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Discussione: Elezioni....

  1. #1
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    Predefinito Elezioni....

    ....Usa

    Roma. Di fronte a una folla di sostenitori repubblicani a Wilkes-Barre, in Pennsylvania, George W. Bush – alla sua 39° visita in questo Stato che vale 21 voti elettorali e che nel 2000 è andato ad Al Gore – ha dato una risposta a tutti: a chi lo accusa di essere stato ossessivamente ripetitivo durante il dibattito con il suo avversario John Kerry, a chi lo vuole in balìa di un’Amministrazione in fase di ripensamento, a chi dice che il suo vice, Dick Cheney, non ha svolto con sufficiente incisività il suo ruolo di “cane da combattimento”.
    Ma soprattutto ha cercato di anticipare quelle 1.500 pagine di report, presentate ieri di fronte al Senate Armed Services Committee, in cui Charles Duelfer, dal gennaio scorso ispettore capo degli Stati Uniti in Iraq alla caccia delle armi di distruzione di massa, dichiara che Saddam Hussein non possedeva alcun arsenale né aveva alcun piano “vigoroso” di sviluppo di armi nucleari, chimiche o biologiche.
    Il dossier dice però che il rais stava cercando in ogni modo di sviare le sanzioni delle Nazioni Unite con finanziamenti illeciti e che non aspettava altro di veder indebolirsi l’attenzione internazionale sul suo paese per ricominciare la sua offensiva nucleare.
    Ed è proprio su questo concetto di minaccia che la Casa Bianca vuole confermare il suo diritto ad aver mosso guerra all’Iraq. Bush, nel suo discorso, interrotto da scrosci di applausi, ha detto: “Sapevamo che il dittatore aveva una lunga storia di utilizzo di armi di distruzione di massa, un lungo passato di aggressione e di odio nei confronti dell’America. C’era il rischio, un rischio reale, che Saddam Hussein passasse armi o materiali o informazioni alle reti terroristiche. Nel mondo dopo l’11 settembre questo era un rischio che non potevamo correre”.
    La minaccia per Bush era ed è sufficiente, indipendentemente dal ritrovamento delle armi.
    Non ha perso occasione per ribadirlo: aspettare, continuare sulla via diplomatica - quel “test globale” che Kerry, durante il dibattito, gli aveva posto come condizione per gli attacchi preventivi – sarebbe stato ben più pericoloso, perché “se si arriva troppo tardi, le vite non si possono più salvare” e soprattutto perché “il mondo è molto più sicuro ora che Saddam è rinchiuso in una cella”.
    E, anzi, sottomettersi al volere della comunità internazionale, cioè fare come dice Kerry, significa “voler paralizzare gli Stati Uniti in un mondo pericoloso”.
    Bush, con fare spigliato e a tratti sprezzante, galvanizzato dai fan, ha detto tutto quello che venerdì, durante il dibattito con il suo rivale, non era riuscito ad articolare in modo efficace.
    “Non lascerò a nessun altro il compito di proteggere il mio paese – ha detto – Kerry affronta la politica estera con un atteggiamento
    ‘da 10 settembre’, ma l’obiettivo della guerra al terrore non è aspettare un altro attacco e poi reagire, ma prevenire gli attacchi continuando a combattere il nostro nemico”.
    E’ tutta qui, secondo Bush, la differenza tra la sua politica e quella proposta dal suo rivale, che, con il suo programma,
    “indebolirebbe l’America e renderebbe il mondo più pericoloso”. Per sancire la fermezza della sua Amministrazione, il presidente ha scandito un “we-must-no-waver”, non dobbiamo tentennare, che vuol dire che non bisogna fare come Kerry, che “prima vota a favore della guerra in Iraq e poi si dichiara contro i finanziamenti per sostenere la campagna”, che fa riferimento alla guerra nel Golfo del 1991 come “un conflitto cui parteciparono tutti” e che però, per Kerry, non doveva essere fatta, visto che ha votato contro.
    Per ribadire la giustezza della sua politica, non soggetta a condizionamenti esterni né al non ritrovamento delle armi di distruzione di massa, Bush si è affidato, ancora una volta, al concetto di libertà:
    “L’America è più sicura quando la libertà è in marcia”.
    E i “soldati italiani morti a Nassiriyah sono eroi della guerra al terrore”, così come tutti i contingenti alleati, che Kerry non perde occasione di denigrare.
    All’inizio del suo discorso il presidente ha anticipato le sue argomentazioni sull’economia, che sarà il tema dei prossimi dibattiti televisivi. In questa fase, Bush ha attaccato direttamente anche il vice di Kerry, John Edwards, che, con la sua attività – e remunerazione – di avvocato processualista, ha aumentato i costi della sanità, rendendo ancora più difficoltoso il lavoro delle aziende.
    Alle politiche del ticket rivale Bush ha opposto il suo “elenco di risultati ottenuti”, merito anche del suo vice, Dick Cheney, che Bush ha scelto per la “sua esperienza e capacità di giudizio”:
    in quattro anni il presidente ha abbassato le tasse – aumentando “del 10 per cento il reddito dopo la tassazione” – ed è riuscito a ripianare quel “milione di posti di lavoro che è andato perso nei tre mesi dopo l’11 settembre”, ha agevolato i prestiti per gli studenti, i tassi dei mutui e le modalità di apprendimento per i bambini in difficoltà. Kerry, secondo Bush, non saprebbe fare nulla di tutto ciò perché ha mostrato di “voler ostacolare le riforme”, ed è un ‘tax-and-spend-liberal”, un liberal scialacquone.

    Paola Peduzzi su il Foglio

    saluti

  2. #2
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    Predefinito Il vice-dibattito

