....privatizzatore.
La storia di Prodi all’Iri si divide fra due periodi, 1982\1989 e 1993\1994.
Due mandati di nove anni complessivi legati alla parola d’ordine: privatizzare.
Dunque: è chiaro che non è stato Prodi a privatizzare l’Iri ma i governi che lo hanno nominato presidente e degli anni successivi. Prodi eseguiva “ordini ricevuti”.
Doveva disfarsi dei rami secchi e raccattare danaro per sostenere quelle che allora venivano dette “partecipazioni strategiche”.
A leggere direttamente Prodi si viene a sapere che egli mise piede nell’istituto di via Veneto il 3 novembre, “quel breve lasso di tempo che separa il giorno dei morti dal giorno della vittoria”.
Aveva trovato, a suo dire, “più debiti dell’Argentina”.
Alle spalle aveva l’insegnamento universitario, la guida dell’istituto bolognese Nomisma, il cordone ombelicale con Andreatta e la sinistra Dc, un “povero” anno come ministro dell’Industria.
Fu voluto da De Mita, che lo impose nel tradizionale feudo della Dc, mentre Craxi collocò Reviglio all’Eni.
In quegli anni Prodi sosteneva di non essere un fanatico della privatizzazione. “Le ragioni che mi spingono a privatizzare sono empiriche e diverse. - disse a Le Matin – A volte si tratta di offrire migliori prospettive a una industria (il caso Alfa-Romeo), altre volte di vendere attività importanti ma non indispensabili per rafforzare i mezzi finanziari ( operazione Cementir- Finsider attualmente in corso). Può trattarsi della volontà di allargare la base di una unità di produzione a livello internazionale ( per esempio la possibile joint venture tra Italtel e teletta nel settore delle comunicazioni). Come potrebbero doversi permettere maggiori concentrazioni in settori che per l’Iri sono più critici, come nel caso Sme-De Benedetti.
Quest’ultima operazione, riportata in queste settimane sotto i riflettori, ha riacceso l’interesse sul Prodi all’Iri. Come agì? Quali affari tentò e chiuse? Quanto guadagnò per lo Stato?
Bilancio in rosso
Decisamente fallimentare il primo mandato e all’apparenza più roseo il secondo.
Dei quattro casi citati dallo stesso professore solo quello dell’Alfa è andato in porto.
La svendita Sme fu bloccata, l’operazione Telit naufragò e la Cementir fu venduta, con procedure totalmente differenti, dal successore Franco Nobili.
Probabilmente non solo per sua colpa, Prodi navigò a vista: dalle trattative private alle aste pubbliche ai mandati esplorativi, a volte subendo l’iniziativa altrui, altre volte prendendola.
Quello che appare chiaro è che tra le tante e “diverse ragioni empiriche” che lo “guidavano” nei suoi impegni non fosse compreso il massimo vantaggio economico per le casse dell’istituto da lui guidato.
I tecnici catapultati in politica non devono rispondere agli elettori ma ai “potentati” che li sostengono, e Prodi non è una eccezione.
Nel 1985 era pronto a cedere per una cifra irrisoria la Sme all’editore di Repubblica, che era anche sponsor di De Mita, e nel 1993, quando la vendita gli riuscì, fece di tutto per assegnarla a un finanziere sconosciuto ma protetto dalla Dc campana.
Nell’87 ri “rimangiò” il progetto Telit sotto la pressione di segreterie partitiche.
Con l’Alfa sacrificò l’accordo già firmato con la Ford (che offriva tre volte di più della Fiat) sull’altare della campagna “Il Biscione deve restare italiano”, se non orchestrata certamente gradita alla casa torinese.
Provò a vendere Maccarese, la grande tenuta agraria alle porte dell’aereoporto di Fiumicino, grande anche come mangiasoldi. Ci provò due volte e rimediò due figuracce.
Prodi, che si autodefiniva il “privatizzatore per eccellenza”, nel 1996, da Premier, fu raggiunto dall’inchiesta sulla cessione Sme. Apparve chiaro che il professore aveva perduto quasi tutte le sue battaglie (più precisamente il danno lo ebbe l’Istituto da lui presieduto).
Non risanò il pozzo senza fondo della siderurgia; Avviò la grande compravendita delle banche ma nella cessione del Credito italiano e della Comit, prigioniero del miraggio chiamato “public company, perse malamente il “premio di maggioranza”; dovette intervenire l’abile mediatore Antonio Meccanico per chiudere la privatizzazione di Mediobanca; inutilmente tentò di far valere il ruolo di azionista pressoché unico della Rai.
Pacioso, ridanciano, ciclista della domenica e sapiente nel prendere per i fondelli il Parlamento (che sembrava accettare lo sfottò); come quando spiegò alla Camera il fallimento dell’operazione Telit con Fiat dicendo: “L’ho detto più volte a Romiti che io non sono il padrone dell’Iri”.
Nei primi sette anni l’Iri di Prodi incassò circa 7500 miliardi, sulla carta, perché mille della Alfa arrivarono all’Iri solo nel 1993. Altri mille vennero dalla privatizzazione di Mediobanca, secondo formula non gestita Prodi. Gran parte del resto venne dall’alienazione di quote di minoranza di Comit, Credit, Banco di Roma, Credito fondiario, Alitalia, Dal mine, Sip e Stet.
Quando il presidente del Consiglio Ciampi lo richiamò al posto di Nobili era il 1993 e il contesto politico completamente mutato.
Achille Occhetto oliava la “gioiosa macchina da guerra, Maastricht imponeva rigidi vincoli di bilancio pubblico e grande era la crisi della siderurgia e impiantistica.
Prodi firmò la cessione di Italgel per 437 miliardi; Cirio-Bertolli-De Rica per310 miliardi; Credit per 1801 miliardi e Comit per 2891 miliardi.
Furono operazioni pasticciate, soprattutto le prime due, finite sotto inchiesta, com’era già accaduto per il primo tentativo di vendita della Sme. Fu provvidenziale la modifica del reato di abuso d’ufficio, fortemente voluto dal Capo dello Stato Scalfaro, che permise a Prodi di uscire dalle aule di giustizia.
Sulla testa di Prodi piovvero molte critiche, tra le quali resta conosciuta quella di Bruno Vicentini.
L’ex presidente Olivetti ed ex ministro censurò l’operazioneSme come “pasticciaccio brutto” e fece a pezzi la privatizzazione di Comit e Credit. “Il professor Prodi dimentica le norme di legge e statutarie” scrisse su Repubblica nel marzo del 1994, biasimando “la via balorda” e “il modo alquanto giocherellone con il quale si è proceduto” che avrebbero prodotto “conseguenze opposte a quelle declamate con la retorica delle ‘pubblic companies’ e del controllo del mercato.
Profezia avveratasi, e vedremo come.
Stefano Filippi su Il Giornale di martedì 12 agosto 2003
saluti