L’ECONOMIA DELLA “RUPTURE”
Sarkozy s’ispira ai successi della nemica Albione
In economia Nicolas Sarkozy non ha pregiudizi.
Liberale, pur di favorire una visione
più aperta alla globalizzazione e alle
sue sfide, è pronto a criticare il modello sociale
francese, denunciandone i limiti, mostrando
gli effetti perversi che produce in
termini di blocco della crescita e paralisi
della produttività. Quando occorre, però, sa
anche essere uno statalista di ferro, pronto
a tutto, persino a entrare senza molte cerimonie
in rotta di collisione con la commissione
di Bruxelles, pur di sostenere l’industria
francese in nome del superiore interesse
nazionale. Di fatto, si considera un
pragmatico. Essendo anche un uomo spiritoso,
e lievemente sardonico, può succedergli
che, per spiegare il suo punto di vista, si
diverta a stracciare gli interlocutori più
ostici con una battuta. Adesso, è vero, non
succede più tanto, perché il candidato presidente
sta attentissimo a schivare le provocazioni,
come si è visto lunedì scorso in tv,
durante il botta e risposta di due ore, seguito
da nove milioni di telespettatori, dove è
riuscito a ostentare calma e cortesia, anche
di fronte alle domande più tignose dei cento
anonimi francesi rappresentantivi dell’intera
popolazione, selezionati dalla Sofres.
Ma è successo appena due anni fa a
New York, durante una conferenza alla Columbia
University, quando Sarkozy, per svicolare
da una domanda insidiosa sul liberale
che cede al colbertista, ha confessato:
“Non è che la sera me ne vado a letto leggendo
Adam Smith o Ricardo, e la mattina
appena mi sveglio mi metto a studiare le
idee di Hayek”.
Era l’ottobre 2004. Sarko, all’epoca ministro
delle Finanze, stava per lasciare Bercy.
Contravvenendo all’“ukase”, come dice lui,
di Jacques Chirac, aveva deciso di presentarsi
alla presidenza del partito e dunque
doveva lasciare il governo. Era stato nominato
alle Finanze in primavera, dopo il rimpasto
del primo governo Raffarin. In tre
mesi mesi era riuscito a sbloccare tre grane:
aveva negoziato un ribasso dei prezzi
coi responsabili della grande distribuzione,
aveva favorito la fusione dei due gruppi farmaceutici
francesi Sanofi-Aventis per evitare
l’Opa ostile da parte del colosso svizzero
Novartis, e aveva scongiurato lo scorporo
e la delocalizzazione del gruppo Alstom,
fiore all’occhiello dell’industria francese
dell’energia e dei trasporti. Tre pietre miliari
nella sarkoletteratura, per il misto di
determinazione, capacità negoziale e volontà
di sfondamento, cementato da una sofisticata
strategia di comunicazione. Lo
stesso Sarkozy oggi ne va fiero, come si
evince dall’ultimo libro, “Témoignage”, tradotto
in italiano da Fabio Torriero con la
prefazione di Gianfranco Fini.
Da ministro delle Finanze, certo, Sarkozy
non aveva alcun potere giuridico di far abbassare
i prezzi, ma con l’appoggio dei consumatori
pensava che non avrebbe trovato
resistenza. E infatti, “minacciando i grandi
gruppi di rivelare in tv le loro pratiche tariffarie,
se non avessero firmato l’accordo,
riuscì a ottenere un calo dei prezzi dei prodotti
di consumo, ben al di là del 2 per cento
previsto”. E’ vero che il risultato, all’epoca
annunciato in pompa magna oggi sembra
controverso, stando alla “biografia imparziale”
di William Emmanuel (“Nicolas
Sarkozy, la fringale du pouvoir”, ed. Flammarion)
che riprede i dati Insee e ridimensiona
il calo dei prezzi al consumo all’1,1
per cento sui tre mesi e allo 0,3 su un anno.
Ma quello che conta è l’idea guida che lo
dettò, riassunta da Sarkozy in un aforisma:
“Non è l’assenza di potere a discreditare la
politica, ma il non esercitare il potere di
cui si dispone”.
A Monti disse: “Vuole il sangue sui muri?”
