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Discussione: Socializzazione

  1. #1
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    Predefinito Socializzazione

    La storia dimentica quello che non vale la pena ricordare. Se qualcosa del passato, nonostante tutto, continua ad essere oggetto di disputa (storica e politica...) è perché contiene valore: se non valesse nulla, nessuno si accanirebbe a negarlo (quel valore...) e nessuno, a parte gli scemi, perderebbe un attimo del suo tempo ad affermarlo... Nonostante tutto e il contrario di tutto, il fascismo agita ancora parecchie passioni, anche se non sempre per le ragioni fondamentali della sua storia vera e, soprattutto, della sua vera eredità... E l’eredità del fascismo - io credo - è scritta nel suo testamento... Si può rifiutare un’eredità in toto: perché, no? Nessuno deve essere costretto ad accettare un’eredità che non vuole... Ma se, putacaso, la rivendica... oh! allora, non si scappa: quel qualcuno deve osservare le prescrizioni della volontà testamentaria. E la prescrizione ereditaria del fascismo ha un nome solo e preciso: socializzazione...

    Partiamo da un dato di fatto: la socializzazione non è una teoria, non è un dogma, non è un atto di fede... La socializzazione è una praxis. Una prassi, in quanto tale, richiede la continua messa a punto delle tecniche e delle modalità d’applicazione. Per quanto affezionati al modello che la storia del fascismo ci ha lasciato in eredità, se volessimo applicarlo (quel modello...) in maniera pedissequa, alla lettera, difficilmente lo renderemmo utilizzabile oggi: fra una società (per di più in guerra: e che guerra...) in cui le imprese industriali, agrarie e commerciali erano ancora di proprietà del capitalismo (chiamiamolo...) familiare e la società del turbocapitalismo finanziario che ha nelle organizzazioni trans e super nazionali (Fmi, Bm, etc...) e nelle banche private i veri centri di proprietà (delle imprese...), non vi sono punti di sutura talmente efficaci da rendere trasferibile, sic et simpliciter, il modello originario al nostro dato tempo... Ma quell’eredità (del fascismo, intendo...) non è una reliquia: non deve essere custodita e venerata, bensì convertita in valore di spesa corrente...

    Per quanto occorre stabilire, abbrevierò la definizione di socializzazione a quel che segue:

    socializzazione = divisione delle responsabilità dell’impresa (a), dei suoi utili (b) e reinvestimento produttivo e sociale del super profitto che eventualmente ne deriva (c)...

    Procediamo a ritroso e partiamo dal terzo postulato (c): reinvestimento produttivo e sociale del super-profitto. Ora, in un contesto come il nostro che si fonda proprio sulla logica del super-profitto, per di più a qualunque costo, chiedere (o imporre, ammesso che lo si possa...) ai nuovi proprietari delle imprese (l’aristocrazia finanziaria di cui si diceva sopra: banche etc..) di rinunciare alla loro logica, può voler dire scatenarli nell’esercizio che gli riesce meglio: affamare stato e popolo (l’ancòra recente caso Argentina insegna...). Si può pretendere tanto? No, per il momento, non si può. Come diceva Benito Mussolini: “La natura non procede a salti... e nemmeno l’economia...”. Pretendere, in maniera estremista, tutto e subito è la chiosa di rivoluzionari destinati a rimanere per sempre allo stato infantile (così diceva, più o meno, Lenin e, infatti, il più grande reazionario di tutti i tempi, Stalin, che gli succedette, non avanzò di un millimetro sulla via del “tutto il potere ai soviet”, cioè ai consigli autonomi di impresa, anzi: retrocesse, e di molto, dalle premesse e promesse iniziali...). Il rivoluzionario adulto, invece, procede per gradi. E secondo i gradi del possibile...

    Sul postulato (b): divisione degli utili, il discorso diventa possibilista. Ma, prima di inoltraci nel dettaglio, sarà bene esporre un breve excursus sulla figura dell'operaio.

