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Discussione: Sarkozy

  1. #11
    Liberale
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    Citazione Originariamente Scritto da JohnPollock Visualizza Messaggio
    Un cretino statalista, socialista, che fa leggi particolari, migliaia, come in italia. Ne basterebbe una: tutti i cittadini hanno pari dignità, libertà individuale, e hanno la facolta di essere felici come pare loro nel rispeto del prossimo.

    Il resto speetta ai cittadini.

    Un socialista e basta. Non merita considerazione. Paranoico. Meglio quella porcona socialista, almeno ispira un po' di fantasia erotica. Un po'.
    E' evidente come l'amico JohnPollock sia stato guidato nel suo ragionamento più che da un'analisi politica, direi dalla visione di un film vietato ai minori di 18 anni.

  2. #12
    a.k.a. tolomeo
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    Citazione Originariamente Scritto da Liberale Visualizza Messaggio
    E' evidente come l'amico JohnPollock sia stato guidato nel suo ragionamento più che da un'analisi politica, direi dalla visione di un film vietato ai minori di 18 anni.
    sì, infatti.
    johnpollocknonostante, continuo con la serie di articoli a beneficio di chi voglia approfondire l'argomento.
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

  3. #13
    a.k.a. tolomeo
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    L’ECONOMIA DELLA “RUPTURE”


    Sarkozy s’ispira ai successi della nemica Albione


    In economia Nicolas Sarkozy non ha pregiudizi.
    Liberale, pur di favorire una visione
    più aperta alla globalizzazione e alle
    sue sfide, è pronto a criticare il modello sociale
    francese, denunciandone i limiti, mostrando
    gli effetti perversi che produce in
    termini di blocco della crescita e paralisi
    della produttività. Quando occorre, però, sa
    anche essere uno statalista di ferro, pronto
    a tutto, persino a entrare senza molte cerimonie
    in rotta di collisione con la commissione
    di Bruxelles, pur di sostenere l’industria
    francese in nome del superiore interesse
    nazionale. Di fatto, si considera un
    pragmatico. Essendo anche un uomo spiritoso,
    e lievemente sardonico, può succedergli
    che, per spiegare il suo punto di vista, si
    diverta a stracciare gli interlocutori più
    ostici con una battuta. Adesso, è vero, non
    succede più tanto, perché il candidato presidente
    sta attentissimo a schivare le provocazioni,
    come si è visto lunedì scorso in tv,
    durante il botta e risposta di due ore, seguito
    da nove milioni di telespettatori, dove è
    riuscito a ostentare calma e cortesia, anche
    di fronte alle domande più tignose dei cento
    anonimi francesi rappresentantivi dell’intera
    popolazione, selezionati dalla Sofres.
    Ma è successo appena due anni fa a
    New York, durante una conferenza alla Columbia
    University, quando Sarkozy, per svicolare
    da una domanda insidiosa sul liberale
    che cede al colbertista, ha confessato:
    “Non è che la sera me ne vado a letto leggendo
    Adam Smith o Ricardo, e la mattina
    appena mi sveglio mi metto a studiare le
    idee di Hayek”.
    Era l’ottobre 2004. Sarko, all’epoca ministro
    delle Finanze, stava per lasciare Bercy.
    Contravvenendo all’“ukase”, come dice lui,
    di Jacques Chirac, aveva deciso di presentarsi
    alla presidenza del partito e dunque
    doveva lasciare il governo. Era stato nominato
    alle Finanze in primavera, dopo il rimpasto
    del primo governo Raffarin. In tre
    mesi mesi era riuscito a sbloccare tre grane:
    aveva negoziato un ribasso dei prezzi
    coi responsabili della grande distribuzione,
    aveva favorito la fusione dei due gruppi farmaceutici
    francesi Sanofi-Aventis per evitare
    l’Opa ostile da parte del colosso svizzero
    Novartis, e aveva scongiurato lo scorporo
    e la delocalizzazione del gruppo Alstom,
    fiore all’occhiello dell’industria francese
    dell’energia e dei trasporti. Tre pietre miliari
    nella sarkoletteratura, per il misto di
    determinazione, capacità negoziale e volontà
    di sfondamento, cementato da una sofisticata
    strategia di comunicazione. Lo
    stesso Sarkozy oggi ne va fiero, come si
    evince dall’ultimo libro, “Témoignage”, tradotto
    in italiano da Fabio Torriero con la
    prefazione di Gianfranco Fini.
