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    Predefinito Simboli e spiritualità apollinea

    Apollo di Fidia. Particolare. Museo del Louvre, Parigi.

    Nell’ambito della spiritualità ellenica il ruolo del dio Apollo è certamente uno dei più complessi. Ma proprio per la sua complessità, permettetemi di limitare questa nostra conversazione a tratteggiare solamente alcune funzioni poco note del dio, quelle che hanno attinenza essenzialmente con la “dimensione mistica” del suo culto.
    Le origini di Apollo sono complesse e va certamente rifiutata la vecchia tesi di Wilamowitz-Moellendorf che ne faceva un dio medio-orientale diventato ellenico. In realtà, le cose sono molto più complicate. In un suo famoso articolo del 1975 Walter Burkert annotava la vicinanza filologica del nome del dio con le Apéllai, le feste annuali dei Dori durante le quali i giovani venivano ammessi nella comunità degli adulti. E’ un fatto importante. Non solo perché Apollo viene ricondotto ad uno dei suoi ruoli fondamentali, ossia a quello di protettore della gioventù, ma soprattutto perché nel mondo dorico questo ruolo viene associato ad un particolare momento dell’adolescenza, al compimento dei rituali iniziatici che trasformavano il giovinetto in un uomo adulto. Ad Atene questo aspetto della vita spirituale diventava particolarmente chiaro durante il rituale dell’efebìa, quando gli efèbi venivano ammessi tra gli adulti e la polis cominciava un “nuovo anno”, dava inizio ad un nuovo stadio della vita comunitaria. In tal modo Apollo diventava anche uno dei protagonisti principali della vita della polis, custodiva la vera ricchezza di un popolo, la giovinezza, le sue forme educative e la trasformazione interiore dei giovani attuata nei rituali iniziatici.
    Questa competenza ci fa capire perché Apollo ha sempre un ruolo importante quando nasce il diritto. Nelle sue linee generali il diritto sacro, il nomos, intendeva essere il riflesso del kosmos; l’ordine celeste e quello della polis dovevano entrambi rispecchiare l’unico Ordine esistente nell’universo, risuonare di un’unica euritmia sacra. Non si trattava perciò di un qualsiasi diritto teso a regolare la convivenza, ma di una “ordine sacro” formalizzatosi in modo particolare nell’attività dei legislatori che durante il periodo delle grandicolonizzazioni andarono a creare quella sorta di “civiltà parallela” che fu la Magna Grecia. Sotto questo aspetto le ondate migratorie elleniche somigliano molto da vicino al Ver sacrum italico e ad alcune forme delle “migrazioni giovanili” che caratterizzarono aspetti della Völkerwanderung germanica. Quando gli Elleni si accingevano a formare una nuova colonia su indicazione del centro apollineo di Delfi, si trattava di un evento che andava molto oltre la semplice conquista territoriale. Proprio in virtù della “assialità” spirituale di Delfi nel mondo ellenico, i loro spostamenti assurgevano al ruolo di vere e proprie “migrazioni giovanili”, “classi di età” che sotto la protezione di Apollo, il dio della giovinezza, fuoruscivano dalla polis-madre e si incamminavano verso un mondo sconosciuto che veniva assimilato ad una specie di caos. L’arrivo di questi giovani guerrieri su un territorio mai sperimentato comportava rituali particolari che ripetevano gesti originari, accadimenti appartenenti all’illud tempus del mito, riattualizzavano il primordiale gesto creatore divino. La presa di possesso della nuova terra era equiparata alla trasformazione del caos in un kosmos, in un “universo ordinato”, e il loro arrivo veniva assimilato alla stessa creazione divina. Lo stanziamento dei coloni assumeva i contorni di una cosmogonia, il nuovo territorio era assimilato alle “tenebre” che precedono la luce e il prenderne possesso veniva assimilato all’atto stesso della creazione degli esseri all’origine del cosmo, alla creazione della simbolica “terra originaria”. Solamente dopo aver compiuto il complesso rituale della costruzione dell’altare del sacrificio, oppure della consacrazione di un omphalos sacro, assimilato ad un vero e proprio umbilicus mundi, i coloni cominciavano a formare l’embrione della polis attorno a quello che ritualmente era diventato un vero e proprio “centro del mondo”, l’acropolis, il cuore, il nucleo centrale ed essenziale della nuova città. Finalmente, il nomos poteva ricondurre ogni aspetto della vita comunitaria alle sue radici e ai suoi fondamenti celesti, al divino kosmos.
    Un aspetto della spiritualità apollinea troppo spesso trascurato dagli studiosi della Grecia, ma che sarà enormemente popolare nel periodo ellenistico, è quello che concerne l’Apollo Pastore. Tutta una quantità di raffigurazioni iconografiche e di componimenti bucolici, da Teocrito fino a Mosco e allo stesso Virgilio, ne hanno celebrato la funzione e la spiritualità. La diffusione più ampia di questa particolare epìclesi apollinea si è avuta molto probabilmente in Sicilia e in particolare presso le colonie doriche. Qui, è esistito tutto un vasto insieme di canti bucolici che hanno costituito il vero retroterra mitologico e sacrale cui attingevano i poeti pastorali e molto probabilmente giustifica anche lo stesso uso del dialetto dorico negli Idilli di Teocrito, cosa certamente inusuale in un poeta bucolico. Si tratta di una tradizione molto forte radicata nei canti rituali delle arcaiche confraternite giovanili legate in modo speciale ai culti dell’Artemide dorica e di Apollo, una tradizione che si è continuata sino ad un’epoca relativamente recente soprattutto nelle colonie doriche siciliane. Il poeta e compositore Epicarmo, che visse per molti anni alla corte di Gerone di Siracusa, in alcuni dei suoi drammi ricorda che a Siracusa esisteva da tempi antichi un’importante tradizione pastorale comprendente canti sacri che si accompagnavano al suono della siringa e menziona persino alcuni bukòloi famosi, Tityrus e Tyrsis.E poichè Tityrus nel dialetto dorico significa “montone”, “ariete”, questo epiteto potrebbe alludere al simbolo dell’Archegeta di qualche confraternita pastorale. Thyrsis è invece il “portatore del tirso”, il bastone sacro sul quale troneggiava una pigna sacra ad Artemide-Diana. Lo Scoliaste di Teocrito, e i commentatori più tardi Probo, Servio e Filargirio attestano l’esistenza di canti bucolici siciliani legati alle tradizioni doriche, tradizioni che quasi sicuramente ha conosciuto lo stesso Virgilio durante i suoi frequenti ritiri in Sicilia attestati, fra altro, nel cap. 13 della Vita di Virgilio di Donato, e che hanno potuto determinare il simbolismo che fa da sottofondo alle sue Bucoliche.
    Si è sottovalutato o marginalizato il valore di questi canti rituali pensando che fossero troppo primitivi per arrivare ad influenzare poeti raffinati come Mosco, Bione o Teocrito. Si è preferito pensare che essi esprimessero i valori di un mondo ingenuo, semplice, capace di affascinare chi, come Virgilio, avrebbe amato una vita pastorale rozza, ma autentica e lontana dalle turbolenze della politica romana. Qualcuno si è anche fatto prendere la mano differenziando i pretesi rozzi canti del pastore solitario che si sarebbero accompagnati al suono di strumenti primitivi, da quelli più dotti, una forma poetica pastorale “riflessa” o “d’arte” fiorita essenzialmente in Arcadia. Si dimentica però che in ogni società arcaica gli inni sacri hanno sempre avuto un valore essenziale che andava a toccare ogni pur piccolo ed apparentemente insignificante aspetto dell’esistenza, e il loro canto serviva spesso sia a perpetuare la memoria di importanti mitologhemi che nascondevano una sapienza ancestrale, sia ad accompagnare i vari rituali. È una realtà che non può essere ignorata e che radica gli antichi canti pastorali di cui parla la tradizione, non in una astratta vita silvestre, ma in una vissuta ed intensamente partecipata liturgia sacra. Mentre poi di queste pretese “rozze canzoni” non abbiamo nulla, la tradizione al contrario ricorda i canti sacri delle processioni dei bukòloi siciliani,le confraternite di giovani mascherati da animali e armati di bastoni che, con i loro simbolici dolci a forma di animali, andavano di casa in casa a portare le sementi per iniziare l’”anno nuovo” cantando inni ad Artemide ed invocando una prole numerosa, greggi ricchi, raccolti abbondanti. Queste confraternite profondamente radicate nella spiritualità apollinea non costituivano un fatto eccezionale nel mondo antico. I raggruppamenti di bukòloi si accompagnavano a tutta una serie di consorterie religiose di vario tipo e “radicamento” spirituale che comprendevano anche confraternite guerriere, corporazioni di vasai, fabbri-sciamani, tessitori, medici, cantori, danzatori, asceti solitari e una varietà non piccola di tiasi dionisiaci. In questo complesso sistema di organismi iniziatici primeggiavano per la loro importanza anche culturale e para-filosofica quelli che si richiamavano all’insegnamento di Orfeo, correntemente considerato un’epiclesi del dio Apollo.
    Il tema centrale dei canti rituali che i bukòloi solevano indirizzare ad Artemide o ad Apollo era quello dell’amore sfortunato di una dèa (Artemide, ma a volte anche Afrodite) per un pastorello: Acteone, Paride, Peleo e, più importante di tutti, l’apollineo Dafni, “il portatore d’alloro”. Si diceva che l’origine di questi canti sacri risaliva all’illud tempus nel quale i bukoloi avevano invocato Artemide e la dèa Liea (“Colei che allontana dai mali”) perché ponessero fine ad una terribile pestilenza che affliggeva la Sicilia. Al culmine di quel rito di invocazione la confraternita dei bukòloi entrò improvvisamente nel teatro elevando canti ad Artemide. Da quel momento, perpetuando e riattualizzando le condizioni spirituali narrate dal mito, il teatro diventerà una imago mundi e perciò continuerà ad essere considerato il “luogo sacro”, lo “spazio liturgico” nel quale venivano rappresentate le composizioni pastorali fin nel periodo alessandrino e poi nella stessa Roma. Secondo Stesicoro ed Ermesianatte, che attingono ad una tradizione conosciuta anche da Eliano e da Diodoro Siculo, il primo ad intonare i canti sacri, i bukolismōi, fu proprio Dafni che fondò così la tradizione seguita poi da tutti gli altri bukòloi. È la stessa tradizione raccontata dal poeta Parthenios, poi ripresa anche da Servio, il commentatore di Virgilio: Dafni è contemporaneamente un Cantore dall’insuperabile talento e un innamorato sfortunato o infedele, un cacciatore il cui canto ritmato sul suono della siringa incantava la stessa Artemide.
    L’ambientazione essenzialmente rituale di questi antichissimi canti ci conduce ad Atene dove esistevano canti rituali similari. Qui erano notissime le invocazioni e le lodi elevate durante quelle feste ateniesi nelle quali corteggi di giovinetti mascherati accompagnavano la processione che si snodava attorno a quello che veniva considerato uno dei più caratteristici “veicoli di manifestazione” del dio Apollo: un ramo d’ulivo rivestito di striscette di lana che con i suoi simboli di rinnovamento e di “ricchezza” universale, evidenziava questo aspetto particolare del culto apollineo.
    Apollo del Belvedere. Particolare. Musei Vaticani, Roma.

