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    Predefinito Repubblica Popolare Cinese

    REPUBBLICA POPOLARE CINESE




    Ultima modifica di Stalinator; 24-10-10 alle 18:56

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    Predefinito Rif: Repubblica Popolare Cinese

    Intervista al compagno Huang Hua Guang, responsabile per l’Europa Occidentale del Dipartimento Esteri del Partito Comunista Cinese

    su La Cina Rossa - Tratto da: “l’Ernesto”

    Intervista a cura di Walter Ceccotti - Ottobre 2009.

    In occasione del Sessantesimo Anniversario della Repubblica Popolare Cinese una delegazione di compagni italiani si è recata in Cina per osservare con i propri occhi le condizioni del Paese.

    Durante alcuni incontri abbiamo proposto ed ottenuto ai compagni cinesi di poter fare una serie di interviste ad importanti personalità della politica, in grado di spiegarci meglio quali sono le politiche realmente applicate in Cina al di là di ciò che sostiene un’informazione occidentale molto spesso interessata a dare un’immagine negativa del Paese.

    In questo quadro vi proponiamo la seguente intervista al compagno Huang Hua Guang, Direttore del Dipartimento Europa Occidentale del Ministero degli Esteri cinese-Dipartimento Esteri del Partito comunista cinese.


    Buongiorno, compagno Huang Hua Guang.


    Buongiorno…

    Diciamo innanzitutto senza indugi che in Italia le persone comuni non sanno molto della realtà cinese e tantomeno conoscono le condizioni di vita dei cinesi. Le persone comuni spesso si formano una loro impressione sulla Cina solo attraverso qualche notizia fornita dalla televisione.

    Anche a sinistra, riferendosi alla realtà cinese, spesso si sostiene la tesi secondo cui in Cina, dalla svolta del 1978, si sarebbe perseguita una”restaurazione del capitalismo” tout court.

    La domanda che le pongo è se è questo che intende il Pcc quando parla di “socialismo in un’economia di mercato” o di “socialismo con caratteristiche cinesi”.

    Qual’è il vostro concetto di socialismo e come intendete realizzarlo?

    Huang:

    Sappiamo bene che il mondo guarda alla Cina con attenzione. Le forze di sinistra europee ed italiane in particolare si interrogano su cos’è il Socialismo alla cinese, quali sono i suoi problemi, attuali e futuri. Sappiamo che c’è un dibattito interno a queste forze riguardo al Socialismo alla cinese, e anche dei dubbi. E’ un dibattito molto ampio, e la storia ci fornisce anche delle lezioni negative. La Cina è un paese con delle condizioni particolari, per comprenderle dobbiamo partire dalla storia del Partito Comunista Cinese, che una parte degli amici di sinistra europei non conosce molto bene.

    LA CINA NELL’800: SEMICOLONIA DELL’OCCIDENTE

    Fino alla metà del diciassettesimo secolo la Cina era un paese relativamente progredito rispetto alle condizioni dell’epoca. Il peso dell’economia cinese all’interno dell’economia mondiale di allora era di circa il 33%. E’ solamente a partire dalla seconda metà della dinastia Qing, con la Guerra dell’Oppio e l’invasione delle potenze occidentali, che la Cina trova sempre maggiori difficoltà ed imbocca la via della decadenza, fino a raggiungere uno status di semicolonia. Ad Hong Kong, Shangai e Tianjin vengono stabilite delle concessioni extraterritoriali occidentali, e anche la finanza nazionale in quegli anni è controllata dagli occidentali.

    Nelle varie guerre dell’Ottocento contro le potenze occidentali e il Giappone la Cina ha sempre perso, ed è costretta a pagare i danni di guerra, che ad un certo momento ammonteranno a circa il 50% del bilancio pubblico.

    La contemporanea industrializzazione in Occidente separa sempre di più i livelli di sviluppo con la Cina.

    E’ a questo punto che in Cina emerge una grande domanda tra le forze politiche e sociali: come uscire da questa situazione? Come possiamo imboccare la via che ci conduca alla condizione di uno stato autonomo e indipendente, con un suo proprio livello di sviluppo economico e sociale?