Altro esempio, il caso Alstom. Azienda
leader nella costruzione di centrali elettriche,
a turbina, e di treni ad alta velocità, il
18 per cento del fatturato mondiale nel trasporto
su ferro, 69 mila addetti di cui 25 mila
in Francia, ma una pessima gestione finaziaria.
Nel 2003 le banche rifiutano di dare
garanzie. Bruxelles, eccezionalmente, autorizza
il governo a entrare nel capitale. Ma i
soldi non bastano. Ci vuole un nuovo piano
di salvataggio. Bruxelles, in nome della libera
concorrenza, preme per una fusione
con Areva, che costruisce reattori nucleari
e storce il naso, mentre il gigante tedesco
Siemens sogna di rilevare parte delle attività.
Sarko è possibilista. Ma un sabato mattina
gli basta convocare a Bercy il presidente
del colosso tedesco, Heinrich von Pierer,
per cambiare idea: “Lei è straordinario”,
pare che gli abbia detto. “Quello che funziona
ve lo prendete voi, e il resto lo lasciate a
noi. O riflette su una soluzione più ambiziosa
e più equilibrata, oppure ci fermiamo
qui”. I tedeschi l’accusano di nazionalismo.
Sarko però continua a mantenere la pressione
sul suo staff. “Non voglio analisi
astratte, ditemi come salvare l’impresa e i
25 mila posti di lavoro”. Seguito da fotografi
e telecamere fa un sopralluogo a Ayrté,
nella Charente, dove si costruisce il Tgv,
contrastando i fischi: “Sto cercando di aiutarvi.
Fischiatemi dopo, se non ci riesco”. E
inizia a negoziare da un lato con le banche,
che riluttano a scucire, dall’altro con Mario
Monti, commissario europeo per il Mercato
interno, che rilutta a trattare. “La sua rigidità
naturale si trovava ad essere rafforzata
dall’onnipotenza della tecnostruttura
bruxellese”, dirà Sarko, che vuole una moratoria
di quattro anni, l’autorizzazione a investire
in nuovi fondi pubblici, ed è disposto
a cedere una parte delle attività che non
superi il 10 per cento del fatturato. Il negoziato
sarà duro, fino allo spasimo, non senza
colpi di scena. “Lei vuole il sangue sui
muri?”, domanda esasperato Sarko al commissario
europeo, che insiste sul principio
della libera concorrenza, anche a costo di
sacrificare il gioiello francese. E Monti, reticente,
s’alza dalla sedia e taglia corto: “Devo
andare, ho un aereo che mi aspetta”. Ma
l’altro, che ha la faccia tosta come il bronzo,
rimane seduto, senza schiodarsi: “Io invece
resto qui e continuo a lavorare col suo
staff”, gli risponde, come se nulla fosse, obbligandolo
a rinviare la partenza. Alla fine,
racconterà il suo collaboratore François Pérol
a Catherine Nay, il ministro riesce a
spuntarla. Propone a Monti un incontro con
la stampa, quando l’accordo non è ancora
concluso, e spiegando ai giornalisti lo stato
del negoziato i due trovano un accordo di
massima. Da allora, il valore in borsa del titolo
Alstom si è moltiplicato per tre, e lo stato
francese ha rivenduto al gruppo Bouygues
per 2 miliardi di euro, quello che venti
mesi prima aveva acquistato per 700.
L’anno dopo – a raccontarlo è il capo dei
servizi politici di France 2, Michaël Darmon,
nel suo ultimo libro (“La vraie nature
de Nicolas Sarkozy”, Editions du Seuil) –
Sarkozy, durante uno degli incontri mensili
dell’Ump sul nuovo modello francese –
vale a dire “lavoro per ciascuno, potere di
acquisto per tutti” – si trova a parlare davanti
a un gruppo di politici e imprenditori,
e se ne esce con una delle sue battute:
“Gli economisti, gli imprenditori, gli esperti,
a volte, mi dicono: ‘Monsieur Sarkozy, il
problema con lei è che non si capisce bene
quale sia la sua visione dell’economia, quali
siano le teorie che la ispirano’. A costo di
deludervi, vi dirò che in effetti io non sono
lo schiavo di una scuola di pensiero”.