    Come si vede si tratta di un insieme molto vario ed esteso di rituali sacri che probabilmente giungeva fino in Beozia e in Eubea, là dove ancora al tempo della poesia alessandrina erano vive le tradizioni conservate nelle feste delle Daphnephorie i cui canti esaltavano la figura di un Dafni-Fanciullo i cui caratteri fondamentali sembrano essere convogliati nelle vicende concernenti „la Passione di Dafni“, così importante nella poesia teocritèa. È in questo arcaico contesto rituale che Richard Reitzenstein pensava di poter ricondurre le composizioni dei compositori epigrammatici (Anite di Tegea, Nicia, Mnesalca di Sicione, etc.), alla cui tradizione poi avrebbero attinto i poeti pastorali alessandrini. Dopo aver analizzato attentamente i significati spirituali del termine βουκόλος, considerato come l’attribuzione dell’iniziato ai “misteri di Dafni”, Reitzenstein riteneva di potere affermare che si tratta di frammenti di una poesia derivata da un retroterra mistico, le cui basi possono essere rinvenute in tutta una serie di confraternite di bukòloi.
    Nè il culto di Apollo Pastore ha costituito una specie di prerogativa poetica che narrava antichi miti senza radicamento rituale. Al contrario, l’Apollo Pastore ha costituito una delle forme simboliche più diffuse nel periodo alessandrino. Lo stesso Virgilio menziona una sua epìclesi nell’Egloga VI (vv.72-73), quando accenna al “bosco di Gryneios”, il noto santuario del dio Apollo situato nell’Eolide. Questo cenno è importante. Scaturisce da una ambientazione che si conclude con l’apparizione di Lino considerato divino carmine pastor, una formula che riprende integralmente il simbolo elegiaco cantato nei mitologhemi che narravano le storie di Apollo-Pastore. È il medesimo simbolismo che affiora in Egl., VI, 4 quando Apollo Cynthius si rivolge ad un “pastore” e lo ammonisce a non comporre la poesia eroica, ma un deductum carmen, “un canto sacro dimesso” (= “composto da umili versi”), quello che Virgilio ha reso immortale come bucolicum carmen. In tal modo Virgilio ordina l’intera sua poesia pastorale attorno alla spiritualità apollinea, anzi più precisamente attorno a quel particolare aspetto del culto di Apollo che sembra essersi espresso nel santuario del Grynei nemus, “il bosco sacro di Gryneios”, un santuario cantato spesso dalla poesia elegiaca, famoso per il suo tempio e per il bosco sacro, le stesse realtà la cui ricchezza simbolica permea tutta la tradizione oracolare proto-latina.
    Quello che può risultare importante per capire le connessioni che esistono fra questa moltitudine di simboli pastorali, il culto dell’Apollo Pastore diffuso nelle colonie doriche siciliane e un poeta come Virgilio, è il fatto che il “mito di fondazione” di questo straordinario santuario apollineo, secondo quanto riferisce Servio nel suo commento alle Bucoliche, era stato cantato in un poema perduto da Euforione di Calcide, il cantore di una serie di mitologhemi di tipo arcadico-pastorale seguiti da tutti i poeti del periodo augusteo. Non si è trattato di uno scritto marginale o poco noto (al contrario, i suoi componimenti fecondarono la cultura antica tanto che il suo poema su Dioniso ispirò l’opera di Nonno), ma di una composizione che dovette avere un’amplissima circolazione nelle élites culturali imperiali nella traduzione che ne aveva fatto uno degli amici più stretti di Virgilio, un generale inizialmente molto apprezzato da Ottaviano, il futuro governatore dell’Egitto Gaio Cornelio Gallo.
    Tutto ciò può indurci a comprendere altri aspetti della complessa spiritualità apollinea. I legami di Orfeo con Apollo sono troppo noti per riprenderli in questa sede ed emergono da una molteplicità di testimonianze. Il suo nome, che secondo Karoly Kerényi scaturisce dallo stesso radicale da cui si è formato il termine ορφανός, darebbe il significato di “Solitario”, “l’asceta solitario”, per cui molto probabilmente è un epiteto, un appellativo che designa una funzione, l’attributo di uno status spirituale dal quale è scaturita una tradizione, non il nome vero e proprio di una personalità “quasi-storica”. E’ un particolare che dà consistenza alla realtà altrimenti evanescente di una sorta di confraternita di asceti itineranti che si richiamavano all’insegnamento di questo mitico cantore apollineo. Orfeo è sempre posto al centro di selve immacolate o in ambientazioni quasi parusiache. Spesso viene esaltata la sua maestrìa compositiva perché egli è sempre stato considerato il fondatore del canto aureo, il maestro della musica liberatrice che ripristina l’equilibrio del cosmo e ne “interpreta” i ritmi originari. Orfeo era l’archegeta delle primitive confraternite di cantori-pastori le cui condizioni di vita nelle foreste e negli antri più nascosti si ritenevano simili a quelle degli Oracoli, dei veggenti e dei profeti primordiali. In tutta una lunga tradizione che non è mai cambiata questo Cantore ha goduto di uno status particolare, legato ai primordi e ad una umanità “originaria”, perfetta. Si pensava che il ritmo del suo canto fosse in grado di “interpretare” il tessuto del mondo e di ripristinare arcani equilibri alterati, persino di permettere agli animali di “ritornare” allo stato originario, quando comunicavano fra di loro e con gli uomini, uno status che il simbolismo traduceva con le note espressioni “il lupo stava con gli agnelli” e “il leone con gli armenti”. Il canto aureo di Orfeo tendeva a riportare il cosmo alle stesse condizioni di perfezione originaria custodite da Apollo, il dio dell’equilibrio e dell’armonia cosmica.
    Come testimoniava Platone, tutto il sostrato spirituale, mitico e rituale che arricchisce l’Orfismo è connesso con il Pitagorismo. Per capire queste relazioni occorre ricordare che Pitagora (572-500 circa) fu considerato una specie di “riformatore” della spiritualità orfica e la confusione che spesso emerge fra i due movimenti deriva proprio da questa vicinanza spirituale. Pitagora “riforma” e “riadatta” le arcaiche forme spirituali cosmico-visionarie del tempo mitico in una prospettiva più etica, nella quale l’esperienza del divino non è più la condizione di estatici vaganti e solitari appartenenti ad un passato mitico irripetibile, ma viene consegnata ad un movimento che custodisce tutto un sistema rituale ed in sé misterico, con una solida dottrina in grado di spiegare il significato dell’uomo e del mondo, e con un insieme di simboli che si ritiene essere contessuti con l’universo e con i ritmi di cui è pervaso. Non è un caso che Pitagora è quasi contemporaneo di altri grandi riformatori spirituali. In India il Buddha (563-483 circa) e il Jina (m. nel 527); in Iran Zarathustra (n. 630); in Cina Confucio (551-479) e Lao-Tse; in Israele i profeti Daniele, Geremia e il “Deutero-Isaia”; nella stessa Grecia emergono gli Eleati e Eraclito di Efeso. Si tratta di quello che qualcuno ha definito “climaterium delle civiltà”, un evento di carattere epocale che trasforma il rapporto dell’uomo col mondo e determina forme nuove di approssimazione al divino.
    Adesso vorremmo analizzare alcune forme poco conosciute delle tecniche di meditazione pitagoriche. Si tratta essenzialmente di spiegare come anche in questa corrente spirituale così profondamente legata al culto apollineo, sia possibile rinvenire un sistema meditativo che associa il controllo meditativo sulla memoria e sul pensiero con tecniche respiratorie, nel loro complesso somiglianti a quelle conosciute in tutte le scuole contemplative indiane come le diverse varietà di yoga.
    Un testo significativo a questo proposito è costituito dalle “Memorie” di Alessandro Polyistore, un’epitome del 1° secolo a.C. conservata da Diogene Laerzio (VIII, 24, 33). Secondo Polyistore, nel processo di formazione dell’essere umano l’anima si trova come “dispersa” nei vari organi vitali e sensitivi, ma ha il suo supporto per eccellenza nel sangue, concepito come il veicolo di manifestazione del calore “pneumatico” che circola attraverso tutto il corpo e che al livello più basso determina le percezioni sensitive. Questa particolare forma di vitalità ha i suoi “canali”, “i vincoli dell’anima” li chiama Polyistore, ossia le vene, le arterie e i nervi che “legano” l’anima agli organi vitali e la “obbligano” in una incessante attività emotiva ed astrattiva che ne disperde la potenza creativa. Questo complesso sistema costituisce una specie di “rete” di circolazione del “sangue caldo” che sembra un preciso riferimento a primordiali tecniche meditative basate sulla concentrazione sul flusso sanguigno. Nelle tradizioni di molti popoli, infatti, il sangue è concepito come il veicolo di quel calore “psichico” che certe tecniche meditative tendono a percepire mediante una visualizzazione del suo percorso nel corpo umano. Tali metodi sembrano legati a teorie arcaiche sul respiro che lo collegano col pensiero, cosa che Polyistore esprimerà dicendo che “i ragionamenti sono i soffi dell’anima” e che perciò quando “l’anima acquista forza e si riposa concentrata in se stessa, suoi legami diventano i ragionamenti e le sue operazioni”. AlessandroPolyistore sta visibilmente distinguendo uno status nel quale l’anima-soffio è condizionata dalla sua stessa attività logico-razionale e dal flusso delle sensazioni, da un altro nel quale essa sperimenta l’attività logica come altro da sé, come “un atto non originario”, nel quale essa si svincola dal condizionamento razionale e sperimenta una specie di “puro essere”.
    Tutto ciò potrà farci capire il famoso fr. 129 di Empedocle su Pitagora: “C’era tra essi un uomo di straordinaria sapienza, che possedeva ricchezza di ingegno e quando tendeva la potenza del suo spirito, distingueva facilmente ognuna delle cose che sono in dieci, venti vite umane”. L’espressione che usualmente viene tradotta come “tensione della potenza del suo spirito” poggia sul termine prapìdes, il cui arcaico significato è diaframma, documentato da Omero nell’Iliade almeno in tre casi precisi. La frase di Empedocle mette in evidenza Pitagora mentre “tendeva la potenza del suo diaframma“, quando faceva leva sull’organo fisico che regola i ritmi della respirazione e perciò esercitava un controllo sul respiro che lo portava ad abolire il tempo e a “vedere le cose che sono in dieci, venti vite umane“, tanto che altrove Empedocle potrà esclamare “Felice colui che ha acquistato la ricchezza di prapìdes divine”. E’ così che Pitagora, come ogni theìos anèr, ogni “uomo divino” dell’età arcaica, poteva “risalire” indietro nel tempo, “vedere” gli accadimenti passati, “ritornare” alle proprie radici spirituali, “ricordare” la realtà originaria, quando era naturale congiungere “la fine e il principio“, come diceva Alcmeone di Crotone, un’immagine visibilmente vicina a quella dell’”uomo a forma di sfera” del notissimo mito platonico. Siamo nello stesso contesto dottrinale nel quale Platone collocava la dottrina dell’anàmnesi, identica in tutto a quello che gli Yoga Sutra chiamano prâtiloman (= “a contropelo”), quando Patanjali suggerisce di “ripercorrere il tempo all’indietro [="a contropelo"].
    Ci troviamo di fronte a tecniche di controllo del respiro che si accompagnano ad arcaiche forme di controllo del pensiero e di vivificazione di quella che nel linguaggio mitico era Mnemosyne, la Memoria, la dèa che aboliva il flusso del divenire e riportava il miste alle condizioni di una stasi sovra-temporale. D’altronde, cos’altro è la “memoria” se non uno stabilizzarsi in un presente intemporale? Riportando un mito antichissimo, Pausania (IX, 29, 2-3) ci dice che ancora prima di essere la madre delle nove Muse classiche, Mnemosyne fu la madre di tre Muse: Meleté, “l’esercizio”, Mnéme, la “memoria” e Aoide, il “canto”, i tre momenti di ogni forma contemplativa: 1. l’esercizio meditativo;2.ilrisveglio del proprio principio spirituale; 3. la “rivelazione” di una condizione spirituale così simile al latino Carmen, quello che Walter Otto nel suo celebre libretto sulle Muse ha indicato come la parola divina che canta il significato del cosmo. Lo “incanta”.

