"Luci ed ombre di Google" - Feltrinelli

Introduzione

Google è il motore di ricerca più noto e utilizzato di internet tanto da essersi affermato, negli ultimi anni, come il principale punto di accesso alla Rete. I navigatori hanno imparato ad adattarsi alla sua interfaccia sobria e rassicurante e alle inserzioni pubblicitarie defilate e onnipresenti, hanno cominciato a usufruire dei suoi comodi servizi, e l’abitudine al suo uso si è trasformata in comportamento: “Se non lo sai, chiedilo a Google”. Ci si collega a Google anche quando si potrebbe ricorrere al post-it appiccicato al frigorifero, consultare l’agenda, guardare le Pagine gialle, o sfogliare la collezione di Garzantine che s’impolvera sugli scaffali, insieme alle altre pesanti enciclopedie cartacee.
Google ha saputo sfruttare in modo magistrale il nostro bisogno di semplicità; la sua aspirazione è essere il motore di ricerca perfetto, in grado di capire esattamente le richieste degli utenti e restituire, in un batter d’occhio, esattamente ciò che essi desiderano. Le candide interfacce, ormai personalizzabili direttamente sul web e tuttavia implacabilmente riconoscibili per il loro stile minimale, sono la via di fuga quotidiana dalla claustrofobia delle scrivanie digitali di un numero impressionante di utenti, in costante aumento. Sono una boccata d’aria, finestre privilegiate, spalancate sull’affascinante mondo della Rete. Quante persone hanno Google come pagina iniziale del proprio browser? Eppure dietro una tale semplicità e facilità d’uso si cela un colosso, un sistema complesso e pervasivo per la gestione delle conoscenze del mare magnum della Rete. Google offre decine di servizi gratuiti, tesi a soddisfare ogni desiderio di ricerca e comunicazione: e-mail, chat, newsgroup, sistemi di indicizzazione dei file sul proprio computer, archivi di immagini, video, libri e molto altro ancora. Perché? Cosa ci guadagna? Criticare Google attraverso una disamina della sua storia e la decostruzione degli oggetti matematici che lo compongono è un’occasione per disvelare una precisa strategia di dominio culturale. Questa indagine desidera fornire un metodo di analisi più generale, utile alla scoperta dei retroscena di molti fra gli applicativi che ci siamo abituati a utilizzare.
Il volume si apre con una breve panoramica sulla storia dei motori di ricerca, per passare poi in rassegna i momenti più significativi dell’ascesa di Google. Sopravvissuta senza danni allo scoppio della bolla della new economy, l’impresa californiana ha intrecciato solidi rapporti con diverse multinazionali dell’Information Technology (IT). La continua espansione delle sue attività in ogni settore delle comunicazioni digitali sta diffondendo uno stile inconfondibile e modellando un intero universo culturale, quello del web.
Don’t be evil, Non essere cattivo, è il motto di Sergey Brin e Larry Page, i due fondatori di Google. Gli ex studenti di Stanford, grazie a un’oculata gestione della propria immagine, hanno creato un “gigante buono”, impaziente di archiviare le nostre “intenzioni di ricerca” nei suoi sterminati database. L’alter ego digitale di milioni di utenti sembra essere in buone mani, affidato al datacenter principale di Mountain View, California, noto come Googleplex. Qui, come negli altri centri di archiviazione dati di Google – che spuntano come funghi in tutto il mondo – si mettono a punto vere e proprie armi per combattere la guerra per il controllo delle reti. In primo luogo, si diffonde la pratica del capitalismo morbido dell’abbondanza: si tratta di una strategia di controllo biopolitico in senso stretto, che propina ambienti di lavoro confortevoli, pacche sulle spalle e gratificazioni ai dipendenti. Gli impiegati, lusingati e soddisfatti, sono contenti di farsi sfruttare e diventano i maggiori sostenitori dell’azienda, fieri di propagandare un’immagine vincente e “buona”.
