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Discussione: Ezra Pound

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    Predefinito Ezra Pound

    Gli Arya seggono ancora al picco dell'avvoltoio.

  2. #2
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    Predefinito Rif: Ezra Pound

    Gli Arya seggono ancora al picco dell'avvoltoio.

  3. #3
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    Predefinito Rif: Ezra Pound

    A cent'anni dall'apparizione sulla scena del "ragazzo dell'Idaho" Ezra Pound, a settanta dacché egli mise mano a "poema d'una certa lunghezza", a quaranta dal momento della verità dell'uomo e dell'opera ("i Canti pisani"), a venti circa dalla conclusione o abbandono dell'impresa, i 116 o 117 "Cantos", questo poema mitico del Novecento, escono per la prima volta in edizione e traduzione integrale italiana. Infatti a fronte c'è un testo inglese, o meglio originale, che è il primo a comprendere i canti 72-73, scritti in italiano nel 1944 e in seguito messi in disparte per motivi di opportunità politica (si tratta d'un omaggio in extremis al fascismo mussoliniano-repubblichino); un testo per giunta alquanto più corretto di quello che si vende nelle librerie di Londra e New York. Infine la traduzione approntata dalla figlia del poeta, Mary de Rachewiltz, è essa stessa (come apprendiamo dall'introduzione) un'impresa quarantennale, conclusa giusto per i sessant'anni della 1/2pargolettaÈ cui Pound si rivolge affettuosamente qua e là. Essa vi ha dedicato cioè buona parte di una vita, fornendo non tanto un riflesso dell'originale quanto un suo prolungamento di notevole interesse esegetico, tanto più che ha potuto consultare le fonti su cui Pound ha lavorato e che alcuni canti (1-10, 98-99...) sono stati tradotti sotto la direzione del poeta.
    L'editoria italiana ha dunque di che rallegrarsi, e del resto essa ha sempre ricambiato a Pound la sua fatale predilezione per l'Italia passata e presente. Per limitarci ai "Cantos", nel 1953 apparvero i "Canti pisani" (74-84) tradotti da Alfredo Rizzardi e memorabilmente recensiti da Montale, nel 1955 e 1959 le edizioni originali dei canti 85-95 ("Rock-Drill") e 96-109 ("Thrones" ), ottimamente curate da Vanni Scheiwiller, nel 1961 i canti 1-30 nella presente traduzione della de Rachewiltz, nel 1973, sempre a cura della figlia, i canti 110-117 e i "Cantos scelti". Restavano inediti in traduzione i due grandi blocchi scritti in Italia e negli Stati Uniti, rispettivamente negli anni '30 e '50: canti 31-71 e 85-109, per certi versi le parti più impoetiche dell'opera, più legate ai suoi discutibili programmi costruttivi e politici, eppure tutt'altro che avare di meraviglie. Restava anche da dare una traduzione aggiornata e contestualizzata di quei "Canti pisani" che sono sì il vertice dei "Cantos", ma che non s'intendono se non come parte integrante dell'imponente arco alpino di tutta l'opera. Un lavoro immenso, non tanto per la mole quanto per la caratteristica condensazione poundiana che fa d'ogni verso un problema. E non è da poco il fatto che quasi sempre la de Rachewiltz afferra quel che Pound accenna e ce lo comunica.
    La sua è una traduzione in effetti molto poundiana, in quanto condivide con il poeta l'attenzione portata non allo strumento, bensì all'oggetto ("trasmetti il senso e poi taci"). Così la traduttrice non ha alcun feticismo nei confronti della sintassi o dell'andamento dell'originale, si preoccupa solo del modo più conciso ed efficace di rendere quel che Pound vedeva mentre scriveva, guadagnando persino qualche punto nel gioco del "minor numero di parole possibile" che a Pound talvolta piaceva giocare. Così facendo aderisce al programma poundiano forse più che ai suoi esiti. Si potrebbe infatti sostenere che il realismo di Pound oscilla di continuo verso il nominalismo e formalismo, che ciò che conta non è più l'oggetto ma la parola che lo rappresenta e che a poco a poco si fa autonoma, con l'adozione d'una sintassi sfuggente e sospesa che rende impossibile la verifica e metaforizza il dato: versi che cominciano con 1/2andÈ, con 1/2thatÈ, e in cui cerchiamo invano un verbo di modo finito (così a p. 1261 1/2& that NicephorasÈ va inteso a mio parere non come 1/2e quel NiceforoÈ ma come 1/2...e che NiceforoÈ).