    * * *
    Nota bibliografica
    N. D’Anna, La Disciplina del Silenzio. Mito, mistero ed estasi nell’antica Grecia, Il Cerchio, Rimini 1995;
    N. D’Anna, Mistero e Profezia. La IV egloga di Virgilio e il Rinnovamento del mondo, Lionello Giordano, Cosenza 2007;
    N. D’Anna, Publio Nigidio Figulo. Un pitagorico a Roma nel 1° secolo, Archè, Milano 2008.


    (Fonte: Simboli e spiritualitÃ* apollinea | Nuccio D Anna)
    "C'era un Tempo in cui l'uomo viveva accanto agli Dei..poi la predicazione galilea ci porto' il deserto del nulla...e infine caddero le tenebre della modernità"



  2. #2
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    Predefinito W. Otto - Figure di Dèi olimpici - Apollo




    La descrizione di Apollo richiede stile sublime: un'elevazione al di sopra di tutto ciò che è umano.

    WINCKELMANN

    Apollo accanto a Zeus è il dio greco più significativo. Su questo punto non vi può esser dubbio alcuno neppure in Omero.
    Infatti è impossibile immaginare che egli possa comparire senza dar prova della sua superiorità. Le sue manifestazioni sono in più di un caso veramente grandiose. Risuona la mae-stà della sua voce al par di tuono allorché ordina a Diomede di arrestarsi (Iliade, 5, 440). I suoi incontri con potenti o pro-tervi assurgono a simbolo della caducità di tutti gli esseri ter-reni, anche dei più grandi, di fronte alla divinità. Finché du-rerà nell'uomo il senso del divino, non si potrà leggere senza sentirsi intimamente scossi come intralciò l'azione di Patro-clo, per finire nel bei mezzo della pugna col lasciarlo trucida-re {Iliade, 16, 788 sgg.). Già presentiamo che anche il grande Achille, il più illustre degli eroi, cadrà dinanzi a lui. Il cavallo parlante Xanto lo chiama «il più forte degli dèi» (Iliade, 19, 413), a proposito di questi due grandi destini.
    La grandiosità dell'Apollo omerico è nobilitata dall'eleva-tezza dello spirito. E così pure gli artisti delle epoche posto-meriche fecero a gara a riunire nella sua immagine tutto quanto di più alto, glorioso e ad un tempo luminoso si possa pensare. Indimenticabile, per chiunque lo abbia visto una vol-ta, è l'Apollo del tempio di Zeus in Olimpia. L'artista vi fissò un attimo d'insuperabile grandiosità: in mezzo alla mischia tumultuante appare improvviso il dio; il suo braccio teso ordi-na tregua. Dal suo viso traluce nobiltà, i suoi grandi occhi si impongono con la sublimità della pura contemplazione; ma intorno alle labbra nobili e forti si muove il fine tratto quasi malinconico di un sapere superiore. L'apparizione del divino in mezzo alla brutalità e alla confusione di questo mondo non può venir rappresentata in modo più commovente. Anche le altre sue immagini lo caratterizzano per la maestà del conte-gno e del movimento, per la potenza dello sguardo, per la lu-minosità e libertà che si accompagna al suo apparire. Nei trat-ti del suo viso forza virile e chiarezza si uniscono allo splendo-re della sublimità. E la gioventù nella sua più fresca fioritura e purezza. I poeti vantano la sua capigliatura ricciuta, che già la più antica lirica chiamava aurea. L'arte figurativa lo rappre-senta quasi sempre imberbe e mai seduto, ma ritto o nell'atto del camminare.
    La sua figura ricorda assai quella di Artemide, nella quale tutto ciò ricompare, ma in forma femminile; infatti queste due divinità sono da tempi antichissimi strettamente unite, così che vogliamo da principio considerarle insieme.