    Molte forze in Cina hanno provato a modificare questo stato di cose prima di noi, ma nessuna di loro vi è riuscita.

    Il P.c.c. è nato quattro anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, e con gli strumenti teorici del marxismo e del leninismo ha effettuato un’analisi approfondita della condizione della società cinese dell’epoca.

    Dopo più di vent’anni di prove e lotte, soprattutto sotto la guida di Mao, seguendo la sua strategia di circondare le città dalle campagne(anche questa una strategia con caratteristiche tipicamente cinesi), il Pcc ha rovesciato il regime reazionario del Guomindang, cacciato gli imperialisti, realizzato l’autonomia e l’indipendenza del Paese, ha fondato la Repubblica del Popolo cinese e, con la vittoria, ha preso la decisione di costruire il Socialismo in Cina.

    LA COSTRUZIONE DEL SOCIALISMO IN CINA NELLA FASE 1949-1978: AVANZATE, LIMITI, PROBLEMI

    Portare avanti la costruzione del Socialismo in Cina, in un paese orientale con una popolazione numerosa, e con una grave arretratezza nello sviluppo economico e sociale, è stata una cosa senza precedenti, una cosa del tutto nuova.

    In precedenza c’erano stati sì degli altri esempi. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre e la fine della seconda guerra mondiale si sono formati dei governi socialisti nell’Europa dell’est. Tuttavia i modelli socialisti est-europei non sono stati modelli per la Cina perché non corrispondevano alla realtà cinese.

    Dopo la fondazione della Repubblica in Cina, i comunisti cinesi hanno importato alcune cose dall’Urss, ma non hanno copiato alla lettera tutto quanto proveniva dall’Urss e dall’Europa dell’est.

    Dal 1949 al 1978 (anno della fondazione della Repubblica Popolare, e dell’inizio delle riforme di Deng Xiaoping, n.d.r.)in generale nella costruzione del sistema socialista abbiamo ottenuto anche dei grandi risultati: abbiamo costruito un sistema politico, ed abbiamo forgiato un sistema industriale relativamente autonomo. Anche nelle campagne la produzione agricola ha avuto un grande sviluppo.

    Tutti questi risultati sono riferiti alla situazione precedente al 1949. Anche sul piano della cultura, dell’istruzione, del tasso di analfabetismo, in quel periodo abbiamo ottenuto dei grandi risultati.

    Certo che se facciamo il confronto con l’Occidente questo tipo di sviluppo cinese è stato relativamente più lento, e anche rispetto a paesi asiatici come Sud Corea, Filippine, Singapore, ecc…

    Un’altra caratteristica dello sviluppo tra il 1949 e il 1978 è che a volte accelera, a volte rallenta, non è stabile e procede a zig-zag.

    Se guardiamo allo sviluppo mondiale in quel periodo, devo dire che il sistema e le strutture formate dopo la Rivoluzione non potevano dare garanzie di uno sviluppo stabile e sostenibile.

    Anche per via di queste strutture economico-politiche le iniziative della partecipazione del popolo allo sviluppo economico e sociale in quel periodo non sono state sfruttate a pieno.

    Di fatto questo modello altamente centralizzato di gestione economico-sociale importato dall’Urss ha bloccato lo sviluppo e non è riuscito a rispondere ai bisogni della gente.

    In quel periodo anche l’eccessivo idealismo ha giocato un ruolo negativo, e sembrava che costruire il Socialismo non fosse poi così tanto difficile. Era diffusa l’idea, anche tra alcuni dirigenti ad alto livello, che si potesse giungere facilmente anche al comunismo.

    Di conseguenza abbiamo introdotto delle politiche troppo radicali, anche volte a promuovere ed accelerare la crescita, ma che hanno prodotto l’effetto contrario, come il Grande Balzo in Avanti e la Rivoluzione Culturale.

    Inoltre in quel periodo la Cina si trovava in un ambiente internazionale molto particolare: i paesi capitalisti occidentali mantenevano nei confronti della Cina un Blocco economico e commerciale oltre che politico; negli anni ‘60 vi fu lo scontro e la rottura dei rapporti con l’Urss, e la situazione internazionale era altrettanto soggetta a mutamenti.