    In ciò mi sembra che la traduzione tronchi a volte inopportunamente le vibrazioni dell'originale. Si prenda il primo verso dei "Canti pisani" 1/2The enormous tragedy of the dream in the peasant's bent shouldersÈ: 1/2L'enorme tragedia del sogno nelle spalle ricurve del contadinoÈ. Dal suo campo di prigionia presso Metato (non Coltano, come dicono sempre tutti) il poeta vede e ricorda la figura piegata del contadino e in essa scorge una metafora della sconfitta del fascismo rurale e del suo sogno d'una poesia naturale e popolare, sogno che presiede con esiti alterni ai canti 31-73. Col metodo che ha appreso dallo haiku Pound non esplicita la metafora ma sovrappone a secco le due immagini, annunciando il tema principale dei "Pisani", il confronto fra sofferenza individuale e sofferenza storica.
    La de Rachewiltz, che ha in mente le prescrizioni che Pound deriva da Fenollosa sull'uso dei verbi forti e l'indesiderabilità di costruzioni passive e ausiliarie, rende assai più definita l'immagine: 1/2Pesa il tragico sogno e curva le spalle del bifolcoÈ, usando non meno di due verbi finiti dove Pound non ne usa nessuno, sostituendo cioè un periodo verbale a un periodo nominale. La traduzione è così più poundiana di Pound, ché Pound, da bravo poeta, non badava alle proprie prescrizioni appena si metteva a scrivere, creando effetti per cui nella sua teoria non v'era posto. E una traduzione strumentale dovrebbe accontentarsi di seguire la pratica e non la teoria, attenendosi a la sintassi (o assenza della stessa) dell'originale. Tale funzione strumentale viene svolta imperfettamente da questa traduzione per altri versi indispensabile.
    Altro esempio, primo verso del canto 110, "Thy quiet house": "La tua casa quieta". A prima vista la versione della de Rachewiltz sembra contenere un errore tipografico: "La quiete dimora"?. Sarà 1/2La quieta dimoraÈ? Poi s'intende il processo cui si deve il verso italiano, che al solito introduce un verbo finito dove nell'originale non c'è. "Thy quiet house" viene letto come "La casa della quiete", e poi reso attivo con "La quiete dimora", che oltre tutto accenna la presenza femminile affidata nell'originale al "Thy", possessivo desueto. Ma l'operazione resta discutibile, privando come fa l'avvio del canto e della sezione ch'esso apre, l'ultima del poema, di questa mossa vocativa, di preghiera, palese in uno degli abbozzi: "Thy quiet house al Torcello/Alma Patrona". Da qui a 1/2La quiete dimoraÈ ce ne passa.
    Ciò non toglie che il processo di verifica così messo in moto sia proficuo per chi è in grado di leggere l'originale, tanto più che le deviazioni della traduzione non si devono che di rado a un effettivo fraintendimento, ma quasi a un capire troppo, voler troppo andare oltre la superficie verbale. Il che è il modo di lavorare d'un poeta che traduce se stesso, come il Joyce di "Anna Livia Plurabelle", che chiaramente non ci pensa due volte a scostarsi clamorosamente dal dettato originale.
