeva ai suoi amici più intimi un presentimento. Citava spesso quella meditazione di Benedetto Croce del gennaio 1939: “Mi sento stanco e l’immagine della morte mi appare come il solo riposo che mi possa ripromettere, e nella caduta di tutte le speranze una certezza che si riveste di una pallida luce di gioia”.
    Gli ultimi mesi della undicesima legislatura lo avevano visto operoso come sempre. Il 9 marzo Spadolini fu ricoverato all’ospedale militare del Celio. Il giorno seguente sarebbe stato sottoposto ad un intervento chirurgico allo stomaco, tecnicamente riuscito, limitando solo per poche ore la sua capacità di lavoro.
    Dimesso dai sanitari dopo una decina di giorni, aveva atteso, riprendendo i contatti politici e istituzionali connessi al suo ufficio, a Palazzo Giustiniani, le consultazioni elettorali del 27 e 28 marzo per il rinnovo del Parlamento. Come sempre negli anni precedenti Spadolini votò la domenica mattina, intorno a mezzogiorno, nella scuola elementare “Galileo Galilei” di Arcetri, sulle colline fiorentine.
    Tornato a Roma non indugiò nelle cautele che gli erano state consigliate dai medici per la sua convalescenza. Fu, anzi, un periodo frenetico, culminato con il voto dell’assemblea di Palazzo Madama per il nuovo presidente del Senato. Una battaglia che affrontò con serenità e determinazione, senza nascondere mai a se stesso la difficoltà dell’impresa. E non l’affrontò per non rinunciare alla ‘poltrona’, ma perché convinto che – mancando una maggioranza precostituita in Senato – occorresse alla presidenza dell’alta assemblea una figura istituzionale, garanzia del rispetto dei diritti di tutte le parti politiche presenti a Palazzo Madama.
    I giorni seguenti lo videro impegnato nella riorganizzazione dei suoi uffici, al quarto piano di Palazzo Giustiniani, nei quartieri riservati ai senatori a vita e agli ex presidenti del Senato. Con orgoglio mostrava ai suoi ospiti il suo nuovo studio, che era stato di Cesare Merzagora, e la terrazza sui tetti di Roma dalla quale si potevano scorgere la cupola di San Pietro, la sinagoga ebraica e i palazzi delle istituzioni della Repubblica.
    Erano riprese le sue frequenti visite a Milano, che considerò sempre la sua patria di adozione. La “Bocconi”, i giornali, gli amici di una vita. A Roma si era nuovamente dedicato alla guida della Giunta centrale per gli studi storici e all’attività dell’Accademia dei Lincei.
    Il 17 maggio pronunciò, nell’aula del Senato, il suo ultimo discorso, in occasione del dibattito sulla fiducia al Governo scaturito dalle elezioni di marzo. Un discorso asciutto, privo di retorica, nutrito dalla preoccupazione per l’avvenire del paese. “Rispetto delle regole, trasparenza, moralità – sono le sue parole -. Tutto questo fa parte della fisiologia delle democrazie. In democrazia di va al governo non si va al potere: la parola ‘potere’ è stata introdotta nel mondo moderno dalle ideologie dittatoriali, dalle giunte militari; non si va al potere, si va al governo e sempre con le valigie pronte”.
    La settimana seguente, coronando un suo desiderio, riuscì a recarsi a Budapest per prendere parte alla cerimonia di conferimento della laurea honoris causa dell’Università Eotvos Lorand, la più importante della capitale magiara. Un viaggio programmato da tempo e temporaneamente cancellato per la malattia.
    Furono, quelli, i giorni in cui iniziarono a manifestarsi i primi sintomi di un nuovo malanno, in cui si prospettavano complicazioni rispetto al decorso post-operatorio. Al punto che, l’8 giugno, i medici consigliarono un nuovo ricovero in una casa di cura per accertamenti.
    Si fece dimettere per poche ore per recarsi a Firenze il 12 giugno per votare per il rinnovo del Parlamento europeo. Tornato a Roma e nuovamente ricoverato, Spadolini fu costretto a rinunciare a prendere parte alla cerimonia nella sala Zuccari di Palazzo Giustiniani per il conferimento della laurea scientiae et honoris causa della Pontificia Università Cattolica del Cile. Al termine della cerimonia le insegne dottorali gli furono consegnate in un incontro semplice e toccante in clinica dal rettore e dai rappresentanti dell’ateneo di Santiago, presenti il capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, e il presidente del Senato, Carlo Scognamiglio.
    Spadolini non avrebbe più lasciato la casa di cura. Un nuovo intervento operatorio per rimuovere i problemi insorti nel frattempo non ebbe risultati decisivi. Fu sottoposto in seguito alle terapie del caso, fino all’aggravamento improvviso che lo colse la sera del 31 luglio.
    Quattro giorni dopo, alle 14.50 del 4 agosto, Giovanni Spadolini moriva per le conseguenze di un collasso cardiocircolatorio.
    Le esequie di Stato furono celebrate il giorno seguente nella Chiesa di S. Maria sopra Minerva. Le orazioni funebri furono pronunciate dal senatore a vita Leo Valiani e dal presidente del Senato, Carlo Scognamiglio. Al termine di un commosso ricordo del presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, il rito fu officiato dal cardinale Achille Silvestrini.
    Sabato 6 agosto il feretro fu trasferito a Firenze per essere tumulato nel cimitero monumentale di San Miniato al Monte, non lontano dalla sua Pian dei Giullari.


