AD UN ANNO DALLA MORTE DI MARI0 MELIS, GRANDE LEADER DEI 4 MORI
GRANDEZZE E MALINCONIE DEL SARDISMO GOVERNANTE
di GIACOMO SANNA
Non si potrebbe parlare di Mario Melis senza parlare del partito sardo d’azione e non si potrebbe parlare del partito sardo d’azione senza parlare di Mario Melis. Sono due storie che s’intrecciano: quella di un uomo, di una famiglia, la famiglia Melis, appunto, e quella di un partito che da questa famiglia ha attinto una classe dirigente che ne ha segnato e caratterizzato la sua storia a partire dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri.
Mario è il fratello minore di Giovanni Battista e Pietro Melis, dirigenti di primo piano del partito, consiglieri regionali fino agli anni sessanta, due cavalli di razza della politica sarda agli albori dell’autonomia regionale e due figure di rilievo nello scenario politico regionale, nel bene e nel male, fino alla prima metà degli anni sessanta.
Il giovane Mario si forma culturalmente nel Liceo Asproni di Nuoro supportato dagli ideali familiari del sardismo e di una Sardegna sovrana, che certamente in quegli anni, sono gli anni del fascismo, possono essere vissuti nella clandestinità e nel privato delle pareti domestiche.
Dopo la laurea in giurisprudenza, la professione forense presso l’avviato studio dei fratelli e gli esordi nella vita politica come sindaco di Oliena.
Nuoro è ancora un paesone e il territorio circostante è costituito fondamentalmente da un’economia agropastorale arretrata, segnata dai solchi storici di un malessere sociale e da una cultura di devianza ormai codificata nelle storia del banditismo e nelle gesta dei suoi eroi. La professione dell’avvocatura è quella che più naturalmente mette in contatto gli intellettuali nuoresi con la società e con il territorio.
La storia di Mario Melis come avvocato e come politico s’inserisce nell’alveo di questa tradizione che nel partito sardo aveva visto personaggi di primo piano come Mastino, Oggiano, Gonario Pinna. Il cosiddetto “Sardismo” degli avvocati nuoresi aveva seguito questi percorsi. Percorso che Mario ha interpretato con passione e con intelligenza profondendo il suo impegno come amministratore del piccolo centro barbaricino. Patria dei Puligheddu e dei Catte, artefici, poi, della scissione repubblicana degli anni Sessanta. Da sindaco sardista di Oliena Mario Melis realizza in quel centro diverse opere che lo indirizzano verso lo sviluppo di una vocazione turistica inedita, per quegli anni pionieristica, creando le condizioni infrastrutturali per la nascita di quel complesso, oggi meta di turismo internazionale, che è “su Cologone”.
Nel partito Mario non esercita un ruolo di primo piano, cosi, come, in fin dei conti, non lo eserciterà mai in termini diretti. O almeno nel senso dell’essere dirigente.
Mario Melis non è mai Stato, infatti, né segretario né presidente del partito. Del consiglio nazionale ne ha fatto parte come membro di diritto dopo che venne eletto consigliere regionale e parlamentare, e poi, con una delibera del XXVIII congresso che lo accoglieva nel suo seno come membro di diritto. Il partito sardo d’azione ha avuto in Mario Melis più che un dirigente,- o come si sarebbe detto, un uomo d’apparato, - un uomo di governo, un uomo di rappresentanza istituzionale, o, come piaceva dire a lui, uno statista. Ma dai ruoli istituzionali che lui ha ricoperto, come consigliere regionale, come assessore all’ambiente nella Giunta Rais, come presidente della Giunta, come deputato nel parlamento italiano e in quello europeo, il partito ha sempre riscosso prestigio ed immagine. Lui a volte si lamentava che la classe dirigente del partito non era all’altezza, specie quando era presidente della Giunta, dall’Ottantaquattro all’Ottantanove, del ruolo che il partito esercitava nel consiglio regionale e nella vita politica grazie all’inaspettato successo e all’inaspettato consenso avuto dal nostro partito nelle elezioni della primavera dell’ottantaquattro. E per certi aspetti aveva ragione.