Blair “uno dei nostri”
Sicché, fedele alla sua reputazione di uomo
libero, adesso che è in campagna Sarko
ha pensato bene di iniziare il primo viaggio
all’estero da Londra per una visita al leader
laburista Tony Blair. C’era qualcosa di
molto gollista nel suo programma. Londra
infatti per ogni francese – e a maggior ragione
del candidato alle presidenziali del
partito che ne ha raccolto l’eredità – continua
a evocare l’appello alla resistenza lanciato
da Charles de Gaulle, all’epoca sottosegrario
alla Difesa, il 18 giugno 1940, dagli
studi della Bbc, dopo aver appreso che il
maresciallo Philippe Pétain, nuovo capo di
governo, era pronto a firmare l’armistizio.
Una volta sbarcato a Londra, Sarko è voluto
subito andare in pellegrinaggio al Cabinet
War Room, il mitico bunker sotto il Foreign
Office, da dove Winston Churchill dirigeva
il paese credendosi al riparo dai
bombardamenti. Un modo per segnare il
territorio e presentare le sue credenziali
agli inglesi.
Ma la prima tappa della visita a Londra
è stato il Marylebone Job Center, uno degli
84 centri di collocamento per giovani disoccupati
che José Frèche, scrittore al seguito
di Sarkozy incaricato del diario di bordo,
ha descritto come un’agenzia di banca, per
l’atmosfera asettica, i colori aciduli dell’arredamento,
l’aplomb dei frequentatori seguiti
personalmente, caso per caso, e aiutati
da personale specializzato a trovare una
mansione adatta al caso loro. “Gli inglesi,
ha osservato il candidato dell’Ump, vogliono
aiutare la gente, e in questo non c’è nulla
di strano. Solo che in cambio dell’aiuto
elargito dalla collettività esigono un minimo
di impegno da parte di chi lo riceve,
perché si si dia almeno un po’ da fare per
ottenere un lavoro e tenerselo. Il che mi pare
un ottimo ragionamento”. Il risultato dell’albionico
do ut des è che i disoccupati in
Gran Bretagna quasi non esistono. Sono
un’esigua minoranza della popolazione attiva,
pari al 4,5 per cento. Esattamente due
volte di meno che in Francia. Il pieno impiego
dunque è possibile. O almeno lo è in
un paese come l’Inghilterra dove il pil cresce
a un ritmo che oscilla tra il 2,6 e il 3 per
cento l’anno, mentre in Francia, da venticinque
anni, ristagna ormai sotto lo 0,3 per
cento rispetto alla già fiacca media europea,
che è intorno all’1,5 per cento.
Nasce da qui, per Sarkozy, l’idea tutta anglosassone
– contrattualistica e individualistica,
ma con un occhio attento alla psicologia
sociale – di rompere anche in Francia
l’automatismo dello stato assistenziale. Nasce
da qui la proposta di collegare il diritto
all’indennità di disoccupazione al dovere
di trovarsi un lavoro, pena la perdita del
sussidio di Stato dopo due lavori rifiutati.
Insomma, niente reddito minimo garantito
senza in cambio un’attività d’interesse generale.
“Perché il lavoratore che vede l’assistitito
cavarsela meglio di lui per arrivare
a fine mese senza fare niente alla fine si
domanda: a che serve lavorare?” Allora, se
quello che conta è il risultato, e se anche in
Francia il risultato da raggiungere può essere
il pieno impiego, bisogna puntare sul
lavoro, che la destra ha lungo ignorato, e la
sinistra ha finito per tradire. Bisogna amare
e rispettare il lavoro: rivalutarlo, perché
oggi è demoralizzato; ricompensarlo, perché
oggi non paga; metterlo al centro del
programma, farne il cuore pulsante dell’avvenire
sociale. Il pragmatismo paga. E paga
più delle ideologie. Bastava vedere come
Sarko duettava a Downing Street con Blair,
il laburista che nel solco della rivoluzione
liberale di Margaret Thatcher ha portato
gli ingelsi al pieno impiego tirandoli fuori
dalle secche della deindustrializzazione.
“Il pragmatismo di Tony Blair è stato molto
utile al suo paese”, ha ammesso Sarko caracollando
accanto a lui davanti ai fotografi.