    L’ultima lettera di Spadolini

    È questa, per quel che mi risulta, l’ultima lettera di Giovanni Spadolini: dettata dal letto il 29 luglio 1994, riletta e firmata il 31 luglio, spedita per espresso da Roma il 1° agosto e giunta a Torino il 2.
    Era la risposta a una mia lettera di qualche giorno prima. Quando la scrissi, sapevo ormai della sua fine inesorabile e imminente. Ma proprio per questo sentivo il bisogno di farmi ancora vivo con lui nel modo consueto, con poche, frettolose parole, non per altro che per una delle solite ragioni di lavoro quotidiano, mio e d’altri, per dargli la sensazione che avevamo ancora tante piccole cose da fare insieme. E per questo, il modo migliore era di parlargli della “Nuova Antologia”, di questa gloriosa rivista risorgimentale della quale mi ero più volte occupato in poche pagine di piccoli studi, che gli erano piaciuti, e alla quale mi onoro di avere poi collaborato; e che ormai era diventata una sua “creatura”, una sua ragione di vita, forse la più preziosa ai suoi occhi. Parlargliene, era come accrescere il suo fervore vitale, ricongiungendolo a quello di un Vieusseux o di un Capponi; insomma, fargli sentire che gli restava un grande motivo per vivere ancora a lungo.
    E proprio per togliergli qualsiasi sensazione dell’approssimarsi dell’epilogo fatale, anzi per continuare a farlo vivere, gli accennavo nella mia lettera, quasi burocraticamente, a diversi argomenti di cui mi sarebbe piaciuto occuparmi in alcuni dei prossimi numeri trimestrali; e gli dissi che avrei voluto parlargliene a lungo, e presto, nei mesi seguenti, quando lui ed io, ormai convalescenti, ci saremmo ritrovati insieme a Castiglioncello, nella sua bella casa in vista del mare.
    Sapevo bene, nel dirgli questa “bugia”, quale autentica gioia gli dessero, con i loro articoli, gli amici che collaboravano all’impresa da lui condotta: Bobbio, Garin, Jemolo, Valiani, e qui mi fermo perché troppi altri nomi, dopo i primi che mi son venuti alla mente, dovrei fare.
    E per questo gli proposi di occuparmi di lettere inedite di Jemolo; e di un libro imminente di un giovane e valente studioso, Fulvio Conti, sulla democrazia toscana del secondo Ottocento e sull’affascinante figura di Diego Martelli; di un diario, parzialmente inedito, di Adolfo Omodeo; e anche di alcune lettere che, in anni ormai lontani, mi aveva scritto George Lefebvre, lo storico della rivoluzione francese. (E, naturalmente, per una parte almeno di questi articoli, giro la proposta al nuovo direttore).
    Nella mia lettera, infine, ben sapendo quanto egli vi pensasse, aggiungevo qualche rapida e amara considerazione sulla situazione italiana del momento, sempre per fargli intendere che io lo sentivo particolarmente vicino, nel dolore, nell’indignazione e nei nostri comuni propositi nei confronti di uomini e cose di questi giorni.
    Di qui gli venne l’impulso di rispondermi, di dirmi qualcosa di cui oggi e qui, nelle pagine della sua “Nuova Antologia”, voglio far parte a tutti lettori: parole alte, che hanno il valore di un messaggio morale e civile di Giovanni Spadolini, e pertanto devono rincuorare tutti noi: “Sono d’accordo quando dici che occorre tenere duro. Non è ancora venuto per noi il tempo del riposo”. Sono le sue ultime parole per ognuno di noi.

    Alessandro Galante Garrone


    Roma, 29 luglio 1994
    Professor Alessandro Galante Garrone
    via Grattoni n. 7
    10121 Torino

    Carissimo,
    Ti ringrazio delle parole affettuose, che mi sono giunte di grande conforto in questo momento di travaglio. Anch’io spero di riabbracciarTi presto. Sarà una propizia occasione per discutere dei Tuoi progetti per la “Nuova Antologia”.
    È inutile che Ti dica che la rivista vive esclusivamente dell’entusiasmo e della generosità degli amici come Te. E sono felice che Tu abbia già in animo di scrivere sulle lettere di Jemolo, sul libro di Conti, sul diario di Omodeo e sull’epistolario di Lefebvre. Materiale interessantissimo e prezioso per i nostri lettori.
    Purtroppo sono ancora alle prese con un malanno. Sono i postumi dell’intervento chirurgico cui sono stato sottoposto qualche tempo fa. E i tempi della mia convalescenza si sono allungati.
    Tutto questo mi provoca grande malinconia, resa più acuta dalle vicende italiane. La crisi politica si è ormai trasformata in crisi istituzionale, come anche Tu hai osservato nei Tuoi articoli sulla “Stampa”, nei giorni del decreto sulla custodia cautelare.
    Ma sono d’accordo quando dici che occorre tenere duro. Non è ancora venuto per noi il tempo del riposo.
    Spero di avere presto Tue notizie. Ti abbraccio, Tuo

    Giovanni Spadolini


    https://www.facebook.com/notes/giova...2178694207055/
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini: un italiano


    Giovanni Spadolini e Leo Valiani (Fiume, 1909 - Milano, 1999)



