«La Nazione», mercoledì 17 agosto 1988

Il comizio contestato
E dopo, l'uccisione di Serantini

La lettera dell'onorevole Giuseppe Niccolai -che sotto pubblichiamo- anche se forse non andrà ad incidere sulle indagini del delitto Calabresi (ieri il magistrato ha rifiutato l'istanza di scarcerazione), rappresenta una testimonianza politica di grande rilevanza. La città ricorda il «clima» dei primi anni settanta e cosa accadde nel maggio del 1972 allorché, coinvolto negli incidenti verificatisi a seguito del comizio dell'onorevole Niccolai, veniva ucciso il giovane anarchico Franco Serantini. Gli extraparlamentari di sinistra, dei quali Adriano Sofri era il più ascoltato ideologo, avevano cercato con ogni mezzo di impedire quel comizio, fino a tappezzare la città dell'ormai famoso manifesto sul quale si leggeva «Caschi pure il mondo su un fico, Niccolai a Pisa non parlerà». Era una minaccia palese alla quale Niccolai rispose parlando, le forze dell'ordine creando uno sbarra mento mai visto prima di allora (e mai dopo) a Pisa per un comizio. Il risultato tragico di quel braccio di ferro fu la morte del povero anarchico. Per giorni, settimane, mesi, Niccolai fu certamente l'uomo più odiato dai movimenti di estrema sinistra presenti all'epoca in maniera massiccia nella nostra città. Dopo che dalle indagini per il delitto Calabresi è filtrata l'ipotesi che la decisione di uccidere il commissario di polizia possa essere maturata (17 maggio 1972) dopo la morte di Serantini (7 maggio), Niccolai interviene per dire perché allora non uccidere me? Niccolai deduce che se ciò non accadde -e lui in quei giorni non andò certo a nascondersi- in quei leaders del movimento non c'era una volontà assassina.

Nelle pieghe di un delitto possono nascondersi circostanze del tutto particolari; per quanto riguarda quello Calabresi ad esempio, è stato scritto che la decisione sarebbe stata presa nell'ottobre dell'anno prima e che la morte di Serantini avrebbe fornito soltanto l'«occasione». Ma l'intervento del parlamentare del MSI resta comunque singolare e significativo, espresso da un protagonista d'insospettabile fede in quegli «anni di piombo». Tanto atipico che la lettera, oggi pubblicata da «La Nazione», è stata prima inviata dallo stesso Niccolai al «Secolo d'Italia» (il giornale dei MSI), che però l'ha respinta. Considerando che l'ex-parlamentare pisano è membro della direzione nazionale e del comitato centrale, c'è da prevedere anche un seguito fortemente polemico in seno a quel partito. (R.C.)







Dopo più di 40 anni di militanza nella Comunità missina, avendo ricoperto nella stessa alti incarichi di responsabilità, mi viene rifiutata, da parte del Segretario nazionale, la pubblicazione, sul «Secolo d'Italia», della lettera sotto riportata.

Credo che sulla sua serenità nessuno possa sollevare obiezioni. Nella sostanza, lo riconosco (ma la politica vera non è anche polemica e dissenso? Se no, che cosa è?), può essere considerata fortemente trasgressiva.

È, comunque, una tesi. Errata? Inaccettabile? Aberrante?

Può essere, ma qual è la tesi che sta nella linea, che è santificata dentro il partito? Forse quella che le giovani generazioni tornino a scannarsi fra loro? Si lavora per questo? A vantaggio di chi?

Il «Secolo» aveva a disposizione tutte le sue pagine per rispondere, per mettermi al rogo, per additarmi al disprezzo generale. In esso i Catoni Censori avrebbero potuto esprimere il meglio di sé stessi, qualificando lo scritto carico di elementi pericolosissimi di eterodossia.

Si è preferito tacere, cestinando.

«L'Eco» apre il dialogo, osando sfidare il giudizio dei Catoni Censori. Una sola cosa chiediamo: che lo scritto sia confutato, non bruciato in ossequio alla Santa Fè.