    Roma. Il gigante e il ragazzino. Nella dimensione confidenziale di un tavolo a ferro di cavallo sistemato in un’aula universitaria a Cleveland, in Ohio, Dick Cheney, John Edwards e la moderatrice Gwen Ifill, della Pbs, hanno messo in scena l’atto unico del duello dei vice, intermezzo gustoso tra il primo round della sfida tv Bush-Kerry dello scorso venerdì a Miami e il secondo di domani a St.Louis (dove si giocherà con la formula meno soffocante dell’“assemblea municipale”, aperta alle domande dei cittadini, come nei quadretti di Norman Rockwell).
    63 anni portati malissimo Cheney, 51 con l’aria di averne dieci di meno Edwards: è il primo messaggio all’apparire dei due, fianco a fianco.
    Li separa – non solo per motivazione elettorale, ma per vera attitudine e visione – un gap così profondo da essere riassumibile con lo squallido aggettivo di “generazionale”.
    In ogni caso, qualsiasi siano i contraccolpi del primo faccia a faccia tra George W. Bush e John Kerry, Cheney fa capire subito di non starci a farsi processare, mentre Edwards riapre il cartello delle rivendicazioni sugli errori in Iraq, tormentone ripetuto alla nausea, cui ormai i suoi strateghi hanno affidato le speranze di vittoria (e ancora una volta c’è andata di mezzo l’economia, che probabilmente interessa a molti americani più che dei fantasmi del medio oriente e dello spaventapasseri Osama).
    Cheney, l’uomo che si sa determinante nell’intimità dello Studio Ovale, ha giocato insomma al padrone di casa: sono qui per tranquillizzarvi, ciò che già vi ha detto a modo suo, un po’ apatico, il caro George, è che stiamo lavorando per rendere il mondo migliore.
    E che per riuscirci non dobbiamo stare con le mani in mano, qualsiasi siano le idee delle altre nazioni.
    Siamo americani e abbiamo un lavoro da fare.
    Di fronte a tanta assodata supponenza, Edwards ha giocato al monello, ha rimesso in circolo la proposta del “fresh start”, ha detto che il suo ticket di piani ne ha a bizzeffe e in particolare sull’Iraq, dove le cose andavano condotte altrimenti, eccetera, eccetera, con condimento di Paul Bremer e delle sue tempestive confessioni.
    Lo stallo è dietro l’angolo: i due democratici a ripetere all’infinito la cantilena, mentre chi ancora comanda si fa forte del lavoro fatto, dell’esperienza accumulata e soprattutto dell’imponente sfondo ideologico su cui la campagna della “Global war on terror” è collocata.
    I due sfidanti si sono guardati sovente, Edwards con vispi occhietti petulanti, Cheney stizzito dal rampante in carriera che aspira alla camera dei bottoni.
    Il tono di Edwards è quello dell’avvocato di successo, è saputello, ma abile, superficiale, semplice, arrogante, a tratti penetrante, con l’appeal di un chirurgo plastico al top della carriera.
    Se ora accetta, con limitato slancio, la parte del secondo, in futuro si rifarà vivo in proprio, magari disegnando qualche ruga su quella facciata troppo levigata, roba da politico postmoderno e digitale. Ma nella sua più importante apparizione pubblica, è sembrato acerbo, veloce, ma fragile quanto a fondamenta intellettuali e ad attrezzatura politica, retorica in testa.
    Cheney è il nonno che avrebbe preferito spendere meglio la serata più che rintuzzare le frecciate di un contendente cui fatica ad accordare uno status.
    Visto che c’è, però, non fa niente per non sputtanarlo: “Lei primeggia per assenteismo in Senato. Non ricordo di averla mai incrociata prima di stasera” (si sono visti altre tre volte, ha precisato ieri Edwards).
    Ha sottolineato che lui non ha aspirazioni politiche personali, che conta solo il gioco di squadra, che non vede l’ora di mettersi in panciolle sotto il portico, ma è ora pronto a svolgere fino in fondo il suo mandato.
    Su Halliburton ha detto che è tutta una montatura.
    E lì, colpevolmente, Edwards non ha saputo approfittarne. L’esito? Un pareggio con preferenza a Cheney, apparso più “presidenziale”, misurato, consapevole e dotato del lucido fatalismo necessario a produrre le scelte consone.
    Edwards, con tutto quel piglio e quel testosterone, gioca ancora al leader da college, usa slogan da far accapponare la pelle ai lupi di Washington (“garanzia di sicurezza, capacità di giudizio e onestà, questo gli americani vogliono da una presidenza”, come se la cosa fosse in discussione).
    Cheney ha gigioneggiato nella parte del consumato uomo di potere, perfino affaticato dal dover dare troppe spiegazioni, in stile “guardatemi, sapete di che pasta sono fatto. Lasciate che ci pensi io e tornate ai vostri barbecue”.
    Ha replicato con l’impazienza del docente stuzzicato dall’allievo troppo zelante e chiedendo a Edwards come lui e il suo socio facessero a piazzarsi sempre “dalla parte sbagliata della staccionata”, ribadendo che quel che è stato fatto andava fatto, per indebolire il cancro che divora il mondo.
    Ha poi pronunciato la frase più brillante della serata, quando con sguardo paterno ha rimproverato Edwards di avere una “limited view”, uno sguardo miope, privo della necessaria profondità e altezza per analizzare e per decodificare lo stato delle cose e del mondo.

    Stefano Pistolini su il Foglio

    saluti

  3. #3
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    Predefinito Come insultare un liberal....

    ....e dir male dei Kennedy

    New York. Ann Coulter è tornata più cattiva che mai con un libro che, appena uscito in America, è già un bestseller.
    Si intitola “How to talk to a liberal (If you must)”, “Come parlare con un liberal di sinistra (se proprio devi)”.
    Il titolo dice tutto. Ann Coulter odia i liberal, cioè l’élite intellettuale, politica, editoriale e giornalistica d’America.
    Secondo lei sono quasi tutti traditori, antiamericani, filo islamici, come furono filo sovietici negli anni della Guerra fredda.
    Le piace provocare, prenderli in giro, attaccare e non mollare mai la presa.
    “La grande maggioranza dei liberal non sta intenzionalmente sabotando la nazione – scrive – In realtà credo che al 20 per cento dei liberal non freghi niente della nazione. Questo 20 per cento odia l’America, ma la maggioranza cerca soltanto di vendere libri, trovare uno show televisivo, essere definito ‘coraggioso’ dal New York Times, fare il figo o trovare il numero di telefono di una donna a un ricevimento pomeridiano di un centro Kabbalah”.
    Loro la odiano, ci sono siti internet dove la fanno a pezzi e siccome è alta, magra, bionda e bella immaginatevi il tono da caserma.
    AC è malvista anche a destra.
    E’ diventata famosa con un libro che anticipò le tesi dell’impeachment a Bill Clinton, poi si è trasformata nell’Oriana Fallaci d’America il 12 settembre del 2001, quando, all’indomani dell’attacco agli Stati Uniti, scrisse una frase che le costò il licenziamento dal giornale di destra, la National Review, per cui scriveva.
    La frase era un suggerimento al presidente George W. Bush e diceva così: “Dobbiamo invadere i loro paesi, uccidere i loro leader e convertire i loro popoli alla cristianità”.
    Pentita? Assolutamente no.
    “Ancora oggi la mia posizione è esattamente questa e, tra l’altro, una settimana dopo i punti numero uno e due di quella frase sono diventati la politica ufficiale degli Stati Uniti”.
    Nonostante il successo del primo libro, Ann non ha un giornale su cui scrivere, se non il piccolo Human Events.
    “Ma non ho che da accusare me stessa se non riesco in qualcosa. Mio padre non era razzista, mia madre non è mai stata arrestata e mio fratello non si è mai travestito. Provengo da una minoranza svantaggiata: sono il prodotto di una famiglia amorevole e unita”.
    Dopo l’11 settembre Ann ha scritto altri due libri, “Slander” e “Treason” (quest’ultimo uscito in Italia per Rizzoli con il titolo “Tradimento”).
    Il successo è stato clamoroso in America e il tema è sempre lo stesso: l’odio dei liberal nei confronti dell’America e la loro predisposizione a tradire il proprio paese.
    Tesi forti, audaci, condite da una riabilitazione del senatore Joseph McCarthy e della sua caccia alle streghe comuniste.
    Il nuovo libro comincia così: “Storicamente il modo migliore per convertire un liberal di sinistra è che lasci la casa dei genitori, trovi un lavoro e cominci a pagare le tasse”.
    E’ una raccolta di tutti i suoi articoli pubblicati e no, censurati e no.
    “Mi piacciono i miei articoli. A differenza dei liberal, che vorrebbero far scomparire i loro articoli in difesa di Ho Chi Minh, io vorrei che i miei venissero letti da un pubblico più ampio”.
    E’ il mondo secondo Ann Coulter, con un decalogo su come impostare una discussione con un interlocutore di sinistra:
    mai arrendersi; mai stare sulla difensiva; insultare il nemico; mai scusarsi; mai fare un complimento; mai mostrarsi cortesi; non cedere ai tentativi di corruzione eccetera.
    In realtà con loro non si può parlare, argomenta Ann, “tu pensi di parlare della guerra in Iraq ma improvvisamente ti ritrovi in una disquisizione su Nixon, il petrolio, i neoconservatori, il Vietnam”.
    I liberal “rifiutano di argomentare” e vanno matti per “l’urlo e la demagogia”, come “nelle piazze arabe”, e li senti spesso, “in trance come dei dervisci”, ripetere cose del tipo “Bush ha mentito, e i bambini sono morti” oppure “Razzista, fascista” o, ancora,
    “Cacciate Rumsfeld” e “Halliburton”.

