Un giornalista egiziano intervista il leader iracheno: «Siamo pronti alla guerra come se scoppiasse tra un’ora»


Ecco il testo di una rara intervista concessa da Saddam Hussein al settimanale egiziano El-Osboa (La settimana) in cui l’autore, Sayed Nassar, non nasconde tutta la sua simpatia per il leader iracheno.
Ho passato due ore e quattordici minuti in compagnia di Saddam Hussein, alla presenza del vice primo-ministro Tareq Aziz, in uno dei palazzi presidenziali alla periferia di Bagdad. Ho avuto notizia di quest'incontro per gradi. Prima una breve telefonata, in cui uno sconosciuto mi proponeva un incontro di lì a un quarto d'ora, nella mia stanza d'albergo al 13° piano dell'hotel Rasheed. Mi disse di tenermi pronto il mattino seguente alle 8.30. Quella notte non dormii e rimasi a pensare per tutto il tempo, guardando fuori dalla mia finestra nel centro di una Bagdad che si crogiolava nel verde e nelle luci. Mi dicevo, cosa potrò dire al presidente? Dovrò essere discorsivo o stare soltanto a sentire?
E’ molto tempo che non incontro il presidente. Sono contento. Adesso sono a bordo di una Mercedes nera con targhe normali, munita di tende grigie al finestrino posteriore, il che mi permette di vedere la strada. Vicino all'autista silenzioso, siede l'uomo che è venuto da me ieri. Un quarto d'ora e la macchina si ferma davanti a una modesta villetta in una via trafficata. Entriamo, per essere serviti di caffè Arabica e di bibite al limone alla moda di Bassora. Altri 15 minuti, e un'altra Mercedes nera, con un altro autista, viene a prendere me ed il mio accompagnatore per portarci in un altro posto, dove trovo Tareq Aziz seduto a leggere i rapporti sugli ultimi incontri e consultazioni del Consiglio di Sicurezza.
Da qui, ancora in auto verso un terzo luogo. Entriamo in una graziosa villa. Mentre parlo con il signor Aziz, mi sorprendo nel trovare all’interno il presidente Saddam Hussein, senza nessuna formalità e senza guardie.
Indossa un completo estivo. Vado verso di lui, mi abbraccia, rispedendomi con la memoria a quarant'anni fa, quando lo vidi per la prima volta al Cairo, dove era un rifugiato politico e un combattente nazionalista per il suo Paese, dal ’61 al '63.
La mia generazione ricorda che i caffè del Cairo, a quei tempi, erano cellule dei rivoluzionari arabi dal Marocco a Bagdad. In quel periodo, un giovanissimo Saddam era uno di quei rivoluzionari; restò al Cairo per tre anni, nei quali conseguì un diploma di scuola superiore e si iscrisse alla facoltà di legge. Tornò a Bagdad nel 1963, dove sarebbe rimasto dapprima in prigione come dissidente, poi da governante.
Signor presidente, come valuta la posizione araba sulla questione irachena, le sanzioni e le minacce di guerra?
«Non chiediamo ai dirigenti arabi più di quanto possano dare. In generale, siamo sereni. La situazione si evolve a favore dell'Iraq. Mi lasci dire con franchezza che ci stiamo concentrando sui lati positivi, e lasciamo che i lati negativi arretrino o scompaiano nella chiarezza della visione corretta, che s'imporrà sull'arena politica».
Alcuni Paesi arabi non sostengono l’Iraq...
«Mi importa solo degli atteggiamenti positivi. Chi ne ha di negativi ritratterà, quando tutti si renderanno conto della veridicità delle nostre intenzioni e della delicatezza della nostra situazione, e di cosa si sta preparando per noi e per loro. L'Iraq non è l'unico Paese che deve affrontare complotti ai suoi danni. Gli Stati Uniti vogliono imporre la loro egemonia nel mondo arabo, e a questo fine devono dirigere le aggressioni contro le nazioni arabe, specialmente contro i Paesi chiave; tutto questo nell'interesse dell'entità israeliana e del sionismo internazionale».
Presidente, cosa vogliono di preciso gli Stati Uniti dall'Iraq?
«Vogliono imporre la loro egemonia nel mondo arabo e, come inizio, vogliono controllare Bagdad e colpire le capitali ribelli che rifiutano la loro egemonia. Da una Bagdad controllata militarmente colpirebbero Damasco e Teheran, distruggendole e creando enormi problemi all'Arabia Saudita. Cercheranno di creare piccole entità, che sarebbero governate da guardie al servizio degli Usa. Tutto questo nell'interesse d'Israele che così diventerebbe il grosso impero della zona».
Lo schema di smembramento si estenderà all'Arabia Saudita e agli Stati del Golfo?
«Nella zona si diffonderebbero sceiccati e piccoli emirati. Su queste basi, tutti i grandi Paesi arabi come l'Iraq, la Siria o l'Arabia Saudita verrebbero divisi in piccoli emirati; le aree petrolifere verrebbero messe nelle mani di quei piccoli emirati, che saranno guardiani e non governanti di quelle fonti di greggio. Questo pone tutto nell'interesse degli Stati Uniti, che avrebbero il controllo totale del petrolio dall'Algeria al Mar Caspio».
Due settimane fa la Corea del Nord ha ammesso di avere un programma nucleare. Eppure gli Usa non hanno reagito come hanno fatto con l'Iraq, che per altro ha negato di possedere armi per la distruzione di massa .
«La Corea del Nord non ha petrolio. Secondo, non è un nemico né un vicino d'Israele».
Ci sono prigionieri kuwaitiani in Iraq?
«Lei sa, come chiunque, che ho preso la decisione di liberare tutti i detenuti, compresi gli arabi non iracheni, escluse le spie degli Stati Uniti e d'Israele. Anche gli assassini sono stati rilasciati a patto che raggiungano un accordo con i parenti delle vittime. Per la prima volta nella storia, le carceri irachene sono vuote».
Adesso le guardie sono preoccupate perché, con le prigioni vuote, dovranno trovarsi un altro impiego?
«Trasformeremo le carceri in orfanotrofi per i bambini figli delle vittime dei bombardamenti quotidiani degli Usa».
Si aspetta un’aggressione a breve?
«Ci stiamo preparando come se la guerra dovesse scoppiare tra un'ora. Psicologicamente siamo pronti, gli Stati Uniti con le loro aggressioni quotidiane ed il tentativo di logorarci, con l'assassinio quotidiano dei nostri civili per mezzo di missili lanciati da aerei che partono da basi nei Paesi vicini, ci fanno vivere come se fossimo continuamente in una guerra iniziata dal gennaio del 1991. Quindi siamo preparati alla guerra. L'Iraq non sarà come l'Afghanistan. Questo non vuol dire che siamo più forti degli Stati Uniti, che hanno flotte e missili a lunga gittata, ma abbiamo fede in Dio e nel popolo iracheno. Abbiamo anche, ed è importante, fede nel popolo arabo. Per i soldati statunitensi e britannici non sarà un picnic. La terra combatte sempre con la sua gente».
Il tempo gioca pro o contro di voi?
«Il tempo è dalla nostra parte e dobbiamo procurarcene di più. L'alleanza americano-britannica potrebbe disintegrarsi per motivi interni e sotto la pressione dell'opinione pubblica. I popoli conoscono la verità, e i popoli sono più capaci di comprensione dei governanti».

El-Osboa
(traduzione di Gheia Mahfouz
e Laura Toschi)
Sayed Nassar