Al Festival romano delle letterature, due estati fa, era possibile misurare, sulle facce rapite di un pubblico molto di sinistra, l’incondizionata adorazione per Susan Sontag (morta ieri, a settantuno anni, in una clinica di New York).
Dal palco della Basilica di Massenzio, coi lunghi capelli ormai bianchi e il profilo sempre spavaldo, leggeva un capitolo del suo ultimo romanzo, “In America”.
Quella del pubblico romano era, con ogni evidenza, un’ammirazione estetica, quasi carnale, prima ancora che intellettuale. Una vera fascinazione per il personaggio che portava da quarant’anni in giro per il mondo se stesso come manifesto vivente di impegno totale, della vita come letteratura e della letteratura come vita.
Era, la Sontag, la bella solenne sorridente sacerdotessa della letteratura come arma di lotta a tutto campo: contro Bush, contro le multinazionali, contro la guerra, contro le discriminazioni sessiste. Anche in quell’occasione, la Sontag non mancò di parlare della propria malattia, che la assediava ormai da decenni, contro la quale continuava a combattere valorosamente e che già in più di un’occasione era stata sul punto di avere la meglio su di lei. “Malattia come metafora”, scritto alla fine degli anni Settanta, era stato non a caso per molto tempo il suo libro più famoso, non solo negli Stati Uniti.
Nasceva dalla sua reale esperienza, dalla ribellione verso l’idea di punizione accreditata dalla teoria della somatizzazione, che finisce per colpevolizzare il malato per il fatto di essere tale.
Anche se qualcuno non sarà d’accordo, il meglio di sé la Sontag l’ha dato nei saggi più che nei romanzi, che sono spesso ridondanti, fluviali, faticosi.
Le sue analisi della pornografia, dell’antisemitismo, della fotografia, della violenza tra i sessi sono state capaci di suscitare forti consensi e altrettanto forti avversioni, ma comunque di imporsi all’attenzione, non soltanto per le astute alchimie promozionali.
L’America “contro” di cui Michael Moore è la versione multiuso e buffonesca, si ritrova oggi orfana di una delle sue madri nobili, del volto più raffinato e tipico di un mondo radical-liberal immancabilmente rivolto verso l’Europa.
Eppure la Sontag non apparteneva semplicemente alla genia degli americani di New York, dei quali si sottolinea a ogni piè sospinto la “diversità”.
Certo, a New York era nata, nel 1933, ma dopo la morte del padre, l’ebreo Jack Rosenblatt, un commerciante di pellicce, si era trasferita con la madre e il secondo marito di lei, il capitano Sontag, prima in Arizona, a Tucson, e poi a Los Angeles.
Nella provincia americana cresce la “bambina imbarazzata, appassionata, intossicata di letteratura”, che poi farà i suoi studi a Berkeley, a Chicago, ad Harvard e infine a Parigi.

Quel sì alla Nato nei Balcani
Con il ritorno a New York, all’inizio degli anni Sessanta, Susan Sontag diventerà la regina dell’America della protesta contro la guerra in Vietnam, la coscienza ipercritica del ruolo imperiale degli Stati Uniti, la femminista ante litteram, la teorica della missione dell’intellettuale americano. Per chi ne conosce le posizioni ferocemente antiguerra in Iraq, e anti-guerra tout-court, può essere però utile ricordare (e ci piace ricordarla così) alcune sue prese di posizione eterodosse, durante il conflitto nei Balcani.
In quell’occasione, un’inedita e coraggiosa Sontag argomentò su Repubblica il suo appoggio all’intervento della Nato:
“Non tutte le violenze sono ugualmente riprovevoli. Non tutte le guerre sono ugualmente ingiuste. Dobbiamo ricusare l’uso della forza in risposta alla violenza di uno Stato contro persone che nominalmente sono suoi cittadini? (Perché questa è oggi la natura della maggior parte delle guerre, che non sono più conflitti tra Stati)”.

Da Il Foglio del 29 dicembre

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