    L’operaio (cioè: il prestatore d’opera variamente inteso...) è stato educato e indotto (da oltre sessant’anni di proliferante persuasione liberal-socialista, yes...) a difendere due cose: il posto di lavoro fisso e il salario... Il turbocapitalismo (nell’ultimo decennio o giù di lì...) ha quasi dissuaso il prestatore dopera dal pretendere l’inalienabilità del “posto fisso”: il lavoro interinale ha ormai una voce in capitolo di bilancio (nel mercato delle imprese...) al meno pari, se non superiore, a quello del lavoro a tempo indeterminato... I sindacati istituzionali mediano quel che possono (poco e male...) ma, alla lunga (non troppo...), si arriverà alla completa (o quasi...) mobilità della forza lavoro. In media analisi, il messaggio, appena sottinteso dal turbocapitalismo, è questo: un posto di lavoro vale un altro, l’importante è il salario (cioè il reddito sicuro: sicuro almeno finché il contratto precariale lo garantisce...). Un rivoluzionario italiano, tal Mazzini Giuseppe, propagandava, invece, esattamente il contrario: rinunciare alla sicurezza del salario e pretendere, piuttosto, la piena proprietà e responsabilità (dell’operaio...) della e nell’impresa in cui è occupato. Occorrerebbe, per tanto, creare delle isole, dei modelli che incrinino la tendenza imperante: “niente-stabilità-del-posto-di-lavoro = massima sicurezza del salario”, in quest’altra formula, rivoluzionaria ed appropriata:

    abolizione-del-salario (almeno di quello in progressione per scala mobile, contingenza etc, lasciando eventualmente un margine al reddito minimo garantito...) = piena proprietà dell’impresa e divisione degli utili.

    Quello che va disintegrato, insomma, è il regime salariale che rende l’individuo schiavo del mercato del lavoro e non artefice della fortuna (o della sfortuna...) della SUA (nel senso di proprietà partecipe...) impresa di lavoro... E se non a tanto sia possibile giungere nell'immediato o nel prossimo futuro esiste, pur tuttavia, una mediazione già tangibilmente sperimentata in Francia ed UK, non a caso additate ad esempio dalla risoluzione del Parlamento europeo del 15.1.1998 proprio a proposito de “La promozione della partecipazione dei lavoratori subordinati ai profitti e ai risultati dell'impresa (compresa la partecipazione al capitale)”, e che ne sollecita l'imitazione da parte dei paesi membri inadempienti: Italia in primis. Insomma, un margine utile d’intervento c’è...

    E veniamo ora al punto (a) della definizione sopra data di socializzazione: responsabilità dell’impresa.

    Essere proprietari di un’impresa, significa assumersi la responsabilità della sua gestione... Che, oggi, e ieri dalla rivoluzione industriale, questa (la responsabilità di gestione dell’impresa...) sia privilegio (e onere...) assoluto del fornitore di capitale, è un avvento storico che ha sottomesso la forza-lavoro all’arbitrio di chi possiede la moneta (i soliti noti...). Situazione, questa, neanche più mediabile dallo stato, avendo (esso: lo stato...) rinunciato, secondo dettame liberista, a qualsiasi ipotesi di intervento nell’economia, se non per cedergli porzioni utili di intraprese pubbliche... Né più (mediabile, né meno...), dallo spauracchio della lotta di classe, diventata, oramai, una icona romantica assolutamente disinnescata dagli attuali assetti del potere politico-economico... Riesumarla (la lotta di classe...) non servirebbe a nulla (e neanche mi interessa...). Occorre perseguire altre vie... Per esempio, il giorno in cui: “saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione si eserciti”, come predicava Mazzini, il vizio marxista della contrapposizione di classe sarebbe un insulto alla logica... Così come pure la pretesa del capitale di essere l’unico giostraio dell’impresa... E, proprio come affermava Mazzini: dal momento in cui tutti fossimo responsabili dell’impresa economica, dal momento in cui, cioè, tutti fossimo operai, statene certi la preveggenza di Corridoni si avvererebbe e: “la questione sociale sarebbe definitivamente risolta...”. Potrei, per aggiunta, chiosare sul concetto di “operaio” - definito da Ernst Jünger - “padrone della tecnica” e, quindi, del “destino” di questo dato mondo: ma finiremmo lontani da ciò che qui importa stabilire e, quindi, glisso dal verticale (e vertiginoso...) metafisico per restare nel campo orizzontale della società. E, in questo campo, il possibile da farsi è abbastanza ampio e largamente plausibile, fin anche all’interno dell’attuale legislazione costituzionale, figuratevi un po’... L’articolo 46 della Costituzione della Repubblica italiana, infatti, recita:

    “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.”

    Si dirà, allora: quali farfalle andiamo cercando sotto l’arco di Tito? Siamo già nell’era delle condivisione delle responsabilità (dell’azienda, dell’impresa...). Attenzione: leggete bene... L’articolo costituzionale afferma che: “il diritto dei lavoratori a collaborare (...) alla gestione delle aziende è riconosciuto (...) nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi”. Bene, anzi malissimo: si dà il caso che quelle leggi che dovrebbero stabilire “i modi e i limiti della gestione delle aziende” da parte dei lavoratori, non siano mai state promulgate. Proprio così: Una norma della Costituzione italiana è, allo stato d’oggi (dopo sessanta e più anni...), completamente inevasa per mancanza di un’adeguata legislazione applicativa... E, guarda caso, è una norma che fa la rima a baciare con alcuni concetti fondamentali del Manifesto di Verona e della Costituzione della Repubblica sociale italiana in tema di socializzazione.

    Io, che non sono un esegeta della Costituzione della Repubblica italiana, non so come questo art. 46 ci sia capitato dentro. Però, c’è capitato... E, siccome c’è capitato, sarebbe il caso di chiederne l’attuazione... Sarebbe necessario, in altre parole, intraprendere l’iniziativa per una proposta di legge popolare che pretenda - sì, pretenda, porco giuda - la promulgazione di leggi idonee a renderlo operativo...

    Il che, poi, non richiede nemmeno un grande sforzo di immaginazione giurisdicente: si tratterebbe solo di estendere ai lavoratori di qualsiasi impresa produttiva quanto ad oggi è previsto dall'articolo 1 della legge Legge 27 marzo 2001, n. 141 per il socio lavoratore delle cooperative e che così, nel passaggio saliente, recita:

    (...)
    I soci lavoratori di cooperativa:
    a) concorrono alla gestione dell'impresa partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell'impresa;
    b) partecipano alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi dell'azienda;
    c) contribuiscono alla formazione del capitale sociale e partecipano al rischio d'impresa, ai risultati economici ed alle decisioni sulla loro destinazione;
    d) mettono a disposizione le proprie capacità professionali anche in relazione al tipo e allo stato dell'attività svolta, nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa.


    È troppo? Bene: che lo vengano a dire ai cinquantamila firmatari della proposta di legge di applicazione che è auspicabile presentare al più presto. E spieghino, anche, la reiterata disattesa delle aspettative della “Carta sociale europea” che da Strasburgo, il 3 maggio 1996, nominalmente ratificata e, sempre nominalmente, messa in vigore con legge italica 9.2.1999, n. 30, al fine di “favorire il progresso economico sociale” dei paesi membri del “Consiglio d'Europa” detta:

    art. 21. I lavoratori hanno diritto all'informazione ed alla consultazione in seno all'impresa.

    art. 22. I lavoratori hanno diritto di partecipare alla determinazione ed al miglioramento delle condizioni di lavoro e dell'ambiente di lavoro nell'impresa.