Gli obiettivi e i metodi di Google sono positivi per tutti: la filosofia aziendale, basata sull’eccellenza di stampo accademico e l’impegno per l’innovazione e la ricerca, è esposta in dieci rapide verità sul sito stesso del motore di ricerca. Questi “dieci comandamenti” costituiscono una sorta di buona novella dell’era informatica, il Google-pensiero, propagato con l’aiuto di veri e propri “evangelizzatori” (evangelists), personalità di spicco del mondo informatico. Ultima, ma non meno importante, arma è la cooptazione dei metodi di sviluppo cooperativo tipici dell’open source e l’uso di software liberi, non protetti da copyright o brevetti, come base per i loro prodotti. In questo modo Google abbatte i costi per l’implementazione dei propri servizi, si assicura l’appoggio di tecnici, “smanettoni” e hacker di ogni tipo e si spaccia per sostenitore della causa della libera circolazione dei saperi, poiché l’uso del motore di ricerca sembra offrire il miglior accesso gratuito alla Rete.
Ma il sogno di Brin e Page di “Google contenitore di tutta internet”, coltivato fin dai tempi dell’università, è solo un’idea demagogica, tesa ad affermare un culto quasi positivistico dell’oggettività scientifica: nel caos della Rete solo una tecnica superiore può farsi garante della trasparenza dei processi, della correttezza delle risposte, perfino della democrazia.
Google, infatti, dichiara di essere uno strumento “democratico”, basato sul presunto carattere “democratico” del web. Il suo algoritmo di indicizzazione della Rete, PageRank(™), si occupa di copiare i dati digitali nei datacenter, sfruttando i collegamenti associati a ogni singola pagina per determinarne il valore. In pratica, Google interpreta un collegamento dalla pagina A alla pagina B come un voto espresso dalla prima in merito alla seconda. Ma non si limita a calcolare il numero di voti, o collegamenti, bensì esamina la pagina stessa che ha assegnato il voto. Se una pagina è “importante”, i suoi voti hanno maggiore rilevanza e, quindi, contribuiscono anche ad aumentare il “valore” delle pagine collegate. Il PageRank(™) attribuisce ai siti di alta qualità un voto più elevato, utilizzando filtri e criteri non pubblici, di cui Google tiene conto ogni volta che esegue una ricerca. La “democrazia” di Google, perciò, è una democrazia filtrata dalla tecnologia, poiché ordina la Rete in base al numero di voti ricevuti da ogni pagina e al loro valore.
Vi sono alcuni segreti attorno al colosso di Mountain View, molti dei quali, come vedrete, sono segreti di Pulcinella. L’alone di leggenda che circonda la tecnologia googoliana è dovuto in gran parte alla mancanza di un’istruzione di base, di rudimenti pratici per affrontare culturalmente l’onda lunga della rivoluzione tecnologica. Per esempio, la straordinaria rapidità dei risultati di ricerca è frutto di un’accurata selezione niente affatto trasparente. Infatti, come potrebbero milioni di utenti sfogliare contemporaneamente, in ogni istante, l’intera base di dati di Google se non ci fossero opportuni filtri per restringere l’ambito della ricerca, per esempio limitandolo ai dati nella lingua degli utenti? E se esistono filtri creati per garantire una migliore navigazione linguistica, non è lecito supporre che ne esistano molti altri, studiati per indirizzare anche le scelte dei navigatori? Il prodigio di Google è in realtà una tecnologia opaca e secretata dal copyright e da accordi di non divulgazione dei suoi ritrovati. La ricerca non è trasparente né democratica come si proclama: non potrebbe esserlo sia per motivi tecnici, sia per motivi economici.
Il campo bianco di Google in cui si inseriscono le parole chiave per le ricerche è una porta stretta, un filtro niente affatto trasparente, che controlla e indirizza l’accesso alle informazioni. In quanto mediatore informazionale, un semplice motore di ricerca si fa strumento per la gestione del sapere e si trova quindi in grado di esercitare un potere enorme, diventando un’autorità assoluta in un mondo chiuso. Il modello culturale di Google è dunque espressione diretta di un dominio tecnocratico.
Con questo volume Ippolita intende mettere in evidenza il problema, o meglio l’urgenza sociale di alfabetizzazione e orientamento critico del grande pubblico attorno al tema della gestione delle conoscenze (knowledges management). Internet offre agli utenti straordinarie opportunità di autoformazione, tanto da surclassare persino le università, soprattutto in ambiti quali la comunicazione e l’ingegneria informatica. Il movimento del free software, come Ippolita ha mostrato nei suoi precedenti lavori, è l’esempio più lampante della necessità di autoformazione continua e della possibilità di autogestione degli strumenti digitali.