    Il mito chiama Apollo e Artemide fratelli. Non sappiamo quale fu l'origine di questo accostamento. Ma le loro figure storiche sono così rassomiglianti, come solo fratello e sorella possono esserlo. E quanto più si penetra in fondo alla loro na-tura, tanto più significativa si fa questa rassomiglianza. Ciò che pare separarli si dimostra ben presto essere solo la neces-saria differenza di sesso, poiché essi si svelano infine come le due facce di un essere divino, le somiglianze e dissomiglianze delle quali formano nel più prodigioso ed espressivo dei mo-di un mondo intero.
    Apollo e Artemide sono i più sublimi dèi della Grecia. Ce lo dice il loro manifestarsi, ossia come li hanno visti poesia e ar-te figurativa. Della loro posizione privilegiata nel circolo dei Celesti rende già testimonianza il predicato di purezza e sa-certà che è loro proprio. Secondo Plutarco e altri, Febo si-gnifica «puro» e «sacro», e senza dubbio essi colgono nel se-gno. E così pure Eschilo e altri poeti dopo di lui interpretaro-no ugualmente questo nome, che usarono la stessa parola per caratterizzare i raggi del sole o l'acqua. Questo nome era già così familiare anche a Omero, che egli chiama il dio non solo Apollo Febo, bensì anche solamente Febo. Artemide è l'unica fra tutte le divinità celesti che Omero onora coli'aggettivo di à[IMG]file:///C:/Heidentum/images/smile/053.gif[/IMG]Ti, il quale significa ad un tempo sacro e puro. Lo stesso predicato usano Eschilo e Pindaro per Apollo. Entrambe le divinità hanno qualcosa di misterioso, d'inawicinabile, che incute rispetto. Arcieri entrambi, e invisibili, colpiscono da enormi distanze, e il saettato si spegne senza soffrire, col sor-riso della vita sulle labbra. Artemide è la sempre lontana. Ama le solitudini delle selve e dei monti, si trastulla con le belve. Chi le è devoto coglie per lei ghirlande « sulle praterie imma-colate, ove il pastore non osa far pascolare le greggi, ove non giunse l'asprezza del ferro e solo le api passano sciamando a primavera, qui domina Pudicizia che l'irrora della rugiada del puro elemento» (Euripide, Ippolito, 75 sgg.). Tutto il suo mo-do di essere è distacco, limpidissimo esimersi. Ed è proprio dell'indole di Apollo lo stare in disparte. Si credeva a Delfì, a Delo e in altri luoghi di culto ch'egli si ritirasse per una parte dell'anno in misteriose lontananze; che se ne andasse col principiare dell'inverno per tornarsene solo in primavera sa-lutato da canti sacri. A Delo si riteneva che nei mesi invernali egli si trattenesse in Licia (cfr. Servio, Commento all'Eneide, 4, 143). Il mito delfico indica quale luogo del suo soggiorno il favoloso paese degli Iperborei, sul quale anche a Delo si fan-tasticò assai sin dai tempi antichi. «Ne nave ne viandante vi può approdare» (Pindaro, Pitiche, 10, 29). Colà abita il popo-lo sacro, che non conosce malattia ne vecchiaia, al quale sono ignote fatiche e lotte. Si diletta Apollo nei giorni in cui si ce-lebrano le sue feste e gli si offrono i sacrifici; tutt'intorno a lui è un mormorio di cori virginali, è un risuonare di lire e flauti, mentre il lauro lucente cinge il capo dei lieti banchettanti (Pindaro, Pitiche, 10, 31 sgg.). Una volta Atena vi condusse Perseo, quando egli doveva uccidere la Gorgone (Pindaro, Pi-tiche, 10, 45). All'infuori di lui solo gli eletti di Apollo videro il paese favoloso. Il profeta e mago Abari, proveniente da colà quale messo di Apollo, portò in giro per tutta la terra lo strale del dio (Erodoto, 4, 36. Secondo una versione testimoniata piuttosto tardi, ma certo originaria, Abari non portò lo strale, ma volò su di esso per tutti i paesi; cfr. H. Frànkel, De Simia Rhodio, Góttingen, 1915, p. 35). Aristea «figliolo di Caustor-bio, uomo proconnesio, dice nei suoi carmi epici essere per-venuto agli Issedoni, ispirato da Febo: e sopra gli Issedoni abi-tare gli Arimaspi, uomini monocoli, e sopra questi i Grifi, cu-stodi dell'oro, e più oltre gli Iperborei» (Erodoto, 4, 13). Era a Delo che, secondo Erodoto 4, 33 sgg., si potevano sentire molte cose sugli Iperborei, poiché là giungevano ambascerie e offerte da quel magico e lontano paese. Se ne trovano cenni in Esiodo e nell'epos degli epigoni, ma non in Omero. Ma non c'è bisogno di spendere parole per dimostrare che la rap-presentazione di queste contrade luminose deve essere anti-chissima. Colà esisteva «l'antico giardino di Febo», come dice Sofocle in una tragedia andata smarrita (fr. 870 Nauck = 956 Radt). Colà spariva Apollo ogni anno, da là ritornava ogni an-no, quando tutto fioriva, accompagnato dai suoi cigni. Alceo ne cantò in un inno ad Apollo purtroppo perduto, che cono-sciamo però attraverso Imerio (Orazioni, 14, 10 = 48, 121 Co-lonna) : allorquando Apollo nacque, Zeus gli donò un carro di cigni, sul quale però egli andò non a Delfì ma dagli Iper-borei; gli abitanti di Delfì lo invocarono con canti, ma egli ri-mase un anno intero presso gli Iperborei, finché a suo tempo fece prendere ai suoi cigni la via di Delfì. Era estate e gli usi-gnoli cantavano per lui, e le rondini e le cicale; spumeggiava argenteo il fonte castalio e il Cefiso era gonfio di torbide on-de. Così si esprime Alceo. Fu questa la prima venuta del dio; ritornò poi regolarmente con la stagione calda portando con sé canti e vaticini.
    Questo suo allontanarsi è per la natura di Apollo estrema-mente importante. Se lo paragoniamo ad Atena, se ne vede immediatamente la grande differenza essenziale. Mentre ella è sempre prossima, egli è distaccato. Non accompagna nessun eroe quale amico fedele, sempre pronto ad aiutare e consigliare. Non è, come Atena, spirito dell'immediatezza, del prudente ed efficace dominio sull'attimo. I suoi eletti non sono uomini d'azione.


    Ma chi è dunque questo dio, il cui occhio ci saluta dalle lontananze, e la cui apparizione è circonfusa da tanto magico splendore?
    Si opinò con fondate ragioni che la sua patria fosse da por-si non in Grecia, ma in Asia Minore (cfr. Wilamowitz, in « Her-mes», 38, 1903, pp. 575 sgg. e Greek Historical Writing and Apol-lo, London, 1908, a cui si oppone Bethe nell"AvTÌ5o)pov fùr Wackernagel, Góttigen, 1923, mentre Nilsson nella sua History of Greek Religion, Oxford, 1925, p. 132 è d'accordo con lui). Pa-re avere le sue origini in Licia, patria pure della madre sua La-tona.