    Non sorprende dunque che i canti in cui c'è la zampa di Pound autotraduttore siano quelli meno attenti alle lettura e più strambi nel linguaggio. Se la de Rachewiltz in genere indulge a certi arcaismi, questo è niente a confronto con le forzature imposte dal poeta, e di cui gli ormai notori canti italiani 72-73 offrono vari esempi. La de Rachewiltz ha ricordato in "Discrezioni" di aver ricevuto da ragazza per esercizio di traduzione qualche canto dal padre, il quale la invitava a chiedersi: "Come si sarebbe espresso l'autore se scrivesse in italiano adesso? A meno che non fossi arrivata a uno scoglio insormontabile, non dovevo mostrargli la traduzione prima di avere una pagina battuta a macchina. E invariabilmente la faceva a pezzi... Era dell'idea che la poesia italiana, con l'eccezione di Leopardi, era sempre peggiorata dopo Cavalcanti e Dante, sicché [correggendo] usava la loro voce e la loro metrica, piuttosto che il linguaggio contemporaneo. Se azzardavo 'Non si dice', ribatteva: 'È ora che si dica'. Ora mi prendeva in giro piagnucolando: 'Non si dice, non si dice, tocca a te metterlo in italiano'.
    L'inglese di Pound, è noto, è tutto incrostato di scaglie poliglotte, ma in realtà il senso della frase inglese di rado viene meno, anche quando usa le forme più strambe e arcaiche. Questo senso gli mancava in italiano, il che risulta in forzature non convincenti, e ci troviamo a ripetere rassegnati: "Non si dice". Ma dei suoi errori questo è uno che volentieri gli perdoniamo. Un solo esempio, dal canto 98, alla cui traduzione Pound appunto collaborò. È straordinario questo momento di "Thrones", quando il poeta settantenne quasi arrivato alla magica cifra cento sente affluire tutto un mare di materiale nuovo, le cronache longobarde e bizantine, il Sacro Editto di K'ang Hsi, il misterioso 1/2muan bpoÈ (un errore qui nella trascrizione degli esponenti a p. 1308). È chiaro che ormai di finire i "Cantos" non si parla più per un altro po'. È troppo divertente e istruttivo continuare a leggere e a scrivere, a fare i poeti. Ed ecco che Ezra sbotta: "There is no substitute for a lifetime": 1/2Non c'è nulla che valga una vitaÈ. L'uomo ha tutta una vita per continuare a cercare e a capire, e se nel viverla la scrive, come avviene nei "Cantos", il risultato sarà comunque notevole. È a questo punto che Pound traduttore cade in una delle sue zeppe più vistose, e scrive: "Nulla surroga il camper". Che è quasi incomprensibile, e brutto. Laddove l'originale s'esprime nel più normale standard English, ed è nella sua semplicità bellissimo: "There is no substitute for a lifetime".
    Non per questo dubiteremo dell'estremo interesse di tali brani autotradotti da un poeta geniale e li confronteremo col lavoro più lineare ma nella stessa direzione della de Rachewiltz, che oltre tutto ha fornito il volume d'un commento sintetico e sobrio, steso in collaborazione con Maria Luisa Ardizzone, che chiarisce molti punti per la prima volta sulla base di materiali appartenuti a Pound e della "tradizione orale", e più ne lascia inspiegati per la delizia dei lettori e degli scoliasti futuri. Se c'è un appunto redazionale da fare all'edizione è l'uso delle virgolette all'italiana ("caporali") nel testo inglese, il che è improprio (e a p. 1014 sono rimaste per errore tre virgolette singole di tipo inglese). Si sarebbe potuto anche uniformare finalmente i caratteri cinesi, anziché continuare a riprodurli in parte nella calligrafia non sempre leggibile di Pound e sua moglie. L'occasione di offrire un testo pressoché definitivo dei "Cantos" non è stata dunque colta. Ma va rilevata la scarsità di errori di stampa.
    In conclusione qualche consiglio per la lettura. Si possono leggere i "Cantos"? Ne vale la pena? Direi di sì. In primo luogo non bisogna lasciarsi spaventare dalla mole del volume, ingannevole. I "Cantos" si dividono in una decina di sezioni che si possono leggere di seguito in poche ore, sicché il loro tempo di lettura è inferiore a quello d'un romanzo d'una certa ampiezza, e contenuto da quella continuità narrativa ch'essi nonostante tutto hanno. Se sia continuità del 1/2racconto della tribùÈ, come Pound defin kiplinghianamente il poema, o della stessa attività di raccontare non so, propendo per la seconda soluzione. Storia per ipotesi del mondo, i "Cantos" sono in definitiva storia d'una scrittura, nonché come s'è visto vita d'un uomo. Sono un poema lirico che ha bisogno di ampie campiture epiche per risaltare più fulgidamente: "Nell'oscurità l'oro raccoglie la luce intorno a sé", come dice un verso ricorrente.