    La mia commemorazione di Giovanni Spadolini è resa pesante dalla tristezza per la scomparsa del carissimo amico. Il dolore mi stringe il cuore e mi inumidisce gli occhi. Sento la sua mancanza, vedo i suoi pregi e non vedo adesso i limiti che, come ogni essere umano, pure ebbe. Mi appello alla vostra indulgenza.
    Con Giovanni Spadolini l’Italia perde un grande patriota, un grande storico, un grande giornalista ed un autentico uomo di Stato. Egli crebbe in una famiglia nella quale il patriottismo di stampo risorgimentale era di casa. Suo padre, pittore di alte doti artistiche, cadde per la patria nel 1944. Era ufficiale di sanità e si precipitò a soccorrere i feriti nella Firenze sottoposta a bombardamento bellico. La morte lo colse nell’adempimento dei suoi doveri. Il diciannovenne Giovanni Spadolini sentiva già il patriottismo come un dovere morale prioritario e lo sentì, con la medesima passione, per tutta la sua vita. Amava profondamente l’Italia. La studiò nei lunghi periodi, di volta in volta gloriosi e tragici, della formazione intellettuale ed etica della nazione, nelle battaglie del suo Risorgimento, nell’epopea dei suoi martiri e di tutti i suoi caduti, nell’apertura mentale dei suoi uomini e delle sue donne di cultura, nell’austero, sobrio lavoro di costruzione dei suoi primi politici ed amministratori.
    Sin dall’adolescenza Spadolini sognava di scrivere un giorno una storia d’Italia. Divoratore di libri, scoprì nel retrobottega di un libraio di Firenze i volumi di Piero Gobetti, il precoce, geniale direttore di “Rivoluzione liberale”, che sotto la dittatura non potevano circolare. In quei testi, così come negli scritti di Prezzolini, di Amendola e di Oriani trovò l’idea di un’ “altra Italia”. Il fascismo, proclamandosi rivoluzionario, affermava di essere in procinto di edificarla o di averla già edificata. Moltissimi credettero a quelle promesse, ma l’andamento della guerra dissipò le illusioni. L’Italia doveva ritrovare nel precipizio la strada della democrazia liberale, che caratterizzava e caratterizza l’Occidente, di cui fa parte da sempre, senza cadere in un’altra dittatura.
    Il riscatto del paese, iniziato dalla Resistenza, venne denominato Secondo Risorgimento. Se ne può discutere. Io non sono mai stato molto favorevole a questa denominazione. Spadolini la portava nel cuore, e la difese sempre. Ne scorgeva, tuttavia, anche i limiti. Le forze sociali e religiose che il Risorgimento aveva lasciato, come Spadolini descrisse nei suoi primi acutissimi studi storici, all’opposizione, hanno finito col dominare i decenni successivi all’avvento della Repubblica. Ancora al tempo dei governi di De Gasperi, statista di altissima levatura che, pur dopo la rottura dell’unità antifascista, poteva contare, nella sua fatica, coronata da meritati successi, su Einaudi, Saragat, La Malfa, Vanoni ed altri politici straordinariamente competenti e probi, riapparvero i primi sintomi della corruttela che tutte le democrazie conoscono, mentre le dittature le nascondono, ma che la partitocrazia avrebbe via via diffuso ed ingigantito. Spadolini si formò, come giornalista, nel “Mondo” di Mario Pannunzio, che quei mali, ancora embrionali, combatté con vigorosa tempestività. Fu la ripresa della lotta per un’ “altra Italia”. Pannunzio era un direttore di giornale di eccezionali capacità. Anche Spadolini lo diventò, alla guida del “Resto del Carlino” e più tardi del “Corriere della Sera”. Non smise per questo di coltivare gli studi storici. Vinse il primo concorso alla cattedra universitaria di storia contemporanea. Seppe esercitare, con un’attività prodigiosa, i due mestieri del giornalista e del docente. Al suo magistero accademico ed alle sue brillanti opere storiche hanno reso omaggio molte università, italiane e straniere. Egli condivideva la concezione etico-politica della storia, teorizzata e professata da Benedetto Croce, ma l’estendeva al di là dello spazio indagato da Croce. Conosceva le difficoltà ed i difetti degli italiani, ma aveva anche imparato a comprendere ed a rivalutare l’operato di quanti, da Giolitti a De Gasperi, avevano saputo far crescere il paese malgrado le sue difficoltà ed i suoi difetti.
    La democrazia italiana, nel mezzo della guerra fredda, andava difesa, col Patto Atlantico, col centrismo e, non appena se ne presentarono le condizioni, anche col centro-sinistra. Spadolini caldeggiava questa difesa, con quella coerenza, risolutezza e lungimiranza di cui pochi diedero prova nella stessa misura. Portò, coi suoi molti viaggi, discorsi e scritti, la cultura italiana del mondo e la cultura internazionale in Italia. Propugnò l’unità europea, di tutta l’Europa, occidentale ed anche orientale, pur nello stretto ed imprescindibile legame con l’alleanza atlantica. Non posso dimenticare la sua solidarietà con Israele.
    Da direttore del “Corriere della Sera” condusse una battaglia intransigente contro le violenze eversive. Su richiesta di Ugo La Malfa accettò nel 1972, la candidatura, a nome del Partito repubblicano, al Senato, nel collegio di Milano centro. Fu sempre rieletto, finché non venne nominato senatore a vita. Con la sua instancabile, preziosa e precisa attività di senatore, di ministro dei Beni Culturali, il cui dicastero creò in modo durevolmente efficace, della Pubblica Istruzione ed in ultimo della Difesa, si distinse al punto di essere eletto e rieletto presidente del Senato. Di ciò discorrerà sicuramente l’odierno presidente di questo alto consesso, che prenderà la parola dopo di me. Vorrei solo sottolineare il grandissimo valore che Spadolini attribuiva al Parlamento.
    Da presidente del Consiglio nel 1981-82 Spadolini sciolse con coraggiosa, provvida determinazione la temibile loggia affaristica della P2 e sconfisse, non da solo naturalmente, ma con la severità che era diventata indispensabile, dopo una lunga, sciagurata permissività, e con strumenti nuovi, il terrorismo omicida della brigate rosse e nere. Ultimamente temeva la latente crisi delle istituzioni parlamentari e della stessa libertà di stampa e si preparava ad affrontarla con preveggente fermezza.
    Fu segretario generale, e poi presidente del Partito repubblicano e ne accrebbe i consensi elettorali. La sua gestione del partito, così come di tutte le numerose alte cariche che ricoprì, fu esemplare per rigore morale. Intendeva fare del Partito repubblicano il grande partito della democrazia moderna e riformatrice che Giovanni Amendola ed Ugo La Malfa avevano sognato.
    Spadolini comprese nel momento giusto, e lo disse francamente, che l’Italia aveva bisogno, in una situazione d’emergenza, anche di personalità “super partes”, che sapessero collocarsi, all’occorrenza, al di sopra della parti politiche e sociali in lizza, per la salvaguardia dell’unità nazionale. Quanto ai rimedi da auspicare, per la soluzione della crisi istituzionale, non sempre eravamo dello stesso avviso. Io fui già, ai tempi del Partito d’azione, fautore della Repubblica presidenziale e sono rimasto di questo parere. Spadolini rimase, autorevolmente, fautore della Repubblica parlamentare. Concordavamo, tuttavia, nel dar ragione ad una grande politico che fu anche grande storico, il socialista democratico francese Jaurès, martire della lotta per la pace, il quale sosteneva che la miglior difesa della Repubblica consiste nell’organizzarla.
    Non renderei piena giustizia a Spadolini se non ricordassi la sua creatura prediletta, la “Nuova Antologia”, che portò a rinnovata, rigogliosa fioritura culturale e politica.
    Devo testimoniare anche la sua bontà d’animo. Aveva una visione di fratellanza universale. Ha sofferto a lungo e non è più. Siamo tutti mortali. Mia suocera, una semplice, bravissima operaia, soleva dire: sia fatta la volontà di Dio. Questo era anche il sentimento della mamma di Spadolini, una signora di rara distinzione, che egli adorava. La vita terrena finisce, ma la memoria storica è spirituale e rimane.