    E non ci vengano a prendere per i fondelli con la pretesa che questi ultimi due postulati sono di fatto operativi nella pratica delle rappresentanze sindacali. I sindacalisti non sono né previsti né invitati nelle sale effettivamente operative delle imprese aziendali: i consigli di amministrazione, i consigli di gestione e i consigli di sorveglianza. Ed è esattamente qui, in questi consigli, dove si decidono le sorti dell'impresa, che il lavoratore deve affermare il suo diritto alla partecipazione.

    miro renzaglia

  2. #2
    Ajeje Brazorf
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    grande Miro.
    fatte vedè più spesso da ste parti

  3. #3
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    Su!
    E' sempre un piacere leggerti, Miro.

  4. #4
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    Un tema di grande attualità, quello della cogestione e partecipazione agli utili delle imprese, in quest'epoca segnata dal dominio assoluto del capitale sul lavoro, eppure assolutamente ignorato dalla classe politica ormai asservita al dogma liberista nelle sue versioni più o meno radicali. Segnalo un recente a mio avviso valido intervento di Carlo Gambescia sulla questione:

    1 Maggio, Festa del Lavoro. Perché non riscoprire la cogestione?

    Il passaggio di alcuni delegati sindacali della Pirelli Bicocca di Milano dalla Cgil alla Ugl (si veda la loro lettera al quotidano "il manifesto" http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano...2008/art3.html ), solleva alcuni importanti interrogativi sulla futura evoluzione del rapporto fra governo Berlusconi e mondo del lavoro e sindacale. Soprattutto alla luce del dibattito sull'importanza di una visione sociale dell'economia, apertosi intorno al libro di Tremonti (La paura e la speranza). Ma anche dell'invito bipartisan a "dare una mano", lanciato da Berlusconi, al professsor Ichino, di cui invece sono le posizioni neo-liberiste.
    Ora, la domanda che ci poniamo, è se la cogestione può rappresentare una risposta - certo, da un punto di vista infrasistemico, mettiamo subito le mani avanti... - alla difficile congiuntura economica che sta attraversando l'economia italiana. Proprio nei termini di quella visione sociale dell' economia di mercato, che Giulio Tremonti, prossimo Ministro dell'Economia, sembra aver riscoperto nel suo libro. Sembra...
    .
    Che cos’è la cogestione?
    Dal punto di vista della democrazia economica la cogestione consiste nella partecipazione dei lavoratori dipendenti alla vita economica dell’impresa, allo scopo di influire istituzionalmente, insieme ai rappresentanti dei datori di lavoro, sul suo governo economico.
    La principale finalità della cogestione è quella garantire all’interno dell’impresa il massimo di democrazia gestionale, compatibile con l’economia di mercato. Concretamente la cogestione comporta l’assunzione di corresponsabilità decisionale nella politica imprenditoriale da parte dei lavoratori. Da attuarsi mediante la presenza, con poteri decisionali, di una loro rappresentanza nel consiglio di amministrazione della società; rappresentanza che può essere o meno di estrazione sindacale (i due ruoli possono anche non coincidere). Dove esiste una struttura dualistica della società per azioni (come in Germania ad esempio) la cogestione concerne l’inserimento di rappresentanti dei lavoratori nel Consiglio di Vigilanza. Se invece la struttura è dualistica oppure di opzione tra le due, come in Francia, i rappresentanti dei lavoratori possono entrare a far parte del Consiglio di Amministrazione. Di riflesso, la cogestione si differenzia sia dall’autogestione che invece implica l’assunzione completa di poteri decisionali da parte dei lavoratori dell’impresa, sia dagli accordi sui sistemi di informazione che riconoscono ai lavoratori diritti di informazione o consultazione a livello locale, settoriale e di gruppo o di impresa, lasciando immutata l’autonomia imprenditoriale e separate le rispettive responsabilità dell’ imprenditore e delle maestranze. La cogestione va anche differenziata - fatto del resto fin troppo ovvio - da forme di cointeressenza (premi di produttività), compartecipazioni agli utili di impresa, piani aziendali di risparmio, azionariato dei dipendenti e sistemi di stock options . In definitiva i lavoratori che partecipano alla cogestione, a differenza delle altre forme appena citate, godono di un potere reale, e istituzionalizzato, sulle strategie aziendali.