    Non mancano le parti grigie: credo sia stato Eliot ad avvertire che Pound diviene particolarmente impenetrabile quando attacca la storia americana (canti di Adams, 62-71, di Benton, 88-9). A confronto la storia cinese è uno spasso (canti 52-61, 85-86, con tutti i begli 1/2ideogrammiÈ stampati in mezzo alla pagina (il lettore si consoli con la notizia che essi risultano non meno incomprensibili ad un cinese che a un italiano). Ma sarebbe difficile sostenere che certi capitoli dell' "Ulisse" possano leggersi per divertimento, e sono poche le pagine in cui l'occhietto di Pound non si accenda e ammicchi a chi sa intenderlo, come uno scolaro in vacanza che s'imbarchi a malincuore per la strada di tanti tomi.
    Uno scolaro che è anche un professore alquanto picchiatello. Le sezioni di canti che si dicevano sono infatti quasi tutte leggibili come le dispense d'un corso di lezioni su taluni testi base. Lezioni in cui l'insegnante sfoglia i libri di testo (di difficile deperibilità, va detto subito, ma così sono molti testi di corsi sul postmoderno), li legge, traduce, commenta, ironizza, inserendo qualche ricordo personale e qualche barzelletta. È così che si fa all'università, ed è così che il vecchio Ez gestisce la sua unica cattedra perpetua, i "Cantos". Ascoltarne una lezione senza avere il libro di testo sottomano non è cosa saggia, il lettore è avvisato. A meno che non stia al gioco dei ritmi, della materialità del linguaggio, o veda quelle pagine storiche appunto come sfondo alla folgorazione lirica. Quando, come a Pisa, i libri gli vengono quasi a mancare, il professore supplisce con la memoria, e allora abbiamo decine di pagine di ricordi 'abbastanza' casuali, ma furbissimi per quel tono ch'essi creano: "ho bisogno di più tinte nel mio paesaggio", confessa Ezra. A volte pare anche di sentire l'horror vacui del professore che teme di non avere abbastanza materiale per il suo corso, e allora si dilunga su dettagli irrilevanti, addirittura rilegge certe pagine più o meno per errore. Così Pound avrà avuto qualche angoscia in relazione alla necessità di trovare materia per 100 o 120 canti, e ne ha riempito più d'uno di materiale di riporto, a basso prezzo.
    Ma come succede spesso in questi casi, ci si accorge che il tempo per svolgere un corso non è mai troppo bensì troppo poco, e nelle ultime lezioni ci si affanna a infilare tutto quello che non si ha fatto in tempo a dire prima. È di nuovo il caso dei "Pisani", scritti con il pensiero d'una esecuzione forse prossima, come quello di Villon. Prima, per riempire le ore, un po' si finge e un po' si crede che certe minuzie siano importanti, e così Pound con la sua "storia" un po' crede e un po' è il primo a dubitare del suo interesse. Guardiamo la bella sezione del 1955, "Rock-Drill (Perforatrice di roccia)", tutta sussiegosa e anche idiota m quel perforarci di notizie e verità sulla congiura del giudaismo internazionale. Poi scopriamo che l'immagine centrale di queste pagine è quella della dea-gabbiano Leucotea che salva Ulisse dalla tempesta scherzando: "Il mio bikini vale la tua chiatta". "Dall'ottuso limite al di là del dolore, m'elevasti". Dunque Pound ha preso la misura esatta della sua pseudostoria, sa quanto importa. Un bikini solo la vale proprio tutta. Ma anch'essa è necessaria.
    È celebre l'uscita di Mussolini che a Pound che gli consegna una copia dei canti 1-30 nel 1933 dice, come riferisce il canto 41, "Ma qvesto è divertente. (dove la "v" in "qvesto" allude tanto alla romanità quanto alla consonantizzazione romagnola da Pound riscontrata in bocca al duce). Sarà stato un giudizio di comodo, buttato lì tanto per dire qualcosa, ma lo si può ancora sottoscrivere. Il duce qualche volta ha ragione.