    Leo Valiani – Roma, 5 agosto 1994


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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini: un italiano



    Gabriele De Rosa (Castellammare di Stabia, Napoli, 1917 - Roma, 2009)



    Roma, 4 agosto 1994, giovedì

    Per quanto me l’attendessi da un momento all’altro, la notizia della morte di Giovanni Spadolini mi è giunta come un fulmine a ciel sereno. Erano trascorse da poco le 15.00, quando Sabine è entrata in camera da letto, dove riposavo, per annunciarmi la morte dell’amico e il rincorrersi delle telefonate dalle agenzie di informazione ai giornali. Non più di due settimane fa gli parlai per telefono, lo sentii vivace e pronto, mi raccomandò di non dare retta alle voci che circolavano in Senato sulla sua salute, lui presto sarebbe tornato in attività. Mi chiedo se sapesse mai quale malattia rodesse dentro la sua forte fibra e se veramente si illudesse di tornare a Palazzo Giustiniani, nel suo studio ricco e suntuoso, come una reggia. Forse sapeva, ma nascondeva il suo inesorabile rapporto con la morte, sperava di vincerla, ignorandola, almeno nel colloquio con gli amici.
    Questa volta la parola non è superflua: scomparendo, ha lasciato un vuoto. Era un personaggio singolare: si nutriva di rievocazioni biografiche storico-risorgimentali e del mondo liberale, come se i suoi Gobetti, Moro, De Gasperi, Salvemini, La Malfa, Giolitti fossero di casa, lo accompagnassero nella politica, nei viaggi, nei congressi, nelle riunioni. Sembrava vivesse in questa atmosfera di pensieri e ricordi, che non erano nostalgie, per lui, ma appunto, viatici, con i quali salvarsi dalle durezze della politica. Scriverò da qualche parte di questo suo vivere non a parole, ma nella quotidianità il suo rapporto attualissimo, per quanto idealizzato, con la memoria dei nobili spiriti, che si era costruito. Aveva incominciato con Oriani, ma poi era passato a Mazzini e a Garibaldi, sempre con l’idea fissa che lì fossero le vere, autentiche origini dell’idea di nazione italiana. Le sue lezioni erano sincere, scorrevoli, deliziose per l’eloquio: la sua retorica nasceva da convinzione profonda, costruita sui libri dei suoi numi tutelari. Non era uno storico erudito, che avesse molto scrupolo per la ricerca archivistica: si affidava tutto all’intuizione, alla bella pagina scritta, sonora alla lettura, piacevole per il colto e per il meno colto. C’è l’altro Spadolini, quello “minore”, che non si ricorda oggi, davanti alla solennità della morte: un certo culto di sé, ma gestito con una tale franchezza, come se gli fosse doverosamente consentito, che non v’era alcuno che non glielo perdonasse. Credo sia stato fra i politici l’intellettuale più ricco di prebende. Ma egli è indimenticabile per la caparbia lezione patriottico-risorgimentale che non smise mai di recitare, per una concezione quasi idilliaca della Costituzione, nella quale vedeva un condensato di tutta la più ricca e severa tradizione liberale, da Giolitti a Salvemini, a Gobetti, a De Gasperi. A proposito di De Gasperi, in una delle ultime conversazioni che ebbi con lui, mi disse, che egli veramente si sentiva un autentico degasperiano, più “democristiano” di tanti altri democristiani, alla stessa maniera, ma rovesciata, di Andreatta che egli reputava più “repubblicano” che uomo della Dc, non fosse che per il suo pensiero economico. Ma Spadolini, se amava raccontarla, la storia, più che analizzarla, aveva segreta consapevolezza che cosa è veramente la ricerca erudita. Ricordo quando fece visita a Vicenza all’Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa, appena un anno fa, parlando con gli allievi e docenti, disse con un’ombra di nostalgia: la vera ricerca nasce dalla “cultura del silenzio”.