Poi ha aggiunto: “I socialisti europei dovrebbero
essere fieri di quel che ha fatto
Blair, uno dei nostri”. Ha detto proprio così
Sarkozy, “uno dei nostri”, cedendo a un
lapsus, subito corretto in “uno dei loro”, ma
quantomai rivelatore.
Liberale Sarkozy, in effetti, non ha niente
del manchesteriano esasperato. Diversamente
da quanto ritiene Ségolène Royal, a
caccia disperata di consensi, o i socialisti,
che l’accusano di consentire ai ricchi di diventare
più ricchi condannando alla precarietà
i poveri lavoratori, Sarko non caldeggia
il bellum omniun contra omnes, ma vuole
ripristinare l’equità, arginare la deriva
dell’eguaglianza e farlo in nome dell’interesse
generale e dell’equilibrio sociale.
Non che sia un clone di Jacques Chirac, come
alcuni ritengono, fuorviati forse dall’affinità
tra la la “rupture” e la “fracture sociale”
con cui Chirac nel 1995 vinse le elezioni
contro il liberale Edouard Balladur, inizialmente
favorito dai sondaggi. No. Sarko non
è un radicale. A differenza di Chirac, non è
un uomo di destra che insegue per legittimarsi
le idee della sinistra. E’ uno che si è
messo in testa di togliere alla destra i suoi
complessi. Il politico sincretista che, come
ha spiegato René Remond, e come riporta
l’ex giornalista di Libération Eric Dupin (“A
droite toute”, Fayard), ha cercato di rinconciliare
le tre anime della destra francese –
la legittimista, la bonpartista e l’orleanista
– neutralizzandone le ossessioni antirivoluzionaria,
autoritaria e liberista. E’ per questo
che, in nome della destra repubblicana,
per rilanciare la crescita e il potere di acquisto,
punta senza complessi sul lavoro,
strappandone il monopolio alla sinistra e al
sindacato. La scelta – Sarko lo sa bene – presuppone
una rivoluzione mentale. Bisogna
liberare le teste prima del lavoro. Smettere
di pensare al lavoro in termini di alienazione,
come per anni hanno fatto i marxisti, e
considerarlo invece vettore di emancipazione,
sinonimo di libertà, premessa alla proprietà
e alla sicurezza. Compensarlo e tutelarlo,
con crediti d’imposta per chi reinveste
gli utili di impresa, garanzia di stato sui
mutui immobiliari ai non abbienti, niente
tasse di successione sui frutti di una vita di
lavoro, e un tetto fiscale al massimo al 50
per cento del reddito. Ma per premiare il lavoro
bisonga innanzitutto rinunciare al dogma
ideologico e all’illusione postsessantottina,
della fine del lavoro, alimentata da teorici
come Jeremy Rifkin, e pensare in modo
nuovo la realtà: “A Charleville-Mézières –
ha detto Sarkozy che si diverte come un
bambino quando si tratta di visitare una
fabbrica – ho incontrato un operaio di fonderia
che dopo 36 anni guadagna 1.250 euro
al mese. A che serve ridurre il tempo di lavoro
a 35 ore, se non hai i soldi per fare un
week-end, o per portare i figli in vacanza?”.
Dal dire al fare il passo non è impervio e
tocca le 35 ore “l’unica invenzione francese
per la quale non serve un brevetto, perché
nessuno finora l’ha imitata”, ha ricordato a
Londra Sarkozy, parlando davanti a migliaia
di giovani francesi espatriati negli ultimi
anni, in tutto circa 300 mila, per effetto
della strana legge socialista che pensava
di moltiplicare il lavoro dividendolo. Non
potendo abrogare le 35 ore, promesse dai
socialisti nel 1997 come misura elettorale a
forte impatto in quanto irrealizzabile, ma
trasformata in legge dopo la vittoria alle legislative,
varata nel 1999 da Martine Aubry
e imposta a tutto il settore pubblico come
una conquista sociale irrinunciabile, l’unica
contromisura è di aggirarle. Come? Permettendo
di guadagnare di più a chi vuole
lavorare di più, rendendo non imponibili le
ore supplementari.