    Da ministro delle Finanze, certo, Sarkozy
    non aveva alcun potere giuridico di far abbassare
    i prezzi, ma con l’appoggio dei consumatori
    pensava che non avrebbe trovato
    resistenza. E infatti, “minacciando i grandi
    gruppi di rivelare in tv le loro pratiche tariffarie,
    se non avessero firmato l’accordo,
    riuscì a ottenere un calo dei prezzi dei prodotti
    di consumo, ben al di là del 2 per cento
    previsto”. E’ vero che il risultato, all’epoca
    annunciato in pompa magna oggi sembra
    controverso, stando alla “biografia imparziale”
    di William Emmanuel (“Nicolas
    Sarkozy, la fringale du pouvoir”, ed. Flammarion)
    che riprede i dati Insee e ridimensiona
    il calo dei prezzi al consumo all’1,1
    per cento sui tre mesi e allo 0,3 su un anno.
    Ma quello che conta è l’idea guida che lo
    dettò, riassunta da Sarkozy in un aforisma:
    “Non è l’assenza di potere a discreditare la
    politica, ma il non esercitare il potere di
    cui si dispone”.
    A Monti disse: “Vuole il sangue sui muri?”
    Altro esempio, il caso Alstom. Azienda
    leader nella costruzione di centrali elettriche,
    a turbina, e di treni ad alta velocità, il
    18 per cento del fatturato mondiale nel trasporto
    su ferro, 69 mila addetti di cui 25 mila
    in Francia, ma una pessima gestione finaziaria.
    Nel 2003 le banche rifiutano di dare
    garanzie. Bruxelles, eccezionalmente, autorizza
    il governo a entrare nel capitale. Ma i
    soldi non bastano. Ci vuole un nuovo piano
    di salvataggio. Bruxelles, in nome della libera
    concorrenza, preme per una fusione
    con Areva, che costruisce reattori nucleari
    e storce il naso, mentre il gigante tedesco
    Siemens sogna di rilevare parte delle attività.
    Sarko è possibilista. Ma un sabato mattina
    gli basta convocare a Bercy il presidente
    del colosso tedesco, Heinrich von Pierer,
    per cambiare idea: “Lei è straordinario”,
    pare che gli abbia detto. “Quello che funziona
    ve lo prendete voi, e il resto lo lasciate a
    noi. O riflette su una soluzione più ambiziosa
    e più equilibrata, oppure ci fermiamo
    qui”. I tedeschi l’accusano di nazionalismo.
    Sarko però continua a mantenere la pressione
    sul suo staff. “Non voglio analisi
    astratte, ditemi come salvare l’impresa e i
    25 mila posti di lavoro”. Seguito da fotografi
    e telecamere fa un sopralluogo a Ayrté,
    nella Charente, dove si costruisce il Tgv,
    contrastando i fischi: “Sto cercando di aiutarvi.
