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Discussione: squallore comunista

  1. #1
    anticomunista
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    Predefinito squallore comunista

    per capire cos'é comunismo, basta vedere il grigiore, l'uniformità, lo squallore totale delle case che costruivano i regimi rossi. Ecco un esempio di Bucarest:

    ah ma questo era... il PARADISO del proletariato!

  2. #2
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    Predefinito Re: squallore comunista

    In Origine Postato da ariel
    per capire cos'é comunismo, basta vedere il grigiore, l'uniformità, lo squallore totale delle case che costruivano i regimi rossi. Ecco un esempio di Bucarest:

    ah ma questo era... il PARADISO del proletariato!

    Ne hai di Pyongyang o Kiev?
    Mr. Hyde


  3. #3
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    Predefinito

    E dove i Ceausescu si riempivano alle spalle degli altri.
    2010:

  4. #4
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    Predefinito

    boh a me non sembra peggio del Tiburtino a Roma, tutto sommato il comunismo rumeno costruiva come i palazzinari democristiani anni '50.

  5. #5
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    Predefinito

    Tu devi aver subito qualche trauma infantile causato da un comunista.

    Il nipote di Pajetta t'ha rubato la merendina??

  6. #6
    anticomunista
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    Predefinito

    In Origine Postato da DrugoLebowsky
    boh a me non sembra peggio del Tiburtino a Roma, tutto sommato il comunismo rumeno costruiva come i palazzinari democristiani anni '50.
    sempre a giustificare lo schifo dei regimi rossi eh?!
    voi comunisti non cambierete mai, democratici buonisti di fuori, totalitari e criminali di dentro....

  7. #7
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    Predefinito Volendo restare A CASA NOSTRA...

    ...invece.

    “I sopravvissuti del campo di internamento lamentano l'amnesia italiana”: è il titolo di un articolo comparso nella prima pagina dell’International Herald Tribune di ieri, a firma di Thomas Fuller. La tesi è semplice: mentre Silvio Berlusconi dice che il fascismo non ha ucciso nessuno, i sopravvissuti del campo di concentramento italiano di Arbe (Rab in croato) accusano. E parlano due sloveni (la maggior parte degli internati era composta da sloveni), Metod Mladic e Anton Vratusa, ex internati, che ricordano l’orrore di quel campo nato nel luglio 1942 e chiuso nel settembre 1943.

    Oggi l’articolo di Fuller compare, tradotto, nella prima pagina dell’Unità ed è ripreso a pagina 18 di Repubblica in un articolo firmato da Riccardo Staglianò.

    In Italia il capitolo dei campi di internamento gestiti dal ministero dell’Interno o dal Regio esercito (come quello di Arbe) è completamente passato nell’oblio. Non solo: mentre va così di moda chiedere scusa a tutti per qualsiasi cosa, mai nessun rappresentante dello Stato italiano nato dalla negazione del regime che mise in piedi quei campi è andato sulle 1.200 sepolture di Arbe a chiedere scusa a quei morti. Mai, nemmeno un ambasciatore o un console della vicina Fiume (Rijeka). Solo dei privati, la Fondazione Ferramonti di Tarsia, hanno messu una lapide, nel 1998.

    Diario aveva già affrontato la questione. Nell’estate 1998 era uscito un articolo di Carlo Spartaco Capogreco, presidente della Fondazione Ferramonti, che parlava del campo di Arbe e della collocazione della lapide. Nel numero 37 di mercoledì 15 settembre 1999, Alessandro Marzo Magno firmava l'articolo Italiani boia (che linkiamo), con numerose foto dell’archivio del Muzej novejse zgodovine (Museo di storia contemporanea) di Lubiana.