    .
    “Stato dell’arte”: la cogestione sotto l’aspetto istituzionale, legislativo e “sperimentale” (con riferimento all’Italia)
    A grande linee, in Italia, la partecipazione cogestionale dal punto di vista degli istituti giuridici, può essere ricondotta all’ attuazione e/o ricezione:
    1) Dell’art. 46 della Costituzione, che consacra il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, nei modi e nei limiti sanciti dalle leggi;
    2) Degli articoli 21 e 22 della Carta sociale europea (resa esecutiva con legge 9 febbraio 1999, n. 30), che proclamano il diritto del lavoratore all’informazione, alla consultazione e alla partecipazione;
    3) Della raccomandazione 92/443/CEE del Consiglio, del 27 luglio 1992, riguardante la promozione della partecipazione dei lavoratori subordinati ai profitti e ai risultati dell’impresa.
    4) Della Direttiva 2002/14/CE dell’11 marzo 2002 (che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori) nonché alla Direttiva 2001/86/CE dell’8 ottobre 2001 (sul coinvolgimento dei lavoratori nella Società europea).
    Tuttavia, per quanto ci risulta, dal punto di vista legislativo, sono invece ancora in fase di discussione, e dunque rinvenibili negli atti parlamentari (con particolare riferimento alla XIV legislatura), alcune proposte di legge alle quali rinviamo il lettore. In particolare la p.d.l. n. 3642, n. 3926 e n. 4039 che tra l’altro si limitano a introdurre, attraverso accordi collettivi aziendali o multiaziendali, piani di azionariato o di partecipazione finanziaria disgiunti da qualunque forma di partecipazione decisionale. Altre iniziative invece recepiscono entrambi questi aspetti (p.d.l. nn. 1003, 1943, 2023), prendendo a riferimento sia forme di coinvolgimento dei lavoratori limitate alla “informazione e consultazione” (n. 2023), sia forme di coinvolgimento che prevedono la designazione da parte dei lavoratori azionisti di alcuni membri degli organi sociali (nn. 1003, 1943).
    Come si evince da questi accenni, per quanto riguarda il futuro della cogestione in Italia, la sperequazione tra input istituzionali, anche a livello europeo, e output legislativi nazionali, non fa ben sperare in una sua evoluzione positiva, almeno nell’immediato.
    Una considerazione che può essere estesa anche al piano “sperimentale”. Si possono infatti ricordare, oltre a una dichiarazione di principio ( il Protocollo Iri, 1982-1983 ), solo alcuni sporadici tentativi, soprattutto nel settore pubblico, mai decollati completamente (Zanussi, 1993; Fincantieri; Azienda Ferrovie dello Stato 1985; Anas 1990, ma anche Alitalia, 1996, Dalmine 1998). E peraltro rivolti in alcuni casi, come ad esempio Alitalia e dal mine, a coinvolgere le maestranze limitatamente ai processi di ristrutturazione e privatizzazione, attraverso appunto la presenza di rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di amministrazione (su questi ultimi aspetti si rinvia a La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, Ottobre 2001, a cura del Dipartimento Economico - Ufficio Studi della Filt Cgil, scaricabile dal sito www.filtcgil.it/documenti/ust_1.pdf).
    Del resto l’Italia sul piano europeo, per quel che riguarda la legislazione in in materia, si trova allo stesso livello di Cipro, Lettonia, Lituania. Oppure del Belgio e soprattutto della Gran Bretagna, nazioni, certo, di più antica tradizione democratica ma note, soprattutto quest’ultima, per l’ estrema frammentazione degli interessi sociali e il minimo coinvolgimento sindacale dei lavoratori. Probabilmente dovuto anche alla cosiddetta rivoluzione neoliberista thatcheriana. Per certi aspetti poi continuata anche dal laburista Blair (sullo “stato dell’arte” della cogestione in Europa cfr. Norbert Kluge e Michael Stollt, The European Company – Prospects for Board-Level Partecipation in the Enlarged EU, Bruxelles 2006, in particolare le tabelle riassuntive).