    Nixon o “Il silenzio degli innocenti”?
    Nel tritacarne Coulter finiscono spesso i Kennedy, nonostante John John jr. sia stato l’unico direttore a offrirle una rubrica sul suo “George”. Del clan Kennedy scrive, testuale:
    “Una famiglia di consumatori di eroina, di stupratori, di assassini di donne condannati e non condannati, di imbroglioni, di contrabbandieri e di ubriaconi dissoluti”.
    AC detesta Ted Kennedy e attacca Kerry Kennedy, la star più recente della sinistra italiana. Quando Bush dedicò l’edificio del dipartimento di Giustizia a Bob Kennedy, sua figlia Kerry dal palco della cerimonia si rivolse alla sua piccola Kara che stava in prima fila:
    “Sappi che se qualcuno cerca di dirti che questo è il tipo di sistema giudiziario che tuo nonno voleva, non devi crederci”.
    Commenta Coulter: “Purtroppo non ha aggiunto:
    ‘In realtà, Kara, la Giustizia del nonno era molto più simile al sistema giudiziario che tuo zio Teddy ha affrontato dopo aver fatto annegare quella ragazza’ ”.
    AC scrive che la sinistra americana “somiglia alle piazze arabe anche nell’ossessione per le teorie del complotto, metà delle quali riguardano gli ebrei”.
    Secondo Coulter, “i liberal rifiutano di argomentare” e in una discussione punto per punto rispondono sempre con cose che non c’entrano niente con quello che l’interlocutore ha appena detto.
    In mancanza di argomenti, “si divertono a creare mondi immaginari in film e serie televisive dove i liberal finalmente vincono.
    Dai film impariamo sempre che NON C’E’ MAI UN MOTIVO per combattere una guerra, a meno che la Terra non sia invasa da alieni dall’iperspazio con enormi e paurose astronavi e con raggi mortali”.
    Nei film, scrive AC, quelli di sinistra sono sempre “moralmente e intellettualmente superiori.
    Sono anche belli, divertenti, compassionevoli e hanno sempre ragione (…).
    I repubblicani, solitamente, sono interpretati da tipacci di serie B. Pensate al fatto che Anthony Hopkins ha interpretato sia Nixon
    sia Hannibal Lecter”.

    (chr.ro.) su Il Foglio del 8 ottobre

    saluti

  4. #4
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    Predefinito Re: Come insultare un liberal....

    In origine postato da mustang
    ....e dir male dei Kennedy

    New York. Ann Coulter è tornata più cattiva che mai con un libro che, appena uscito in America, è già un bestseller.
    Si intitola “How to talk to a liberal (If you must)”, “Come parlare con un liberal di sinistra (se proprio devi)”.
    Il titolo dice tutto. Ann Coulter odia i liberal, cioè l’élite intellettuale, politica, editoriale e giornalistica d’America.
    Secondo lei sono quasi tutti traditori, antiamericani, filo islamici, come furono filo sovietici negli anni della Guerra fredda.
    Le piace provocare, prenderli in giro, attaccare e non mollare mai la presa.
    “La grande maggioranza dei liberal non sta intenzionalmente sabotando la nazione – scrive – In realtà credo che al 20 per cento dei liberal non freghi niente della nazione. Questo 20 per cento odia l’America, ma la maggioranza cerca soltanto di vendere libri, trovare uno show televisivo, essere definito ‘coraggioso’ dal New York Times, fare il figo o trovare il numero di telefono di una donna a un ricevimento pomeridiano di un centro Kabbalah”.
    Loro la odiano, ci sono siti internet dove la fanno a pezzi e siccome è alta, magra, bionda e bella immaginatevi il tono da caserma.
    AC è malvista anche a destra.
    E’ diventata famosa con un libro che anticipò le tesi dell’impeachment a Bill Clinton, poi si è trasformata nell’Oriana Fallaci d’America il 12 settembre del 2001, quando, all’indomani dell’attacco agli Stati Uniti, scrisse una frase che le costò il licenziamento dal giornale di destra, la National Review, per cui scriveva.
    La frase era un suggerimento al presidente George W. Bush e diceva così: “Dobbiamo invadere i loro paesi, uccidere i loro leader e convertire i loro popoli alla cristianità”.
    Pentita? Assolutamente no.
    “Ancora oggi la mia posizione è esattamente questa e, tra l’altro, una settimana dopo i punti numero uno e due di quella frase sono diventati la politica ufficiale degli Stati Uniti”.
    Nonostante il successo del primo libro, Ann non ha un giornale su cui scrivere, se non il piccolo Human Events.
    “Ma non ho che da accusare me stessa se non riesco in qualcosa. Mio padre non era razzista, mia madre non è mai stata arrestata e mio fratello non si è mai travestito. Provengo da una minoranza svantaggiata: sono il prodotto di una famiglia amorevole e unita”.
    Dopo l’11 settembre Ann ha scritto altri due libri, “Slander” e “Treason” (quest’ultimo uscito in Italia per Rizzoli con il titolo “Tradimento”).
    Il successo è stato clamoroso in America e il tema è sempre lo stesso: l’odio dei liberal nei confronti dell’America e la loro predisposizione a tradire il proprio paese.
    Tesi forti, audaci, condite da una riabilitazione del senatore Joseph McCarthy e della sua caccia alle streghe comuniste.
    Il nuovo libro comincia così: “Storicamente il modo migliore per convertire un liberal di sinistra è che lasci la casa dei genitori, trovi un lavoro e cominci a pagare le tasse”.
    E’ una raccolta di tutti i suoi articoli pubblicati e no, censurati e no.
    “Mi piacciono i miei articoli. A differenza dei liberal, che vorrebbero far scomparire i loro articoli in difesa di Ho Chi Minh, io vorrei che i miei venissero letti da un pubblico più ampio”.
    E’ il mondo secondo Ann Coulter, con un decalogo su come impostare una discussione con un interlocutore di sinistra:
    mai arrendersi; mai stare sulla difensiva; insultare il nemico; mai scusarsi; mai fare un complimento; mai mostrarsi cortesi; non cedere ai tentativi di corruzione eccetera.
    In realtà con loro non si può parlare, argomenta Ann, “tu pensi di parlare della guerra in Iraq ma improvvisamente ti ritrovi in una disquisizione su Nixon, il petrolio, i neoconservatori, il Vietnam”.
    I liberal “rifiutano di argomentare” e vanno matti per “l’urlo e la demagogia”, come “nelle piazze arabe”, e li senti spesso, “in trance come dei dervisci”, ripetere cose del tipo “Bush ha mentito, e i bambini sono morti” oppure “Razzista, fascista” o, ancora,
    “Cacciate Rumsfeld” e “Halliburton”.