    Da allora la tematica non è stata granché sviluppata. L’Istituto regionale per lo studio della Resistenza del Friuli-Venezia Giulia ha tradotto e pubblicato il libro dello storico sloveno Tone Ferenc, Rab-Arbe-Arbissima (Ferenc è morto l’altroieri a Lubiana), la Mondadori ha stampato nel 2001 il lavoro di Frediano Sessi, L’isola di Rab, in cui l’autore ricostruisce sotto forma di racconto le vicende del campo; infine qualche giorno fa il Saggiatore ha pubblicato il libro di Alessandro Marzo Magno Il leone di Lissa. Viaggio in Dalmazia in cui, nel capitolo dedicato ad Arbe, si parla abbondantemente delle vicende del campo.

    ****************

    Diario, n. 37, 15 settembre 1999
    Italiani boia
    Non solo "brava gente": nei 29 mesi in cui Lubiana e una fetta di Slovenia furono annessi allo Stato fascista, esercito e camicie nere massacrarono oltre 1.700 persone. Più o meno come i nazisti

    di Alessandro Marzo Magno


    L'imbarazzo della storia genera oblio. E così in questo dopoguerra una serie di eventi, che ha coinvolto i confini orientali italiani, è stata dimenticata sull'altare della Realpoltik. Per decenni si è preferito non parlare dei drammi che hanno visto gli italiani vittime (foibe, esodo da Istria, Fiume, Dalmazia) per non turbare i rapporti italo-jugoslavi. E si continua ancor oggi a glissare su drammi che hanno visto gli italiani carnefici, come il lager di Arbe (oggi Rab, in Croazia) che non aveva purtroppo nulla da invidiare ai campi nazisti, o sulla "Provincia di Lubiana", maldestro e sanguinoso tentativo dell'Italia fascista di cambiare la la geografia etnica e politica.


    Pochi lo sanno e sempre meno lo ricordano, ma dal 1941 al 1943 l'Italia si allargò. Non solo di colonie o di più o meno velleitari imperi, ma di quello che viene definito "territorio metropolitano" che si estese, dopo l'invasione del Regno di Jugoslavia, alla Dalmazia e alla "Provincia di Lubiana". Per due anni una fetta di territorio sloveno dove mai, se non come gradito ospite, aveva vissuto alcun italiano, divenne territorio del Regno a tutti gli effetti, una provincia come tutte le altre. O quasi. Infatti anche se il territorio era giuridicamente Italia, gli abitanti non diventarono mai cittadini italiani. In compenso vennero massacrati dalle truppe italiane. Le vittime dei poco meno di 29 mesi di occupazione furono 1.700, ovvero quasi due morti al giorno. Ma oltre la metà di tali vittime, più o meno 800, sono cadute nella grande offensiva dell'estate-autunno 1942 quando, senza alcuna distinzione tra Camice nere e Regio esercito, gli italiani massacrarono la popolazione maschile di interi villaggi (ma tra le vittime delle fucilazioni di massa ci furono anche donne), rea di aver ospitato partigiani. Un tasso di crudeltà non dissimile da quello dimostrato, qualche mese più tardi, dagli occupatori nazisti in Italia. Un numero di vittime, poi, superiore a quello, pur alto, patito dagli italiani in combattimento o attentati: 1.100. I numeri sono forniti da Tone Ferenc, già docente di Storia all'Università di Lubiana. Ferenc tutt'oggi ha un ufficio nell'Istituto per la storia contemporanea della capitale slovena, dove lavora sepolto in un mare di carte: circolari della federazione di Lubiana del Partito nazionale fascista, raccolte rilegate del Piccolo, di Trieste, di Prima Linea, settimanale dei fasci lubianesi (fu Mussolini in persona a ispirare la testata: "Voi siete in prima linea", disse una volta ai fascisti di Slovenia andati a omaggiarlo a Palazzo Venezia) o dello Slovenec, quotidiano della destra clericale (e filo italiana in quanto anti comunista) che nel numero del 4 maggio 1941 celebra la proclamazione della Provincia di Lubiana (avvenuta il giorno prima) sbattendo in prima pagina una fotona di sua maestà il re e imperatore, Vittorio Emanuele III, e una del duce del fascismo, cavalier Benito Mussolini. Questo stesso palazzo dove Ferenc lavora, di fronte all'Università, in una delle piazze più belle dell'asburgico centro storico di Lubiana, 57 anni fa ospitava lo stato maggiore del XI Corpo d'armata, il cui comandante, generale Mario Robotti, ebbe a chiarire, nel 1942, i suoi sentimenti nei confronti degli sloveni con una frase piuttosto significativa: "Si ammazza troppo poco". Ferenc è autore di uno dei due libri pubblicati in italiano sulla Provincia di Lubiana. Se al suo si aggiunge il recente volume del giovane storico milanese Marco Cuzzi (edito dall'Ufficio storico dell'Esercito) e qualche saggio pubblicato da Teodoro Sala, docente di Storia a Trieste, è più o meno tutto quanto la storiografia in lingua italiana sia stata in grado di produrre in 50 anni. Forse c'è dell'imbarazzo nel descrivere delle truppe italiane molto più vicine al cliché del feroce e impietoso nazista che non a quello della "brava gente" (che pur ha ragione di esistere) immortalato da Giuseppe De Santis nel suo film sulla ritirata di Russia. Viene naturale il paragone con un altro film, prodotto dagli americani una ventina d'anni fa, sui massacri perpetrati in Libia dalle truppe di Rodolfo Graziani e mai uscito sugli schermi italiani perché l'allora sottosegretario alla Difesa, Raffaele Costa (ai tempi nel Pli, oggi in Forza Italia) lo giudicò "lesivo dell'onore delle Forze armate italiane".