La classe dirigente di quegli anni aveva dovuto fare i conti con un consenso repentino, e con le nuove aspettative di una società che nel frattempo si era trasformata. Una società non più, o non soltanto di contadini e di pastori, una società di “clientes” degli avvocati o di affezionati di alcuni personaggi, e neanche una società di reduci con una forte carica ideale legata ai valori della patria e della nazione, ma una società di bisogni materiali concreti. Una società che poneva alla politica nuove domande, che chiedeva al sardismo ma alla classe politica sarda in generale, uno sguardo nuovo e una intelligenza nuova. La giunta Melis deve fare i conti con una Sardegna che ha vent’anni circa d’industrializzazione alle spalle.
Un’industrializzazione che ormai manifesta il suo fallimento e la sua crisi. Una società che presenta il conto di nuove collocazioni nel mondo del lavoro per i giovani che nel frattempo sono usciti dalla scuola e dall’Università di massa. Una società e un ceto imprenditoriale che stanno vivendo l’euforia dello Stato assistenziale, che nell’Isola
si manifesta con la cultura del subappalto e della spartizione dei rimasugli che avanzano dalle grandi lottizzazioni della politica governativa italiana.
In questa crescita tumultuosa e inaspettata, manca alla vecchia classe dirigente sardista se non la capacità di comprendere, la puntualità nell’affrontare i nodi storici della “questione sarda” che si manifestano sotto nuove forme e nuove vesti. Il partito non riesce ad immunizzarsi dalle contaminazioni provenienti dalle pecche delle classi dirigenti degli altri partiti, che più a lungo e più diffusamente avevano avuto esperienze di governo e di potere.
Spesso all’interno del partito mancano i filtri necessari e le direttive certe per la selezione della classe dirigente, che s’incunea nel vecchio tronco sardista a seguito della crescita elettorale.
Il partito, in certi momenti sembrava essere travolto e assorbito dalle preoccupazioni più che del governo, da quelle del potere e della congiuntura politica, rinunciando al ruolo storico, di guida e di punto di riferimento forte di un percorso che l’assunzione della giunta regionale metteva a dura prova.
Mario spesso lamentava “la solitudine” in cui si trovava nel dover fare delle scelte e nel dovere assumere decisioni importanti dinanzi ad un partito, talvolta, più interessato ai problemi della gestione che a quelli della elaborazione e della direzione politica. Mancava da parte del partito la spinta propulsiva, l’intelligenza trasformatrice delle idee in progetti e programmi temporalmente scanditi, la capacità di stare tra la gente.
Cosa, invece, necessaria e utile per coagulare intorno al governo regionale a guida sardista non solo la conferma del consenso, ma l’assunzione di fiducia nei confronti del programma sardista, che spesso trovava difficoltà di ricezione tra gli stessi alleati.
I famosi 13 punti di Carbonia che avevano costituito il cavallo di Battaglia del partito sardo d’azione si risolsero in slogan vuoti, privi di ancoraggio tra le masse, privi delle dovute mediazioni che ne consentissero la trasformazione in azioni di governo.
Alle grandi parole d’ordine, all’enfasi del sardismo, non facevano riscontro azioni concrete di Governo.
Di questa situazione la base sardista ne sentiva la frustrazione e il disagio. Anche Mario Melis percepiva tutto questo. Cercava di sopperirvi con la sua personalità forte, che dentro il partito diventava spesso rimprovero severo, rimbrotto nei confronti dell’inadeguatezza della sua classe dirigente. All’esterno la sua voce risuonava attraverso le sue prese di posizione nei confronti del Governo centrale, rispetto all’invadenza delle basi militari in Sardegna, rispetto alle finanziarie di corto respiro che penalizzavano pesantemente l’isola. Chi non ricorda il richiamo accorato di Mario Melis ai parlamentari sardi affinchè dentro i loro partiti che avevano mente e gambe a Roma si facessero portatori delle istanze del popolo sardo.
