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Discussione: destra Vs sinistra

  1. #21
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    Caro Giàn, con gli sbarramenti che ci prospettano sarà dura...
    E con l' ennesimo referendum truffa di mariotto Segni ancora peggio.
    Dobbiamo insegnare alla gente che il problema non è la frammentazione dei partiti. Fino a quando non riusciremo a sfatare questo triste luogo comune non avremo nessun futuro neanche nelle nostre regioni.
    Io sono per separare gli organi legislativi (eletti con proporzionale puro) da quelli esecutivi 8che possono anche avere i famosi premi di maggioranza).
    Fino a quando non si capisce questo continuerà la farsa di dx e sx

  2. #22
    Pensiero Libero
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    Ma, prima o dopo elezioni, tutti parlano di andare da soli per rimanere puliti e sono d'accordo anch'io, salvo poi criticare quei partiti che vanno soli perchè non ottengono risultati sperati...

  3. #23
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  4. #24
    giovanni.fgf
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    Predefinito 14 luglio 1948: la morte della sinistra

    di Andrea Grillo

    Mercoledì 14 luglio 1948: a Montecitorio è in corso una discussione di scarsa rilevanza politica, e pochi deputati sono presenti in aula. Verso le 11,30 il leader del PCI Palmiro Togliatti, accompagnato da Nilde Jotti, si avvia all'uscita secondaria che sbocca in Via della Missione, dove un giovane vestito di blu li osserva in disparte. E' uno studente siciliano venticinquenne, Antonio Pallante: poco dopo raggiunge correndo i due parlamentari e spara contro Togliatti quattro colpi calibro 38, colpendolo alla nuca, alla schiena e al costato.
    La notizia dell'attentato si diffonde in tutto il Paese con il giornale radio delle 13, e ovunque la reazione dei lavoratori è immediata: scioperi spontanei, occupazioni delle fabbriche, cortei, scontri con le forze dell'ordine, assalti alle prefetture, alle questure e alle sedi dei partiti di governo. L'attentato è la goccia che ha fatto traboccare il vaso: poco prima la sinistra ha subito la pesantissima sconfitta elettorale del 18 aprile `48, quando la DC ha raggiunto il 48,5% dei voti e conquistato la maggioranza assoluta dei seggi. Il senatore Alberganti a Milano proclama: "Il 18 aprile ci siamo contati, oggi ci pesiamo". La CGIL prende atto della situazione dichiarando ufficialmente lo sciopero generale a partire dalla mezzanotte del 14 luglio, mentre la Direzione del PCI emette un comunicato dove si chiedono le dimissioni del governo "della discordia e della fame, del governo della guerra civile". La situazione è tesissima: a Genova 50mila operai ed ex partigiani si riversano per le strade, innalzando barricate, saldando sui binari le vetture del tram, piazzando mitragliatrici sui tetti. Il Prefetto invia al Ministro dell'Interno Scelba un telegramma dove comunica che i dirigenti dei partiti di sinistra, pur avendo garantito di non voler uscire dai binari della legalità, non apparivano in grado di controllare la situazione. A Livorno un poliziotto e un operaio muoiono nel corso degli scontri, ad Abbadia San Salvatore, sul Monte Amiata, viene tagliato il cavo che permette i collegamenti telefonici tra il nord e il sud del Paese. Due agenti vengono uccisi, molti dimostranti si danno alla macchia e i rastrellamenti di polizia dureranno mesi. Le masse popolari sperano che sia giunto il momento per quell'insurrezione che potrebbe finalmente realizzare le speranze di cambiamento suscitate dalla Resistenza e successivamente frustrate; ma gli esponenti del PCI inviati in "periferia" non danno spazio a illusioni: il loro ruolo è quello di evitare pericolosi avventurismi, e di chiarire che "oltre" non si può andare. A Livorno la sera del 14 luglio arriva Ilio Barontini, leggendario comandante partigiano, parlamentare e segretario della Federazione livornese del PCI: "O cosa volevate fare, la rivoluzione?" ironizza. Gli operai del Cantiere Navale gli mostrano un blindato da loro costruito con i materiali trovati sul posto. "Bravi, bravi" dice Barontini "Quanto ci avete messo a farlo? Quattr'ore? Ora in quattr'ore lo dovete risfà". Episodi del genere accadono in tutta Italia. A Milano un aderente alla Volante Rossa racconta: "Siamo partiti per attaccare una base dei carabinieri, la più organizzata, quella in cui c'erano tutti i mezzi corazzati. Siamo arrivati al campo Giuriati, e a quel punto abbiamo incrociato la macchina del compagno che teneva i collegamenti tra noi e la Federazione, il quale ci ha bloccati con i nostri Panzerfaust e ci ha detto che non era il momento, di rientrare. Se arrivava cinque minuti dopo Milano era un fuoco solo".