    Fischiatemi dopo, se non ci riesco”. E
    inizia a negoziare da un lato con le banche,
    che riluttano a scucire, dall’altro con Mario
    Monti, commissario europeo per il Mercato
    interno, che rilutta a trattare. “La sua rigidità
    naturale si trovava ad essere rafforzata
    dall’onnipotenza della tecnostruttura
    bruxellese”, dirà Sarko, che vuole una moratoria
    di quattro anni, l’autorizzazione a investire
    in nuovi fondi pubblici, ed è disposto
    a cedere una parte delle attività che non
    superi il 10 per cento del fatturato. Il negoziato
    sarà duro, fino allo spasimo, non senza
    colpi di scena. “Lei vuole il sangue sui
    muri?”, domanda esasperato Sarko al commissario
    europeo, che insiste sul principio
    della libera concorrenza, anche a costo di
    sacrificare il gioiello francese. E Monti, reticente,
    s’alza dalla sedia e taglia corto: “Devo
    andare, ho un aereo che mi aspetta”. Ma
    l’altro, che ha la faccia tosta come il bronzo,
    rimane seduto, senza schiodarsi: “Io invece
    resto qui e continuo a lavorare col suo
    staff”, gli risponde, come se nulla fosse, obbligandolo
    a rinviare la partenza. Alla fine,
    racconterà il suo collaboratore François Pérol
    a Catherine Nay, il ministro riesce a
    spuntarla. Propone a Monti un incontro con
    la stampa, quando l’accordo non è ancora
    concluso, e spiegando ai giornalisti lo stato
    del negoziato i due trovano un accordo di
    massima. Da allora, il valore in borsa del titolo
    Alstom si è moltiplicato per tre, e lo stato
    francese ha rivenduto al gruppo Bouygues
    per 2 miliardi di euro, quello che venti
    mesi prima aveva acquistato per 700.
    L’anno dopo – a raccontarlo è il capo dei
    servizi politici di France 2, Michaël Darmon,
    nel suo ultimo libro (“La vraie nature
    de Nicolas Sarkozy”, Editions du Seuil) –
    Sarkozy, durante uno degli incontri mensili
    dell’Ump sul nuovo modello francese –
    vale a dire “lavoro per ciascuno, potere di
    acquisto per tutti” – si trova a parlare davanti
    a un gruppo di politici e imprenditori,
    e se ne esce con una delle sue battute:
    “Gli economisti, gli imprenditori, gli esperti,
    a volte, mi dicono: ‘Monsieur Sarkozy, il
    problema con lei è che non si capisce bene
    quale sia la sua visione dell’economia, quali
    siano le teorie che la ispirano’. A costo di
    deludervi, vi dirò che in effetti io non sono
    lo schiavo di una scuola di pensiero”.
    Blair “uno dei nostri”
    Sicché, fedele alla sua reputazione di uomo
    libero, adesso che è in campagna Sarko
    ha pensato bene di iniziare il primo viaggio
    all’estero da Londra per una visita al leader
    laburista Tony Blair. C’era qualcosa di
    molto gollista nel suo programma. Londra
    infatti per ogni francese – e a maggior ragione
    del candidato alle presidenziali del
    partito che ne ha raccolto l’eredità – continua
    a evocare l’appello alla resistenza lanciato
    da Charles de Gaulle, all’epoca sottosegrario
    alla Difesa, il 18 giugno 1940, dagli
    studi della Bbc, dopo aver appreso che il
    maresciallo Philippe Pétain, nuovo capo di
    governo, era pronto a firmare l’armistizio.
    Una volta sbarcato a Londra, Sarko è voluto
    subito andare in pellegrinaggio al Cabinet
    War Room, il mitico bunker sotto il Foreign
    Office, da dove Winston Churchill dirigeva
    il paese credendosi al riparo dai
    bombardamenti. Un modo per segnare il
    territorio e presentare le sue credenziali
    agli inglesi.