    L’attenzione era tutta volta alla lotta interna al Partito, e non ci si è dedicati sufficientemente allo sviluppo economico. E nel frattempo l’Occidente si sviluppava.

    L’effetto fu disastroso, la lotta politica era sempre al primo posto. E così la Cina ha perso molto tempo…

    Tuttavia…ci siamo anche posti il tema dello sviluppo e della crescita, con la campagna delle quattro modernizzazioni (campagna lanciata da Deng agli albori del processo di riforma, n.d.r.)…ma queste modernizzazioni, come avremmo potuto realizzarle?

    All’epoca sul tema vi furono grandi dibattiti.

    Infine nel 1978 la terza sessione dell’undicesimo Comitato Centrale del P.c.c. lancia il programma di Riforma e Apertura, che è considerata una svolta storica. Essa ha avuto un punto fondamentale: liberare la mentalità, ricercare la verità a partire dai fatti, abbandonare la sbagliata visione del socialismo della Rivoluzione Culturale, introdurre la Riforma e l’Apertura , e mettere lo sviluppo economico al primo posto.

    E’ così che pian piano si è andata formando la teoria del Socialismo alla cinese.

    LA TEORIA DEL “SOCIALISMO ALLA CINESE”

    La formazione della teoria del Socialismo alla cinese ha usato proprio il marxismo come linea di guida, facendo un bilancio dell’esperienza e delle lezioni dell’Unione Sovietica e dei paesi dell’Est europeo, e anche della stessa esperienza di costruzione del Socialismo in Cina nel periodo ‘49-’78, prendendole come base per la formazione di questa teoria.

    E’ anche un passaggio del processo di sinizzazione del marxismo.

    La teoria del Socialismo alla cinese comprende soprattutto questi elementi principali: innanzitutto la linea di guida, il Materialismo Storico e Dialettico.

    Deng Xiaoping ci invita ad “aprire la mente, ricercare la verità a partire dai fatti”.

    Per costruire il Socialismo in Cina bisogna afferrare il nucleo teorico fondamentale del marxismo piuttosto che copiare alla lettera tutto quanto quello che hanno detto Marx e Engels più di 150 anni fa.

    Dobbiamo partire dalla realtà cinese ed esplorare una nostra via nella costruzione del Socialismo.

    Se si pensa di costruire il Socialismo copiando dal libro o dal modello altrui certamente non si potrà avere successo.

    Ci vuole una rivoluzione nella mentalità: che cos’è il Socialismo? come costruire il Socialismo? Per rispondere a queste domande bisogna partire dalle caratteristiche fondamentali della società cinese.

    Sulla stessa domanda, dopo le discussioni e i dibattiti, abbiamo avuto un’idea più chiara.

    Anche qui possiamo usare una famosa frase di Deng: “Cos’è il Socialismo? Per Deng Xiaoping in fondo il compito del Socialismo si riassume in questi quattro punti: liberare le forze produttive, eliminare lo sfruttamento, eliminare la polarizzazione sociale, e raggiungere l’obiettivo finale di un arricchimento comune”.

    Rispetto alla domanda che lei mi ha posto, ovvero qual’è la via del Socialismo cinese: la cosa fondamentale è seguire una propria strada, con il P.c.c alla guida.

    Partendo dalla realtà cinese, mettere la costruzione economica al centro del lavoro.

    Persistere sui Quattro Principi Fondamentali: 1)mantenere la via socialista, 2) la dittatura democratica del popolo, 3)il ruolo guida del Partito Comunista cinese, 4)l’ aderenza al marxismo-leninismo e al pensiero di Mao Zedong.

    Oltre a questo dobbiamo continuare sulla via della Riforma e dell’Apertura, sviluppare la capacità produttiva, perfezionare e migliorare il sistema socialista.

    Per quanto riguarda qual è la fase attuale del socialismo in Cina, diciamo che la Cina ha una sua particolarità: una popolazione numerosa, e una base sociale relativamente arretrata. Il socialismo cinese non è stato fondato sulla base di un capitalismo già avanzato, come dicevano Marx ed Engels.

    Per questo noi diciamo che la Cina si trova in una fase iniziale del socialismo(espressione a volte tradotta come “stadio primario del socialismo”).