La valorizzazione del lavoro
La proposta è l’uovo di Colombo in un
paese in cui il numero di ore lavorate per
anno e per abitante (611 nel 2002) è diminuito
dal 1970 del 23 per cento, e oggi è sotto
la media europea (691) ed è il più basso
dell’Ocse (808). A lanciare la proposta è stato
nel 2003 Michel Godet. Economista eclettico,
ex contestatore, oggi autore di un libro
molto saccheggiato – “Le courage du bon
sens” (ed. Odile Jacob). Godet ha scoperto
la passione per il “black”, anglicismo invalso
al posto di “noir” per evitare l’accusa di
razzismo, nei piastrellisti disposti a lavorare
pure il sabato, purché rigorosamente in
nero. Ripresa da Hervé Novelli, è finita nel
programma di Sarkozy, che all’esenzione fiscale
per il lavoratore ha aggiunto ora anche
lo sgravio degli oneri sociali per il datore
di lavoro. “Con 45 minuti al giorno di
lavoro in più, un operaio allo smic (salario
minimo garantito di 1.250 euro che in Francia
è quanto percepisce la metà della popolazione,
ndr) – ha spiegato Sarko – otterrebbe
in busta paga un aumento netto del 15
per cento”. Lavorare di più per guadagnare
di più, dunque, servirà nell’ottica liberale
di Sarko a rafforzare il potere di acquisto
dei francesi, a rilanciare i consumi, e ad
aumentare la produttività e contenere inoltre
la spesa pubblica: “E’ assurdo pagare 17
miliardi di euro l’anno per finanziare le 35
ore, e altri cinque per finanziare le pensioni
anticipate – ha spiegato Sarkozy lunedì
sera – se c’è gente disposta a lavorare di più
per guadagnare di più, e a integrare la pensione
lavorando a tempo parziale”.
Infatti, controllare la spesa pubblica è
diventato un imperativo a fronte di un debito
pubblico quintuplicatosi negli ultimi
25 anni, passando da un quinto a due terzi
del pil, sino a superare oggi i 1.100 miliardi
di euro. Per rimborsare i soli interessi oggi
hanno calcolato che serve una somma pari
alla totalità dell’Iperf prodotto nel 2005. Ed
è un imperativo soprattutto davanti alla
perdita del vantaggio demografico in atto,
con la crescita sotto il 2 per cento, e l’invecchiamento
della popolazione in corso. Se
nulla cambia – avvertono Michel Pébereau
e Bernard Spitz nella loro “Lettre ouverte
à notre prochain(e) président(e)” (ed. Robert
Laffont) – il debito pubblico francese
raggiungerà nel 2014 il 100 per cento del
pil. Da qui l’urgenza della riforma delle
pensioni, altro cavallo di battaglia di Sarko.
Lunedì sera, una simpatica vedova rotondetta
con i capelli ossigenati l’ha provocato:
“Ho una pensione di 790 euro al mese.
Vorrebbe venire a condividerla con me?”.
Sarko, molto galante, è stato al gioco: “Se è
per affetto, potremmo anche provare, anche
se sono già impegnato…”, ha risposto,
in un momento televisivamente altissimo di
reality elettorale. “Anch’io sono impegnata
– ha ripreso la vedova – ma per lei potrei
liberarmi”. Sedotto, il candidato del centrodestra,
non ha pututo far altro che spiegare
alla signora che si trovava nella stessa situazione
di altri tre milioni di persone,
agricoltori, commercianti, artigiani, e vedove.
E ha annunciato che per aumentare le
loro pensioni bisognerà, oltre ad aumentare
l’età pensionabile dai 37 anni e mezzo a
40 di contributi, riformare il regime pensionistico
speciale, che consente oggi al settore
pubblico una sperequazione del 30 per
cento rispetto al privato. Seguiranno tagli
alla sanità, responsabilizzazione nelle spese
mediche, razionalizzazione degli ospedali.
E ovunque meno funzionari, oggi in tutto
sono 5 milioni e 200 mila, e meglio retribuiti.
“Non possiamo aumentare il numero di
funzionari e ridurre le spese”, ha ammonito
Sarko, dando l’esca allo sciopero di oggi.
“Un paese indebitato non è libero”, ma forse
ancora non vuole ammetterlo.
Marina Valensise
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A fool and his money can throw one hell of a party.