    Ma la prima tappa della visita a Londra
    è stato il Marylebone Job Center, uno degli
    84 centri di collocamento per giovani disoccupati
    che José Frèche, scrittore al seguito
    di Sarkozy incaricato del diario di bordo,
    ha descritto come un’agenzia di banca, per
    l’atmosfera asettica, i colori aciduli dell’arredamento,
    l’aplomb dei frequentatori seguiti
    personalmente, caso per caso, e aiutati
    da personale specializzato a trovare una
    mansione adatta al caso loro. “Gli inglesi,
    ha osservato il candidato dell’Ump, vogliono
    aiutare la gente, e in questo non c’è nulla
    di strano. Solo che in cambio dell’aiuto
    elargito dalla collettività esigono un minimo
    di impegno da parte di chi lo riceve,
    perché si si dia almeno un po’ da fare per
    ottenere un lavoro e tenerselo. Il che mi pare
    un ottimo ragionamento”. Il risultato dell’albionico
    do ut des è che i disoccupati in
    Gran Bretagna quasi non esistono. Sono
    un’esigua minoranza della popolazione attiva,
    pari al 4,5 per cento. Esattamente due
    volte di meno che in Francia. Il pieno impiego
    dunque è possibile. O almeno lo è in
    un paese come l’Inghilterra dove il pil cresce
    a un ritmo che oscilla tra il 2,6 e il 3 per
    cento l’anno, mentre in Francia, da venticinque
    anni, ristagna ormai sotto lo 0,3 per
    cento rispetto alla già fiacca media europea,
    che è intorno all’1,5 per cento.
    Nasce da qui, per Sarkozy, l’idea tutta anglosassone
    – contrattualistica e individualistica,
    ma con un occhio attento alla psicologia
    sociale – di rompere anche in Francia
    l’automatismo dello stato assistenziale. Nasce
    da qui la proposta di collegare il diritto
    all’indennità di disoccupazione al dovere
    di trovarsi un lavoro, pena la perdita del
    sussidio di Stato dopo due lavori rifiutati.
    Insomma, niente reddito minimo garantito
    senza in cambio un’attività d’interesse generale.
    “Perché il lavoratore che vede l’assistitito
    cavarsela meglio di lui per arrivare
    a fine mese senza fare niente alla fine si
    domanda: a che serve lavorare?” Allora, se
    quello che conta è il risultato, e se anche in
    Francia il risultato da raggiungere può essere
    il pieno impiego, bisogna puntare sul
    lavoro, che la destra ha lungo ignorato, e la
    sinistra ha finito per tradire. Bisogna amare
    e rispettare il lavoro: rivalutarlo, perché
    oggi è demoralizzato; ricompensarlo, perché
    oggi non paga; metterlo al centro del
    programma, farne il cuore pulsante dell’avvenire
    sociale. Il pragmatismo paga. E paga
    più delle ideologie. Bastava vedere come
    Sarko duettava a Downing Street con Blair,
    il laburista che nel solco della rivoluzione
    liberale di Margaret Thatcher ha portato
    gli ingelsi al pieno impiego tirandoli fuori
    dalle secche della deindustrializzazione.
    “Il pragmatismo di Tony Blair è stato molto
    utile al suo paese”, ha ammesso Sarko caracollando
    accanto a lui davanti ai fotografi.
    Poi ha aggiunto: “I socialisti europei dovrebbero
    essere fieri di quel che ha fatto
    Blair, uno dei nostri”. Ha detto proprio così
    Sarkozy, “uno dei nostri”, cedendo a un
    lapsus, subito corretto in “uno dei loro”, ma
    quantomai rivelatore.
    Liberale Sarkozy, in effetti, non ha niente
    del manchesteriano esasperato. Diversamente
    da quanto ritiene Ségolène Royal, a
    caccia disperata di consensi, o i socialisti,
    che l’accusano di consentire ai ricchi di diventare
    più ricchi condannando alla precarietà
    i poveri lavoratori, Sarko non caldeggia
    il bellum omniun contra omnes, ma vuole
    ripristinare l’equità, arginare la deriva
    dell’eguaglianza e farlo in nome dell’interesse
    generale e dell’equilibrio sociale.