Questo abbiamo voluto premettere -lo confessiamo- per una radicata diffidenza verso i Censori di tutte le situazioni e di tutte le idee. Una diffidenza, per dirla con Alberto Giovannini, sorta in noi il giorno in cui ci siamo accorti che il loro Capostipite, in effetti, esercitava il mestiere dello strozzino.







Caro Direttore,

una lettera scomoda, solitaria, scritta a mano perché costretto su un letto di ospedale.

«Il caso Sofri»: 16 anni fa.

Se mi lascio andare all'onda dei ricordi l'effetto è ancora devastante. Nessuna Città (e Gennaro Malgieri può esserne buon testimone) delle dimensioni di Pisa, credo, fu più calda in quegli anni di contrapposizione violenta, spietata, feroce. In cui la logica degli opposti «estremismi», costruita dal «moderatismo», voleva dimostrare agli Italiani intrisi di indifferenza che, in fin dei conti, «era meglio farsi governare dai ladri (i moderati) che dagli assassini (i rossi e i neri)».

* * *

I neri e i rossi: entrambi assassini. «Uccidere un fascista non è reato». Far fuori l'altro, lo sconosciuto, rosso o nero, rientra nella necessità di mettere a tacere, per sempre. Il nemico, il barbaro, l'altro, a cui è tolto ogni valore, primo fra tutti, quello di essere uomo. Erano quelli i tempi in cui le bombe, teleguidate e moderate, aiutavano questo disegno che, se ci si fa caso, ha contrassegnato la storia dell'Italia repubblicana, dalla prima strage di Portella della Ginestra a quelle più recenti.

* * *

Fu in questa Pisa, nelle cui strade si raccattarono più volte morti e feriti, che il sottoscritto, allora deputato nazionale e responsabile della Federazione del MSI, in base alla logica spiegata sopra, conobbe l'altro, il nemico, Adriano Sofri, animato dalla stessa ferocia di quella contrapposizione che vedeva italiani, anche in tenera età, scannarsi fra loro. Per un'Italia, per dirla con Giovanni Amendola (1914), che non piaceva ad Adriano Sofri entrambi i contendenti, i figli delle Rivoluzioni del XX secolo.

* * *

Ricordo lo slogan con il quale Adriano Sofri tentò di mettermi contro, per tutto l'arco della campagna elettorale politica del maggio 1972, una intera città: «Caschi pure il mondo su un fico, Niccolai a Pisa non parlerà».

Si cercava lo scontro, e lo scontro ci fu. E se si leggono le cronache che oggi raccontano le non liete vicende dell'ex-leader di «Lotta Continua», il cui indubbio rivoluzionarismo ebbe nutrimento essenzialmente pisano, dentro le celeberrime mura della «Scuola Normale», si trova che l'elemento scatenante, che avrebbe fatto poi di Adriano Sofri il presunto mandante dell'assassinio del Commissario Calabresi, sarebbe stato proprio l'episodio della tragica morte del giovane anarchico Franco Serantini che, appunto «perché il fascista Niccolai a Pisa non parlasse» muore in duri scontri con la polizia, Franco Serantini era là, in piazza, a rispettare quell'impegno preso con i compagni di «Lotta Continua»: Niccolai non deve parlare. Ed è per rendere omaggio a Franco Serantini che si assassina dopo, per ritorsione, il commissario Calabresi.

Lo scrivono i giornali.

* * *

Neri e rossi; Serantini e Calabresi; e il sistema che, attraverso stragi teleguidate, morti mirati e cercati, sangue da vendicare, tanto dolore da raccontare, e tanta ipocrisia da spargere, respira, sopravvive. Al punto che, a 16 anni dal 1972, trionfa, aggiungendo ai propri trofei tutti gli scalpi che finora non era riuscito a strappare. Cadono ad uno ad uno: da quello, un po' più stagionato di Signorelli, a quello ancora giovane e fresco di Sofri.

I ladri e i perbenisti acculturati, che fecero un tifo del diavolo perché lo scotennamento fosse possibile, conservano, intatte e rigogliose le loro capigliature. E guai a chi minimamente si attenti a cambiare questa società dalle tecnostrutture divinamente salviche: il capestro (democratico) è pronto!