    Quindi in questa Cina, con uno sviluppo economico e sociale ancora arretrato, con una condizione scientifica, tecnologica ed educativa rimaste indietro, e una base economica abbastanza debole…sulla base di queste condizioni, la costruzione del socialismo non potrà essere raggiunta così in fretta, come considerava Mao a quel tempo: dobbiamo avere più pazienza.

    In questa fase particolare il compito principale è sviluppare le forze produttive, mettere lo sviluppo economico al centro del lavoro.

    In Cina la contraddizione fondamentale è ancora quella tra bisogni crescenti delle masse popolari e la capacità del sistema produttivo rimasta relativamente indietro.

    Solamente attraverso lo sviluppo economico sarà possibile risolvere una serie di problemi e questioni economiche e sociali in Cina.

    LA PIANIFICAZIONE DELLO SVILUPPO ECONOMICO

    La pianificazione di tale sviluppo in Cina venne intrapresa già al tempo di Deng Xiaoping. Già a partire dal 1979 avevamo pianificato di dividere lo sviluppo cinese successivo in tre tappe:

    1979-1999, 2000-2020, 2020-2049.

    La prima fase, dal 1979 alla fine del secolo, aveva come obiettivo quello di raggiungere un tenore di vita del popolo in grado di garantire le condizioni di base: alimenti, vestiti, abitazioni ed un minimo di garanzie sociali.

    La seconda fase, quella attuale, dal 2000 al 2020, ha come obiettivo quello di generalizzare questo tenore di vita confortevole e di offrire delle migliori garanzie in tutti i campistruzione, sanità, infrastrutture, ecc…

    Dal 2020 al 2049, anno in cui si celebrerà il centenario della Rivoluzione,

    l’obiettivo che ci poniamo è quello di arrivare al livello di un paese medio-sviluppato di oggi. In quel momento la Cina sarà un paese moderno, ricco, forte, democratico, civile, armonioso. E’ un obiettivo grandioso, che richiederà lo sforzo e il lavoro collettivo di tutti quanti noi per una-due generazioni.

    RIFORME DEL SISTEMA ECONOMICO E POLITICO INTERNE AL SISTEMA SOCIALISTA

    Ma come sarà possibile raggiungere questi obiettivi? Con quali mezzi e

    con quali strumenti?

    Secondo noi semplicemente con due strumenti, la Riforma e l’Apertura.

    Già Deng aveva detto all’epoca, ma vale anche oggi, che se la Cina non si auto-riforma continuamente non ci sarà via di uscita per il Paese.

    Questa riforma è una seconda Rivoluzione, poiché ha prodotto dei cambiamenti molto profondi e molto rapidi in tutti i campi, politico, economico e sociale, e nel modello di gestione del paese.

    L’obiettivo principale della Riforma è quello di rimuovere tutti i blocchi, nel sistema e nelle strutture, che ritardano lo sviluppo economico e il progresso sociale.

    Tra le varie riforme quella principale è la riforma del modello di management e di amministrazione, ovvero passare da un sistema con un’economia pianificata altamente centralizzata ad una decentrata, nella cornice di un’economia di mercato socialista.

    Per raggiungere quest’obiettivo dobbiamo servirci di tutti i metodi possibili ed utili a dispiegare la volontà e le iniziative del popolo in tutti i campi, sia a livello centrale che a livello locale, sia da parte delle imprese che degli individui.

    Tuttavia la Riforma non si attua solo nella formazione dell’economia di mercato socialista, ma viene portata avanti anche sul piano politico, della costruzione democratico-legislativa, con la formazione di un sistema giuridico e giurisdizionale.

    A partire dalla Riforma in Cina sono state promulgate più di 800 nuove leggi o revisioni e modifiche di legge, che coprono tutti i campi della vita economico-sociale. Esse comprendono le leggi sul contratto, sul lavoro, sulle imprese, sulle partecipazioni societarie, ecc…

    Queste nuove leggi sono state concepite per garantire il funzionamento della struttura sociale dopo la riforma del sistema economico. Sono riforme interne al sistema socialista, un auto-perfezionameno del sistema socialista stesso. Non sono una copia del sistema politico-sociale dei paesi capitalisti.

