Maurizio Blondet
18/10/2005
Il Financial Times, nell'edizione week-end del 16 ottobre (1), così prescrive: «se siete un multimiliardario, non basta avere una barca. Dovete avere un super-yacht; una macchina da corsa di 30metri con computer, alta tecnologia e tutti i gadget elettronici del caso».
Ma avverte con dovizia di particolari che per questo tipo di yachting, dove «la barca» costa 10 milioni di dollari e l'equipaggio e le spese di manutenzione ne costano altri 2 (milioni), «il reddito di un semplice miliardario non basta».
Ad avere quei superpanfili da corsa, che partecipano a tutte le regate internazionali anche se fanno presenza fissa in Costa Smeralda, sono davvero pochi.
Gli invidiatissimi: pensate come soffrirà D'Alema, proprietario di panfilo da regata del costo di soli 900 mila euro, che al confronto è un gommone.
Persino l'Espresso ha dovuto segnalare che il panfilo di D'Alema ha un «arredamento spartano», avendo l'armatore-proprietario preferito spendere quel che si deve nell'albero «in fibra di carbonio».
Quando si è costretti a fare scelte così dolorose, non si è davvero ricchi.

In realtà, la mia attenzione è stata richiamata sui nomi di italiani che compaiono in quell'articolo per pochi sul Financial Times.
Uno è Luca Bassani Antivari, ma non ci scandalizzerà: è il designer di questi super-panfili high-tech, da 30 metri e 20 miliardi di vecchie lire, della classe «Wally».
Ma un altro è il nome di un padrone di uno di questi «Wally», battezzato Tiketitan.
Si tratta di Galeazzo Pecori Giraldi. «the italian investment banker», spiega il Financial Times laconico, come non ci fosse bisogno di altre presentazioni.
Non è un nome, lo ammetterete, che appare spesso nelle cronache economiche.
Uno di quei nomi così rispettati da essere poco citati: altro che Lapo Elkann, altro che Gianni Agnelli.
Come fa Galeazzo Pecori Giraldi a guadagnare tanti soldi, da permettersi uno yacht che costa 3 miliardi l'anno solo per pagare l'equipaggio?
Che cosa fa per avere tanti quattrini da far sentire poveri i miliardari?



D'accordo, Galeazzo è il presidente della Morgan Stanley, superbanca d'affari transnazionale.
Inoltre, è presidente del Credito Fondiario Industriale, della SIB (società di aste immobiliari), della Fonspa (sempre immobiliari) e consigliere della Asso Immobiliare.
Ma una breve ricerca su internet mi rende chiaro che Pecori Giraldi, il Galeazzo, è presente in così tante associazioni e occasioni da tempo libero, da obbligarci a chiedere quando trova il tempo per lavorare onde restare un super-ricco.
Per esempio non manca mai di partecipare alla «Mille miglia storica» di Brescia e ad altre manifestazioni d'auto d'epoca in giro per il mondo, al volante della sua Bugatti - un altro suo costoso hobby, visto che la Bugatti costerà, in manutenzione, un ulteriore pacchetto di miliardi.
Poi è consigliere del Touring Club; del FAI, Fondo Ambiente taliano, che raduna ecologisti di lusso, per lo più proprietari di magioni storiche; e di «Milano per la Scala», associazione di munifici preoccupati delle sorti del cosiddetto «tempio della lirica».
Ma tutte queste associazioni sono, par di intuire, altrettante fonti di spesa più che di introiti.
Il Galeazzo passa pochissimo tempo in ufficio: un giorno è in USA o Giappone con la sua Bugatti, l'indomani in Australia all'asta dei super-yacht Wallis, il giorno dopo a Porto Cervo a farsi fotografare con la ciurma di «Mascalzone Latino» insieme a tutti gli altri «mascalzoni latini».



Galeazzo Pecori Giraldi è l'illustrazione vivente della regola non scritta: i veri ricchi non lavorano mai.
Vi chiedete quante tasse paga?
In Italia, non appare nemmeno nelle liste dei maggiori contribuenti, dove invece ci sono notai ricchissimi (ma non abbastanza da mantenere un Tiketitan) e Berlusconi.
Altra verità non scritta: i veramente ricchi non pagano imposte.
Quasi sempre le loro Bugatti e Tiketitan figurano proprietà di società con sede legale alle Cayman o alle Grenadines, la cittadinanza dei super-ricchi è spesso in USA (25 % d'imposta sul reddito) come certamente accade al presidente della Morgan Stanley, e i loro emolumenti sono in stock options o figurano come «capital gains»: guadagni di rischio, e mica vorrete far pagare le tasse sul rischio.
I veri ricchi non risultano proprietari né di un'utilitaria né di una casa.
Scelgono loro a quale Paese (non) pagare le imposte; sanno come profittare di tutte le regole di elusione fiscale, di tutti i modi di evitare «doppie tassazioni», regole che sono state scritte apposta per loro.



I veramente ricchi non lavorano e non pagano tasse.
Non appaiono nelle cronache mondane, né in quelle economiche.
Nessuno fa pettegolezzi su di loro.
Sono protetti da una loro massoneria che è superiore e più segreta di tutte le altre.
Qualcosa però l'intoccabile Galeazzo ha sborsato.
L'amministratore straordinario Bondi, curatore del fallimento Parmalat, ha fatto sputare alla Morgan Stanley un risarcimento di 155 milioni di euro alla stessa Parmalat.
Bondi s'era fatto la strana idea che le grandi banche, d'affari e no, facendo prestiti a Tanzi e poi rapidamente sbolognando i titoli di credito relativi ai piccoli risparmiatori, «abbiano contribuito alla frode finanziaria» né più nè meno di Tanzi.
Ed ha minacciato di portarle davanti ai giudici.
Beh, la Morgan Stanley ha cacciato senza fiatare 155 milioni di euro.
E in una rara intervista Galeazzo Pecori Giraldi s'è persino rallegrato di quell' «accordo» con Bondi: pur di evitare azioni legali.
Evidentemente, fatti due conti fra una regata e l'altra, avrà calcolato che a mettere di mezzo i tribunali la banca rischiava di pagare tre o dieci volte di più.

Il che ci induce ad azzardare la terza verità non scritta: i veri ricchi non guadagnano mai.
Spendono soltanto.
Ma credete che dopo l'esborso la Morgan Stanley abbia ridotto gli emolumenti al Galeazzo?
Niente di più sbagliato.
Galeazzo è volato in Australia sì per vendere il suo Tiketitan da America's Cup, ma per comprarsi uno yacht più costoso.
Quarta verità: i veri ricchi non pagano mai dazio.
Non pagano tasse, non lavorano, non guadagnano ma solo spendono.
Siamo noi che guadagniamo per loro.
Noi che li facciamo ricchi.
Noi che lavoriamo parecchio, che paghiamo tutte le tasse e in più il mutuo della casa ai banchieri e le rate per l'utilitaria, sempre ai banchieri.
Siamo noi che abbiamo bisogno di guadagnare: per loro, per lorsignori.


Maurizio Blondet




Note
1) Victor Mallet, «The haves and have-yachts», Financial Times, 15-16 ottobre 2005.




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