Questa medaglia, però, ha un rovescio doppiamente negativo: da una parte svilisce la formazione umanistica, che nella Rete ha ancora pochi punti di riferimento, per giunta organizzati male; dall’altra provoca il sostanziale collasso cognitivo dell’utente medio. Disorientato dalla ridondanza dei dati disponibili in Rete, il navigatore comune si affida ai punti di riferimento di maggiore visibilità – di cui Google è solo l’esempio più eclatante – senza domandarsi cosa avvenga dietro le quinte; inserisce i propri dati con leggerezza, conquistato dall’utilizzo di servizi decisamente efficaci e, com’è ancora uso in buona parte della Rete, gratuiti.
Ippolita cerca di segnalare il vuoto, tutto italiano, nella divulgazione scientifica dei fenomeni tecnologici da cui è investita la società intera. La manualistica tecnica abbonda, la sociologia parla con disinvoltura di “società in Rete”, la politica si spinge fino a immaginare una futuribile open society, nella quale le reti saranno il sostrato tecnologico della democrazia globale.
Ma quanti navigatori assidui sanno cos’è un algoritmo? Ben pochi, eppure moltissimi si affidano al responso di PageRank(™), un algoritmo appunto, che seleziona i risultati delle loro interrogazioni e indirizza la loro esperienza in Rete. Bisogna avere il coraggio di riportare in primo piano la divulgazione scientifica, senza chiudersi nella torre d’avorio del sapere accademico. Bisogna parlare di macroeconomia senza essere economisti, di infomediazione senza essere esperti di comunicazione, di autoformazione senza essere educatori, di autogestione degli strumenti digitali senza essere politicanti. Bisogna provocare dibattiti insistendo su concetti di base come “algoritmo”, “dati sensibili”, “privacy”, “verità scientifica”, “reti di comunicazione”, troppo spesso discussi da authority e garanti che non possono garantire proprio nulla.
L’abitudine alla delega provoca un disinteresse generale verso i grandi mutamenti in corso nel nostro mondo tecnologico, che avvengono in sordina o coperti dal fumo mediatico, senza essere stati minimamente assimilati dal grande pubblico.
L’atteggiamento più comune oscilla fra l’incantata meraviglia e la frustrazione nei confronti dei continui, incomprensibili “miracoli della tecnologia”; si giunge spesso all’adorazione mistica, come se il digitale ricoprisse il mondo di un’aura esoterica, penetrabile solo da pochi iniziati, coniugata alla frustrazione per la propria incapacità di officiare adeguatamente il culto del nuovo progresso.
Il gruppo di ricerca Ippolita si riunisce proprio attorno alla convinzione che, attraverso lo scambio e il dialogo tra competenze e linguaggi diversi, si possa trasformare la cosiddetta “rivoluzione digitale” in una materia utile per comprendere la contemporaneità, le sue anomalie e probabilmente anche il tempo a venire. La ricerca scientifica, la tradizione umanistica, le passioni politiche, il metodo femminista sono altrettanti linguaggi da usare in questa esplorazione.
L’attività di Ippolita rivela che “mettere in comune” non basta, perché il livello di riflessione sulle tecnologie è ancora limitato e la cassetta degli attrezzi degli utenti ancora troppo rozza. È necessario assumere un’attitudine critica e curiosa, sviluppare competenze a livello soprattutto individuale, capire in quali modi si può interagire nei mondi digitali, mettere a punto strumenti adeguati ai propri obiettivi. La sfida è quella di moltiplicare gli spazi e le occasioni di autonomia senza cedere a facili entusiasmi, senza soccombere alla paranoia del controllo. Just for fun. La pratica comunitaria non è una ricetta capace di trasformare per incanto ogni novità tecnologica in bene collettivo, non è sufficiente a scongiurare il dominio tecnocratico in nome di una grande democrazia elettronica. Si tratta di una visione fideistica del progresso, dimentica del valore delle scelte individuali. La sinergia fra i soggetti sulle reti, mondi vivi e in perenne mutazione, non è una banale somma delle parti in gioco, richiede passione, fiducia, creatività e una continua negoziazione di strumenti, metodi e obiettivi.
Vincolare gli elementi più strettamente tecnici alle loro ricadute sociali è sicuramente il primo passaggio da compiere, e anche il più arduo. Per questa ragione il testo che avete fra le mani è integralmente scaricabile sotto una licenza di tipo copyleft.
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