    L’APERTURA

    Il secondo strumento per promuovere un continuo sviluppo economico sociale in Cina è l’Apertura. I fatti hanno dimostrato che questo è uno strumento molto utile. In questo mondo globalizzato se un paese pensa di svilupparsi rinchiudendosi in se stesso l’obiettivo dello sviluppo diventa impossibile da raggiungere.

    Soprattutto per la Cina, paese caratterizzato da una base economica arretrata, mancanza di finanziamenti, di tecnologie, di esperienze di management…un paese così, se vuole accelerare la propria crescita e raggiungere i ritmi di sviluppo dei paesi occidentali, deve necessariamente avere uno spirito d’apertura.

    Dobbiamo imparare da tutte le esperienze straniere, comprese quelle dei paesi capitalisti, carpirne i frutti dello sviluppo, per aiutare il nostro sviluppo, lo sviluppo socialista.

    Ad esempio la Cina nel corso di questi anni ha importato dall’estero grandi quantità di investimenti, tecnologie, intere linee di produzione e impianti, nonché le esperienze di management delle imprese occidentali, comprese quelle relative all’amministrazione sociale(azionariato).

    Adesso abbiamo iniziato anche noi ad investire all’estero negli altri paesi, al di là dell’ambito strettamente commerciale.

    O per fare un altro esempio, ovvero di come fornire ai lavoratori un sistema di garanzie sociali equilibrate, possiamo dire che in questo campo i paesi europei hanno accumulato delle significative esperienze.

    Oggi possiamo dire, con tutto il mondo testimone, che se in questi 30 anni la Cina ha ottenuto una crescita così veloce, e molte questioni economico sociali ereditate dal passato sono state risolte in modo abbastanza soddisfacente, è stato grazie alla politica di Riforma e Apertura.

    I QUATTRO PRINCIPI FONDAMENTALI

    Certo non è che sia andato tutto liscio…con l’apertura entrano tante cose, in tutti i sensi, in questo caso dai paesi occidentali capitalisti.

    Per garantire la continuità delle riforme e dell’apertura, riducendo allo stesso tempo gli elementi negativi portati dall’apertura, dobbiamo avere una garanzia politica, che si sostanzia in quello che dicevo prima, ovvero i quattro principi fondamentali.

    Questi quattro principi fondamentali sono la base del nostro paese e del nostro Partito.

    Ignorare uno qualsiasi di questi quattro principi può arrecare un grave danno a tutto il sistema.

    Questi quattro principi esprimono anche le differenze fondamentali che vi sono tra la Cina di oggi e la vecchia Cina feudale, tra la Cina ed i paesi capitalisti occidentali.

    Se non vi fossero questi quattro principi fondamentali alla base dello Stato la Cina non potrebbe definirsi un paese socialista.

    Certo che per portare avanti continuamente lo sviluppo del socialismo cinese dobbiamo chiederci a quale forza ci dobbiamo appoggiare.

    Questa forza sono il nostro popolo e le masse. Queste masse popolari sono composte soprattutto da tre componenti: operai, contadini e intellettuali, e sono la forza fondamentale che traina la Cina verso un continuo sviluppo. Poi ci sono altre figure sociali nuove che sono nate in questi trent’anni, per esempio gli imprenditori privati, gli impiegati delle aziende straniere, i lavoratori autonomi, i liberi professionisti, ecc… . Anche loro partecipano alla costruzione del Socialismo alla cinese, e hanno dato i loro contributi allo sviluppo della Cina.

    IL RUOLO DIRIGENTE DEL PARTITO COMUNISTA

    Certo che per continuare su questa strada di sviluppo e crescita avere una forza di base è essenziale, ma non basta. Ci vuole un nucleo di guida, cioé il Partito comunista. Noi diciamo che il Partito comunista cinese è il pioniere della classe operaia, ma non solo, è il pioniere di tutta la nazione cinese.

    Nel portare avanti la costruzione del socialismo in Cina il ruolo di guida del Pc.c. è essenziale. Ma per esercitare questo ruolo di guida e aumentare la capacità di governo è essenziale l’auto-costruzione del Partito.