    Ezra Pound, "Canto LXXIV", dai "Canti Pisani"

    Cloud over mountain, mountain over the cloud
    I surrender neither the empire nor the temples
    plural
    nor the Constitution nor yet the city of Dioce
    each one in his god 's name
    as by Terracina rose from the sea Zephyr behind her
    and from her manner of walking
    as had Anchises
    till the shrine be again white with marble
    till the stone eyes look again seaward
    The wind is part of the process
    The rain is part of the process
    and the Pleiades set in her mirror
    E. Pound 1948


    Nuvola sopra monte, monte sopra la nuvola
    Non cedo n‚ l'impero n‚ i templi
    plurale
    n‚ la costituzione n‚ la città di Dioce
    ciascuno nel nome del suo dio
    così presso Terracina sorse dietro di lei Zefiro dal mare
    e dal suo modo di camminare
    simile a Anchise
    fino a che il tempio sia ancora bianco di marmi
    fino a che occhi di pietra guardino ancora verso il mare
    Parte del processo la
    pioggia
    Parte del processo il vento
    e le Pleiadi incastonate nel suo specchio

    A. Rizzardi 1953



    Nuvole sul monte, monte che si erge dalle nuvole
    Io non cedo n‚ l'impero n‚ i templi
    al plurale
    n‚ la Costituzione e neppure la Città di Dioce
    ciascuno nel nome del suo dio
    come sorse a Terracina dal mare sospinta da Zefiro
    e nel suo incedere vide
    come già Anchise
    finché di nuovo nel tempio sia bianco marmo
    e gli occhi di pietra di nuovo volti al mare
    il vento nostro fratello
    la pioggia nostra sorella
    e le Pleiadi incastonate nello specchio

    M. de Rachewiltz 1985
    Gli Arya seggono ancora al picco dell'avvoltoio.

  4. #4
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  5. #5
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    Predefinito Rif: Ezra Pound

    ezra pound è tanta roba, ma non ti basterà per dimenticare la pulciosa,a quell'uopo più che pound potè una mignotta russa !
    Ultima modifica di marocchesi; 12-02-10 alle 01:49
    DEFORME AUTENTICO

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    Citazione Originariamente Scritto da marocchesi Visualizza Messaggio
    ezra pound è tanta roba, ma non ti basterà per dimenticare la pulciosa,a quell'uopo più che pound potè una mignotta russa !
    Non andiamo OT
    Gli Arya seggono ancora al picco dell'avvoltoio.

  7. #7
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    Citazione Originariamente Scritto da Aristocle Visualizza Messaggio
    Non andiamo OT
    Figliolo,
    Se hai dolori di cuore che mettono in dubbio la tua fede e vuoi confidarti, sai dove trovarmi.

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    Citazione Originariamente Scritto da Bernard Gui Visualizza Messaggio
    Figliolo,
    Se hai dolori di cuore che mettono in dubbio la tua fede e vuoi confidarti, sai dove trovarmi.
    Le manderò un messaggio privato, padre
    Gli Arya seggono ancora al picco dell'avvoltoio.

  9. #9
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    Hai cambiato idea su Pound?

  10. #10
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    Di Ezra Pound si può dire di tutto tranne che era un libertario | l'Occidentale

    Di Ezra Pound si può dire di tutto tranne che era un libertario
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    di Michela Nacci1 Marzo 2009