    Attraverso questa congettura, che può anche sedurre, si giunse a conclusioni assai ardite: quale dio asiatico Apollo sta-rebbe in Omero dalla parte dei Troiani. La sua natura più an-tica, come appare evidente nell'introduzione deìì'Iliade, sa-rebbe quella di un dio terribile e annunziatore di morte. La distanza che corre tra questa immagine spaventosa e il dio della saggezza delfica è d'altronde così grande, da non poter venire spiegata che attraverso la più significativa delle riforme religiose.
    Ma da un esame più minuzioso di Omero si giunge al risul-tato che il suo Apollo non era per lui diverso da quello che più tardi fu onorato a Delfì. La singolare idea di quel dio che porta il nome di Apollo e fu in Grecia una potenza spirituale tanto significativa deve essere nata molto tempo prima che apparisse il poema omerico, e fa parte di quelle rivelazioni le quali costituiscono gli elementi della religione olimpica e, in senso più stretto, greca. Ma per stabilire quale fosse l'immagi-ne del dio prima di quest'epoca, ci mancano testimonianze e documenti. Nessuno può dubitare che l'arco e la lira gli siano appartenuti fin dai tempi più antichi; è pure più che probabi-le che avesse il dono del vaticinio. Ma bisogna guardarsi dal-l'errore di voler dedurre da semplici circostanze di fatto l'es-senza vitale di una divinità arcaica ed il significato che ebbe per i suoi adoratori. Perciò abbandoniamo tali questioni e puntiamo la nostra attenzione su quella fede che per la prima volta si rivela chiaramente in Omero.
    Se si legge Omero col preconcetto che la religione di allora abbia posseduto soltanto ciò che egli manifesta esplicitamen-te, allora certamente Apollo pare assumere solo più tardi la proprietà di dio della purezza; la sua severa chiarezza, il suo spirito eccelso, la sua volontà imperativa di chiara visione, di misura, di ordine, in breve, tutto ciò che noi ancor oggi defi-niamo apollineo, doveva esser ancora ignoto ad Omero. Ma Omero non vuole certo ammaestrare. Fa comparire, agire, di-scorrere gli dèi così come essi sono familiari a lui e ai suoi ascoltatori. Gli bastano per Apollo, come per gli altri, pochi tratti, onde mettercene la figura sotto gli occhi. Ma se vi pre-stiamo la dovuta attenzione, riconosceremo subito il geniale disegno di un carattere che doveva esser ben noto ad ogni ascoltatore; e da queste figure, spesso tracciate solo fuggevol-mente, v'è assai più da imparare che da molte affermazioni sulla potenza e il carattere del dio.
    Nella famosa disputa degli dèi nel XXI libro de\V Iliade, due fra gli dèi rifiutano di battersi, ciascuno per il motivo, a lui peculiare, di voler essere al di sopra della mischia. Ermete, l'astuto compare, lo spirito della buona fortuna e delle occasioni fa-vorevoli, non pensa neppure a volersi misurare con la grande Latona e non ha nulla in contrario a che ella si vanti «fra gli eterni dèi » di averlo vinto. Come altrimenti si comporta Apol-lo! Poseidone con un'ardente conclone lo sfida a duello. Ma quale dignità nella sua misurata risposta: « Mi chiameresti in-sensato e folle se volessi pugnare con tè a cagione degli uomi-ni, miseri, che al par di foglia ora sono freschi or appassisco-no». E quando la sorella Artemide con schietta animosità fem-minile lo accusa di vigliaccheria e lo rimbrotta, egli tace e vol-ge i suoi passi altrove {Iliade, 21, 461 sgg.). Non è questo il dio di Pindaro, il nobile nunzio dell'avvedutezza, della conoscen-za di sé, della misura e dell'ordine sensato? «Che cos'è l'uo-mo?» dice Pindaro, parlando nel suo spirito (Pitiche, 8, 95). «L'uomo è il sogno di un'ombra, ma quando dal cielo gli pio-ve un divino bagliore, tutto riluce e la vita gli è grata». Niente caratterizza meglio il contegno, il cui ideale viene posto sotto gli occhi degli uomini dall'Apollo postomerico, quanto il con-cetto di saggezza con cui egli inizia a parlare in Omero (Iliade, 21, 461 ). « Conosci tè stesso! » grida al visitatore dal suo tempio delfico. Ossia (cfr. Fiatone, Carmide, 164d): conosci cos'è l'uo-mo e quanta distanza lo separa dalla maestà degli dèi eterni: ricorda i limiti dell'umanità! Si può forse dubitare che non sia questo il medesimo Apollo della sopracitata scena di Omero? Ma non solo in essa, che il poeta mantiene stabile il carattere. Nel V libro de\V Iliade Diomede procura la rovina di Enea, feri-sce la deaAfrodite, che cinge con le braccia protettrici il figlio, e assale di nuovo la sua vittima, pur sapendo che Apollo in per-sona tiene la sua mano sopra di lui. Allora il dio maestoso lo rimbrotta con voce terribile: « Guarda a tè, figlio di Tideo, in-dietro! E non pretendere di misurarti con gli dèi, che non son della medesima schiatta gli dèi immortali e gli uomini che camminano sulla terra! » (Iliade, 5, 440 sgg.). E nell'ultimo li-bro de\V Iliade, col pathos della ragione che frena e dell'animo nobile, si erge Apollo per porre fine all'inumano gesto di A-chille, che da ben dodici giorni fa scempio del cadavere di Ettore. Lo accusa dinanzi agli dèi di scelleratezza e durezza di cuore, di essere privo del rispetto per le leggi eterne della natura e della misura che sono vanto della nobiltà anche dopo le perdite, le più dolorose. «Quantunque egli sia sì prode la nostra ira lo minaccia, che la sua collera offende l'insensibil terra» (Iliade, 24, 40 sgg.). Gli dèi danno ragione ad Apollo.
    Ecco l'Apollo omerico. La manifestazione della sua elevatezza spirituale è propria della sua essenza e non un'aggiunta fat-ta successivamente alla sua figura. Slmilmente accade per i sin-goli tratti che gli saranno poi caratteristici. Egli, che a Delfi an-nunziava i pensieri del supremo dio del cielo, a questi è anche in Omero più vicino di qualsiasi altra divinità. Il suo esser cu-stode della purezza e maestro d'ogni purificazione può appa-rire una caratteristica di una fede posteriore soltanto se si sog-giace al pregiudizio. E vero che Omero pare ignorare total-mente tutta questa sfera, ma suole però chiamare sovente que-sto dio Febo, ossia il puro. D'altronde solo quando avremo ap-preso a concepire cosa significhino purezza e purificazione nel senso di Apollo, potremo comprendere giustamente la ve-ra natura della sua grandezza spirituale. E senz'altro evidente che appartiene a questa spiritualità la musica apollinea, il sa-pere il giusto, il prevedere e l'istituire gerarchle superiori. Tut-to ciò si addice all'Apollo omerico. Presentiamo già che queste qualità e perfezioni sono irradiazioni di una e medesima qua-lità fondamentale, manifestazioni svariate di un solo essere di-vino, che i Greci avevano già adorato come Apollo prima di Omero. Ma bisogna che le esaminiamo singolarmente se vogliamo cogliere meglio il senso del tutto e della singolarità.

    Cominciamo dalla purezza.
    L'Apollo postomerico si cura particolarmente di ciò che ri-guarda purificazioni ed espiazioni. I poemi omerici invece non ne parlano. Ma ciò non significa affatto che Apollo abbia assunto questo ruolo solo più tardi. Nel mondo omerico era quasi completamente scomparsa la vergogna per la colpa, perciò non si sentiva il bisogno di questa protezione di Apol-lo. Ma è ben comprensibile che questa forza facesse parte proprio della sua antica e genuina natura. Nelle antiche rap-presentazioni l'arte medica abbraccia, com'è noto, anche la facoltà di liberare dai pericoli dell'impurità. Ed Apollo era il più importante dio della salute; lo era da sempre. Così lo co-nobbero l'Italia e Roma. Il purificatore è il risanatore ed il ri-sanatore è il purificatore. Col nome di Aguieus, secondo l'an-tica denominazione (cfr. pure ùi)pai0(; ed altri soprannomi), egli purifica le vie da ogni male, e, simbolo della sicurezza, sta la sua erma dinanzi alle case. Per quanto Omero si sia allonta-nato dall'idea di ogni purificazione o espiazione nel suo nome, tuttavia l'Apollo omerico può esserci indice prezioso di come bisogna intendere la purificazione apollinea.
    L'associare il pensiero di purificazione con un dio che si-gnifica grandezza spirituale da principio ci par strano, perché siamo avvezzi, attraverso la moderna scienza delle religioni, a considerare gli antichi rituali in un senso assolutamente ma-terialistico. Ma dobbiamo risolutamente liberarci da questo pregiudizio, che esso non fa che trasferire la nostra mentalità al modo di comportarsi dell'umanità primitiva, la cui singola-rità deve venir spiegata.
    Apollo purifica il colpevole dalla macchia che minaccia di intaccarlo. L'assassino, imbrattato del sangue della sua vitti-ma, viene liberato dalla maledizione e mondato grazie al suo intervento. In questo e in altri casi simili, l'impurità proviene da un contatto fisico, da una macchia materiale. E perciò il ri-tuale che riporta allo stato di purezza l'impuro riguarda solo il corpo. Si credette di poter dedurre da queste norme, che si ripetono presso tutti i popoli antichi con evidente rassomi-glianza, che la religione di quei tempi intendesse per impu-rità semplicemente uno stato materiale, ossia l'impedimento costituito da una sostanza pericolosa, che può venir rimossa per via fìsica. Ma la mentalità primitiva, attaccata alla natura e non ancora teoretica, non conosce una corporeità che sia sol-tanto pura materia. Ha un rispetto, andato in noi quasi total-mente perduto, per tutto ciò che riguarda il corpo; perciò è per noi tanto diffìcile anche solo intuire il senso del suo mo-do di comportarsi. Non separa il corpo da quello che noi chiamiamo spirito o anima: li vede invece sempre l'uno nel-l'altro. Essendo, secondo questa concezione, i contatti e le macchie qualcosa di non solamente materiale, la loro azione abbraccia l'uomo intero e non mette solo in pericolo la sua natura fisica, gravando piuttosto anche sul suo animo e tur-bandolo. L'uccisore, per l'azione effettivamente compiuta - e non per la mera intenzione - cade in uno spaventoso irreti-mento. Sinistre inquietudini minacciano la sua esistenza este-riore, ma ancor più spaventevole è la maledizione che lo tor-menta interiormente. Questa convinzione, nata dall'esperien-za direttamente vissuta, non è meno seria e profonda se la causa del male viene concepita materialmente e la sua rimo-zione effettuata mediante un procedimento fisico. Inoltre la necessità della purificazione non era prescritta soltanto per le azioni cruente; si estendeva a tutti i casi di contatto con un che di inquietante, come per esempio con la morte, anche nel caso di un lutto naturale. Non essendo possibile in tal caso pensare a una colpa morale, gli interpreti credettero di po-ter asserire che tutto il procedimento di espiazione, nel suo senso specifico, non avesse niente a che fare con l'uomo intc-riore, ma solo con la sua esteriorità. Questo giudizio rivela so-lo quanto venga mal interpretata l'essenza della mentalità pri-mitiva. Almeno una cosa sarebbe dovuta risultare immediata-mente, ossia che quell'irretimento del quale è vittima l'impu-ro dovette venir concepito in modo del tutto diverso secondo se si trattava di un incontro passivo o di un'azione violenta -tacciano pure i vecchi documenti su questo argomento, com'è da aspettarsi. Quando si tratta di colui che aggredisce, come nel secondo caso, le cose dovevano andare diversamen-te che nel caso di una pura coincidenza. Ve però un punto importante, nel quale questa concezione primitiva si stacca as-solutamente dalla nostra possibilità di comprensione. Per le conseguenze dell'azione, non giova a nulla ch'essa sia stata più o meno intenzionale, originata da una necessità o da ar-bitrio. Secondo l'antica fede era infatti del tutto ovvio che l'uomo dovesse soffrire anche per qualcosa che non aveva vo-luto. Chi può dire che ciò non sia vero? Chi può permettersi di chiamarlo ingiusto?
    Si capisce facilmente come queste purificazioni con le loro regole e pratiche fossero suscettibili di cadere nel meschino e nel superstizioso. Ma con ciò non bisogna perdere di vista il loro profondo significato. Si tratta di una sfera le cui rappre-sentanti sono potenze demoniche della specie delle Erinni. Abbiamo imparato a conoscere il loro mondo, i sacri antichis-simi legami, le irrevocabili responsabilità sulle quali esse ve-gliano (si veda sopra, pp. 28 sgg.). Alla tenebrosità e gravita di questo mondo antico si contrappone la cerchia degli dèi olimpici. Non vale il distruggerlo, che esso perdura, perenne-mente alimentato dal pesante respiro della terra. Ma la sua onnipotenza viene spezzata dalla nuova luce divina. Si ram-menti 1'Orestea di Eschilo, già citata nel secondo capitolo. Il dio che osa non solo redimere il matricida, ma pure difende-re, contro il terribile grido di vendetta del sangue versato, l'a-zione da lui stesso ordinata in nome di un diritto superiore è Apollo. Egli assume l'impegno della purificazione, ossia rico-nosce quella oscura realtà, ma sa anche indicare come si deb-ba con giustizia liberarsi da tanta maledizione. La vita deve svincolarsi dalle inquietudini che ostacolano, dagli impacci demonici sui quali anche la più pura volontà umana non ha potere alcuno. Perciò Apollo consiglia chi ne ha bisogno su quello che è meglio fare o non fare, sul momento opportuno per riconciliarsi e far ammenda onorevole. Si narra che una volta ebbe anch'egli a purificarsi del sangue del drago delfico.
    Nel mondo di Omero in fondo non si parlava già più di pe-ricoli demonici. Ma l'Apollo omerico rivela una specie supe-riore di purezza, quella medesima che egli annunciò solenne-mente da Delfì accanto alle norme di espiazione, e che do-vrebbe ammonirci a non prendere le purificazioni apollinee in un senso troppo esteriore. L'uomo deve guardarsi dai peri-coli evitabili, mediante il rischiaramento del suo essere intc-riore. Anzi ancor più: è il dio ad erigere l'ideale del compor-tamento esteriore ed intcriore, che, facendo astrazione dalle conseguenze, significa purezza nel senso più alto del termine.