    Il P.c.c. deve mantenere sempre il suo ruolo di avanguardia.

    I Partito deve essere sempre armato dal marxismo-leninismo e deve avere una conoscenza chiara dei cambiamenti della situazione internazionale globale, dello sviluppo e della crescita economica, e del cambiamento economico e sociale.

    Deve avere una conoscenza delle regole di sviluppo, e anche delle esigenze e della direzione dello sviluppo economico-sociale mondiale.

    Un altro aspetto è che il Partito comunista deve avere sempre una sua popolarità, uno stretto legame con le masse.

    L’obiettivo del Partito deve essere l’interesse comune. Esso deve governare nell’interesse del popolo.

    Nella realtà odierna deve riuscire a risolvere il problema della corruzione. La lotta alla corruzione all’interno del Partito è uno dei nostri compiti principali attuali.

    I COMUNISTI NEL MONDO DEVONO ESPLORARE LA PROPRIA VIA

    Certo che la teoria del socialismo alla cinese copre tanti altri campi e aspetti al di là di quelli economici, come ad esempio la costruzione politica, culturale, sociale, ambientale, ecc.. In questa nuova fase della modernizzazione, noi vogliamo porre più attenzione ad uno sviluppo coordinato, equilibrato, e sostenibile.

    Il socialismo alla cinese è dunque una questione che copre dei campi molto vasti, ma è allo stesso tempo una teoria in evoluzione e in via di perfezionamento, poiché in Cina la costruzione del socialismo è ancora in corso e durerà a lungo.

    Abbiamo di fronte a noi dei nuovi problemi e delle nuove questioni che dobbiamo affrontare con spirito innovativo.

    Dobbiamo ancora continuare la nostra esplorazione, e col tempo la teoria del socialismo alla cinese diverrà ancora più ricca.

    Sulla questione di come costruire il socialismo nei diversi paesi vogliamo confrontarci e scambiare opinioni con i partiti di sinistra degli altri paesi.

    Il nostro pensiero di base è questo: costruire il socialismo è una strada molto lunga, è un’evoluzione storica.

    Ogni paese ha una sua realtà diversa, e ogni paese può avere una strada propria particolare da percorrere se vuole realizzarlo.

    C’è bisogno che i comunisti dei diversi paesi esplorino la propria via e in questo modo si arricchiscano insieme delle reciproche esperienze.

    Secondo noi, dopo sessant’anni di esplorazione, soprattutto tramite l’accumulazione delle esperienze degli ultimi trent’anni, si è dimostrato che questo socialismo, il socialismo alla cinese, è un sistema che corrisponde alla realtà economica e sociale cinese attuale, e corrisponde alle esigenze del nostro popolo.

    E’ proprio sulla base di questo sistema di socialismo alla cinese che siamo riusciti a conseguire degli sviluppi senza precedenti sia nel settore economico che in quello politico-sociale, e, anche di fronte alle grande sfide mondiali, queste sfide siamo riusciti a vincerle.

    Quindi noi vogliamo scambiarci sì delle valutazioni con i compagni europei, ma speriamo anche che quando i comunisti europei guardano alla Cina e valutano il socialismo cinese non utilizzino la loro propria realtà, la realtà occidentale o quanto detto da Marx ed Engels più di centocinquant’anni fa come l’unico criterio di valutazione.

    Speriamo che partano dalla realtà cinese, dalla storia cinese, dalla fase di sviluppo cinese attuale.

    Una buona sintesi della linea del Pcc e dei principali aspetti riguardanti la costruzione del socialismo in Cina è contenuta nel discorso pronunciato in occasione del diciassettesimo congresso del Partito del compagno presidende Hu Jintao.

    A proposito egli parla di dieci punti, o combinazioni:

    1) combinare i principi fondamentali del marxismo con la realtà della Cina e allo stesso tempo promuovere la cinesizzazione/sinizzazione del marxismo.


    Ciò significa che dobbiamo liberare la nostra mentalità, e ricercare la verità a partire dai fatti.

    Dobbiamo produrre delle innovazioni teoriche sulla base di una prassi che parta dai fatti reali.