    Eppure tutto era cominciato in maniera soft, molto "italiana", con le truppe sabaude che pensavano fosse possibile farsi benvolere dagli sloveni. Nell'aprile 1941 italiani e tedeschi danno vita a una sorta di "corsa su Lubiana" per arrivare primi e piantare la bandiera. Gli italiani sono convinti di averla vinta, ma è più probabile che, in base ad accordi di alto livello, i tedeschi gliela lascino vincere. Succede infatti che il governatore di Slovenia, Marko Natlacen, si rechi a Celje, presso i comandi tedeschi, per chiedere che siano le truppe di Berlino e non quelle di Roma a occupare Lubiana. Viene quasi cacciato facendogli capire che accadrà quel che dovrà accadere. Il punto è che Lubiana (in sloveno Ljubljana) fino al 1918 si chiamava Laibach e faceva parte dell'Impero austro ungarico. Nel 1941 ci viveva ancora una cospicua minoranza tedesca (ancor oggi parecchi sloveni portano cognomi di chiara origine tedesca, a cominciare dall'ex ministro degli Esteri Zoran Thaler) e avrebbe preferito vedere in città truppe che parlavano la propria lingua, piuttosto che stranieri come gli italiani. "Alcuni edifici del centro", ricorda Dusan Biber, anch'egli storico, che al tempo dell'invasione italiana non aveva ancora compiuto 15 anni, "avevano esposte enormi bandiere con le croci uncinate: erano i tedeschi che intendevano in questo modo manifestare la loro preferenza per l'occupazione tedesca piuttosto che non per quella italiana". E nel ricordo di Biber sembra che le bandiere in quei primi giorni abbiano giocato un ruolo piuttosto importante: una grande bandiera bianca indica che Lubiana non intende opporre resistenza, un'ancora più grande bandiera italiana viene issata sul castello che domina la città, ma i produttori del vessillo debbono aver risparmiato sul materiale perché il vento gagliardo presto sfilaccia il tricolore che dev'essere sostituito in rapidità.