    Non è con la consueta formula che l'Apollo Delfico da il benvenuto a coloro che entrano nel suo santuario, ma col motto: «Conosci tè stesso!» (cfr. Fiatone, Carmide, 164d). Pa-re esser questa una delle sentenze che i Sette Savi lasciarono a Delfi quale tributo del loro spirito (cfr. Fiatone, Protagora, 343b). La loro celebre saggezza di vita, che venne tramandata in sentenze come questa: «La misura sta al di sopra di ogni cosa» ((J-érpov apiGTOv), corrisponde esattamente alla forma spirituale del dio delfico, al quale peraltro la tradizione li le-ga. Uno di essi, il grande Solone, definì più felice della gran Maestà di Creso un semplice cittadino ateniese, al quale era stato concesso di chiudere gloriosamente, con una morte eroica al servizio della patria, una vita pacata benedetta da figli e nipoti, meritandosi così gli onori delle pubbliche ese-quie. Il saggio dava con ciò una grave lezione al rè, che si rite-neva il più felice, aggiungendo che non avesse troppo a pre-sumere di fronte alle potenze superiori, ma piuttosto a guar-dare, alla fine, in tutte le cose terrene (cfr. Erodoto, 1, 30 sgg.). Assai simili erano le sentenze degli oracoli delfici (cfr. R. Herzog, in E. Horneffer, Derjunge Platon, GieBen, 1922, I, p. 149), che, secondo Plinio, sono stati «dati come per puni-zione all'umana vanità» (Storia naturale, 7, 151). Al grande rè Gige, che voleva sapere quale fosse l'uomo più felice, fu por-tato dinanzi un umile contadino d'Arcadia il quale non aveva mai varcato i confini del campicello che bastava al suo sosten-tamento (Valerio Massimo, 7, 1, 2 e passim). Ad un ricco che aveva onorato il suo dio offrendogli gli olocausti più preziosi e desiderava sapere chi fosse il più gradito al nume, venne in-dicato un povero bifolco, che aveva tratto dal sacco una man-ciata di grano e l'aveva sparsa sull'altare (Porfirio, De abstinen-tia, 2, 15 sgg.). L'esempio però più memorabile è il seguente: il dio, richiesto quale fosse l'uomo più saggio, rispose col nome di Socrate. E Socrate medesimo interpretò questa senten-za nel senso che era necessario per lui sacrificare la vita sua al-la ricerca della verità, all'esame di se stesso e del suo prossi-mo, ritenendo esser tutto ciò servizio reso al dio, servizio che nessuna forza terrena poteva valere a fargli tradire, neppure la minaccia di morte; che la paura della morte non aveva su di lui potere alcuno, nessuno sapendo se sia la morte felicità o infelicità; e in ciò si sentiva superiore agli altri, che dove non sapeva non opinava di poter avere un sapere; una cosa però sapeva: che fare ingiustizia e disobbedienza ai Celesti era cosa cattiva e volgare (cfr. Fiatone, Apologià, 21 sgg., 28 sgg.).

    Il dio che guida alla conoscenza è pure il fondatore delle norme che regolano rottamente la convivenza fra gli uomini. Si appoggiano sulla sua autorità gli Stati, onde fondare le loro istituzioni legali. Egli indica ai colonizzatori la via verso la nuova patria. È il patrono dei giovani che entrano nell'età vi-rile, il primo tra gli uomini adulti, la guida nei nobili e virili esercizi ginnici. Nelle sue feste più importanti sono i ragazzi e i giovinetti a farsi avanti per primi. Il ragazzo, quando entra nell'età virile, gli consacra la lunga chioma. Egli, Signore dei ginnasi e delle palestre, amò una volta il giovane Giacinto e lo uccise per disgrazia gareggiando col disco. Nelle celebri gin-nopedie lacedemoni i cantori si dividevano in tré cori secon-do l'età, e la grande festa delle Carnee era caratterizzata da una disposizione ed un ordine che ricordavano le sfilate mili-tari. E ora capiamo perché Pindaro alla fondazione di una nuova città prega Apollo affinchè egli la popoli di uomini va-lorosi (Pitiche, 1, 40). Tutto ciò però riguarda pure l'Apollo omerico. Secondo il poeta de\V Odissea era sua gloria l'aver fatto di Telemaco un giovinetto tanto virile (19, 86 con gli sco-lii; cfr. H. Koch: Apollon und Apollines, Stuttgart, 1930, pp. 12 sgg.); e così pure Esiodo dice di lui che fa del ragazzo un uo-mo ( Teogonia, 347).
    La conoscenza del giusto fa parte del sapere intorno all'es-sere e al nesso che lega le cose. Apollo svela pure l'occulto e il futuro. Secondo l'Odissea, Agamennone prima di partire per Troia lo interrogò a Delfì (8, 79 sg.), e ali' Iliade sono noti i te-sori di questo suo santuario (9, 404). «Amerò la cetra e l'arco ricurvo e rivelerò agli uomini i piani infallibili di Zeus! » - ec-co le prime parole che pronuncia l'Apollo neonato dell'Inno omerico. I grandi veggenti vanno debitori a lui della loro pro-fetica virtù. E detto espressamente a proposito di Calcante nel I libro de\V Iliade (72, 86). Particolarmente famose sono don-ne quali Cassandra e le Sibille, nelle quali lo spirito del dio si infuse sovente con terribile violenza. Ma non vogliamo soffer-marci su fenomeni singoli e tanto meno sui numerosi oracoli, in parte molto celebri, che esistevano oltre quello di Delfì. Neppure bisogna chiedersi quale forma di profezia fosse ori-ginariamente specifica del culto ad Apollo. La scienza delle cose occulte, non importa quale procedura la medi, è sempre unita ad una certa elevatezza di spirito. E questa ci richiama alla poesia e alla musica.

    E se fosse la musica al centro delle svariate perfezioni di Apollo? E se fosse proprio questa la fonte dalla quale tutte scaturiscono?
    Anche altri dèi si deliziano di musica, ma la natura di Apol-lo pare essere esclusivamente musicale.