    Stavolta la mia non sarà solo la recensione a un libro (il volume di Erza Pound, Il carteggio Jefferson-Adams come tempio e monumento), ma anche la recensione alla recensione che al libro di Pound Giulio Giorello ha scritto per il “Corriere della sera” del 18 febbraio scorso. Avete presente chi è Pound? Il geniale poeta dei Cantos, certo. Ma anche il saggista che fustiga il capitalismo perché divinizza il denaro, che condanna la produzione moderna di ricchezza perché si basa sul denaro che genera denaro, cioè sul niente che genera niente, sull’astratto che genera astratto, che nell’interesse sui prestiti chiesto dagli istituti di credito vede una forma neppure tanto camuffata di usura, che odia sopra tutto il modo di vivere borghese, il tipo spirituale borghese, che ama la dirittura morale, l’austerità, perfino lo spirito rivoluzionario, tutto, purché si eviti la tranquilla vita borghese, che vede negli anni fra le due guerre in Mussolini (a regime già consolidato) un rivoluzionario, che non disdegna Hitler, che guarda con sommo disprezzo alle liberaldemocrazie pavide e polverose. Ah, dimenticavo: il tutto è condito da un pizzico di antisemitismo, che non poteva mancare. Il credito, il denaro, l’adorazione dell’oro, sono per lui tutti istituti e valori ebraici, mercantili e materialisti.
    Questo è il personaggio. Interessante, interessantissimo poi per lo storico del pensiero politico: alla pari di Ernst Jünger, di Louis-Ferdinand Céline, di Julius Evola, di tutti quegli autori che nel corso del Novecento hanno incarnato la posizione ideologico-politica della destra radicale. Nessun regime esistente era adeguato alle loro idee: tutti troppo attenti al compromesso, tutti troppo moderati, tutti troppo plebei. La loro visione della storia era aristocratica e populista insieme: composta di figure straordinarie che si ergevano come titani sui poveri cristi, sulla gente comune, sopravanzandoli per eroismo e purezza, ma anche dell’adesione immediata della gente comune al capo carismatico. La purezza – che in loro significa radicalità delle idee professate – li porta ad amare le soluzioni estreme: provano simpatia per i capi dei regimi totalitari nell’Europa del tempo, e per i più sanguinari di essi. Sognano un mondo ripulito da tutte le sozzure, da tutta la feccia che lo riempie: dagli ebrei agli americani, dai pantofolai ai mercanti, dai democratici ai liberali.
    Nel saggio di Pound tradotto ora a cura di Luca Gallesi alcune di queste idee sono ribadite applicandole al suo paese, gli Stati Uniti: secondo Pound solo presidenti come Thomas Jefferson e John Adams erano stati all’altezza del compito, avevano avuto un’idea alta dell’America e del suo destino nel mondo. Coloro che erano succeduti loro avevano perduto (o tradito) l’idea originale di una civiltà americana: quella di cui la corrispondenza tra Jefferson e Adams afferma l’esistenza. Quei due uomini credevano che gli Stati Uniti avessero una loro identità, da preservare e difendere rispetto a quella europea o – peggio – moscovita. Quel retaggio culturale (che era stato creato fra il 1776 e il 1830) doveva essere valorizzato, non onorato come qualcosa di morto e sepolto. La contrapposizione contenuta nel testo è proprio fra valori, idee e personaggi considerati come defunti, sulla cui pietra tombale si può andare a commuoversi, e valori, idee e personaggi visti come “tempio e monumento”, ossia come incitamento ed esempio vivente all’azione e al comportamento di un popolo.
    Quei valori, idee e personaggi erano “civili”. Pound scrive: “Per lo scopo e/o la durata di questo saggio definirò come uomo civile colui che può dare una risposta seria a un quesito serio e il cui insieme di riferimenti mentali non si limita alla mera acquisizione del profitto.” Sempre, la civiltà vera è nemica del profitto, dell’oro, del valore materiale. Gli Stati Uniti sono una razza la cui azione è dotata di un senso nella storia ed è tenuta insieme da una identità nazionale: una civiltà autentica, una civiltà elevata (“paideuma” la chiamava Pound) consiste nel perpetuare il retaggio culturale di quella razza e nel comprendere il senso della sua storia. Una civiltà siffatta è anche sociale, davvero popolare, al contrario delle civiltà presenti. Una civiltà siffatta è un tutto organico, una vita non ancora frammentata in pezzi separati.