Furono in pochi ad avere, comunque, il rispetto degli avversari come lo ebbe lui e pochi ad avere tra le popolazioni sarde l’accoglienza del capo carismatico, dell’uomo al di sopra delle parti, pur essendo lui- senza remore e senza infingimento alcuno, in tal senso, neanche da presidente della giunta regionale,- uomo di parte. Dal suo carisma e dalla sua personalità Mario Melis trae l’energia e la forza per teorizzare l’idea del “sadismo diffuso”. Un’idea certo di grande valenza intellettuale di cui il partito sardo d’azione non ha potuto trarre, per ragioni diverse, tutti i frutti. Cosi come il partito sardo d’azione non ha potuto trarre i frutti della sua azione di Governo. Alla fine del suo governo il partito ha una flessione di tre punti in percentuale e perde due consiglieri regionali. Una perdita fisiologica si disse, in quegli anni. Ma non fu così. Dopo un successo elettorale clamoroso iniziò un progressivo declino del partito.
Unitamente alle responsabilità della classe dirigente del partito di quegli anni, non possono essere sottaciute, però, le responsabilità di quella coalizione che Mario Melis guidò con passione e prestigio. Dal punto di vista del Partito sardo d’azione, sia nella coscienza che il partito seppe maturare in quegli anni, sia in quella degli anni successivi, mancò a quella giunta una caratterizzazione sardista nell’attuazione dei suoi programmi.
Mancò una determinatezza forte nell’attuazione di quei punti che in tal senso avrebbero potuto costituire la svolta, nella storia delle giunte autonomistiche, di cui il Partito sardo d’azione si era fatto portavoce. Erano punti che intaccavano, nella filosofia politica di quegli anni, il concetto di autonomia cosi come veniva inteso comunemente, e spostavano l’asse del progetto politico dalle enunciazioni generiche di un regionalismo, talvolta di maniera, verso i più avanzati obiettivi di un indipendentismo sovranitario.
Un’indipendentismo che era stato lanciato al congresso di Porto Torres nel 1981 e ribadito al Congresso di Carbonia nell’1984.
Era un indipendentismo che arricchiva la tradizione sardista della battaglia per il bilinguismo, e poneva i termini della “questione sarda” su nuove basi culturali superando il vecchio rivendicazionismo economicista che aveva supportato la filosofia dei piani di rinascita. Falliti proprio perché disancorati da una prospettiva culturale che ponesse come perno del tessuto antropologico e civile dell’isola la questione della lingua, unico retaggio di una Sardegna speciale, storicamente vinta, ma non convinta di quello che la storia le aveva fatto subire. Ed era un indipendentismo che poneva alla base del nuovo sviluppo economico dell’isola l’esigenza forte della revisione dello strumento statutario, rivelatosi inadeguato a supportare in termini istituzionali un progetto di sviluppo economico che non fosse l’appendice terminale di un’economia che aveva il suo centro politico a Roma e che si fondava su elargizioni assistenziali in base al peso che la classe politica sarda esercitava nelle correnti della Democrazia Cristiana.
Era un progetto ambizioso che non si tradusse però in azione di Governo. Forse anche a Mario, nonostante la sua generosità e il prestigio, mancò la determinatezza, in quegli anni, per spingere il piede sull’acceleratore del progetto indipendentista. Forse non intese fino in fondo il significato di quel consenso elettorale. O non lo intese in tutta la spinta conflittuale e in tutta la portata innovativa che esso poneva. Il voto dato al partito sardo d’azione nell’ottanta quattro non era solo un voto in nome del buon governo, o in nome della questione morale, anche se Mario Melis non fu carente in questa direzione, ma fu un voto di svolta e di rottura con la vecchia tradizione autonomistica. Una svolta che Mario non riuscì ad imprimere a quella giunta fortemente ipotecata da una classe dirigente, vincolata ad una filosofia politica e ad una consuetudine amministrativa dipendente dalle strategie dei vertici romani. Leggendo i giornali di quegli anni e facendo ritorno con la memoria al dibattito interno nel partito di quegli anni, non sarebbe difficile cogliere il disagio di un partito sottodimensionato sotto il profilo organizzativo e sotto il profilo della elaborazione politica rispetto al gravoso impegno di una giunta regionale a guida sardista, con alleati anch’essi di scarsa cultura governativa come il P.C.I. e fortemente restii a recepire le proposte politiche del neosardismo. Eppure la giunta Melis riuscì, nonostante quattro crisi e quattro rimpasti, a portare a termine il suo mandato.