    .
    Conclusioni
    Sul piano sociologico, o meglio socioculturale, la cogestione richiede, e in misura imprescindibile, elevati livelli di fiducia tra gli attori sociali interagenti.
    In primo luogo, li impone all’interno delle aziende. Dove si richiede come pre-requisito da parte dei soggetti dominanti, qualunque sia la tradizione proprietaria dell’impresa (capitalismo familiare, azionario, manageriale) correttezza e rispetto per la dignità e le capacità del lavoratore. Mentre da parte dei soggetti dipendenti si richiede, negli stessi termini, una rinuncia a impostazioni puramente rivendicative e utopiche basate su concezioni settoriali o rivoluzionarie. La cogestione richiede un salto di qualità: dal puro e semplice conflittualismo e/ ideologismo alla mutua e fiduciaria collaborazione in nome di valori condivisi.
    In secondo luogo, all’esterno delle aziende, si richiede un quadro culturale, dove il profitto (pur economicamente importante) non sia visto come l’unico movente sociologico. E soprattutto s’impone un contesto socioculturale in grado di rivalutare il senso dell’onore professionale, a prescindere dalle mansioni individuali e dal ceto sociale di provenienza o appartenenza. Va acquisita a livello collettivo la cognizione precisa che sia sempre il lavoro ben svolto e socialmente onorato per tale ragione a “fare gli uomini” (se ci si passa questa espressione più letteraria che sociologica), e non tanto la sola retribuzione in termini di salari, stipendi e profitti monetizzati. E magari da “investire” in consumi di status, socialmente distonici.
    E’ purtroppo ovvio, che in una società, come ad esempio quella italiana di oggi, dove prevalgono, rafforzandosi a vicenda, la cultura della conflittualità sindacale parcellizzata e/o ideologizzata e la cultura settoriale di certo capitalismo familiare privo di neutralità affettiva verso se stesso, la cogestione non potrà mai fiorire, nonostante le grandi enunciazioni di principio.
    Sotto questo aspetto, alla politica intesa come decisione, e dunque capacità di creare un quadro normativo di riferimento, spetta il ruolo di fissare regole certe. E così favorire quella fiducia necessaria alla rinascita di un circuito reciprocitario che possa garantire e rafforzare la vita civile. Nonché, finalmente, un approccio alla vita economica delle imprese in termini di democratica cogestione. E qui, concludendo, sarebbe interessante conoscere il pensiero in materia del "colbertista" Tremonti. E' favorevole alla cogestione? Oppure no?
    .
    Post Scriptum
    .
    Sarkozy e la partecipazione agli utili. Novità dalla Francia?
    L' accenno di Sarkozy a "que le niveau de la participation et de l'intéressement aux résultats des entreprises, pour les salariés, soit fortement relevé", accenno che risale a qualche mese fa (si veda http://www.lefigaro.fr/politique/200...vilisation.php ), riguarda non tanto la cogestione quanto la partecipazione agli utili.
    Il presidente francese intende estenderla alle imprese al di sotto dei cinquanta dipendenti, introducendo sgravi fiscali per favorine l’applicazione. Accrescendo, per tutti i lavoratori dipendenti, gli attuali, chiamamoli così, fondi d’impresa (réserve de partecipation), nei quali finscono contabilizzati gli utili, poi ripartiti tra i lavoratori, in forma differita nel tempo e in base ai differenti livelli salariali.
    Sarkozy, tra l’altro, prevede di « sbloccarne » l’utilizzazione, per far crescere la parte variabile del salario dei lavoratori, grazie appunto una più veloce redistribuzione degli utili.
    In buona misura siamo davanti a un intervento anticiclico. E tutto sommato utile, soprattutto dal punto di vista imprenditoriale, a contenere la parte fissa del salario. Una provvedimento, insomma, che concerne più il contenimento dell’inflazione e dei costi salariali a carico delle imprese che l’allargamento dell’autentica democrazia economica.
    Una finalità quest’ultima che, come gli studiosi sanno, può essere conseguita soltanto attraverso l’introduzione di un strumento di reale democrazia aziendale come la cogestione.

