Il segretario Sannino: «Informò Dini dei rischi politici ed economici»
di Mauro Bottarelli

«A quanto ne so, Fassino informò il ministro Dini sui rischi politico-economici dell’operazione Telekom Serbia segnalati per iscritto con quattordici comunicazioni al ministero degli Esteri dall’allora ambasciatore italiano a Belgrado, Francesco Bascone». Poche parole, una frase organizzata in un italiano semplice, cristallino, ha fatto crollare un castello immane di bugie. Interrogato di fronte alla Commissione d’inchiesta sul caso Telekom Serbia, Stefano Sannino - ex capo della segreteria di Piero Fassino quando l’attuale segretario dei Ds ricopriva l’incarico di sottosegretario agli Esteri - ha detto la sua verità, diametralmente opposta a quella da sempre contrabbandata sia del leader diessino che dall’allora ministro degli Esteri, Lamberto Dini. Sannino, rispondendo alle domande del presidente della Commissione, Enzo Trantino, ha confermato di aver informato Fassino di due lettere (una del 13 febbraio del 1997, l’altra del 25 febbraio dello stesso anno) inviate dall’ambasciatore Bascone e indirizzate al sottosegretario in cui parlava del “rischio-Paese” collegato all’affare Telekom Serbia e della trattativa che funzionari della Telecom Italia stavano conducendo con il governo di Belgrado tenendo sostanzialmente all’oscuro l’ambasciata. Quando arrivarono le lettere di Bascone - ha aggiunto Sannino - «Fassino mi disse che era sua intenzione parlarne con Dini. A quanto ne so Fassino informò il ministro». Sannino è stato ascoltato subito dopo l’ex capo di gabinetto di Dini, l’ambasciatore Umberto Vattani, che aveva escluso di aver mai appreso e quindi riferito al ministro quanto lamentato da Bascone nelle sue missive precedenti la stipula del contratto Telekom Serbia (giugno 1997) da 1.500 miliardi di lire. Ma Sannino in Commisione ha affermato: «Le comunicazioni di Bascone erano talmente numerose che mi pare difficile che il ministero non ne fosse a conoscenza. Sicuramente - ha detto - ne erano a conoscenza gli affari economi e gli affari politici del ministero e i loro direttori» ai quali erano state indirizzate alcuni delle missive di Bascone. Alla domanda se, come ex capo della segreteria, avesse più parlato con Fassino delle comunicazioni di Bascone, Sannino ha risposto: «Ne riparlammo. E mi fu detto che il ministro aveva una sua idea e cioé che finchè non ci fosse stata una richiesta specifica di un’impresa di intervenire nelle trattative, non era compito del ministero intervenire». Altro che complotto della Cia, altro che invenzioni, altro che avvenimento di cui si ebbe conoscenza soltanto attraverso i giornali: Dini e Fassino sapevano tutto o, quantomeno, era perfettamente a conoscenza dell’operazione che si stava compiendo nei Balcani. Di più, Dini avrebbe avuto addirittura una propria “linea” al riguardo: e quando un ministro della Repubblica ha una linea questa non solo va ritenuta ufficiale ma anche estendibile all’interno governo del Paese. Chi invece si ostina a dire di non sapere nulla è appunto il già citato Umberto Vattani, ex capo di gabinetto dell’allora ministro degli Esteri, Lamberto Dini. Ascoltato prima di Sannino dalla Commissione d’inchiesta, Vattani ha dichiarato che «dell’operazione di acquisizione Telekom Serbia venni a conoscenza in maniera casuale, attraverso la lettura dei giornali». Vattani ha inoltre escluso di aver discusso dell’operazione da 1.500 miliardi di lire con Dini («non me ne ha mai parlato») e ha definito “totalmente false” le affermazioni dell’allora ambasciatore italiano a Belgrado, Francesco Bascone, secondo cui l'ex capo di gabinetto di Dini sarebbe stato a conoscenza delle missive con cui Bascone metteva in guardia il