    È il 3 aprile 1941 quando i primi bersaglieri entrano a Lubiana. "Li ho visti arrivare: erano tre, in moto, vicino alla stazione ferroviaria; non sapevo se ridere o se piangere perché facevano un'impressione piuttosto buffa con quelle piume", osserva Biber. E poco più tardi, rientrato nella sua casa dirimpetto al Palazzo del Governo, vede il governatore Natlacen intrattenersi amichevolmente con alcuni ufficiali italiani. Quel giorno la Slovenia finisce smembrata: la maggior parte va ai tedeschi (Machen mir dieses Land wieder deutsch - "Rendetemi questa terra di nuovo tedesca" - dirà poi Adolf Hitler, dando il via a una meticolosa politica di deportazioni etniche e di snazionalizzazione, riferendosi al fatto che nel 1918 Marburg, l'odierna Maribor, aveva circa 20 mila abitanti tedeschi contro 3 mila sloveni e qualche anno più tardi era diventata slovena), Lubiana, con Novo Mesto e circa un terzo del territorio vanno agli italiani (per un totale di 300 mila abitanti), una piccola porzione tocca all'Ungheria (è la fascia di territorio dove viveva e ancor oggi vive la minoranza magiara). Il 17 aprile il federale del Pnf di Trieste, Emilio Grazioli, arriva a Lubiana per prendere possesso della città. Dal 4 maggio assume il titolo di Alto commissario della Provincia di Lubiana. Si insedia nel Palazzo del Governo, dove oggi sono ospitate la presidenza dei ministri e la presidenza della repubblica slovene. Vi rimarrà fino al giugno del 1943, poco prima della fine della sostituzione dell'occupazione italiana con quella tedesca.


    Il comando militare viene dapprima affidato al II Corpo d'armata, di stanza a Susak, un sobborgo di Fiume (Rijeka). Negli stessi giorni, infatti, l'Italia si annette anche la Dalmazia. Dalla fine del marzo 1942 Lubiana viene affidata al XI Corpo d'armata, del già tristemente citato generale Robotti. Si insedia nel palazzo che in tempi austroungarici ospitava le istituzioni culturali dei tedeschi (mentre il Narodni Dom era il corrispettivo sloveno), poi la sede del partito liberale e oggi l'Istituto per la storia contemporanea e l'archivio della seconda guerra mondiale. L'occupazione comincia in modo soft. "Gli italiani volevano conquistare la benevolenza della popolazione", afferma Biber, "la banda militare teneva dei concerti sotto al monumento di France Preseren, il più illustre poeta sloveno. Ma noi ragazzini ci divertivamo a tirare arance per disturbare i musicisti". A Lubiana arriva Beniamino Gigli, si inscena l'opera anche se nella seconda rappresentazione della Butterfly sparisce la bandierina americana con cui .... Alla prima il vessillo Usa aveva scatenato un uragano di applausi. Ma questo atteggiamento era solo di facciata o, almeno, non condiviso da tutti. Dopo la guerra sono emerse delle carte dell'Alto commissario Grazioli in cui suggeriva di lasciare le bocce ferme per tutta la durata del conflitto, ma, una volta finita la guerra, di deportare tutti gli sloveni in Libia e di installare al loro posto contadini delle zone più povere dell'Italia meridionale. "Noi ragazzi", continua Biber, "facevamo anche della sciocchezze. Una volta abbiamo attaccato sulle schiene dei soldati di sentinella di fronte al tribunale dei foglietti che inneggiavano al Fronte di Liberazione. Un'altra abbiamo tagliato delle linee telefoniche che passavano per il Parco Tivoli".

