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Roma. Di fronte a una folla di sostenitori repubblicani a Wilkes-Barre, in Pennsylvania, George W. Bush – alla sua 39° visita in questo Stato che vale 21 voti elettorali e che nel 2000 è andato ad Al Gore – ha dato una risposta a tutti: a chi lo accusa di essere stato ossessivamente ripetitivo durante il dibattito con il suo avversario John Kerry, a chi lo vuole in balìa di un’Amministrazione in fase di ripensamento, a chi dice che il suo vice, Dick Cheney, non ha svolto con sufficiente incisività il suo ruolo di “cane da combattimento”.
Ma soprattutto ha cercato di anticipare quelle 1.500 pagine di report, presentate ieri di fronte al Senate Armed Services Committee, in cui Charles Duelfer, dal gennaio scorso ispettore capo degli Stati Uniti in Iraq alla caccia delle armi di distruzione di massa, dichiara che Saddam Hussein non possedeva alcun arsenale né aveva alcun piano “vigoroso” di sviluppo di armi nucleari, chimiche o biologiche.
Il dossier dice però che il rais stava cercando in ogni modo di sviare le sanzioni delle Nazioni Unite con finanziamenti illeciti e che non aspettava altro di veder indebolirsi l’attenzione internazionale sul suo paese per ricominciare la sua offensiva nucleare.
Ed è proprio su questo concetto di minaccia che la Casa Bianca vuole confermare il suo diritto ad aver mosso guerra all’Iraq. Bush, nel suo discorso, interrotto da scrosci di applausi, ha detto: “Sapevamo che il dittatore aveva una lunga storia di utilizzo di armi di distruzione di massa, un lungo passato di aggressione e di odio nei confronti dell’America. C’era il rischio, un rischio reale, che Saddam Hussein passasse armi o materiali o informazioni alle reti terroristiche. Nel mondo dopo l’11 settembre questo era un rischio che non potevamo correre”.
La minaccia per Bush era ed è sufficiente, indipendentemente dal ritrovamento delle armi.
Non ha perso occasione per ribadirlo: aspettare, continuare sulla via diplomatica - quel “test globale” che Kerry, durante il dibattito, gli aveva posto come condizione per gli attacchi preventivi – sarebbe stato ben più pericoloso, perché “se si arriva troppo tardi, le vite non si possono più salvare” e soprattutto perché “il mondo è molto più sicuro ora che Saddam è rinchiuso in una cella”.
E, anzi, sottomettersi al volere della comunità internazionale, cioè fare come dice Kerry, significa “voler paralizzare gli Stati Uniti in un mondo pericoloso”.
Bush, con fare spigliato e a tratti sprezzante, galvanizzato dai fan, ha detto tutto quello che venerdì, durante il dibattito con il suo rivale, non era riuscito ad articolare in modo efficace.
“Non lascerò a nessun altro il compito di proteggere il mio paese – ha detto – Kerry affronta la politica estera con un atteggiamento
‘da 10 settembre’, ma l’obiettivo della guerra al terrore non è aspettare un altro attacco e poi reagire, ma prevenire gli attacchi continuando a combattere il nostro nemico”.
E’ tutta qui, secondo Bush, la differenza tra la sua politica e quella proposta dal suo rivale, che, con il suo programma,
“indebolirebbe l’America e renderebbe il mondo più pericoloso”. Per sancire la fermezza della sua Amministrazione, il presidente ha scandito un “we-must-no-waver”, non dobbiamo tentennare, che vuol dire che non bisogna fare come Kerry, che “prima vota a favore della guerra in Iraq e poi si dichiara contro i finanziamenti per sostenere la campagna”, che fa riferimento alla guerra nel Golfo del 1991 come “un conflitto cui parteciparono tutti” e che però, per Kerry, non doveva essere fatta, visto che ha votato contro.
Per ribadire la giustezza della sua politica, non soggetta a condizionamenti esterni né al non ritrovamento delle armi di distruzione di massa, Bush si è affidato, ancora una volta, al concetto di libertà:
“L’America è più sicura quando la libertà è in marcia”.
E i “soldati italiani morti a Nassiriyah sono eroi della guerra al terrore”, così come tutti i contingenti alleati, che Kerry non perde occasione di denigrare.
All’inizio del suo discorso il presidente ha anticipato le sue argomentazioni sull’economia, che sarà il tema dei prossimi dibattiti televisivi. In questa fase, Bush ha attaccato direttamente anche il vice di Kerry, John Edwards, che, con la sua attività – e remunerazione – di avvocato processualista, ha aumentato i costi della sanità, rendendo ancora più difficoltoso il lavoro delle aziende.
Alle politiche del ticket rivale Bush ha opposto il suo “elenco di risultati ottenuti”, merito anche del suo vice, Dick Cheney, che Bush ha scelto per la “sua esperienza e capacità di giudizio”:
in quattro anni il presidente ha abbassato le tasse – aumentando “del 10 per cento il reddito dopo la tassazione” – ed è riuscito a ripianare quel “milione di posti di lavoro che è andato perso nei tre mesi dopo l’11 settembre”, ha agevolato i prestiti per gli studenti, i tassi dei mutui e le modalità di apprendimento per i bambini in difficoltà. Kerry, secondo Bush, non saprebbe fare nulla di tutto ciò perché ha mostrato di “voler ostacolare le riforme”, ed è un ‘tax-and-spend-liberal”, un liberal scialacquone.
Paola Peduzzi su il Foglio
saluti