    Roma, 5 agosto 1994, venerdì

    Con Sabine visita in mattinata alla salma di Spadolini a Palazzo Madama. Il corpo consumato, magro, esangue: non avresti detto che era lui, con quel corpaccio oltre i 120 chili. Fila di gente nella camera ardente. Incontro Fisichella.
    Ore 19.00, a S. Maria sopra Minerva, messa funebre per Giovanni Spadolini. Ho lasciato la macchina al solito posto, avanti alla chiesa di S. Luigi dei Francesi, quindi “lento pede” lungo la via de’ Crescenzi, attraversando la piazza del Pantheon sino alla Minerva, al braccio di Sabine. Fa un caldo infernale. La piazza è recintata, gente assiepata, c’è la banda musicale dei carabinieri. Volti amici nella chiesa: Ferrari Aggradi, Mancino, Rosa Russo Jervolino, Mattarella, Casini, più in là Buttiglione con Delfino, Andreotti, a fianco a noi i coniugi Cifarelli. Intravedo De Mita. Alle mie spalle Cossiga. Una stretta di mano calorosa con Margiotta Broglio e con Renzo De Felice. La signora Cifarelli, che impersona la gentilezza, ci racconta della malattia di Spadolini, si sapeva che era cancro, al polmone. Spadolini è trapassato senza saperlo, fino a quarantotto ore prima sperava di farcela.
    A un certo punto dalla piazza ci sono giunte le solenni e commoventi note della marcia funebre di Chopin. La messa è stata celebrata dal cardinale Silvestrini: due le orazioni funebri, una di Leo Valiani, già letta sul “Corriere della Sera”, l’altra ufficiale, del neopresidente del Senato, Scognamiglio. Valiani ha lasciato la chiesa, seguito da Giuseppe Galasso, prima che incominciasse il rito funebre. Avrebbe voluto solo il rito civile. Il cardinale ha iniziato citando Bernardino Varisco, come “essere ‘ex veritate’ è la grande, unica nobiltà dell’uomo. Giovanni Spadolini ha dimostrato di essere fra quelli ‘qui sunt ex veritate’”. Infine: “Dio-verità si dona gratuitamente, entrando nel cuore di ogni uomo. Ma nessuno di noi può dire quanto di quella verità sia posseduta da ciascuno che incontriamo, anche se ci vive accanto”. Ha porto il suo saluto anche il presidente Scalfaro con un appello, rivolto alla salma dell’amico: “Resta con noi”. Telegramma del Papa letto dal cardinale. Alle letture della messa sono stati chiamati Giovanni Letta e Rocco Buttiglione: i due nomi sono stati proposti dalla famiglia Spadolini dalla presidenza del Consiglio. […] Sono usciti i miei due articoli-ricordo di Spadolini.

    Gabriele De Rosa – “La transizione infinita. Diario politico 1990-1996”, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 124-127
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini: un italiano



    Firenze grande amore


    di Pier Francesco Listri – In “Nuova Antologia”, “Per Giovanni Spadolini”, a. CXXIX, fasc. 2192, ottobre-dicembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp. 417-418.

    Aveva la “r”, che sgorgava da quel gran visto di putto riccioluto, ma era l’unico segno a contraddire la toscanità raffinata del resto: l’eloquio fluido e perfetto, la battuta immediata, l’ironia sottile, non perfida ma mordace, il piacere del raccontare, il senso del comico. Di radice toscana era del resto la sua smisurata erudizione, animata da quella storia tosco-italiana che dal granducato saliva al risorgimento prima di passare a Roma e al Tevere “troppo stretto”.
    Fiorentine del resto – in un uomo così curiosamente votato all’internazionalità di storico, di giornalista e poi di statista, in un “europeo” così radicato e partecipe – furono tutte le età della sua vita. Spadolini crebbe qui nella mitica casa di via Cavour, oggi (come ogni sua dimora) stipata di libri. Qui fu il “suo” liceo Galileo, qui il “suo” Cesare Alfieri, l’università eletta da Spadolini a simbolo della cultura storico giuridica, ma anche di ideale tensione etico-politica.
    La gioventù fiorentina di Spadolini passò fra gli intensissimi affetti verso i genitori (leggendario quello per la madre); le onnivore letture di un bambino prodigio che già ad otto anni, consigliato dal babbo, andava acquistando volumi antichi per bancherelle e antiquari; gli amici “pedanti” dei circoli ex vociani e papiniani, di Montale e Vittorini, poi di Calamandrei e degli azionisti. Qui, ancora adolescente, il padre dovette interdire con dei cartoni l’accesso agli scaffali della biblioteca di casa, per non peggiorare la vista di Giovanni messa a repentaglio dal troppo leggere.
    Legato, nella prima stagione assai lunga, della sua vita, a due grandi mitologie: quella della docenza universitaria e quella del giornalismo, Spadolini praticò la seconda altrove. Ma la prima, il suo essere studioso e maestro universitario, si svolse tutta nella “sua” Firenze: bastava dire “via Laura” perché il suo sorriso si accendesse. Firenze fu come un baricentro, il punto di riferimento a cui tutto, nella molteplicità onnivora delle iniziative, facesse capo. Non a caso l’amore editoriale più grande (e i suoi libri importanti) fu rivolto alla ultracentenaria Le Monnier, fondata da quel Felice Le Monnier, straniero risorgimentale cui volle far dedicare una monumentale biografia dal perito e fedelissimo Ceccuti. Quella figura, insieme all’amato Vieusseux, era per Spadolini l’epoca d’oro della Firenze più europea, maestra di cultura all’Italia. Con Le Monnier fece molte cose (fino a diventare presidente della Casa editrice): pubblicò libri, diresse collane storiche e quaderni, rieditò l’amatissima (la più antica d’Italia?) rivista “Nuova Antologia”, ora eretta da lui a Fondazione, perché questa Firenze del Duemila serbi qualcosa di davvero europeo, degno della sua tradizione.
    Firenze era anche l’àncora e il rifugio per i rari, laboriosissimi riposi: lassù alla villa di Pian dei Giullari, dove sedeva all’aperto, nel leggendario “tondo dei cipressi” da cui la città poteva essere dominata e abbracciata. Luogo memorabile che opponeva a una sontuosissima biblioteca (forse la più ricca biblioteca privata d’Italia, con gli oltre settantamila volumi) una monacale cameretta di celibe solo, arricchita solamente di tanti quadri: quelli del padre Guido, eccellente pittore e grandissimo incisore.
    Sempre, e più ultimamente, la memoria paterna fece intima compagnia allo statista, e se ne videro i segni esterni in brevi e calde memorie di pittura e di vita via via pubblicate.
    Alternativo a Firenze, perlopiù d’estate, era un altro toscanissimo luogo: la ridente Castiglioncello. Terra di quei macchiaioli vicini a suo padre e vicini, per cultura ed età, all’Ottocento toscano più fervido. Il regno di Diego Martelli, il cielo e il mare di quei Lega, Signorini e Fattori che amava al punto di rimetterli nel circolo della storia italiana con estravaganti monografie e ritratti (la felice intuizione di collegare Fattori a Verdi in un unico Risorgimento).
    Non c’è figura e figurina toscana, purché significativa, che Spadolini non abbia ripescato e ridisegnato nella sua onnivora attività di storico, di biografo, di erudito, di memorialista: dal Collodi al Martini, dal Le Monnier al Vieusseux. Fino naturalmente al “suo” Ricasoli, del quale con orgoglio divenne negli anni Ottanta “collega”, diventando, appunto dopo Ricasoli, il secondo Primo ministro fiorentino d’Italia.