    Il 16 luglio, alle ore 12, lo sciopero generale termina; si registrano sedici morti e alcune centinaia di feriti; entro la metà di agosto verranno eseguiti 7mila tra arresti e denunce, e i susseguenti procedimenti si protrarranno per tutta la prima metà degli anni `50. Anche nelle realtà "rosse" si vive in un clima pesantemente repressivo. Sergio Manetti, dirigente sindacale livornese scomparso proprio in questi giorni, ricordava: "La polizia cominciò delle persecuzioni, levarono tutti i distacchi delle commissioni interne, le direzioni non vollero più fare le trattenute sindacali, se avevi il giornale in tasca te lo facevano posare, non potevi raccogliere i contributi per il sindacato, non potevi distribuire la stampa [...] Ma si arrivava a cose assurde, cretine. Non potevamo fare i comizi in piazza, la polizia non ci autorizzava. Potevamo parlare in piazza solo durante la campagna elettorale, poi non potevamo fare né comizi né manifestazioni. E ogni volta che c'era una manifestazione c'era il carosello, la polizia caricava, quindi arresti ecc.. Questo cominciò negli anni `49-'50 e durò dieci anni, fino al `60. Nella nostra provincia abbiamo avuto circa 150 attivisti sindacali denunciati per rappresaglia".
    Il bilancio di un biennio di repressione poliziesca verrà tracciato in Senato da Pietro Secchia nell'ottobre del `51: 62 lavoratori uccisi, più di 3.000 feriti, più di 90.000 arrestati e quasi 20.000 condanne, per 7.598 anni di carcere complessivi.
    Nelle situazioni "calde" come Livorno vengono mandati funzionari particolarmente zelanti. Nella memoria dei militanti livornesi rimane ben impresso un nome in particolare, quello del questore Marzano. Ervé Pacini, nel `48 vicesegretario della Federazione del PCI, ricordava: "L'epoca di Marzano è stata dura per noi. Marzano lo mandarono proprio a seguito di questa faccenda qui. Rese la vita difficile a tutti. L'azione discriminatoria di Marzano dette il colpo di grazia alle libertà democratiche a Livorno, anche se apparentemente non sembrava. Mandava a chiamare 20-30 persone al giorno, e le minacciava, e se non strappavano la tessera del PCI in sua presenza il loro mestiere non lo facevano più. Dai passaporti al porto d'armi alle licenze commerciali...".
    La repressione antioperaia, i fantasiosi piani "K" di cui parlano i giornali, il clima tetro e pesante degli anni `50... tutto sembra rispondere a un progetto preciso, come se si fosse voluto provocare una violenta reazione della base operaia e dei militanti della sinistra per saggiarne la pericolosità, individuare le avanguardie, aggiornare le proprie strategie, ridislocare le proprie forze (è a quell'epoca ad esempio che Livorno diventa la sede della Brigata Paracadutisti Folgore...); e recenti rivelazioni, come quelle su "Gladio", rafforzarebbero le ipotesi più "dietrologiche". Probabilmente non si saprà mai con certezza se l'attentato fu solo il gesto di un esaltato, come sembra, o se fu uno dei primi episodi della "strategia della tensione". Alcune circostanze fanno pensare: il Pallante viene dalla Sicilia, che fin dall'epoca dello sbarco alleato è al centro degli intrighi che vedono coinvolti mafia e servizi segreti italo-americani. Basta ricordare la singolare storia dell'EVIS, l'esercito indipendentista siciliano; e la strategia della tensione era stata inaugurata proprio qui, appena un anno prima, quando il bandito Giuliano aveva sparato sui lavoratori riunitisi a Portella delle Ginestre per festeggiare il 1deg. maggio uccidendo dieci persone e ferendone alcune decine. La possibilità di una provocazione organizzata fu vagliata da "L'Unità" in un inchiesta del giornalista Alberto Jacoviello e pubblicata due settimane dopo l'attentato, dalla quale però non emerse alcun elemento decisivo.