    2)combinare i quattro principi fondamentali(via socialista, dittatura democratica del popolo, guida del Pcc, marxismo leninismo e pensiero di Mao Zedong)con la politica di Riforma e Apertura.

    Dobbiamo mettere la direzione economica al centro lavoro per garantire una giusta direzione politica del processo di Riforma.

    3) unire lo spirito d’iniziativa del popolo con il rafforzamento del ruolo di guida del Pcc.

    Tutto quello che facciamo è per il popolo, tutto quello che facciamo lo facciamo per il popolo.

    4)unire il sistema socialista con lo sviluppo di un’economia di mercato socialista.

    Questi sono infatti i vantaggi del sistema socialista cinese: da una parte c’è questo ruolo del mercato nell’allocazione delle risorse, dall’altro la forte capacità di regolamentazione macroeconomica dello stato.

    Noi dobbiamo migliorare e rafforzare la capacità di regolamentazione macroeconomica del governo e dello stato per diminuire e riparare i difetti originari del mercato.

    Da una parte dobbiamo promuovere la crescita, aumentare l’efficienza dell’economia e del mercato, e dall’altra dobbiamo garantire la distribuzione e l’eguaglianza a vantaggio delle persone più povere.

    E per fare questo dobbiamo migliorare la capacità di regolamentazione macroeconomica da parte del governo.

    5)unire la riforma della base economica con la riforma della sovrastruttura politica.


    Dobbiamo continuare a rafforzare lo sviluppo e la costruzione della legislazione, e la costruzione democratica socialista.

    6)conciliare l’aumento della crescita materiale con la costruzione culturale.

    Lo sviluppo materiale, economico, da solo non basta a soddisfare le esigenze di automiglioramento dell’uomo.

    Se c’è scarsità materiale questo non è socialismo, ma se vi è mancanza o scarsità culturale, neanche quello è socialismo.

    Dobbiamo tenere conto dello sviluppo di entrambi, per formare un sistema di valori fondamentali socialisti.

    7)conciliare l’aumento dell’efficienza con l’eguaglianza sociale.


    Da una parte dobbiamo continuare lo sviluppo economico e dall’altro dobbiamo fare in modo che tutta la gente possa godere dei frutti dello sviluppo.

    Dobbiamo dare più attenzione, più energia, per risolvere il problema dell’uguaglianza sociale, della giustizia sociale e per migliorare e risolvere le questioni che riguardano la vita della gente, per intraprendere una strada di arricchimento comune.

    8)combinare la salvaguardia dell’indipendenza nazionale con lo sviluppo della globalizzazione mondiale.

    Da una parte dobbiamo continuare a persistere in una politica di autonomia e di indipendenza. Ma d’altra parte dobbiamo partecipare di più al processo di globalizzazione. Ciò significa che dobbiamo contemporaneamente svilupparci noi, ma allo stesso tempo dare maggiori contributi per lo sviluppo di tutto il mondo.

    In un paese come il nostro con una popolazione così numerosa, in questo grande paese in via di sviluppo, dobbiamo sempre seguire il nostro sistema, la nostra via.

    Dobbiamo mettere sempre la sovranità e la salvaguardia della nostra sicurezza al primo posto.

    Siamo contrari a qualsiasi tipo di interferenza esterna, e non ci inginocchieremo mai di fronte a queste pressioni esterne.

    Certo che persistere su questi principi non significa che noi rinunciamo alla cooperazione internazionale.


    9)conciliare lo sviluppo con la stabilità.

    Dobbiamo promuovere la riforma e lo sviluppo insieme con la stabilità del nostro paese. Dobbiamo tenere conto sia della velocità di sviluppo e della riforma, ma anche della capacità di adeguamento della società.

    Noi diciamo sempre che “la riforma è il motore, lo sviluppo è il nostro obiettivo, la stabilità è la precondizione”.

    Senza la stabilità la riforma e lo sviluppo saranno impossibili.

    10)combinare la promozione del socialismo con caratteristiche cinesi con l’autocostruzione del Partito.

    Bisogna qui sottolineare il ruolo del Pcc nel portare avanti la costruzione del socialismo in Cina insieme all’importanza della costruzione teorico organizzativa del Partito e la lotta contro la corruzione.