    Pier Francesco Listri
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini: un italiano

    Le ricerche sulla storia fiorentina

    di Pier Luigi Ballini – In “Nuova Antologia”, “Per Giovanni Spadolini”, a. CXXIX, fasc. 2192, ottobre-dicembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp. 419-421.

    Nel vasto campo degli interessi di studio – già annunciati dalle collaborazioni alla prima annata del “Mondo” di Mario Pannunzio -, delle ricerche e dei volumi di Giovanni Spadolini, Firenze e il “Cesare Alfieri” hanno costituito un tema preferito. Un’indagine storiografica, un contributo alla storia della nazione intrecciati ad una indimenticabile testimonianza di affetto. Le pagine dedicate a momenti, vicende, personaggi della “inimitabile parabola fiorentina” contribuiscono a caratterizzare la lunga serie delle ricerche sul liberalismo risorgimentale, sulla questione sociale, sull’opposizione cattolica, sull’Italia dei laici, sulle tematiche dell’accentramento e delle autonomie, sui rapporti tra Stato e Chiesa, sul socialismo in Occidente e in Italia…
    Dicembre 1966: Firenze capitale è il libro dedicato alla città nei primi, difficili anni dell’Unità.
    Liberali, democratici, clericali sulle rive dell’Arno, tema centrale, inquadrato nel periodo in cui la città, quasi rassegnata, si apriva alle nuove funzioni di capitale provvisoria accogliendo la difficile eredità di una Torino insanguinata dopo le giornate di scontri seguite alla Convenzione di settembre. Un capitolo esemplare “nella direzione di una storia come storia di libertà”. Un omaggio a Firenze capitale, certo, ma soprattutto “un omaggio alle virtù che sole fanno grandi i regimi liberi, contro tutto ciò che sia giacobinismo ed estremismo, ed in genere intemperanza, che nasce infallibilmente da uno scarso senso storico e quindi da scarso senso della libertà”. A questo filone si collegano gli scritti su Peruzzi e su Ricasoli, sul “sindaco a vita” di Firenze, sul leader della Destra toscana nel 1876 e sul secondo presidente del Consiglio dell’Italia unita, dopo Camillo Cavour. Poi l’ideale continuazione di Firenze capitale: Il Cesare Alfieri nella storia d’Italia, dedicato alla scuola di scienze sociali – fondata nel 1875, la “sua” Facoltà -, ai suoi caratteri originali e peculiari, ai programmi e alla trasformazione delle strutture che quasi scandiscono i ritmi della storia unitaria del nostro paese. E “i precedenti”: Gian Pietro Vieusseux e l’omonimo Gabinetto, Gino Capponi, la cultura toscana e il Risorgimento… Quella del Vieusseux è la storia di una “officina culturale” scritta con una attenzione particolare e distintiva all’imprenditorialità nella cultura, caratteristica della Firenze negli anni del Risorgimento e dell’Unità, che rimane fondamentale anche per le indagini su quella Toscana moderna e liberale dell’ultimo trentennio lorenese, “dei fermenti di rinnovamento religioso, delle correnti di revisione letteraria, dei gruppi di rinascita scientifica”.
    Il mondo della Restaurazione e del primo romanticismo indagato per delineare “una certa idea dell’Italia” e L’Idea di Europa fra illuminismo e romanticismo nell’Antologia di Vieusseux. “L’idea di un’Italia civile, di un’Italia europea […] e non caricatura del mito classico e del mito romano. Un secolo e mezzo dopo – scriveva a proposito di Gino Capponi e del suo tempo – quell’idea dell’Italia torna a illuminare il tramonto di questo secolo. È il tramonto della nostra stessa generazione”. E, ancora, La Firenze di Pasquale Villari, volta a ricostruire non solo la vita del grande storico, del biografo di Savonarola e di Machiavelli, ma le vicende della città capitale dello Stato nazionale e capitale della cultura nazionale. Un libro dedicato ai tanti suoi vecchi allievi, che compendiava e riassumeva – confessava – i temi di quarant’anni di fedeltà al “C. Alfieri”. Come quello dedicato alla crisi di fine secolo, ai mutamenti profondi dell’Italia giolittiana, a Firenze tra i cattolici e laici, alla cultura e alle riviste che hanno caratterizzato il nostro Novecento: Firenze fra ‘800 e ‘900. Da Porta Pia all’età giolittiana.
    Eppoi, Firenze e Pian dei Giullari: “non è un Comune, non è neanche una frazione – amava dire e scrivere -. È qualcosa di più di una strada. È una delle colline che guardano Firenze, opposta a quella cara alla letteratura anglosassone tante volte evocata o enfatizzata, che ha per epicentro Fiesole. Opposta anche a quella legata a tutta l’estenuazione decadentista della Capponcina, alla collina di Settignano. Opposta alle ville degli inglesi, degli americani, della grande élite straniera che ha popolato Firenze. Opposta anche ai luoghi foscoliani dell’Ombrellino di Bellosguardo. È una collina rimasta press’a poco com’era del ‘400 e del ‘500”.
    Ricordi, ricerche specialistiche, ricostruzioni globali, come la storia anti-retorica Firenze mille anni: una storia degli ordinamenti e delle istituzioni fiorentine collegate con l’evoluzione culturale e civile della città. Una sintesi essenziale, imperniata su alcuni momenti e personaggi ma “senza ombra di fatui municipalismi, senza i detestabili orgogli dialettali. Storia della città nella storia dell’umanità”. Alla ricerca dei caratteri distintivi del ruolo di Firenze nella formazione dell’Occidente, rispetto a Gerusalemme, Atene e Parigi.
    La “sua città, la “sua” Facoltà. Il “Cesare Alfieri” gli aveva conferito, la prima volta, l’insegnamento di Storia per l’anno accademico 1950-51, dopo la morte di Carlo Morandi: lo proseguì ininterrottamente per 18 anni – con novità di ricerche e di interpretazioni, proposte con grande partecipazione personale, non disgiunta da un rigoroso approccio critico – fino alla nomina a direttore del “Corriere della Sera”, nel 1968, e alla assunzione di responsabilità parlamentari e politiche, dal ’72, che lo costrinsero a porsi in congedo e in aspettativa. Corsi sempre diversi, dedicati ai movimenti di opposizione, ai cattolici, ai radicali, ai repubblicani, ai rapporti Stato-Chiesa, agli inizi del Novecento, alla storia dei partiti, con singolari novità di temi e di interpretazioni. Tematiche diverse ma unite, come è stato sottolineato, dal filo comune del problema dell’avvento della democrazia e del problema nel nesso fra politica e società. Con una grande tensione ideale, con rigore morale, con coerenza nell’azione, Spadolini è stato, l’ha sottolineato Leo Valiani, il simbolo più alto della sintesi fra politica e cultura.
    Dall’Istituto di Storia contemporanea, da lui fondato, promosse molteplici nuovi temi e percorsi di ricerca, coerentemente rispetto alla linea di quella storiografia etico-politica che gli derivava dall’ “esempio dei Morandi, degli Chabod, dei Maturi” che aveva cercato di arricchire con la sua rilettura di Gobetti (si veda Il mio debito con Gobetti, del 1981). Senza la pretesa di “avere la verità in tasca, cercando di non obbedire a schemi dogmatici e deformanti. Ricerchiamo, scriveva, nella vita del passato e in quella del presente, le vene di dignità e di libertà che sempre si oppongono alle tentazioni del male e della violenza, destinate a culminare nell’autoritarismo e nella sopraffazione delle coscienze”. Un insegnamento da non dimenticare – che ricordo con commozione – come il suo particolare rapporto con Firenze: “sono un fiorentino – scriveva – che ha amato e continua ad amare in Firenze l’anelito europeo, lo spirito universale, contrapposto al municipalismo e al provincialismo. Ho sempre detestato ‘Firenzina’… In Firenze amo il germe di quella certa idea dell’Italia che è nata da lontano, che è nata dalla lingua, che mi riporta a Dante…”.