    Non che sia un clone di Jacques Chirac, come
    alcuni ritengono, fuorviati forse dall’affinità
    tra la la “rupture” e la “fracture sociale”
    con cui Chirac nel 1995 vinse le elezioni
    contro il liberale Edouard Balladur, inizialmente
    favorito dai sondaggi. No. Sarko non
    è un radicale. A differenza di Chirac, non è
    un uomo di destra che insegue per legittimarsi
    le idee della sinistra. E’ uno che si è
    messo in testa di togliere alla destra i suoi
    complessi. Il politico sincretista che, come
    ha spiegato René Remond, e come riporta
    l’ex giornalista di Libération Eric Dupin (“A
    droite toute”, Fayard), ha cercato di rinconciliare
    le tre anime della destra francese –
    la legittimista, la bonpartista e l’orleanista
    – neutralizzandone le ossessioni antirivoluzionaria,
    autoritaria e liberista. E’ per questo
    che, in nome della destra repubblicana,
    per rilanciare la crescita e il potere di acquisto,
    punta senza complessi sul lavoro,
    strappandone il monopolio alla sinistra e al
    sindacato. La scelta – Sarko lo sa bene – presuppone
    una rivoluzione mentale. Bisogna
    liberare le teste prima del lavoro. Smettere
    di pensare al lavoro in termini di alienazione,
    come per anni hanno fatto i marxisti, e
    considerarlo invece vettore di emancipazione,
    sinonimo di libertà, premessa alla proprietà
    e alla sicurezza. Compensarlo e tutelarlo,
    con crediti d’imposta per chi reinveste
    gli utili di impresa, garanzia di stato sui
    mutui immobiliari ai non abbienti, niente
    tasse di successione sui frutti di una vita di
    lavoro, e un tetto fiscale al massimo al 50
    per cento del reddito. Ma per premiare il lavoro
    bisonga innanzitutto rinunciare al dogma
    ideologico e all’illusione postsessantottina,
    della fine del lavoro, alimentata da teorici
    come Jeremy Rifkin, e pensare in modo
    nuovo la realtà: “A Charleville-Mézières –
    ha detto Sarkozy che si diverte come un
    bambino quando si tratta di visitare una
    fabbrica – ho incontrato un operaio di fonderia
    che dopo 36 anni guadagna 1.250 euro
    al mese. A che serve ridurre il tempo di lavoro
    a 35 ore, se non hai i soldi per fare un
    week-end, o per portare i figli in vacanza?”.
    Dal dire al fare il passo non è impervio e
    tocca le 35 ore “l’unica invenzione francese
    per la quale non serve un brevetto, perché
    nessuno finora l’ha imitata”, ha ricordato a
    Londra Sarkozy, parlando davanti a migliaia
    di giovani francesi espatriati negli ultimi
    anni, in tutto circa 300 mila, per effetto
    della strana legge socialista che pensava
    di moltiplicare il lavoro dividendolo. Non
    potendo abrogare le 35 ore, promesse dai
    socialisti nel 1997 come misura elettorale a
    forte impatto in quanto irrealizzabile, ma
    trasformata in legge dopo la vittoria alle legislative,
    varata nel 1999 da Martine Aubry
    e imposta a tutto il settore pubblico come
    una conquista sociale irrinunciabile, l’unica
    contromisura è di aggirarle. Come? Permettendo
    di guadagnare di più a chi vuole
    lavorare di più, rendendo non imponibili le
    ore supplementari.