    Il PCI è stato oggetto, a proposito degli avvenimenti di quei giorni, di due critiche opposte: l'una, proveniente "da destra", consiste nell'accusa di aver tentato di mettere in atto, prendendo a pretesto l'attentato a Togliatti, un piano insurrezionale definito nella polemica giornalistica "piano K". L'altra, mossa da "sinistra", e soprattutto dai gruppi extraparlamentari nel corso degli anni `70, considera il 14 luglio come "un'occasione perduta" sostenendo che il vertice del partito non seppe cogliere le aspirazioni e le potenzialità rivoluzionarie manifestate dalle masse popolari. Per quanto riguarda la prima questione, va sottolineato che dalle cronache di quei fatti emerge soprattutto la spontaneità e la disorganizzazione dei moti popolari. I momenti più carichi di tensione sono quelli immediatamente successivi all'attentato, quando ancora i dirigenti sindacali e politici sono in preda al disorientamento e non sono in grado di imporre direttive di alcun genere. Ed è altrettanto indubbio che, non appena questi si muovono, si adoperano per la "pacificazione". L'ipotesi del piano "K" dunque non sta in piedi: si dovrebbe pensare altrimenti che per una strana forma di pazzia i suoi stessi promotori, una volta scattata l'ora prefissata, avrebbero rinunciato a metterlo in atto.
    Lo stesso Scelba chiarirà anni dopo questo aspetto: "Allontanai, con buonuscite o con trasferimenti nelle isole, per tutto il 1947, gli ottomila comunisti infiltratisi nella polizia... Si diceva che i comunisti avessero un piano insurrezionale, il famoso piano "K", che sarebbe scattato nell'autunno del 1947 dopo la partenza degli americani. Ed io, che a quel piano non ho mai creduto, mi comportai come se effettivamente ci fosse".
    Per quanto riguarda la seconda accusa, quella cioè di essersi lasciati sfuggire un'occasione irripetibile per innescare un processo rivoluzionario, credo che alla luce delle attuali cognizioni storiche si possa dire tout court che in quel momento un'insurrezione non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo. E' nota la definizione delle sfere d'influenza tra sovietici e anglo-americani uscita da Yalta, e quanto stava avvenendo in Grecia, dove proprio in quegli anni un tentativo insurrezionale promosso dalla sinistra veniva represso in uno spaventoso bagno di sangue (50mila morti), era un esempio chiaro di questa spartizione. Ed è indicativo l'atteggiamento di Stalin di fronte alla guerra civile greca: Stalin, in un colloquio con i dirigenti jugoslavi, sbottò: "Non hanno alcuna possibilità di successo. Pensate che gli Stati Uniti permetteranno l'interruzione delle loro linee di comunicazione nel Mediterraneo? E' assurdo! La sollevazione in Grecia dev'essere fermata, e il più presto possibile".
    Queste condizioni sfavorevoli però non assolvono affatto il ceto dirigente del PCI da una serie di gravi responsabilità che portano dalle grandi aspettative suscitate dalla Liberazione alle sconfitte del 18 aprile e del 14 luglio, e al lungo silenzio degli anni `50. Rileva giustamente Mammarella: "In una prospettiva a lunga scadenza le conseguenze dell'insurrezione rientrata furono di grandissima importanza per il futuro del Partito Comunista. Il rifiuto dei suoi dirigenti di trasformare in rivolta armata lo spontaneo movimento di piazza provocato dal gesto dell'attentatore rivelava alle masse e agli avversari politici la patente contraddizione tra il linguaggio massimalista usato per tenere viva la combattività delle masse e la reale volontà di azione rivoluzionaria. Così la sconfitta elettorale del 18 aprile, che aveva dimostrato l'impossibilità di una conquista democratica della maggioranza, e il chiaro rifiuto del metodo rivoluzionario concorrevano a precludere al comunismo italiano la prospettiva di una conquista del potere, almeno per il futuro prevedibile, e lo lasciavano senza alternative valide".
