Con “Scatafascio”, nel 1997, Paolo Rossi entra in quel mondo a parte che è Mediaset:
[…] “Lì la censura non te la imponeva nessuno. Ma è nell’aria, nelle cose, nell’ambiente. Non te ne accorgi e intanto ti cambiano l’anima. Stando a Mediaset ti rendi conto di come ha fatto questa macchina potentissima a spappolare il cervello di due o tre generazioni di telespettatori. Sono più di vent’anni che spappola. Il programma politico di Berlusconi s’è manifestato quindici anni prima del ’94, sotto forma di progetto culturale: il Piano di rinascita democratica di un certo Licio Gelli, che non era un palazzinaro qualunque, un venditore di spazzole porta a porta. Ci sapeva fare, a suo modo.
[…] Il programma partì in modo perfetto. Ma a ogni puntata mi accorgevo che stava perdendo l’anima. Tutto quel che dicevo, scompariva dentro un contenitore più forte del contenuto. Un meccanismo che non controllavo, un reticolo di rapporti umani che modificava le persone con cui ero entrato e che non riconoscevo più. Io, diversamente da Sabina, Grillo e Luttazzi, lavoro più sull’immaginazione che sulla controinformazione. Perciò non avevano alcun bisogno di suggerirmi che cosa dire o non dire. Anzi, il peggio è che mi incoraggiavano a osare. Tutto era perfetto, efficiente. Ti montavano e rimontavano i pezzi, ogni tanto ne spariva qualcuno, di solito la frase-chiave, ma lo facevano passare per un errore. E alla fine il programma “funzionava”, questo è il dramma. “Funzionava” meglio. Ma non era più quello che avevamo pensato. Ero entrato lì per fare un circo e mi trovavo in un trust. Ero arrivato con l’illusione di poter cambiare quel modello di televisione dall’interno, di fare il lavoro della talpa, di insinuarmi nel cuore dell’impero per farlo esplodere, e invece strada facendo capivo che stavo cambiando io, insieme al gruppo che mi ero scelto. Mi credevo indipendente, impermeabile a qualunque condizionamento, invece ero un ingrediente di un grande minestrone preparato da altri. Un meccanismo micidiale, azionato dal motore più antico e universale: il denaro. Quando ne circola molto, tutti i legami che prima erano sacri e inviolabili diventano merce di scambio con la massima naturalezza. Chi lavorava con me, magari da anni, veniva avvicinato separatamente e firmava mega-contratti per tre o quattro anni. Anch’io, con quei soldi in più in tasca, mi sentivo più debole. Intanto i rapporti umani si sfilacciavano impercettibilmente, ma poi la cosa si notava dall’altra parte dello schermo, perché il gruppo non trasmetteva più al pubblico la stessa convinzione, lo stesso coinvolgimento. E non c’era più niente da fare. Fine delle illusioni. Mi dicevo: “Sono in Colombia senza le pistole”. Mi sentivo nel quadro dell’urlo di Munch: potevo dire ciò che volevo, ma dalla mia bocca era come se non uscisse nulla. Da impazzire, da ammalarsi. Infatti mi ammalai. Mi presi un virus da stress giapponese che mi portò per tre mesi in ospedale neurologico. Non so se Dio, Buddha o Allah abbia voluto punirmi in quel modo. Sta di fatto che per sei mesi sono rimasto in carrozzella senza più muovere le gambe. Poi, a poco a poco mi sono rimesso in piedi. Ma quell’esperienza mi ha cambiato. Ora lavoro soltanto in palcoscenico, con più consapevolezza e meno ingenuità“. […]
Travaglio-Gomez
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Se vedòm!