    Nixon o “Il silenzio degli innocenti”?
    Nel tritacarne Coulter finiscono spesso i Kennedy, nonostante John John jr. sia stato l’unico direttore a offrirle una rubrica sul suo “George”. Del clan Kennedy scrive, testuale:
    “Una famiglia di consumatori di eroina, di stupratori, di assassini di donne condannati e non condannati, di imbroglioni, di contrabbandieri e di ubriaconi dissoluti”.
    AC detesta Ted Kennedy e attacca Kerry Kennedy, la star più recente della sinistra italiana. Quando Bush dedicò l’edificio del dipartimento di Giustizia a Bob Kennedy, sua figlia Kerry dal palco della cerimonia si rivolse alla sua piccola Kara che stava in prima fila:
    “Sappi che se qualcuno cerca di dirti che questo è il tipo di sistema giudiziario che tuo nonno voleva, non devi crederci”.
    Commenta Coulter: “Purtroppo non ha aggiunto:
    ‘In realtà, Kara, la Giustizia del nonno era molto più simile al sistema giudiziario che tuo zio Teddy ha affrontato dopo aver fatto annegare quella ragazza’ ”.
    AC scrive che la sinistra americana “somiglia alle piazze arabe anche nell’ossessione per le teorie del complotto, metà delle quali riguardano gli ebrei”.
    Secondo Coulter, “i liberal rifiutano di argomentare” e in una discussione punto per punto rispondono sempre con cose che non c’entrano niente con quello che l’interlocutore ha appena detto.
    In mancanza di argomenti, “si divertono a creare mondi immaginari in film e serie televisive dove i liberal finalmente vincono.
    Dai film impariamo sempre che NON C’E’ MAI UN MOTIVO per combattere una guerra, a meno che la Terra non sia invasa da alieni dall’iperspazio con enormi e paurose astronavi e con raggi mortali”.
    Nei film, scrive AC, quelli di sinistra sono sempre “moralmente e intellettualmente superiori.
    Sono anche belli, divertenti, compassionevoli e hanno sempre ragione (…).
    I repubblicani, solitamente, sono interpretati da tipacci di serie B. Pensate al fatto che Anthony Hopkins ha interpretato sia Nixon
    sia Hannibal Lecter”.

    (chr.ro.) su Il Foglio del 8 ottobre

    saluti
    perfetto.
    per qiesto profilo del liberal americano, avrei in mente qualche nick nostrano...
    uno è un famoso(nel suo mondo) mago dei sondaggi elettorali, : pronosticò con sicurezza disarmante "il triciclo ben oltre il 40%!!
    la coalizione di centro(perchè si ostinino a infilarci dentro la parola centro non si capisce)sinistra ben oltre il 50%!!!."
    sappiamo tutti come è finita e losputtanamento totale del Nostro, che infatti per un po' si è ben guardato dal scrivere due righe, impegnato com'era nel trangugiare litri di malox.
    l'altro è il recordman dei post, quasi trentamila.
    praticamente tutti dei taglia-incolla(pensare per lui è un dramma),
    tutti questi interventi devono portare rigorosamente almeno un paio di insulti a berlusconi e a chi non si genuflette di fronte a quel campione di intelletto che è il balanzone nostrano, l'uomo della curia.
    la sua ossessione non sfiora più la paranoia, è malattia vera e propria, ma il nostro n*2 (si offenderà se lo identifichiamo così?), non se ne cura.Sordo ad ogni richiamo si sente investito di questa missione e tira diritto.
    contento lui.

  5. #5
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    Predefinito Missouri specchio....