    La valorizzazione del lavoro
    La proposta è l’uovo di Colombo in un
    paese in cui il numero di ore lavorate per
    anno e per abitante (611 nel 2002) è diminuito
    dal 1970 del 23 per cento, e oggi è sotto
    la media europea (691) ed è il più basso
    dell’Ocse (808). A lanciare la proposta è stato
    nel 2003 Michel Godet. Economista eclettico,
    ex contestatore, oggi autore di un libro
    molto saccheggiato – “Le courage du bon
    sens” (ed. Odile Jacob). Godet ha scoperto
    la passione per il “black”, anglicismo invalso
    al posto di “noir” per evitare l’accusa di
    razzismo, nei piastrellisti disposti a lavorare
    pure il sabato, purché rigorosamente in
    nero. Ripresa da Hervé Novelli, è finita nel
    programma di Sarkozy, che all’esenzione fiscale
    per il lavoratore ha aggiunto ora anche
    lo sgravio degli oneri sociali per il datore
    di lavoro. “Con 45 minuti al giorno di
    lavoro in più, un operaio allo smic (salario
    minimo garantito di 1.250 euro che in Francia
    è quanto percepisce la metà della popolazione,
    ndr) – ha spiegato Sarko – otterrebbe
    in busta paga un aumento netto del 15
    per cento”. Lavorare di più per guadagnare
    di più, dunque, servirà nell’ottica liberale
    di Sarko a rafforzare il potere di acquisto
    dei francesi, a rilanciare i consumi, e ad
    aumentare la produttività e contenere inoltre
    la spesa pubblica: “E’ assurdo pagare 17
    miliardi di euro l’anno per finanziare le 35
    ore, e altri cinque per finanziare le pensioni
    anticipate – ha spiegato Sarkozy lunedì
    sera – se c’è gente disposta a lavorare di più
    per guadagnare di più, e a integrare la pensione
    lavorando a tempo parziale”.
    Infatti, controllare la spesa pubblica è
    diventato un imperativo a fronte di un debito
    pubblico quintuplicatosi negli ultimi
    25 anni, passando da un quinto a due terzi
    del pil, sino a superare oggi i 1.100 miliardi
    di euro. Per rimborsare i soli interessi oggi
    hanno calcolato che serve una somma pari
    alla totalità dell’Iperf prodotto nel 2005. Ed
    è un imperativo soprattutto davanti alla
    perdita del vantaggio demografico in atto,
    con la crescita sotto il 2 per cento, e l’invecchiamento
    della popolazione in corso. Se
    nulla cambia – avvertono Michel Pébereau
    e Bernard Spitz nella loro “Lettre ouverte
    à notre prochain(e) président(e)” (ed. Robert
    Laffont) – il debito pubblico francese
    raggiungerà nel 2014 il 100 per cento del
    pil. Da qui l’urgenza della riforma delle
    pensioni, altro cavallo di battaglia di Sarko.
    Lunedì sera, una simpatica vedova rotondetta
    con i capelli ossigenati l’ha provocato:
    “Ho una pensione di 790 euro al mese.
    Vorrebbe venire a condividerla con me?”.
    Sarko, molto galante, è stato al gioco: “Se è
    per affetto, potremmo anche provare, anche
    se sono già impegnato…”, ha risposto,
    in un momento televisivamente altissimo di
    reality elettorale. “Anch’io sono impegnata
    – ha ripreso la vedova – ma per lei potrei
    liberarmi”. Sedotto, il candidato del centrodestra,
    non ha pututo far altro che spiegare
    alla signora che si trovava nella stessa situazione
    di altri tre milioni di persone,
    agricoltori, commercianti, artigiani, e vedove.
    E ha annunciato che per aumentare le
    loro pensioni bisognerà, oltre ad aumentare
    l’età pensionabile dai 37 anni e mezzo a
    40 di contributi, riformare il regime pensionistico
    speciale, che consente oggi al settore
    pubblico una sperequazione del 30 per
    cento rispetto al privato. Seguiranno tagli
    alla sanità, responsabilizzazione nelle spese
    mediche, razionalizzazione degli ospedali.
    E ovunque meno funzionari, oggi in tutto
    sono 5 milioni e 200 mila, e meglio retribuiti.
    “Non possiamo aumentare il numero di
    funzionari e ridurre le spese”, ha ammonito
    Sarko, dando l’esca allo sciopero di oggi.
    “Un paese indebitato non è libero”, ma forse
    ancora non vuole ammetterlo.
    Marina Valensise
    .

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