Mi ero riproposto di postare la recensione del libro dedicato a Sergio il 29 di Aprile di ogni anno a ricordo di ciò che successe.
Purtroppo sempre pochi sono coloro che ben ricordano o sappiano cosa realmente avvenne in lontano Aprile '75.
QUesto è un libro che NON dovrebbe mancare in una biblioteca
di un destrista,costa una stupidata,ma fa pensare per anni.
"SERGIO RAMELLI" una storia che fa ancora paura.
ed.effedieffe.
Era il 29 aprile 1975 quando, dopo quarantasette giorni di tremenda agonia,
cessava di battere il cuore di Sergio Ramelli. Aveva 18 anni. Era stato aggredito
sotto casa il 13 marzo, mentre tornava da scuola, da due studenti di medicina che
gli spappolarono il cranio a colpi di chiave inglese.
Era un ragazzo normale, Sergio Ramelli: la scuola, il calcio, la fidanzata. E una
colpa terribile: militare nel Fronte della Gioventù nella Milano degli anni di spranga
e di piombo.
È difficile oggi far capire a chi in quegli anni nasceva, il clima di violenza e di
intolleranza in cui si svolgeva la lotta politica. Non una guerra di idee, ma la ricerca
dell’eliminazione fisica del nemico.
Guido Giraudo ha scritto un libro bellissimo. Spassionato, lascia poco spazio ai
propri sentimenti e alle proprie impressioni, e ricostruisce il terribile delitto usando
come fonti gli atti processuali, i resoconti della stampa e, soprattutto, la splendida
testimonianza di Anita Ramelli, madre di Sergio, che fa da filo conduttore a tutto il
racconto.
Dopotutto servono a poco i commenti ad una storia che, pagina dopo pagina, fa
crescere dentro tanta rabbia. Tanta rabbia e, soprattutto, un profondo disgusto per
l’ipocrisia, l’indigenza morale, la viltà di un sistema di intellettuali, politici, magistrati,
giornalisti, vergognosamente servi di un’ideologia o della paura di perdere la
tranquillità.
Una storia che fa ancora paura, il titolo del libro. A più di vent’anni di distanza
dalla morte di Sergio, il “caso Ramelli” fa ancora paura. Perché mostra, come
scrive Giraudo, quale fosse realmente la “democrazia” degli anni settanta (e in
fondo anche quella di oggi), quale fosse la barbarie di quegli anni. Fa paura ancora
oggi pensare che giovani studenti di medicina abbiano potuto massacrare a colpi di
Hazet 36 un ragazzo che neanche conoscevano, solo per obbedire alla logica della
sola ideologia che è stata capace di spegnere le intelligenze con la predicazione
costante dell’odio, della lotta di classe, dell’annientamento fisico del nemico: il
comunismo.
Straordinariamente efficace è la descrizione che al processo il Pubblico Ministero
fa degli assassini, militanti di Avanguardia Operaia: «Giovani vigliacchi che agivano
nel nome di chissà quali principi. Giovani la cui testa non ragionava più perché un
giorno decisero di conferirla all’organizzazione che pensava e decideva per loro».
E quel giorno l’organizzazione aveva deciso: bisognava dare una “lezione” ad un
fascista. Un’aggressione scientificamente studiata: gli appostamenti, le fotografie,
grazie alle quali gli assassini riconosceranno il loro obiettivo, le chiavi inglesi. Non
era diverso dagli altri ragazzi, Sergio. Una mattina a scuola, gli insulti e le angherie
dei comunisti, la fidanzata, Flavia. E l’orario di ritorno a casa, sempre puntuale. Ma
il 13 marzo non farà neanche in tempo a legare il motorino. Cadrà riverso in una
pozza di sangue sotto i colpi dell’«antifascismo militante».
“10, 100, 1000 Ramelli, con una riga rossa tra i capelli”, scrivevano per le vie di
Milano i paladini della libertà. Certo, si pentiranno, gli assassini, quando dopo dieci
anni, ormai in galera, scriveranno una ridicola lettera di solidarietà alla madre.
A Sergio Ramelli non furono consentiti neanche normali funerali: fu proibito alla
famiglia di portare il corpo a casa, e all’obitorio era presente un’incredibile
schieramento di polizia in assetto da guerriglia: «per noi il funerale è un corteo non
autorizzato»(...)«questa è un’adunata sediziosa, o la sciogliete o siamo costretti a
caricare».
Questa l’Italia democratica anni ‘70.
Bull!