    C'è da dire, in ogni caso, che una parte del mondo politico sloveno aveva accettato l'invasione italiana come "male minore". Si trattava dei cattolici, molto forti in un Paese tradizionalmente "bianco". Temevano i comunisti sopra ogni altra cosa e ritenevano che gli italiani potessero costituire una barriera al dilagante bolscevismo. Si trattava alla fin fine di un Paese cattolico e i rapporti tra Mussolini e il Papa erano rinfrancati dall'ormai ultradecennale Concordato. All'inizio, quindi, i cattolici sloveni accettano di collaborare con gli italiani. Lo stesso governatore Natlacen ne è un esempio. Ma tra le azioni di maggior rilievo dei partigiani del Fronte di liberazione (Osvobodilna fronta - Of) c'è proprio il sistematico assassinio degli sloveni collaborazionisti (e Natlacen sarà tra le vittime). Gli italiani arruoleranno anche una "Milizia volontaria anti comunista", formata da sloveni che arriverà a contare fino a 6 mila effettivi. Mentre nel loro settore i tedeschi scatenano il terrore, trasferiscono le popolazioni e non danno tregua ai partigiani, in quello italiano la situazione è relativamente tranquilla. Il che permette ai partigiani di organizzarsi: le formazioni Of cacciate dalla zona tedesca si insediano in quella italiana e il confine con lo stato ustascia croato (dove la forza dei partigiani è ben maggiore che in Slovenia) di fatto rimane sempre un colabrodo da cui filtrano in continuazione intere squadre di combattenti partigiani. La situazione, quindi, si deteriora via via. Crescono le vittime e gli attentati, soprattutto contro la linea ferroviaria Trieste-Lubiana. Biber ricorda che i partigiani chiedevano ai ragazzini di osservare i treni che andavano verso l'Italia, di contrarli e di contare quante carrozze li componessero, di distinguere i trasporti militari dagli altri, di segnalare se i vagoni trasportavano camion o carri armati. Il Regio esercito non sa contrastare la guerriglia e reagisce scatenando una escalation di terrore. Si prendono ostaggi, si fucila, si cerca di limitare la circolazione delle persone. A Lubiana le esecuzioni si moltiplicano in due luoghi: il poligono di tiro e le cave di ghiaia vicino al cimitero disegnato dal celebre architetto Joze Plecnik. Alla fine saranno 142 i caduti sotto i tiri dei plotoni di esecuzione alle cave. Molti degli uccisi, per evitare eventuali pellegrinaggi alle tombe, furono sepolti in fosse comuni nel cimitero di Monfalcone dove ancor oggi si trovano poiché quelle fosse non sono mai state identificate. Accadde anche che un plotone di 77 camice nere fucilasse 16 ostaggi, ma otto non furono uccisi dalla prima salva e fu necessario dare loro il colpo di grazia, al che l'ineffabile Robotti replicò dicendo: "Sparare meglio". E quando fu assassinato il governatore Natlacen, 24 persone furono fucilate in pubblico, davanti alla porta della sua casa, nel pieno centro di Lubiana, senza aspettare i canonici tre giorni che gli italiani concedevano prima di ammazzare gli ostaggi perché gli autori degli attentati si presentassero.

    Dal febbraio 1942 Lubiana viene circondata da una barriera di filo spinato. Non si può entrare e uscire dalla città se non attraverso posti di blocco presidiati giorno e notte dagli italiani. Parte del cammino di ronda che correva lungo il reticolato esiste ancor oggi e viene usato dai lubianesi per fare jogging o andare in bicicletta. È tuttavia nell'estate del 1942 che gli italiani scatenano il terrore vero e proprio. Un'offensiva durata quattro mesi permette agli occupanti di riconquistare il controllo del territorio che avevano in buona parte perso, ma il prezzo sono fucilazioni di massa, esecuzioni sommarie, villaggi bruciati, metodi, insomma, per nulla diversi da quelli adottati dai tedeschi. Interi settori della capitale vengono bloccati, tutta la popolazione maschile dai 16 ai 50 anni fermata e portata in caserma per accertamenti, i sospetti, che sono sempre più, mandati nei campi di internamento. A Gonars, in Friuli, soprattutto, o in quello terribile sull'isola di Arbe (Rab) nel Golfo del Quarnero. Anche Biber, assieme a suo fratello, finì a Gonars, in una baracca riservata ai minorenni. Fu trasferito a Monigo, vicino a Treviso, da dove fu liberato nell'estate 1943 grazie alle conoscenze e ai soldi di uno zio cittadino italiano che faceva il dentista a Gorizia.