    Il fatto è che alla presenza di un quadro internazionale piuttosto buio si aggiunge un atteggiamento liquidatorio del patrimonio ideale della Resistenza e del movimento operaio da parte del vertice del PCI: Togliatti è innanzitutto il protagonista, quale ex Ministro della Giustizia, del fallimento dell'epurazione: e quanto questo fallimento abbia pesato anche in occasione dei fatti del 14 luglio è cosa nota Scrive Cesare Bermani: "Il dispositivo di polizia per tutti gli anni `50 è interamente nelle mani di funzionari di provenienza fascista. Dei 64 prefetti non di primo grado e 241 prefetti, soltanto 2 prefetti di primo grado non hanno fatto parte dell'ingranaggio fascista. Dei 135 questori e 139 vicequestori, che hanno tutti iniziato la loro carriera con il fascismo, solo 5 vicequestori hanno avuto rapporti con la Resistenza. La continuità del ceto che esercita le funzioni repressive dello Stato, quindi, non potrebbe essere più netta". Già Ferruccio Parri, una volta eletto Presidente del Consiglio il 20/6/1945, ebbe a decrivere così l'ambiente ministeriale: "Sentivo di essere circondato da una spessa cortina di incomprensione e di diffidenza. I funzionari, come d'altra parte la magistratura, mi guardavano con sospetto. [...] L'Italia era rimasta, in larga parte, lo stesso Paese fascista dei venti anni precedenti". Dal canto loro le commissioni giudicanti, rileva Gambino, agivano con molta larghezza essendo composte quasi interamente da ex fascisti. Con l'amnistia del `46 si dette poi il colpo definitivo all'epurazione: "Si trattava prima di tutto di staccare il Paese e alcune autorità di esso da quell'atmosfera di lotta, anzi di guerra civile, cui erano ancora in gran parte ispirati i giudizi che venivano pronunciati in quel tempo" spiegò poi Togliatti. Grazie all'amnistia non vennero più considerate "sevizie particolarmente efferate" lo stupro, le percosse ai genitali, l'aver appeso il torturato per i i piedi. Ad appena un anno e mezzo dalla Liberazione si assiste alla nascita del MSI, mentre in tutta Italia si moltiplicano provocazioni e attentati di stampo fascista.
    Un altro aspetto sconcertante è l'incredibile accondiscendenza di PCI e CGIL verso la politica economica antipopolare di De Gasperi, almeno a partire dalla cacciata delle sinistre dal governo nel maggio 1947, quando vengono aumentate le tariffe del gas, delle poste, delle ferrovie e dell'elettricità, si abolisce il prezzo politico del pane e si dà il via libera ai licenziamenti: nel periodo gennaio-maggio 1948 i disoccupati aumentano quasi di mezzo milione. Ma, scrive Foa, "tutto venne convogliato sul binario delle elezioni politiche: le conferenze economiche del gennaio `48 del partito comunista e del Fronte Popolare già erano tutte protese a sostituire la lotta di fabbrica con l'agitazione e la propaganda elettorale". E questo pur sapendo che le elezioni avrebbero avuto un esito scontato, se è vero che Togliatti, dopo la batosta del 18 aprile, ebbe a dichiarare: "Erano i risultati migliori che potevamo ottenere, va bene così".
    Come si può spiegare questa moderazione apparentemente suicida del vertice del PCI? Certamente alla base di scelte così infauste c'è innanzi tutto la consapevolezza di vivere in un Paese a sovranità limitata: il PCI, negli anni di cui ci stiamo occupando, non si prepara a "prendere il potere" né per la via democratico-parlamentare né per quella insurrezionale; c'è un unico modo per la burocrazia del partito di influenzare in modo decisivo il quadro politico italiano: proporsi come l'unica forza in grado di garantire la governabilità, e conquistare un riconoscimento del proprio ruolo di opposizione democratica nel nuovo assetto istituzionale uscito dalla Resistenza.