    link http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/

  5. #5
    macht geht vor recht
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    Regno d'Italia > They challenge science to prove the existence of God. But must we really light a candle to see the sun?
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  6. #6
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    Citazione Originariamente Scritto da W. Von Braun Visualizza Messaggio
    cioè, quanto già esiste...

    credo che il progetto di socializzazione sia un po' più ambizioso...

  7. #7
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    per completezza d'informazione, avendo fatto riferimento a Mazzini, cito alcuni passaggi del suo pensiero a riguardo:

    “La parola operaio non ha per noi alcuna indicazione di classe (...): non rappresenta inferiorità o superiorità sulla scala sociale: esprime un ramo d’occupazione speciale, un genere di lavoro, un’applicazione determinata dell’attività umana, una certa funzione sociale; non altro. Diciamo operaio come diciamo avvocato, mercante, chirurgo, ingegnere. Tra codeste occupazioni non corre divario alcuno quanto ai diritti e ai doveri dei cittadini... Le sole differenze che noi ammettiamo tra i membri di uno Stato sono le differenze di educazione morale. Un giorno, l’educazione generale uniforme ci darà una comune morale. Un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione si eserciti.”

    Giuseppe Mazzini, 1842


    “Il riordinamento del lavoro sotto la legge dell’associazione sostituta all’attuale del salario, sarà, noi crediamo, la base del mondo economico sicuro, e implica che un capitale indispensabile all’impianto dei lavori e alle anticipazioni necessarie debba raccogliersi nelle mani degli operai associati.”

    Giuseppe Mazzini, 1871

  8. #8
    Ajeje Brazorf
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    Citazione Originariamente Scritto da miro renzaglia Visualizza Messaggio
    per completezza d'informazione, avendo fatto riferimento a Mazzini, cito alcuni passaggi del suo pensiero a riguardo:

    “La parola operaio non ha per noi alcuna indicazione di classe (...): non rappresenta inferiorità o superiorità sulla scala sociale: esprime un ramo d’occupazione speciale, un genere di lavoro, un’applicazione determinata dell’attività umana, una certa funzione sociale; non altro. Diciamo operaio come diciamo avvocato, mercante, chirurgo, ingegnere. Tra codeste occupazioni non corre divario alcuno quanto ai diritti e ai doveri dei cittadini... Le sole differenze che noi ammettiamo tra i membri di uno Stato sono le differenze di educazione morale. Un giorno, l’educazione generale uniforme ci darà una comune morale. Un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione si eserciti.”

    Giuseppe Mazzini, 1842


    “Il riordinamento del lavoro sotto la legge dell’associazione sostituta all’attuale del salario, sarà, noi crediamo, la base del mondo economico sicuro, e implica che un capitale indispensabile all’impianto dei lavori e alle anticipazioni necessarie debba raccogliersi nelle mani degli operai associati.”

    Giuseppe Mazzini, 1871

    più leggo queste cose e più mi sembra impossibile che nella nostra area ci siano degli anti-mazziniani.

  9. #9
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    Citazione Originariamente Scritto da Ajeje Brazorf Visualizza Messaggio
    più leggo queste cose e più mi sembra impossibile che nella nostra area ci siano degli anti-mazziniani.
    evola è più chic...

  10. #10
    Ajeje Brazorf
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    Citazione Originariamente Scritto da miro renzaglia Visualizza Messaggio
    evola è più chic...

 

 
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