    ....dell'America

    St. Louis (Missouri). Il cancello per l’Ovest è lo Stato del Missouri, da pronunciare “Mizura” con la “z” dolce e la “a” finale.
    Siamo nel pieno Midwest, il centro del centro dell’America, uno degli Stati che con i suoi 11 voti elettorali potrebbe decidere le presidenziali. Nel 2000 George Bush vinse di un soffio, 50 a 47, con 78 mila voti di differenza da Al Gore.
    “Non credete a quello che dicono – dice al Foglio il capo della campagna elettorale di George W. Bush, Ken Mehlman – in realtà John Kerry ha già rinunciato al Missouri, ritirando gli spot elettorali, qui e in altri quattro Stati, per concentrarli dove pensa di potere essere più competitivo”.
    Spot a parte, la campagna Kerry è attivissima nello Stato, grazie al coinvolgimento degli studenti della Washington University di St. Louis, la Harvard del Midwest.
    L’ultimo sondaggio dà Bush avanti di due punti, ma qui il governatore è democratico, così come la maggioranza dei deputati federali.
    La mappa del Missouri, con le due estremità colorate di blu (il colore dei democratici) e la pancia di rosso (quello dei repubblicani) sembra una riduzione in scala degli Stati Uniti, con le due coste urbanizzate a forte prevalenza liberal e in mezzo tutto “Bush country”: 5 milioni e mezzo di abitanti, è un perfetto microcosmo della nazione, stessa percentuale di afro-americani (11 per cento), di iscritti ai sindacati e così via.
    Politicamente è la cartina di tornasole del paese: dal 1900 una sola volta chi ha vinto qui non è diventato presidente (nel 1956, Adlai Stevenson sconfitto da Dwight Eisenhower).
    Al confine orientale, a dividere il Missouri dall’Illinois, scorre il Mississippi. Sulla riva occidentale del fiume c’è St. Louis, 350 mila abitanti, un tempo la città del blues e di Chuck Berry e fino a duecento anni fa la frontiera occidentale dell’America.
    St. Louis è a grande maggioranza democratica, un mondo a parte secondo gli abitanti dello Stato.
    Al confine occidentale c’è Kansas City, città democratica (e in Missouri, nonostante il nome).
    In mezzo alle due città più grandi, le altre contee sono ad ampia maggioranza repubblicana, con una forte presenza, al sud, di chiese, organizzazioni religiose e country music. Nel 2000 St. Louis e Kansas City votarono al 53 per cento per Gore, mentre le altre 95 contee tributarono Bush del 58 per cento contro il 39 per cento dello sfidante democratico.
    Il peso delle contee però cresce: nella contea di St. Charles, roccaforte repubblicana a un passo da St. Louis, la macchina repubblicana ha portato il numero dei registrati al voto da 155 a 217 mila. La capitale del sud è Springfield, la città del ministro della Giustizia, John Ashcroft. Nel 2000 Ashcroft era senatore, ma non fu rieletto: fu sconfitto da un candidato democratico morto 15 giorni prima del voto. Era Mel Carnahan, esponente di una famiglia che è stata definita “i Kennedy del Midwest”. Il governatore del Missouri, un democratico, annunciò che in caso di vittoria del defunto avrebbe nominato la vedova, Jean Carnahan. Ashcroft fu battuto, il defunto vinse e la vedova andò a Washington: oggi i due figli della Carnahan, Robin e Russ, sono candidati una alla carica di segretario di Stato e l’altro al seggio lasciato vacante da Richard Gephardt alla Camera. Gephardt è un’istituzione sia a Washington sia a St. Louis. Come Dick Cheney ha una figlia lesbica e, in più, concorrente del reality show “American Candidate”.
    Molti democratici lo avrebbero voluto come vice di Kerry, non soltanto per la sua esperienza politica, ma anche perché avrebbe potuto assicurare ai democratici gli 11 voti elettorali dello Stato. Ma il Missouri è tutt’altro che un posto dove la gente preferisce un morto a un conservatorone. Ad agosto, con un referendum, le nozze gay sono state bocciate dal 71 per cento degli elettori, con un’affluenza alle urne mai vista (41 per cento, la media è del 25 per cento). La maggioranza è contro l’aborto e a favore del porto d’armi; oltre il 14 per cento della popolazione è veterana di una qualche guerra. Kerry, al dibattito di St. Louis, ha ricordato che il Missouri è il terzo Stato, dopo America e Inghilterra, per numero di truppe inviate in Iraq. Ecco perché Bush è sembrato a suo agio tra il pubblico di St. Louis. Il campione di elettori indecisi scelto dalla Gallup sembrava un gruppo di persone deluse dal presidente ma non certo convinte delle posizioni di Kerry sui temi del conservatorismo americano: aborto, utilizzo delle cellule embrionali e tasse. Convincerli non è un compito facile per Kerry, anche perché il motto del Missouri è “The show-me State”, “dimostramelo”, a sottolineare il carattere leale, conservatore e non credulone del popolo del Midwest.

    (ch.ro) su Il Foglio

    saluti

  6. #6
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    Predefinito Bertinotti vuole Kerry che vuole....

    ....gli italiani in Iraq, quindi....

    St. Louis (Missouri). Gli strateghi di John Kerry e i suoi principali consiglieri di politica estera hanno spiegato al Foglio che atteggiamento avrà il loro candidato, qualora fosse eletto presidente, riguardo alle truppe italiane impegnate in Iraq.
    Hanno risposto Rand Beers, l’uomo che potrebbe prendere il posto di Condoleezza Rice se Kerry vincesse le elezioni del 2 novembre, James Rubin, consigliere di politica estera con un ruolo assicurato al Dipartimento di Stato, Mary Beth Cahill, manager della campagna elettorale, e Madeleine Albright, ex segretario di Stato di Bill Clinton.
    Kerry, in questi mesi, ha più volte spiegato che con lui alla Casa Bianca gli “alleati europei”, cioè Francia e Germania, si convincerebbero sia a inviare truppe in Iraq sia a condividere il peso della missione in medio oriente.
    Impresa difficile, ma comunque vada il neo presidente Kerry certamente non potrà permettersi di perdere gli alleati che fanno già parte della coalizione internazionale creata da George W.
    Bush.
    In campagna elettorale, però, Kerry ha liquidato più volte come
    “tappezzeria” gli eserciti non anglosassoni impegnati in Iraq. Bush gli ha fatto più volte notare come gli insulti ai polacchi e agli “eroi italiani di Nassiriyah” non siano un modo efficace per
    mantenere buoni rapporti e per convincerli a rimanere in medio oriente.
    Madeleine Albright nega che Kerry abbia inteso sottovalutare l’impegno e gli sforzi degli italiani o dei polacchi in Iraq: “Kerry sa che gli italiani hanno dato un importante contributo alla stabilità del paese, ed è grato all’Italia. Se sarà eletto chiederà ad altri paesi di inviare truppe, perché è necessario un maggiore coinvolgimento della comunità internazionale”.
    James Rubin al Foglio assicura che “con Kerry alla Casa Bianca cambierà finalmente il clima: i rapporti con gli europei miglioreranno e sarà più facile convincerli a impegnarsi”.
    E con i governi già convinti, come quello italiano? “Ora arrivo al punto - risponde Rubin – diciamo che questo nuovo atteggiamento americano aiuterà il governo italiano a mantenere il proprio contingente laggiù. Noi della campagna Kerry siamo grati alle truppe italiane presenti in Iraq. Questa non è la guerra di Bush, perché, comunque la si pensi sulla decisione di invadere il paese, ora l’Iraq fa parte della guerra al terrorismo e tutto il mondo civilizzato ha un interesse primario a vincere questa battaglia”.
    Mary Beth Cahill, ex capo dello staff del senatore Ted Kennedy e oggi stratega numero uno della campagna Kerry, spiega che un’eventuale presidenza democratica non avrà affatto un impatto negativo sulla presenza italiana a Nassiriyah: “La prima cosa che Kerry farà sarà di trovare un’intesa con la leadership italiana per poter lavorare insieme in Iraq. So che voi siete già lì, così come posso dirvi quanto Kerry sia stato colpito dal rapimento delle due volontarie italiane. Sono certa che Kerry e la leadership italiana lavoreranno insieme in Iraq”.