    Scrive Primo Moroni: "Nel caso Italia l'invenzione della tradizione che ha dominato l'orizzonte storico-culturale del dopoguerra riguarda senza dubbio la vicenda relativa alla "vittoriosa resistenza partigiana contro l'occupazione nazista e il governo fascista". Invenzione della tradizione tanto più originale in quanto condivisa sia dalle forze di governo [...] che dall'opposizione. Per molti anni infatti la chiave di lettura che definiva la Resistenza come secondo Risorgimento, e non già -come in effetti si trattò- guerra civile ha accomunato nella difesa di questa griglia interpretativa sia gli storici dell'ufficialità comunista che quelli di parte democristiana o laica. Alla base di questa specularità strumentale e menzognera coesistevano sia la necessità di parte comunista di legittimarsi all'interno del nuovo assetto democratico, sia quella democristiana di ribadire il ruolo occidentale e atlantista del Paese Italia. [...] Resta il fatto che intere generazioni di comunisti hanno lottato per realizzare la cosiddetta "Costituzione nata dalla Resistenza" (che com'è noto non è stata mai attuata, che non poteva essere applicata e proprio per questo oggi la si vuole radicalmente cambiare); che intere generazioni di comunisti hanno creduto veramente all'esistenza della doppia linea togliattiana"
    Alla base del partito viene fatto credere che il moderatismo ostentato abbia soltanto un carattere tattico, sia insomma solo una maschera per ingannare l'avversario e consentire, una volta giunto il momento propizio, una più facile conquista del potere. Quanto sia stata forte nella base del PCI questa convinzione lo dimostra un semplice dato: ancora negli anni `70 l'85% degli iscritti riteneva che la linea del compromesso storico avesse l'unico scopo di disorientare la DC per arrivare ad un governo delle sinistre. Questi equivoci, del resto voluti deliberatamente dalla nomenklatura del PCI, sono resi possibili della struttura interna del partito, dove la linea politica e le informazioni calano dal vertice verso la base, e dove le sezioni sono solo lo strumento per l'affermazione di una linea già decisa altrove (e questo non è certo il centralismo democratico del partito bolscevico,ma la sua caricatura stalinista). Abbiamo visto il rapporto tra Ilio Barontini e la base livornese del partito: a pacificare la situazione non sono certo le sue argomentazioni politiche, ma il suo carisma di combattente partigiano.
    L'affermazione del ruolo del PCI come forza di mediazione necessita anche di un'altra condizione fondamentale: l'azzeramento di qualsiasi dibattito politico e qualsiasi pluralismo all'interno del partito e nella sinistra, e in particolare la neutralizzazione di tutte le correnti di pensiero che si collocano alla sinistra del PCI (trotskisti, luxemburghiani, socialisti di sinistra, libertari, anarchici) che vengono fatte oggetto di una persecuzione di stampo stalinista. Nei confronti del partito socialista era già stata attuata una vera e propria colonizzazione con il doppio tesseramento (militanti del PCI che si iscrivevano al PSI con lo scopo di condizionarne la linea politica).
    Per realizzare la lunga marcia del funzionariato del PCI dentro le istituzioni, si è intanto già avviato una profonda trasformazione del partito: il rapporto tra voti e iscritti passerà da 2,11 nel 1946 a 2,87 nel 1953 a 3,69 nel 1958 (nel 1976 sarà addirittura superiore a 7!). Si sostituiscono le cellule con le sezioni: Dal 1954 al 1967 -scrive Are- le cellule di fabbrica passano da 11.495 a 3.013 e quelle territoriali da 45.000 a 22.000. Le cellule, sia di fabbrica che territoriali, hanno un carattere più genuinamente di classe, mentre le sezioni sono organismi più eterogenei e più suscettibili di attirare, con attività non esclusivamente politiche, anche chi non si inquadra organicamente tra i militanti. Non si tratta tanto del passaggio da un partito "di lotta" a un partito "d'opinione", quanto della costruzione di una formidabile macchina di controllo sociale, che sia presente non solo nei luoghi della produzione ma anche sul territorio e in ogni aspetto del quotidiano (con organizzazioni come l'UDI, i Pionieri, l'ARCI ecc.), e fornisca un modello educativo, di relazioni familiari, amicali, un'etica del lavoro (l'orgoglio di essere operaio, di aver salvato le fabbriche dalle devastazioni belliche...). Tutto ciò diventa la stampella più robusta al modello di produzione fordista dell'Italia degli anni `50, per quel boom che parte dalla Ricostruzione e arriva fino agli anni `70.