ministero degli Esteri sui rischi politico-econimici dell’operazione. False. Può essere, certamente servono prove prima di emettere una sentenza di colpevolezza politica ma certamente stupisce come con una sola audizione il teorema dei “non sapevo” sia traballato, con enorme scoramento della sinistra che già sperava di insabbiare dopo aver definito l’intero scandalo “una bolla di sapone”. Ne è convinto anche il presidente della Commissione, Enzo Trantino, secondo il quale quella di ieri «è stata una giornata probatoriamente importante. Abbiamo sempre affermato, mai con enfasi, ma avendo sempre chiaro l’obiettivo di non cercare streghe a tutti i costi ma fatti e verità, che se sono rose fioriranno. Bene - ha sottolineato Trantino - oggi (ieri, ndr) abbiamo verificato che la stagione della fioritura è già cominciata. Per la verità non pensavamo che iniziasse così presto». In una nota del 10 maggio 2001, Piero Fassino rispondeva così alle accuse di Gustavo Selva. «L’onorevole Selva, farnetica», era il titolo seguito da circa mezza cartella di smentita firmata dall’ufficio stampa dell’allora ministrodella Giustizia. «La lettera inviatami nella mia qualità di sottosegretario agli esteri dall'ambasciatore Bascone, era nota così come noti erano i telegrammi sullo stesso argomento, inviati secondo prassi e con modalità del tutto ordinarie, dall'ambasciata di Belgrado ai diversi uffici del Ministero degli Esteri e tutti contenenti solamente informazioni di ordine generale e politico. Confermo ancora una volta di non essermi mai occupato della vicenda Telekom-serbia: e quando dico “mai occupato” voglio dire che non ho mai avuto alcun tipo di rapporto diretto o indiretto, né con dirigenti della Telecom Italia, né con dirigenti della Telekom Serbia». Corrispondenza ordinaria, dice Fassino. Quattordici lettere sull’argomento sono corrispondenza ordinaria? Beh, di certo non lo era il telegramma riservato, datato 25 febbraio 1997, spedito alla Farnesina dal'ambasciata italiana a Belgrado, nel quale si parla della privatizzazione delle telecomunicazioni nella ex Jugoslavia e si dava conto delle preoccupazioni dell'opposizione al regime di Milosevic in relazione alla vicenda. Il documento era una informativa riservata sulla situazione economica e finanziaria del paese balcanico. Situazione che l'ambasciata italiana nella capitale jugoslava definiva “preoccupante”, anche alla luce del quadro tracciato, durante una colazione, dall'ex governatore della banca centrale Abramovic. Dall’informativa emergeva una economia sull’orlo del collasso: una situazione nella quale - si leggeva nel documento- «è dunque indispensabile una iniezione di liquidità dall'estero. Nel prossimo futuro è probabile che intervenga, ad alleviare temporaneamente questa cupa situazione finanziaria, un acconto di qualche centinaio di milioni di dollari per acquisto parziale di PpTt Serbia, o meglio del settore telecomunicazioni che dovrà essere scorporato dalle Poste». Il telegramma dava conto, a questo punto, del “malcontento” dell’opposizione al regime di Milosevic per una operazione considerata “un’ancora di salvezza” per il governo di Belgrado. Ma la giornata di ieri ha riservato anche un’altra sorpresa: è stato infatti ascoltato in Procura, a Torino, l’esponente radicale Giulio Manfredi, politico che aveva chiesto di testimoniare in qualità di persone informate sui fatti nell’inchiesta sull’affaire Telekom Serbia. Manfredi ha dichiarato di aver segnalato al procuratore aggiunto Bruno Tinti l’opportunità di ascoltare numerose persone che all’epoca ricoprivano incarichi, tra cui Ciampi, Prodi, Dini, Fassino, Draghi e Micheli oltre a una lista di politici e funzionari jugoslavi. La “bolla di sapone” sta scoppiando.