Mario Melis, però, entra, col passare degli anni, nel mito. Gli aneddoti sul suo carattere, la determinatezza del suo carattere, la maestosità del suo gesto e il fascino della sua parola, unitamente alla sua dirittura morale e all’abilità del timoniere ne hanno fatto, nella memoria dei sardi, un personaggio straordinario.Finito il suo mandato alla regione, e conclusi gli anni di Bruxelles Mario Melis, dove esercitò il mandato di parlamentare europeo, non smise di frequentare il partito e di partecipare attivamente al suo dibattito interno. Con la passione di sempre, sempre in prima fila, mai pago di ciò che aveva dato al partito e alla Sardegna. Restano memorabili i suoi comizi nelle piazze, nei piccoli centri del nuorese, del campidano, della provincia di Sassari. Non c’è paese della Sardegna che Mario Melis non abbia visitato. Come uomo di partito o come uomo delle istituzioni.
La sua parola era sempre precisa, incisiva, il suo disegno sempre chiaro, talvolta non condivisibile, ma la sua condotta fu e resta esemplare. Mario era un combattente, amava vincere, ma sapeva anche perdere. Non lo scoraggiava essere messo in minoranza in consiglio nazionale.
Ciò costituiva per lui il carburante per andare avanti e difendere le sue posizioni.
Le ragioni del sardismo e della Sardegna sovrana, hanno costituito la ragione fondamentale della sua vita e della sua esistenza, donata fino alla fine, con la generosità che gli era propria, per il suo popolo, per il suo partito.
Forse i tempi non sono ancora maturi per intendere fino in fondo la profondità del messaggio di Mario Melis e il significato politico della sua azione.
Un’azione sempre limpida, trasparente, illuminata dalla luce di un sogno e dall’orizzonte di un lungo cammino, che ancora la classe dirigente sarda deve percorrere per intero. Il sogno di una Sardegna indipendente nell’orizzonte della sovranità di un popolo che si confronta con gli altri consapevole della propria dignità.
La statura di Mario Melis è quella di uno statista che conosce i limiti istituzionali che nella storia dell’autonomia hanno contrastato questo cammino. E Mario Melis ben sapeva che la politica, le alleanze con le altre forze politiche che pure si dichiaravano autonomiste, non sarebbero state sufficienti ad esprimere fino in fondo il progetto storico, il sogno del sardismo che il partito di Bellieni aveva interpretato nella storia politica isolana fin dalla sua nascita. Ma dentro la politica e dentro il sistema politico bisognava restare. Lavorando, lottando per cambiarlo e per esercitare un ruolo guida e una forte carica di convincimento, rispetto alle classi dirigenti isolane, affinché si sardizassero sempre di più e sempre di più rivendicassero la loro autonomia dalle centrali politiche della penisola, per densità abitativa e per bacino elettorale, naturalmente più forti.
Mario Melis era un estimatore di Bellieni, più di quanto non lo fosse di Lussu. In Bellini individuava il maestro, il grande stratega, il teorico del progetto sardista. Di Bellieni Melis ne coglieva la laicità, le profonde radici liberali, la fondatezza storica e sociale del suo pensiero. Lo spessore del filosofo e la finezza dello scrittore di cose storiche e
di cose letterarie. Ne coglieva il fondamento del suo pensiero riformista animato dai principi illuministici della libertà e della felicità degli uomini che l’azione politica con i suoi metodi democratici deve perseguire. Da Bellieni Mario sembrava aver ereditato, anche, la carica di sogno e di utopia che traspariva nella sua parola, nel suo sguardo, nel suo scrivere, ma anche la pragmaticità dell’azione e la chiarezza degli obiettivi da perseguire.
Oggi certamente Mario ci manca, ci manca il confronto con la su proposta, ma non ci manca la traccia del suo
insegnamento e il suo monito a non cedere, a non abbandonare.
Ma riteniamo che Mario manchi al dibattito politico isolano, manchi alla Sardegna e ai sardi che hanno avuto la fortuna di conoscerlo.
A coloro che non l’hanno conosciuto, ai più giovani, questo nome, questo esempio, questo modello di uomo che ha speso la propria vita per una causa giusta, sarà nostro compito farlo conoscere non solo con celebrazioni doverose come queste, ma con la nostra azione e con la nostra testimonianza, perché questo Mario ci ha trasmesso, questa è l’eredità che ci sentiamo di difendere e di propagare, per il Partito sardo d’azione, per la Sardegna di oggi e di domani.