    Dopo tutto questo la popolazione sostiene sempre più massicciamente i partigiani dell'Of. Anche qualche ufficiale italiano si rende conto che il terrore non serve ad altro che ad inimicarsi sempre di più gli sloveni. Nell'inverno 1942-43 gli italiani riescono di fatto a mantenere il controllo solo sulle città e, con grandi difficoltà, a tenere aperta la linea ferroviaria Trieste-Lubiana. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 al terrore italiano si sostituisce quello tedesco.

    Oggi della Lubiana "italiana" restano tracce nel Museo di storia contemporanea, immerso nel verde del Parco Tivoli. Qualche documento bilingue, qualche targa d'automobile con la sigla "Lb", qualche insegna stradale con i nomi italianizzati: via Verdi, via Divisione Isonzo. Una ricca collezione fotografica semisconosciuta in Italia. Gli edifici che furono occupati dagli italiani esistono quasi tutti ancor oggi. Si è detto che il presidente della repubblica, Milan Kucan, occupa le stesse stanze che 57 anni fa furono occupate dall'Alto commissario Grazioli. La questura si era insediata in quella che prima e ancor oggi è la sede centrale della polizia. La caserma delle camice nere era in una ex scuola, oggi di nuovo sede di un istituto tecnico superiore; nei sotterranei erano state ricavate delle celle usate anche per torturare i prigionieri. La caserme dove si acquartierarono i Granatieri di Sardegna, i Reali Carabinieri e gli altri militari italiani erano ex caserme austroungariche che esistono ancor oggi. La novità è che esiste anche una denuncia presentata da alcune associazioni combattentistiche slovene alla procura di Lubiana. "Crimini contro l'umanità" è il reato ipotizzato. Se qualche procura italiana decidesse di aprire un fascicolo e se qualche protagonista di allora fosse ancora vivo, qualche massacratore italiano potrebbe finire sul banco degli imputati a tener compagnia ai "boia delle foibe" il cui processo dovrebbe aprirsi tra poco a Roma.

    C'è ANCHE le foto (per i più piccini)

  8. #8
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    Predefinito

    In Origine Postato da ariel
    sempre a giustificare lo schifo dei regimi rossi eh?!
    voi comunisti non cambierete mai, democratici buonisti di fuori, totalitari e criminali di dentro....
    bé, io almeno sono verde fuori e rosso dentro, tu marrone stabile

  9. #9
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    Predefinito Re: squallore comunista

    In Origine Postato da ariel
    ]
    ah ma questo era... il PARADISO del proletariato!
    E pensare che per 50 anni hanno insultato tutti quelli che dicevano che a Est c'era poverta' e sottosviluppo

    Cosi come oggi insultano chi non vota a sinistra

    I comunisti sono sempre gli stessi

  10. #10
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    Predefinito Re: squallore comunista

    In Origine Postato da ariel
    per capire cos'é comunismo, basta vedere il grigiore, l'uniformità, lo squallore totale delle case che costruivano i regimi rossi. Ecco un esempio di Bucarest:

    ah ma questo era... il PARADISO del proletariato!
    Sono identiche a questa tutte le città ex-sovietiche che ho attraversato quest'estate, quanto meno fuori dal centro. Uniche eccezioni Mosca e Kijev, splendide nel centro storico, ma esattamente così già dalla prima periferia.
    Riaffiorano i ricordi degli anni di passione
    ritorna il vecchio sogno per la rivoluzione.
    Racconti senza fine di gente che ha pagato
    non puoi mollare adesso la lotta a questo stato.
    La rivoluzione è come il vento, la rivoluzione è come il vento.

 

 
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