    Pier Luigi Ballini


    https://www.facebook.com/notes/giova...7690760322515/
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini: un italiano

    L’insegnamento al “Cesare Alfieri” (1994)



    1975 - Cerimonia per i cento anni della “Cesare Alfieri”. Firenze, Palazzo Vecchio, Salone dei Cinquecento. Il saluto del sindaco Elio Gabbuggiani. A destra Luigi Lotti, preside della Facoltà; a sinistra Giovanni Spadolini, professore di Storia contemporanea, allora ministro dei Beni Culturali nel governo Moro.


    di Luigi Lotti – In “Nuova Antologia”, “Per Giovanni Spadolini”, a. CXXIX, fasc. 2192, ottobre-dicembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp. 153-156.

    Scrivere, e scrivere soprattutto di storia, è sicuramente la vocazione più sentita e genuina che Spadolini abbia avuto fin dalla fanciullezza; ed è sicuramente in virtù dei suoi primi scritti che a ventidue anni Mario Missiroli lo chiamò a collaborare a “Il Messaggero”, e a venticinque Giuseppe Maranini gli conferì l’incarico di insegnamento della Storia Moderna II – che poi si sarebbe chiamata contemporanea – alla facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri”, in successione a Carlo Morandi, repentinamente scomparso. Così in età giovanissima Spadolini avviò i due principali percorsi della prima parte della sua esistenza quello del giornalismo politico e culturale, che ben presto sarebbe sfociato nella direzione del “Resto del Carlino” e nel ’68 del “Corriere della Sera”, e quello dell’insegnamento universitario e della produzione delle sue principali opere storiografiche, dall’Opposizione cattolica a Giolitti e i cattolici a I radicali dell’Ottocento, a I repubblicani dopo l’unità, a Firenze capitale, a Il Tevere più largo, a Il mondo di Giolitti, a L’autunno del Risorgimento, per stare entro quel marzo del ’72 che segnò una svolta fondamentale nella sua esistenza, aprendone la seconda fase.
    Con l’estromissione repentina dalla direzione del “Corriere della Sera”, ma la conseguente immediata elezione al Senato come indipendente nelle liste del PRI, si chiusero gli anni della direzione di quotidiani e anche dell’insegnamento universitario per l’incompatibilità con l’attività parlamentare e si aprì invece il nuovo percorso parlamentare, e presto ministeriale e poi partitico con la segreteria nazionale del PRI, fino ad assurgere alla presidenza del Consiglio, primo non democristiano dall’avvento della Repubblica, e più tardi come presidente del Senato; e si rinnovò in forme diverse il percorso giornalistico attraverso la collaborazione saltuaria alla “Stampa” e soprattutto attraverso l’acquisizione e il ritorno a Firenze della “Nuova Antologia”, e una direzione appassionata che lo sospinse a un nuovo e più approfondito filone di studio sulla Firenze dell’800.
    Il suo legame con la “Cesare Alfieri e con l’Università formalmente non si spezzò mai, ma l’incompatibilità con la carica parlamentare e la conseguente messa in aspettativa troncarono una continuità di presenza che aveva del resto già subito un’interruzione all’inizio del ’68 con la nomina alla direzione del “Corriere della Sera”, anch’essa considerata incompatibile con l’insegnamento universitario a differenza di quanto era avvenuto nei quattordici anni di direzione del più vicino e bolognese “Resto del Carlino”. Così di fatto l’insegnamento universitario di Spadolini, iniziato nel novembre 1950, ebbe termine nel marzo 1968: un periodo che lo aveva visto passare sul piano formale dall’incarico annuale alla cattedra nel 1960, ma che soprattutto aveva visto una costante immedesimazione con la proiezione culturale propria di una facoltà di Scienze politiche, di ripensamento critico delle vicende e dei problemi che sfociavano nella contemporaneità.
    Diciotto corsi, tutti diversi, sulla realtà italiana post-unitaria fino alla prima guerra mondiale: sulla realtà interna molto più che sui riflessi internazionali. Solo in occasione degli anni centenari dell’unità, l’attenzione è stata volta alla ricostruzione del processo risorgimentale, fuori da ogni agiografia e nello strettissimo nesso con il contemporaneo dispiegarsi delle vicende europee, e comunque privilegiando un’analisi serrata e financo impietosa del drammatico contrapporsi delle diverse linee e forze politiche, e del loro concreto rapporto con la società italiana. Non corsi avulsi perciò dagli altri ma che anzi ne costituivano una sorta di premessa problematica.