    Ritorno all’Onu, un forum con gli europei
    Rand Beers è il consigliere principe di Kerry sulle questioni della sicurezza nazionale e della politica estera. Veterano del Vietnam, ha lavorato al National Security Council con Ronald Reagan, Bush padre, Bill Clinton e finanche con George W. Bush. Grande amico dell’ex capo dell’antiterrorismo Richard Clarke, Beers ha lasciato l’Amministrazione Bush tre giorni prima dell’invasione dell’Iraq ed è entrato nella campagna Kerry. Al Foglio ha spiegato la strategia internazionale del possibile prossimo presidente democratico: “Per prima cosa Kerry ritornerà all’Onu, poi aprirà un forum con gli amici europei. L’atteggiamento sarà profondamente diverso da quello avuto fin qui da Bush – dice Beers – Con Kerry alla guida, gli Stati Uniti finalmente ascolteranno gli alleati, non li faranno sentire come soci di minoranza, andranno incontro alle loro esigenze. Kerry spiegherà che gli obiettivi sono comuni e che il risultato della battaglia in Iraq interessa tutti”. Ma c’è chi, come l’Italia, questo lo ha già capito: “Siamo molto grati all’Italia per il suo impegno in Iraq, ma sento parlare di una possibile diminuzione del vostro contingente – ha detto Beers – Con la presidenza Kerry sarà più facile evitarlo, perché tutti si renderanno conto che a Washington finalmente c’è qualcuno con un piano efficace per vincere”. Il piano di Kerry, però, è molto simile a quello di Bush – addestramento delle truppe irachene, finanziamento della ricostruzione ed elezioni – con l’aggravante che Kerry deve spiegare perché ha votato contro i 20 miliardi di dollari per la ricostruzione del paese. “Non era un voto contro la ricostruzione, ma contro il modo in cui Bush voleva spendere quei soldi”, replica Beers.
    Quanto alle elezioni, il consigliere di Kerry non crede al quadro idilliaco offerto da Bush: “Basta vedere che in Afghanistan il voto è stato posticipato tre volte”. Ma, infine, s’è votato, no? “Sì, finalmente s’è votato ed è un risultato meraviglioso, ma ora c’è da lavorare per proteggere le elezioni irachene”. Kerry è favorevole a una presenza di truppe Nato in Iraq? “Siamo favorevoli a un ampio coinvolgimento della Nato, sappiamo che non potrà avvenire da un giorno all’altro ma questo è l’obiettivo. Bush, invece, al vertice di Istanbul, ha ottenuto soltanto un intervento minore dell’Alleanza Atlantica”. Colpa di Bush o di Jacques Chirac? “Di chiunque sia la colpa, Bush non è riuscito a convincere la Nato a inviare truppe”, dice Beers.

    Christian Rocca

    come sono felici e contenti i "bamboccetti nostri" ai quali mando con gioia i miei

    saluti

  7. #7
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    Predefinito E a proposito di....

    ....Europa

    Roma. Un secolo e mezzo fa, l’Asia non contava niente.
    Le cannoniere occidentali facevano tremare il Celeste Impero e quello del Sol Levante giapponese. Alla conferenza di Versailles, al momento di stendere il Trattato, nel 1919, il Giappone, che pure aveva combattuto dalla parte dei vincitori, non riuscì a ottenere che fosse inclusa una clausola sull’equità razziale tra asiatici e occidentali, che fu respinta principalmente per l’intervento degli Stati Uniti. Adesso dall’Asia viene un appoggio alla lotta contro il terrorismo più decisa di quella che arriva da alcuni paesi europei.
    L’Asia non conta soltanto per l’economia, ma anche in politica. L’economia mondiale, che negli anni 80 era stata sostenuta dalla
    crescita giapponese, da una quindicina di anni si avvale del tumultuoso sviluppo della Cina. L’Asia nel suo complesso, in questi ultimi decenni, non soltanto ha fatto del bacino del Pacifico l’area di più intenso interscambio, ma ha registrato anche una decisa espansione del sistema democratico occidentale. Iniziarono l’India e il Giappone, la prima secondo il modello britannico, il secondo su imposizione americana; poi la democrazia
    si è affermata nelle Filippine, a Taiwan, nella Corea del Sud; di
    recente anche in Indonesia e in Thailandia.
    Paesi che fanno un quarto della popolazione mondiale.
    Certo, la Cina, che da sola vale un altro quarto, non è una democrazia, ma la successione al vertice avviene da tempo senza spargimenti di sangue e Hong Kong ha riaffermato di recente di volere rafforzare il principio che i governanti devono essere scelti dai cittadini.
    Da sud, dall’Oceania, il modello rappresentativo britannico non mostra segni di stanchezza in Australia e Nuova Zelanda, due paesi sempre più integrati nell’economia globale del sistema Asia-Pacifico.
    Questa democrazia che avanza, e si unisce al successo dell’economia di mercato, è un bene prezioso che non ha intaccato le specificità culturali asiatiche, e che adesso costituisce una barriera sempre più forte contro il terrorismo di matrice islamica che pure vorrebbe minacciarla, come hanno dimostrato i sequestri di sudcoreani e giapponesi e le stragi in Indonesia, dove sono stati colpiti anche molti cittadini australiani.
    La risposta che viene da questi paesi dell’area Asia-Pacifico è senza equivoci. Il premier giapponese Junichiro Koizumi non ha avuto esitazioni a inviare, per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, militari armati in Iraq, e non ha ceduto al ricatto dei sequestratori di suoi concittadini.
    In Indonesia, la scorsa settimana è stato proclamato vincitore delle prime elezioni presidenziali a suffragio universale l’ex generale Susilo Bambang Yudhoyono, che aveva dichiarato come la sconfitta del terrorismo islamico fosse al primo posto della sua agenda di governo.
    La Corea del sud è ferma nella decisione di mantenere le truppe in Iraq.

    Pensando all’economia
    Asiatici, si dirà. Non tanto. L’Australia, impegnata per l’Iraq con 900 militari, è andata alle urne, sabato scorso, con il primo ministro conservatore uscente, John Howard, sollecitato dall’opposizione laburista a chiedere scusa al paese per la decisione d’intervenire.
    Un’opposizione il cui leader, Mark Latham, pensando forse all’effetto Zapatero, aveva detto che, se avesse vinto, avrebbe ritirato le truppe entro dicembre.
    Risultato: il partito di Howard, che non aveva rinnegato l’impegno e anzi l’aveva confermato, ha conquistato 87 seggi su 150, ben più del previsto.
    Le Filippine hanno ritirato i loro 51 componenti della missione medica, i 61 tecnici neozelandesi hanno terminato il mandato a settembre e non sono stati sostituiti, l
    La Thailanda ha completato a settembre il ritiro del suo contingente alla scadenza del mandato,
    Singapore ha ridotto senza rumore il numero dei suoi militari da 191 a 33; ma la Corea del sud ha confermato che entro l’anno porterà il suo contingente a 3.600 uomini, il Giappone, nonostante un ostaggio ucciso, ha mantenuto 550 uomini e confermato la decisione di aumentare la sua presenza, mentre l’Australia, dopo la vittoria elettorale di Howard, manterrà le sue truppe fino alla metà del 2005.
    E poi ci sono 45 Royal Marines dell’isola di Tonga e 180 uomini inviati dalla Mongolia.
    Giappone, Corea del sud e Australia sono punti di forza simbolici e operativi della coalizione di 31 paesi e rappresentano bene la determinazione dell’Asia-Pacifico a combattere il terrorismo. I loro leader non si perdono in disquisizioni sullo scontro di civiltà o su progetti per fare incontrare le civiltà (o i loro rappresentanti moderati, buoni e politicamente corretti), ma prendono decisioni e non si contorcono per difenderle ogni giorno.
    Soprattutto pensano allo sviluppo economico dei loro paesi e hanno capito che il terrorismo islamico è il grande bastone messo tra i raggi delle ruote della globalizzazione.

    saluti

  8. #8
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    Predefinito Una risposta....