* * *

Caro Direttore, vogliami perdonare. A me non riesce mandar giù questa ... morale, di cui anche il «Secolo» (da gran tempo) si fa portatore, per cui questo nostro Paese, dopo le esperienze degli anni di piombo, sarebbe ormai destinato ad essere crocefisso sul legno con i chiodi degli antichi odi e rancori, qualora spunti, sia pure timidamente, un sogno generazionale di superamento dei vecchi steccati eretti dal Secolo delle Rivoluzioni.

Adriano Sofri, questo sessantottino duro, spesso feroce, era riuscito, nel 1986 (quando fra gli incalliti nostalgici della guerra civile e di una Italia eternamente divisa, infuriava la polemica che ha voluto negare al filosofo Giovanni Gentile l'iscrizione del suo nome nella lapide che ricorda tutti i Caduti dell'Università di Pisa) a scrivere parole di alta umanità rendendo, al grande intellettuale assassinato, quella giustizia che i neo-democratici a diciotto carati, a oltre 40 anni dal 1945, non riescono ancora a dagli. E che, per conservare i loro attuali privilegi di guardiani di una «rivoluzione» che mai fecero, insorgono tutte le volte che qualche giovane, che non si è mai messo alla finestra, si afferma nel Paese politico, sollevandogli contro, come accade ora nel Comune di Roma (vergogna, signori de «il Manifesto»!), i loro trascorsi politici in calzoni corti, come A.I.D.S. dal quale non è possibile guarire. Salvo poi ad indignarsi se qualcuno ricorda loro come siano stati «cattivi maestri» nell'arco di tutta la loro esistenza, vestendo, con imperturbabile indifferenza, tutte le camicie!

* * *

Mi fa male, mi fa soffrire la morte del giovane anarchico Franco Serantini; al pari di quella, del giovane commissario Calabresi; tutte e due incastrate e cucite con il filo rosso e nero di una orditura vale ripetersi che, partendo da Portella delle Ginestre, passa per Piazza Fontana, Brescia, Bologna, Peteano, Serantini e Sofri.

Sofri colpevole? Sofri innocente? Una cosa mi sono sempre chiesto: in fin dei conti ero stato io l'elemento determinante ad innestare quei fatti che avrebbero portato alla morte del Serantini e, di conseguenza, a quella del Calabresi.

Quel comizio del 5 maggio 1972, tenuto in una città assediata. La domanda è questa: se volontà c'era di vendicare, con il sangue, ciò che nel sangue era finito a Pisa, perché non uccidere chi scrive? Era facilissimo; certo molto più facile che assassinare Calabresi.

* * *

Non è accaduto. Il pentito afferma: Sofri è colpevole. Il «Secolo», che di vicende di pentiti ne conosce molte, consente. Io dissento. Anche perché, al di là di tutto, sogno una Italia diversa. Un'Italia civile, che sappia confrontarsi, non uccidersi vicendevolmente, servendo, inconsapevolmente, vicendevoli ladri che, comunque vadano le cose, restano ai propri posti e, ironia della sorte, a fare ogni sorta di morale.

Non si tratta, no, di abbracciarsi e di dimenticare. Si tratta solo di capire.

* * *

Enrico Berlinguer rese omaggio al giovane missino Di Bella. «Aveva diritto di fare e di credere in ciò che faceva e credeva», disse il leader del PCI davanti al suo corpo massacrato.

Giorgio Almirante, davanti alla salma di Enrico Berlinguer: perché sono venuto?

«Perché era un uomo giusto, credeva in ciò che faceva». Se ci si fa caso è il più alto elogio che un uomo politico possa rivolgere ad altro uomo politico: «credeva in ciò che faceva».

* * *

Trasgressione, eresia, diciamo pure pazzia. Ma l'Italia più bella, quella di ieri e quella da costruire, è proprio quella dei pazzi. Primi fra tutti i Santi e gli Eroi. Non quella che sta alla finestra in attesa, a cose fatte, di appendervi gli scalpi di coloro che alla finestra non sono mai stati.

Perdona, caro Direttore, non me la sento di gridare che Adriano Sofri è un assassino.

Cordialmente,

Giuseppe Niccolai