    A questa prospettiva politica la liquidazione delle avanguardie partigiane e operaie, che si compie anche e soprattutto con la repressione post 14 luglio, è perfettamente funzionale. Nei tribunali, dove il dibattito si sposta dal piano politico a quello penale, le posizioni individuali degli arrestati sono indifendibili: dal giovane Ugo Lazzeri, accusato dell'omicido dell'agente di PS Giorgio Lanzi avvenuto a Livorno (per irionia della sorte Lanzi era uno dei pochi poliziotti comunisti rimasti dopo le epurazioni scelbiane), ai promotori della cosiddetta Repubblica di Piombino, dai minatori del Monte Amiata agli operai di Genova agli ex partigiani della Volante Rossa...
    Giorgio Galli rileva: "In realtà la classe operaia è stata sconfitta, ma i dirigenti comunisti hanno vinto, sono riusciti a garantire la loro posizione alla testa di un grande partito elettorale [...]. In realtà la forza del PCI non [esce] intatta dai giorni di luglio: i gruppi d'urto si [demoralizzano], gli elementi più attivi si [ritirano] in disparte, le armi [vengono] buttate o [finiscono] nelle mani della polizia".
    E l'autore della precedente testimonianza sui fatti di Milano conclude: "Con quella mazzata siamo andati in crisi. Tanto è vero che ci siamo chiesti che scopo aveva continuare la lotta. Il 14 luglio ha determinato la chiusura di una spinta reale verso la rivoluzione. Ci diventava chiaro che la lotta si spostava su tempi lunghi, che la presa del potere non poteva più essere immediata. Così abbiamo cercato di formare una specie di cooperativa agricola dalle parti di Codogno, e avevamo già avviato trattative. Naturalmente era sempre nella prospettiva della rivoluzione, ma in forma sociale diversa. Ci rendevamo ormai conto che si andava a rischio di finire in carcere".
    Ma l'interpretazione ufficiale del partito comunista parla di vittoria: su L'Unità Secchia definisce le giornate del 14-16 luglio lo sciopero più importante nella storia del movimento operaio italiano, che ha dimostrato come la maggioranza uscita dalle urne il 18 aprile non è quella reale del Paese.
    Dallo sciopero generale per l'attentato a Togliatti, dunque, il movimento operaio e la sinistra escono profondamente indeboliti e disorientati, e abbandonano le piazze dove ritorneranno soltanto dodici anni dopo, in occasione di un'altra rivolta rimasta leggendaria, quella contro il governo Tambroni. Sorprendendo gli eterni cantori della sconfitta operaia emergerà un nuovo soggetto: il giovane con la maglietta a strisce. E cominceranno gli anni `60...

    BIBLIOGRAFIA:
    Carlo Guerriero, Fausto Rondinelli, La volante rossa, Datanews, Roma 1996
    AA.VV. La notte dei gladiatori, Calusca, Padova 1991
    Filippo Gaja, Il secolo corto, Maquis Editore, Milano 1994
    Antonio Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla Liberazione al Potere DC, Laterza, Bari 1978
    Giuseppe Are, Radiografia di un partito, Rizzoli, Milano 1980
    Cesare Bermani, La volante rossa, in Primo Maggio, n. 9 1977
    Questo articolo è basato sulla ricerca di Andrea Grillo, Livorno, una rivolta tra mito e memoria, BFS, Pisa 1991, dove si può trovare una bibliografia completa

 

 
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