    ...è venuta, e tosta

    Londra. Il calvario di Kenneth Bigley si è concluso nel peggiore dei modi, ma nessuno si aspettava sul serio che la barbarie psicopatica di Abu Mussab al Zarqawi potesse condurre a un esito diverso.
    L’ ultimo tentativo di ottenere la liberazione di Bigley l’aveva fatto il governo irlandese che aveva annunciato l’altro ieri la concessione della cittadinanza all’ingegnere britannico, irlandese per parte di madre. Ma le speranze che a Zarqawi potesse essere giunta eco di uno dei motti nazionali irlandesi, “Everyone likes the Irish” (A tutti piacciono gli irlandesi), sono presto svanite. In Gran Bretagna, il rapimento di Bigley ha fatto notizia in modo molto diverso rispetto ad altri paesi. Nei momenti più difficili riemerge presso gli inglesi “lo spirito del Blitz”, lo stoicismo e la determinazione nell’affrontare le avversità incarnati da Winston Churchill o da quella segretaria londinese che, all’indomani di uno dei più devastanti bombardamenti tedeschi, si presentò puntuale a lavoro: avendo trovato l’ufficio distrutto, recuperò una macchina da scrivere tra le macerie fumanti e si mise a lavorare: “Non cambierò certo i miei programmi per Adolf Hitler”, disse. In realtà la guerra costrinse tutti a ben più di un cambiamento di routine, ma le mitologie nazionali, il modo in cui si rielabora e si narra il vissuto storico, sono importanti: offrono una guida nelle situazioni difficili e un modello con cui misurarsi.
    E’ per questo che nessuno ha mai messo seriamente in discussione in Gran Bretagna la scelta del governo di non cedere agli aguzzini.
    Il premier Tony Blair aveva detto che il governo avrebbe
    “ascoltato” se i rapitori si fossero messi in contatto; che uno scambio di messaggi con i rapitori sia avvenuto è stato confermato in serata dal ministro degli Esteri Jack Straw.
    Oltre Londra non poteva andare: cedere alle richieste dei terroristi sarebbe stato un suicidio politico.
    Il Daily Mirror era inorridito all’idea che il governo italiano avesse pagato un riscatto per il rilascio delle due Simone: “Pagando un milione di dollari per il rilascio dei due ostaggi, il governo italiano ha assicurato che i rapimenti diventino un’industria in crescita in Iraq”. Il Daily Mirror fu tra gli organizzatori della manifestazione pacifista del febbraio del 2003 e raccolse oltre 200 mila firme contro la guerra. Quando venne fuori il video di Bigley in gabbia, il Sun titolò: “Guardate come i bastardi trattano Ken”. Uno degli editorialisti spiegava: “Per quanto orrendo sia il travaglio di Mr. Bigley, e per quanta compassione possiamo provare per la sua famiglia e i suoi amici, non dobbiamo lasciare che i nostri cuori comandino sui nostri cervelli”.

    Liberare detenute? Il Guardian: “Mostruoso”
    La differenza tra la stampa “di qualità” e i più popolari tabloid è nella forma piuttosto che nella sostanza. Il Guardian, giornale storico della sinistra britannica non si è lasciato impietosire dalla richiesta fatta dai terroristi: il rilascio delle detenute irachene. “Sarebbe come se gli Alleati dopo il ’45 avessero rilasciato gli scienziati nazisti che avevano progettato le camere a gas dopo il rapimento di un geniere britannico a Dusseldorf”, ha scritto un editorialista, che trovava “mostruosa” l’idea di liberare le scienziate che lavorarono all’arsenale chimico di Saddam Hussein. Si era anche messa in discussione l’opportunità di pubblicizzare le critiche al governo di uno dei fratelli di Bigley, visto che non poteva esprimersi liberamente. Ma, appresa la notizia, la famiglia ha affermato che “il nostro governo ha fatto il possibile per ottenere il rilascio di Ken in questa situazione impossibile”.

    un bell'esempio dalla "perfida Albione".