    Nell' Iliade suona la lira al banchetto degli dèi (1, 603 sg.), e il poeta dice che anche alle nozze di Teti e Peleo egli toccò la cetra (24, 63). Che Apollo stesso cantasse - come più tardi lo rappresentò l'arte figurativa - Omero non lo dice mai: nei suoi poemi sono solo le Muse a cantare. Il vate però è ispira-to da lui e quando il suo canto è armonioso riconosce d'esser stato istruito dalle Muse o da Apollo (cfr. Odissea, 8, 488). « Dalle Muse e da Apollo lungisaettante derivano tutti i can-tori e citaristi» dice Esiodo {Teogonia, 94 sg.). L'/nno omerico ad Apollo descrive meravigliosamente il suo ingresso nell'O-limpo: tutti gli dèi si commuovono nell'ebbrezza della musi-ca. « Le Muse cantano i privilegi immortali degli dèi e la pena degli uomini ciechi e impotenti: le Cariti e le Ore, Armonia, Ebe e Afrodite danzano tenendosi per mano: tutte sono alte e belle, ma nessuna è grande e splendida quanto Artemide, sorella di Apollo. Persino il selvaggio dio della guerra vi prende parte, mentre Febo Apollo suona la cetra per gli dèi, avanzando grande e bello circonfuso di luce; dai suoi piedi e dalla sua tunica preziosa sprizzano lampi». Entrò anche una volta a Delfi musicando (Inno omerico ad Apollo Pizio, 5). Al suo giungere «cantano gli usignoli, le rondini e le cicale», come si dice nell'inno di Alceo. Callimaco sente l'approssi-marsi del dio: trema il lauro e nell'aura canta il cigno {Inno ad Apollo, 1 sgg.). Anche in Claudiano si legge rapiti come si risvegliano le voci delle selve e delle grotte al giungere di Apollo {De sexto consulatu Honorii Augusti, 32).
    Nella musica di Apollo risuona lo spirito di tutte le forme viventi. Estasiato la ascolta chi è amico del mondo rischiarato e dotato di forma, governato dal sublime pensiero di Zeus; ma suona strana e ingrata per tutti gli esseri smisurati e mo-struosi. Così canta Pindaro la potenza celestiale della musica di Apollo (Pitiche, 1, 1 sgg.): «Aurea cetra, dovizia comune d'Apollo e delle Muse dalle brune chiome, al tuo suono si muovono i piedi in ritmo e danno inizio alla festa. I cantori seguono i tuoi segni, allor che vibri tutta nelle prime note dei preludi che guidano i canti, che danno inizio alla danza. Per-sino il fulmine dell'eterno fuoco tu spegni: sullo scettro di Zeus cede l'aquila al sonno, pende al suo fianco l'ala al prin-cipe degli uccelli: sul capo adunco addensi tenebrosa nuvola che chiude dolcemente le palpebre; soggiogata dalla malia delle tue cadenze solleva nel sonno il soffice dorso. Il violento dio della guerra cala la lancia perdendosi nelle delizie del tuo canto. I dardi delle tue canzoni incantano gli dèi allor che Apollo suona insieme alle Muse. Ma tutto ciò che Zeus non ama, fugge il canto delle Muse...». Proporzione e bellezza so-no essenza ed azione di questa musica, che avvince tutto ciò che è selvaggio. Persino le fiere della selva ne vengono incan-tate (cfr. Euripide, Alcesti, 579 sgg.). Persino le pietre al suono della lira si dispongono a formare il muro (cfr. Apollonio Ro-dio, 1, 740). Sono fecondi inoltre gli armenti, quando Apollo li custodisce (cfr. Callimaco, Inno ad Apollo, 47 sgg.). Ha pa-scolato il gregge di Admeto, musicando (cfr. Euripide, Alcesti, 569 sgg.; Iliade, 2, 766). Secondo la leggenda troiana custodì «le cornigere mandre» di Laomedonte {Iliade, 21, 448). An-che l'esistenza umana viene foggiata dalla musica di Apollo. Che si serva di questa nella sua qualità di primo ed eccellente pedagogo ce lo dice con meravigliosa profondità Fiatone {Leggi, 653c-d): «... gli dèi avendo compassione del genere umano, sottoposto per sua natura alle fatiche, stabilirono per esso, come intervalli di riposo e in contraccambio delle fati-che, le feste sacre agli stessi dèi, e diedero le Muse, Apollo lo-ro guida, e Dioniso a compagni degli uomini nella celebra-zione di esse ... Non v'è, per così dire, alcun essere giovane che possa tenere in quiete il corpo e la voce, e non cerchi in-vece continuamente di muoversi e di emettere suoni, chi bal-zando e saltellando, come se danzasse piacevolmente e gio-casse, e chi emettendo ogni specie di suoni. Sennonché gli al-tri animali non hanno il senso dell'ordine e del disordine nei movimenti, cui si da il nome di ritmo e di armonia; laddove a noi questi stessi dèi, che, come abbiamo detto, ci furono dati a compagni di danze e di feste, hanno dato anche il senso del ritmo e dell'armonia congiunto al piacere, e con essi ci muo-vono e ci guidano nel coro, avvincendoci l'un l'altro coi canti e con le danze». Plutarco dice (Cono/ano, 1,5) che la miglior azione esercitata dalle Muse sugli uomini è questa, che esse nobilitano la natura umana mediante il senno e la disciplina, liberandola da ogni smoderatezza. Questo pensiero prettamente greco ispirò pure a Orazio la sua preghiera alle Muse, così grandiosa ( Odi, 3, 4).

    "Qui citharam nervis et nervis temperai arcum"

    OVIDIO, Metamorfosi, 10, 108


    Ed eccoci finalmente giunti all'attributo più famoso e si-gnificativo accanto alla lira, e che, malgrado venga così soven-te nominato insieme a questa, non sembra a prima vista aver con essa nessuna affinità: vogliamo dire V arco.
    «Amerò la cetra e l'arco ricurvo!» esclama il dio neonato nell'/nno omerico ad Apollo Delio (131), e al principio dell'inno s'eleva potente l'immagine di lui, che con l'arco teso pone il piede nel palazzo di Zeus e degli dèi, i quali spauriti balzano dai loro seggi. Numerosi appellativi, in Omero e in altri dopo di lui, lo caratterizzano come il possente arciere. All'inizio de\V Iliade il suo strale fa strage nel campo greco e uccide be-stiame e uomini a dozzine. Chi vuoi scoccar freccia dall'arco è grato a lui per la riuscita del colpo e prega prima di tirare (cfr. Iliade, 4, 101, 119; 23, 872; Odissea, 21, 267, 338). La sua festa - fra l'altro l'unica festa regolare di un dio menzionata espressamente nei poemi omerici - è il giorno nel quale Odis-see ritorna in patria, fa il colpo maestro e sconfìgge i Proci; tutto ciò egli compie sotto la protezione di Apollo (cfr. Odis-sea, 21, 338; 22, 7). Eurito, il possente arciere che sfidò Apol-lo, pagò con la vita il suo ardire (Odissea, 8, 226). Apollo col-l'arco diede la morte al drago delfico (Inno omerico ad Apollo Pizio, 178 sgg.), e sempre per l'arco Achille cade nella polvere davanti a Troia.
    Ma il prodigio maggiore consiste nel fatto che le sue saette hanno anche una meravigliosa azione soporifera. Volano invi-sibili e portano la dolce morte, la quale coglie l'uomo di sor-presa lasciandogli le fresche sembianze di un dormiente (cfr. Iliade, 24, 757 sgg.). «Dolci» sono quindi chiamati gli strali del dio. L'Odissea narra a proposito dell'isola felice (15, 409 sgg.) che lì non esistono malattie malvagio; quando gli uomi-ni diventano vecchi Apollo e Artemide pongono fine ai loro giorni con i loro dolci strali. Che la bella morte Apollo la manda solo agli uomini; le donne sono colpite dallo strale di Artemide.
    Da descrizioni come quella al principio de\V Iliade ove Apol-lo, «in gran disdegno» scende «dalle cime d'Olimpo ... simile a fosca notte» seminando tra gli uomini la morte (1, 44 sgg.), si credette dover concludere esser stato egli in origine un dio della morte. Ma come avrebbe potuto svilupparsi la sua figura da quella di un dio della morte? Le immagini mitiche indica-no tu tt'al tra dirczione. Un dio dinanzi al quale anche i più potenti, venuta la loro ora, affondano, non è perciò un dio della morte. E non lo è certamente quando atterra giganti pe-ricolosi e mostri, come gli Aloadi (cfr. Odissea, 11, 318) o il drago di Delfi. Egli compare al principio dell 'Iliade come giu-stiziere, e il suo fosco sguardo viene poi paragonato alla notte, come quello di Ettore quando irrompe nel campo dei Greci (Iliade, 12, 463), o quello di Eracle che ancora nell'Ade tende il suo arco {Odissea, 11, 606). Quando però colpisce, non qua-le vendicatore, bensì coi «dolci strali», così che le vittime si spengono improvvisamente e paiono colte dal sonno, non è certo questo il modo d'agire di un dio della morte. Questo dolce e triste avvenimento, che pare provenire da un occulto mistero e rispecchia lo splendore di un paese di fiaba, ci ram-menta piuttosto il dio delle lontananze, che viene agli uomini dalle remote contrade della luce per ritornarvi nuovamente. E con ciò siamo tornati al nostro punto di partenza.
    Non è forse l'arco un simbolo della lontananza? La freccia viene misteriosamente lanciata e vola nello spazio verso il ber-saglio. E la lira? E per caso che Apollo l'ama quanto l'arco, o questa associazione ha un significato più profondo?
    L'affinità dei due strumenti fu sentita sovente. Non si limita alla forma esteriore, grazie alla quale Eraclito vide nella lira e nell'arco il simbolo dell'unità degli opposti (cfr. fr. 51 Dieis). Entrambi sono costruiti con visceri d'animale. Per indicare il vibrar rapido delle corde dell'arco si usa sovente lo stesso vo-cabolo (\|/a?iÀco) che per il toccare le corde dello strumento musicale. Entrambi risuonano. «Si udì stridere l'arco e risuo-nar forte la corda» si dice r\.é[V Iliade (4, 125), allorquando Pandaro saettò Menelao. Pindaro chiama «profondo» il suo-no delle corde dell'arco di Èrcole saettante {Istmiche, 6, 34 sgg.). Il quadro più vivace ce lo offre una celebre scena del-l'Odissea (21, 410 sg.): Odissee tende il grande arco, dopo che invano vi avevano tentato i Proci, « quale esperto cantore che sa maneggiare la cetra e fìssa torcendola ogni corda alla chia-ve», toccò con la mano la minugia «che cantò bellamente co-me canta la rondine ». Forse apprenderemo in futuro che l'ar-co e gli strumenti a corda ebbero effettivamente le stesse ori-gini. Il cosiddetto arco musicale è ben noto nell'etnologia, e sappiamo che nei tempi antichi anche l'arco venne usato per produrre suoni musicali. Ce lo narra Firdusi a proposito degli antichi Persiani quando andavano a combattere. Per la nostra comprensione della figura di Apollo è però di gran momento che il Greco stesso senta l'affinità essenziale di ciò che provie-ne dall'arco e dalla lira. Vede in entrambi un dardo lanciato verso il bersaglio: qui è la freccia, lì la canzone a cogliere nel segno. Per Pindaro il vero cantore è un arciere e il suo canto un dardo che non sbaglia. Egli fa volare il suo « dolce » dardo a Pito, termine del suo canto (Olimpiche, 9, 11) - e subito noi ci ricordiamo l'altra freccia, che porta la morte e che Omero chiama «acerba». «Orsù, mio cuore,» canta il poeta delle fe-ste olimpiche «si diriga l'arco al segno! Chi coglieremo con la freccia gloriosa che lancia il mio ilare spirito?» (Olimpiche, 2, 89 sgg.). Vede le Muse tendere l'«arco» del canto e lo esalta con la stessa parola da sempre usata in onore di Apollo, il «lungisaettante» {Olimpiche, 9, 5).
    È noto come sia familiare ai Greci l'immagine del buon tiro d'arco per rappresentare la conoscenza del giusto. Questo pa-ragone è per noi immediatamente illuminante. Se ci pare strana l'identificazione di musica e canto con l'arte del co-glier nel segno, è perché in questo caso non pensiamo affatto ad esattezza e conoscenza; ma questo è precisamente il punto dove si svela l'essenza della musica apollinea.
    Il canto del più vigile fra gli dèi non sale da un'anima in-torpidita dal sogno, ma vola precisamente verso il segno con chiarezza veduto, verso la verità; e che la raggiunga è per l'ap-punto la prova della sua divinità. Nella musica di Apollo ri-suona una conoscenza divina. Essa intuisce e coglie la forma in tutto. Il caotico deve formarsi, il turbolento trapassare nel-la simmetria del ritmo, il discorde conciliarsi nell'armonia, fa-cendosi così questa musica grande educatrice, origine e sim-bolo d'ogni ordine nel mondo e nella vita degli uomini. L'Apollo musico è identico col fondatore delle norme, il conoscitore del giusto, del necessario e del futuro. Hólderlin è ancora in grado di riconoscere l'arciere in questo coglier nel segno proprio del dio, quando, in Pane e vino, rimpiange nostalgicamente lo scomparso oracolo di Delfì:

    Dov'è, dov'è la luce dei detti che vengon da lontano a colpire? Delfì dorme e dove va ripercotendosi il tuonare del grande destino?



    Che cosa può aver significato in un senso eletto la lonta-nanza che ricorre qui continuamente fin dall'inizio e della quale l'arco è simbolo nel senso più alto?
    Apollo è il più greco di tutti gli dèi. Se lo spirito greco ha ri-cevuto nella religione olimpica la sua prima impronta, è dun-que Apollo a rivelarlo, con la sua forma, nel modo più net-to. E vero che l'entusiasmo dionisiaco fu un tempo una gran-de forza; non v'è però dubbio alcuno che la grecita era desti-nata a superare questa e ogni altra assenza di misura, e che i suoi maggiori rappresentanti presero decisamente le parti dello spirito e della natura apollinei. La natura dionisiaca vuole l'ebbrezza, quindi la vicinanza-, l'apollinea invece vuole chiarezza e forma, ossia distanza. Questo vocabolo pare espri-mere immediatamente soltanto qualcosa di negativo, invece nasconde quanto c'è di più positivo: il comportamento di co-lui che conosce.
    Apollo rifiuta tutto ciò ch'è troppo vicino, l'attaccamento alle cose, la visione poco netta e così pure il confluire delle anime, il rapimento mistico e il sogno estatico. Non vuole ani-ma, ma spirito. Ciò significa: liberazione dalla vicinanza e da tutti i pesi, i gravami e i vincoli che essa porta seco, nobile di-stacco, larga veduta.
    Con l'ideale della distanza Apollo non si oppone soltanto all'eccesso dionisiaco. Di gran significato per noi è la sua net-tissima contrapposizione a tutto ciò che più tardi verrà som-mamente onorato nel cristianesimo.
    Come Apollo non accentua mai la propria personalità, e coi suoi oracoli delfici non chiede mai di venire esaltato e onorato al di sopra di tutti, così egli ignora il valore eterno dell'indivi-duo umano e dell'anima singola. Il significato della sua rivela-zione consiste nel fatto che essa indica all'uomo non la dignità del suo essere personale e la profondità della sua anima indi-viduale, ma tutto ciò che va oltre la persona: l'immutabile, le forme eterne. Ciò che siamo avvezzi a chiamare realtà, l'esi-stenza concreta con la sua percezione di sé, passa come fumo; l'Io con le sue sensazioni, di piacere o di dolore, di orgoglio o di umiltà, svanisce come un'onda. Ma eterna rimane, «divina fra gli dèi, la forma». L'individuale, l'irripetibile, nel tempo e nello spazio: l'Io, col suo hic et nunc, è solo la materia, nella quale appaiono le forme eterne. Se il cristiano si umilia nella certezza di farsi in tal modo degno dell'amore e della vicinan-za di Dio, non così accade per Apollo; egli richiede altra umiltà. Fra l'eterno e i fenomeni terreni, ai quali appartiene pure l'uomo quale individuo, v'è un abisso. L'essere singolo non può raggiungere il regno dell'infinità. Pindaro insiste, ri-volgendosi ai suoi ascoltatori nello spirito di Apollo, non sulla dottrina mistica di un al di là più o meno beato, ma su ciò che distingue gli dèi dagli uomini. E bensì vero che hanno en-trambi la stessa madre originaria, ma l'uomo passa ed è fatto di nulla, mentre solo i Celesti durano eternamente (Pindaro, Nemee, 6, 1 sgg.). Fugge come ombra la vita umana, e se ha splendore, l'indora un raggio che piove dall'alto (Pindaro, Pi-tiche, 8, 95 sgg.). Perciò l'uomo non deve presumere troppo di sé e credersi pari agli dèi eterni, ma riconoscere i suoi limiti e riflettere che l'ultima sua veste sarà la terra (Pindaro, Istmiche, 5, 14 sgg.; Nemee, 11, 15 sg.). La corona della vita che pure il mortale può conquistarsi è la memoria delle sue virtù. Non la sua persona, ma, ciò ch'è assai più, lo spirito delle sue perfe-zioni e creazioni vince la morte, e aleggia nel canto eterna-mente giovane di generazione in generazione. Che solo la for-ma partecipa del regno del perenne.
    In Apollo ci si fa incontro lo spirito della conoscenza con-templante, che sta di fronte all'esistenza e al mondo con im-pareggiabile libertà - il genuino spirito greco al quale fu dato di produrre non solo le molte arti, ma infine anche la scienza. Esso potè intuire mondo ed esistenza a mo' di forma, con lo sguardo scevro da concupiscenze e nostalgie di redenzione. Nella forma s'annulla l'elementare, il momentaneo e l'indivi-duale del mondo, il loro essere però viene riconosciuto e con-fermato. Cogliere la forma richiede una distanza della quale non è stata capace nessuna negazione del mondo.

    L'immagine del «lungisaettante» Apollo è la rivelazione di un'unica idea, il contenuto della quale non appartiene alla sfera delle semplici necessità della vita; i paragoni tanto popo-lari con le forme religiose primitive sono perciò in questo ca-so perfettamente inutili. Qui ci troviamo di fronte ad una po-tenza spirituale che eleva la sua voce, potenza tanto significativa da dar forma a tutta un'umanità. Essa annuncia la pre-senza del divino non nei miracoli di una forza sovrannaturale, non nella severità di un'assoluta giustizia, non nella provvi-denza di un amore infinito, ma nel trionfante splendore della chiarezza, nel significativo governo dell'ordine e della pro-porzione. Chiarezza e forma sono ciò che è oggettivo, al qua-le corrispondono, dalla parte del soggetto, distanza e libertà. È in questo atteggiamento che Apollo compare nel mondo degli umani, e v'imprime la sua chiara e intatta divinità, che tutto luminosamente penetra.
    Comprendiamo facilmente come questo essere sublime, che non aveva fondamento in nessun elemento fisico o pro-cesso naturale, abbia potuto relativamente presto venir colle-gato col sole. Già in una tragedia andata perduta di Eschilo, le Bassaridi, si dice che Orfeo onorasse Elio come il maggiore degli dèi, e gli avesse dato il nome di Apollo. E lo stesso poeta, nel Prometeo (22), caratterizza i raggi del sole con la parola (poT(3o(, che conosciamo essere un appellativo di Apollo, anzi il suo più famoso: Febo. Sorge ora anche la potente immagine d'Apollo che mantiene in armonico movimento l'universo col suono della sua lira (cfr. Inni orfici, 34, 16 sgg.), e la per-cuote col plettro che è la luce del sole (cfr. Scitino, fr. 14 = fr. 1, 3 West; inoltre a tal proposito E. Neustadt, in «Hermes», 66,1931, p.389).


    Da: Walter Otto, Gli Dèi della Grecia. Adelphi, 2004. pg. 68-86, Figure di Dèi olimpici. Apollo.
    "C'era un Tempo in cui l'uomo viveva accanto agli Dei..poi la predicazione galilea ci porto' il deserto del nulla...e infine caddero le tenebre della modernità"



  3. #3
    calici amari
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    Predefinito Rif: Simboli e spiritualità apollinea

    premetto che è soltanto un'ipotesi... visto che si parla di simboli solari... sarà mica che il capello riccio corrisponde al 'raggio ondulato' (in contrapposizione al raggio dritto, cioè capelli lisci)? onf:
    Corpo sano in ambiente sano.

    Chi avvelena una persona per vendetta viene condannato per veneficio.
    Chi avvelena milioni di esseri umani per profitto viene onorato come capitano d'industria.

 

 

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