    Che cosa trasporta verso il basso una civiltà autentica? Il peso della materia, la considerazione dei princìpi non nella loro totalità ma nei loro frammenti separati l’uno dall’altro, lo spezzettamento della vita. Sia Marx sia il cattolicesimo sociale (Pound fa riferimento alle due principali forze critiche del capitalismo in quel momento) sbagliano in un punto essenziale: criticano la circolazione del denaro ma non vedono il centro della questione, che è la commercializzazione della vita, la vita vista sotto la forma dello scambio (Pound lo chiama “trasferimento”).
    Ora, dell’ideologia di Pound ognuno può pensare quello che vuole, bene o male: può apprezzarla o detestarla. Quello che appare più difficile è definirla “libertaria”. E’ quanto fa Giorello nella recensione al libro dal titolo “Elogio libertario di Ezra Pound”. E’ vero che i titoli sono sempre redazionali, ma Giorello scrive che Pound si è scagliato contro i tiranni, contro ogni dispotismo, che è sempre stato uno spirito libero: “mai sacrificare libertà e responsabilità dei singoli individui al sogno della centralizzazione burocratica o della sorveglianza totale, fosse pure in nome dell’efficienza, della sicurezza, o magari della sacralità della vita.” Intanto, ci piacerebbe sapere contro quali tiranni Pound si sia scagliato: contro Hitler, Stalin e Mussolini oppure contro i banchieri e i commercianti? La sua ammirazione per Mussolini non è affatto “curiosa”, come Giorello scrive. La tirannia contro cui lotta appare più la tirannia dell’”oro” di mussoliniana memoria (alla quale avrebbe dovuto rispondere il “sangue” dei popoli giovani) che non una protesta anticapitalista. Del resto, anche una parte dell’ideologia fascista e nazista si basò proprio sull’anticapitalismo.
    “Libertarian” indica in inglese l’anarchico di destra. In italiano, però, il termine “libertario” non designa la stessa cosa: indica piuttosto chi valuta la libertà da costrizioni e vincoli come prioritaria in una comunità rispetto alla sottomissione a regole e al rispetto del bene comune (che implica che la necessaria esistenza di uno Stato). Pound è molto diverso da un libertario (nel senso italiano del termine): della sua visione del mondo fanno parte gerarchia e razzismo, antisemitismo anticapitalista e ammirazione per gli uomini forti, eroismo e antimodernismo, spirito antiborghese e incitamento a distruggere lo stato presente delle cose, insomma reazione e rivoluzione. Era sì per una distruzione violenta degli stati liberaldemocratici e borghesi: ma per edificare comunità di sangue. Non basta dunque, per definire la sua ideologia politica, sottolineare il suo anticentralismo, come si legge nella recensione di Giorello. In altri termini, Pound non è solo un federalista o un anarchico: è un pensatore della destra radicale.
    Ma, del resto, come stupirsi? Pound è sempre piaciuto molto a sinistra: colpì anche Alfredo Salsano, che ne fece pubblicare L’ABC dell’economia da Bollati Boringhieri nel 1994. Gli fece dimenticare che non basta opporsi insieme a una stessa cosa (lo spirito borghese, il denaro, il credito) per pensarla in modo identico. L’opposizione al capitalismo di Pound è opposizione all’usura, al materialismo, alla democrazia del modo di vita, alla separazione tra morale e politica, tra Chiesa e Stato, tra individuo e comunità, tra parti e tutto, tra economia e politica, è lode della comunità pre-moderna e dei suoi valori indivisi, è identificazione del commercio con l’ebreo. Lo definiremmo un bell’esempio di radicale di destra, secondo la lucida classificazione di Dino Cofrancesco (in “Per un’analisi critica della destra rivoluzionaria. Dal nazionalismo al fascismo”, Genova, Ecig, 1984).
    Per i libertari nutro la massima simpatia, il massimo rispetto. Ma un po’ di chiarezza concettuale non guasta, anche nel loro mondo. Insieme, forse, a qualche lettura più adatta.
    Erza Pound, Il carteggio Jefferson-Adams come tempio e monumento, Milano, Ares, 2008, pp. 84, euro 10.
    Gli Arya seggono ancora al picco dell'avvoltoio.

 

 
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