    saluti

  9. #9
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    Tucson (Arizona). Il senatore repubblicano John McCain è l’eroe nazionale dell’Arizona, lo Stato del deserto, dei cactus, dell’immigrazione clandestina e del terzo dibattito presidenziale tra George W. Bush e John Kerry, questa sera all’Università di Tempe sui temi della politica interna. “Mezzogiorno di fuoco tra Bush e Kerry”, titolava domenica il principale giornale dello Stato, The Arizona Republic, quasi a sottolineare che qui siamo nel “wild wild west” dove la gente non dibatte ma si batte, fa poche chiacchiere e fa sul serio.
    Fin quando McCain è sembrato tiepido con Bush, i democratici hanno fatto un pensierino sui 10 voti elettorali che saranno assegnati al vincitore delle elezioni in Arizona. Nel 2000 Bush vinse con poco più di sei punti di vantaggio su Al Gore. Con McCain schieratissimo è difficile che Kerry possa farcela: gli ultimi sondaggi danno il presidente in vantaggio netto, con un minimo di cinque e con un massimo di nove punti. Entrambi i partiti hanno ridotto al minimo l’investimento pubblicitario e, finito il dibattito, non torneranno più nello Stato. L’Arizona ha sempre votato repubblicano dal 1952 a oggi, con la sola eccezione del 1996, quando Bill Clinton fu rieletto sconfiggendo Bob Dole. E’ fatta, dunque, per Bush? Non è detto. Due anni fa Janet Napolitano, democratica, è stata eletta governatore, e in questi anni l’Arizona è cambiata molto, “e non solo perché ora parlano tutti veloce come a New York”, dice al Foglio lo storico di Tucson, James Griffith, cappello da cowboy, bastone, barba incolta, varie escoriazioni sulle braccia e un viso da un “Pugno di dollari”.
    Prima della seconda guerra mondiale L’Arizona era uno Stato a larga maggioranza democratica, ma, negli anni Cinquanta, è diventato il paradiso dei vecchi valori americani, una specie di Florida dell’ovest, dove molti pensionati ricchi si sono trasferiti per godersi il clima, gli spazi, l’ambiente e una nuova idea di Stato, con un settore pubblico inesistente e l’assenza di regolamentazione economica e finanziaria.
    L’eroe del nuovo far west era Barry
    Goldwater, senatore, candidato presidenziale, fondatore dei repubblicani d’Arizona nonché padre della rivoluzione conservatrice degli anni Sessanta, che si affermò con Ronald Reagan vent’anni dopo. Oggi la popolazione è cresciuta in modo imponente, passando dai 700 mila del dopoguerra ai 3 milioni e mezzo del 1990, fino agli oltre 5 milioni del 2000. Dopo il Nevada, l’Arizona è lo Stato d’America con la più alta crescita di abitanti, attirati dall’industria tecnologica (Motorola, Honeywell, Raytheon, Intel e Avnet) e dalle tasse molto basse. Resta uno Stato pioniere di molte idee iper liberiste, come la possibilità di scelta del tipo di educazione per i figli e, addirittura, l’istituzione di un’università “for-profit”, a Phoenix, che affitta spazi a imprese e organizza corsi di formazione per adulti. Le scelta della comunità locale prevalgono su tutto: a Youngtown e a Superstition Heights, cittadine vicine alla repubblicana Phoenix, hanno deciso che la residenza permanente può essere concessa solo ai maggiori di 55 anni, mentre i bambini e i ragazzi fino a 18 anni hanno il permesso di soggiorno di soli tre mesi.
    A un’ora da Nogales, confine con il Messico
    Il numero dei pensionati oggi però è diminuito, i giovani sono in crescita e un flusso continuo di immigrati dal Messico ha cambiato la faccia dell’Arizona. Gli ispanici sono il 25 per cento della popolazione e storicamente tendono a votare in quanto comunità. John Garcia, dell’Università dell’Arizona, ed Elizabeth Gonzalez-Gann, presidente della Camera di commercio di Tucson, spiegano al Foglio come a poco a poco il tradizionale attaccamento dei latinos al partito democratico si sia eroso, in coincidenza con il loro maggior coinvolgimento nella società americana. Tendenzialmente, dicono, i latinos oggi sono indipendenti, ma, in percentuale, restano il gruppo etnico che vota di meno in tutto il paese.
    A Tucson, città a prevalenza democratica, non si parla d’altro che di immigrazione clandestina. A un’ora di jeep c’è Nogales, il confine colabrodo con il Messico. Fino al 1995 non è stato un problema, i messicani lo attraversavano, trovavano un impiego, mandavano i soldi a casa e il prima possibile rientravano in patria. “E’ cambiato tutto nel 1995 – dice il reverendo John Fife della Chiesa presbiteriana sud-occidentale di Tucson – quando la destra a Washington, come in Europa, ha trasformato l’immigrazione in un tema di propaganda politica.
    Gli immigrati sono diventati il capro espiatorio di tutti i problemi, una minaccia per il nostro sistema sanitario e così via. Bill Clinton volle dimostrare di essere in grado di poter controllare l’afflusso di illegali e così è iniziata la militarizzazione della frontiera.
    Il risultato è disastroso”. Il reverendo
    Fife – fisico asciutto, jeans, cinturone, stivali, pizzetto bianco alla Kit Carson (ma qui tutto sembra uscito da un fumetto di Tex Willer) e due condanne federali per aver aiutato immigranti messicani ad attraver-sare la frontiera – accusa più la destra repubblicana che Clinton, ma riconosce come il piano di Bush per la legalizzazione dei lavoratori illegali temporanei sia un grande passo in avanti, seppur di difficile realizzazione a causa dell’opposizione dei conservatori tradizionali. Il punto è che prima del 1995 i messicani passavano il confine con tutta tranquillità, ora, con i muri costruiti vicino ai centri abitati e i controlli della polizia frontaliera, sono costretti ad attraversare il deserto: ogni anno sono almeno un milione i clandestini che ce la fanno a passare e poi a trovare un lavoro. Ma, dal ’95, sono stati registrari 3.500 morti, a fronte di nessuno prima della militarizzazione. E’ nato il business criminale dell’immigrazione e cominciano a formarsi squadre di vigilantes per tenere i messicani alla larga dalle proprietà. I clandestini, infatti, stremati dalla fame e dalla sete, appena avvistano un ranch entrano e fanno razzia di tutto quello che possono. Allentare i controlli alla frontiera, nell’America dell’11 settembre, è impossibile (Kerry, per esempio, accusa Bush di non proteggere a sufficienza i confini) e l’arrivo di illegali mediorientali dal Messico complica le cose.
    In Arizona la protesta si è trasformata in iniziativa politica. Il 2 novembre, insieme con la scheda per la Casa Bianca, gli abitanti dell’Arizona voteranno la “Proposition 200”, un referendum che impone ai latinos di provare la propria identità e prevede multe (e anche la galera) per i funzionari pubblici che non fanno rapporto di fronte a “sospetti clandestini” che cercano benefici pubblici o l’assistenza sanitaria gratuita. Tutti gli eletti, tutte le istituzioni pubbliche e tutte quelle religiose dell’Arizona sono contro questa iniziativa giudicata razzista e dannosa e, tra l’altro, di impossibile attuazione. I sondaggi, però, danno la Prop 200 in grandissimo vantaggio. Ad agosto era del 75 per cento, ma il divario si va assottigliando.
    Christian Rocca

  10. #10
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    Il senatore Kerry ha concesso un’incredibile intervista al magazine del New York Times, un giornale che lo appoggia incondizionatamente e che certo non voleva preparargli un tranello.
    Il candidato democratico, in sintesi, crede che la minaccia di Osama possa essere contenuta e che il terrorismo vada combattuto come un crimine comune.
    Bush ovviamente ha già fatto partire una nuova ondata di spot tv. Ma è stato lo stesso giornalista liberal del Times, Matt Bai, a essere rimasto sorpreso, addirittura perplesso, dalle risposte di Kerry sull’11 settembre:
    “Non mi ha cambiato per niente – ha detto Kerry –ha solo accelerato e mi ha confermato l’urgenza di fare le cose che pensavo fosse necessario fare prima”.
    Secondo Kerry, il fondamentalismo nichilista e stragista non è un tema centrale della nostra esistenza:
    “Dobbiamo tornare al punto in cui eravamo, quando i terroristi non erano l’obiettivo delle nostre vite, ma una seccatura. Da ex procuratore so che non riusciremo mai a far scomparire la prostituzione e so che non riusciremo mai a far scomparire il gioco d’azzardo illegale. Ma possiamo ridurre il crimine organizzato a un livello di non crescita, che non minacci la vita della gente, a qualcosa che si continua a combattere, ma che non minacci il fondamento della nostra vita”.
    Per Kerry l’attacco all’America non è stato l’evento epocale di cui si discute da tre anni né l’inizio della quarta guerra mondiale, ma solo un atto criminale, da perseguire come tale.
    E’ questo il motivo, ha scritto il giornalista del Times, per cui alcuni elettori non si fidano della sua leadership e, nonostante gli errori, sembrano ancora preferire Bush.
    Il paradosso, spiega Bai, è che il candidato “visionario” è il tanto insultato Bush, il quale con la sua strategia di esportare la libertà e la democrazia in medio oriente ha in mente un progetto di lungo termine per rimettere a posto il disordine del mondo. Kerry, invece, nell’intervista rigetta questa idea e a bin Laden risponde da ingegnere, contrapponendogli una serie di soluzioni tecniche.
    “La sua visione meno idealista – ha concluso il Times –sarebbe sembrata più apprezzabile, e più facile da spiegare, in un mondo con le Torri gemelle ancora in piedi”.

    saluti

 

 
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