    Il primo corso Spadolini lo dedicò ai movimenti democratici di opposizione del nuovo regno unitario, i radicali di emanazione garibaldina e i repubblicani di emanazione mazziniana. Ed era già indicativo dell’intento di ripercorrere la lotta politica interna dalle insufficienze della costruzione unitaria, dalle aspettative mancate di un’affermazione democratica congiunta all’unità, al manifestarsi al contrario dell’ostilità della Chiesa e di settori del laicato cattolico. Nel volgersi all’esame delle voci critiche degli esiti risorgimentali, non lo sospingeva certo nessun dubbio sulla straordinaria positività del compimento unitario e del primo concretizzarsi di liberi ordinamenti rappresentativi, ma l’assillo di marcarne i limiti ristretti e per mettere in risalto la difficoltà di un’attuazione nuova nella realtà europea, cui la partecipazione genuina dei ceti medi o dei ceti popolari cittadini non annullavano l’estraneità delle masse di campagna; un’attuazione che per di più dovette subito affrontare il contrasto lacerante e duraturo con la Santa Sede, caso unico della realtà contemporanea. In definitiva per mettere in risalto le cause della lentezza del successivo progredire.
    Da qui l’attenzione portata per anni sui rapporti fra Stato e Chiesa (che fu il suo secondo corso), ma non nella loro configurazione giuridica, bensì nel loro drammatico impatto con la nuova realtà italiana, dalla rottura risorgimentale alla graduale ricomposizione dell’inizio del ‘900, e sempre nell’ottica del fondamentale problema del rapporto fra la fede religiosa e i valori di libertà ispiratori della società contemporanea. Da qui l’attenzione portata alla storia dei partiti, delle idee e dell’organizzazione politica, nella prospettiva di cogliere il faticoso e labile affermarsi della democrazia: storia delle forze politiche nella loro proiezione nazionale, ma anche nel loro radicamento locale al fine di individuare l’eterogeneità e la complessità della realtà italiana; e storia del loro configurarsi nel Parlamento attraverso le elezioni, sia pure a suffragio ristretto, e le conseguenti maggioranze parlamentari, un altro filone di studi in quegli anni assolutamente ignorato.
    Avvento della democrazia, nella sua partecipazione di base sempre più larga e negli organismi rappresentativi, e nesso fra politica e società: questa l’ispirazione di fondo. Se con l’opposizione cattolica Spadolini coglieva il problema più angoscioso dell’Italia unita, se con l’opposizione laica coglieva l’intento di concretizzare idee inattuate, ma che avevano solcato il Risorgimento, la successiva attenzione alla vita elettorale e parlamentare voleva riconsiderare la vicenda della nuova libertà interna nel suo strumento massimo e irrinunciabile; e a fianco di questa l’attenzione data a Giolitti voleva proprio rivedere il momento più rilevante del difficile ma concreto avviarsi alla democrazia: lo sforzo duro, aspro, di sospingere il paese, fra vecchi e nuovi oltranzismi, magari di segno opposto, verso un’effettiva ascesa democratica. Uno sforzo nel quale Spadolini si immedesimò perché ne rispecchiava le personali passioni e certezze.
    Diciotto corsi che hanno ripercorso i problemi di fondo dell’Italia dal processo risorgimentale alla prima guerra mondiale, e che restano nella memoria – per chi ha avuto la ventura di seguirli – come un momento essenziale di approfondimento e rimeditazione. E assieme il ricordo e il rammarico vanno alla personale partecipazione di Spadolini, che colpiva unitamente all’importanza e alla novità delle tematiche. Mai distaccato senza che questo mai attenuasse il rigoroso approccio critico. Dipendeva dall’attitudine non solo di ricostruire ma di rivivere le vicende e i problemi esaminati: con una straordinaria capacità di penetrazione psicologica dei personaggi e di ricreare l’atmosfera culturale, gli stati d’animo, i moti di opinione. Un’attitudine che rispecchiava anche il fatto che gli studi erano un aspetto fondamentale ma non esclusivo della vita di Spadolini; sempre divisa, in quella prima fase, fra l’insegnamento e la tribuna giornalistica. I due aspetti non si sono mai dissociati, pur essendo ovviamente separati, nel senso che se ne intersecavano i motivi nella proiezione nell’attualità si riflettevano le riflessioni sul passato, e negli studi sul passato gli interrogativi del presente.

    Luigi Lotti


    https://www.facebook.com/notes/giova...1431366615121/
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