    Questi dieci punti sono un bilancio dell’esperienza dei successi di questi trent’anni di riforma.

    Questi sono punti importanti per uno straniero che voglia conoscere meglio la Cina, dieci punti su cui dobbiamo persistere.

  3. #3
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    Predefinito Rif: Repubblica Popolare Cinese

    Un istruttivo viaggio in Cina. Riflessioni di un filosofo


    di Domenico Losurdo


    Dal 3 al 16 luglio ho avuto il privilegio di visitare alcune città e realtà della Cina, nell’ambito di una delegazione invitata dal Partito comunista cinese, della quale facevano parte altresì esponenti dei partiti comunisti del Portogallo, della Grecia e della Francia e della Linke tedesca; per l’Italia, oltre al sottoscritto, hanno partecipato al viaggio Vladimiro Giacché e Francesco Maringiò. Il testo che segue non è un diario o una cronaca; si tratta di riflessioni stimolate da un’esperienza straordinaria.


    1. La prima cosa che colpisce nel corso del colloquio con gli esponenti del Partito comunista cinese e con i dirigenti delle fabbriche, delle scuole e dei quartieri visitati è l’accento autocritico, anzi la passione autocritica di cui danno prova i nostri interlocutori. Su questo punto, netta è la rottura con la tradizione del socialismo reale. I comunisti cinesi non si stancano di sottolineare che lungo è il cammino da percorrere e numerosi e giganteschi sono i problemi da risolvere e le sfide da affrontare, e che comunque il loro paese è ancora parte integrante del Terzo Mondo.


    Per la verità, nel corso del nostro viaggio il Terzo Mondo non l’abbiamo mai incontrato......

    Qui il resto
    https://docs.google.com/fileview?id=...thkey=CLjM05IB

  4. #4
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    Predefinito Rif: Repubblica Popolare Cinese

    La nuova Cina che abbiamo sottovalutato

    di Vladimiro Giacchè


    Sino a non molto tempo fa un viaggio in Cina era l’occasione per misurare le molte distanze tra “noi” e “loro”. Oggi se ne misura soprattutto un’altra: quella tra l’immagine della Cina offerta dai nostri media e la realtà di quel Paese.

    La Cina che ho incontrato a luglio in un viaggio che ha toccato Pechino e diverse altre città, nel corso del quale ho potuto visitare numerose imprese e impianti industriali e discutere (molto apertamente) con esponenti del mondo della politica e dell’economia, è molto distante da quell’immagine. Soprattutto dal punto di vista economico.

    La competizione non è più sul costo

    Cominciamo dalla competitività delle imprese cinesi. Noi continuiamo a pensare che sia basata esclusivamente sul bassissimo costo del lavoro. È senz’altro vero che la Cina, con una popolazione di oltre 1 miliardo e 300 milioni di persone, ha potuto giovarsi per anni di abbondante manodopera a basso costo. È stato questo che ha attratto le 690 mila imprese straniere (400 le grandi multinazionali) che oggi hanno uffici e soprattutto fabbriche in Cina. In questi anni la crescita dell’economia è stata spettacolare. Ma lo è stata anche quella del reddito disponibile per la popolazione: nel 2009 è stato più che doppio nelle città rispetto a quello del 2002, e nelle campagne i poveri sono scesi dai 250 milioni del 1978 ai 20 milioni attuali. Inoltre quest’anno scioperi e proteste hanno investito molte fabbriche. E sono stati coronati da successo: alla Foxconn, gli aumenti salariali sono stati del 40%, cifre non molto inferiori sono state ottenute alla Honda e alla Omron.

    La stampa ufficiale (il “Quotidiano del popolo” e il “China Daily”) ha preso apertamente posizione per gli scioperanti, e lo stesso hanno fatto diversi esponenti del partito comunista. La cosa non sorprende. Questi aumenti infatti non rispondono soltanto ad ovvie logiche di equità: sono funzionali alla creazione di un mercato interno. Puntare sul suo sviluppo è fondamentale per ridurre la dipendenza dell’economia cinese dalle esportazioni, ed è un obiettivo esplicito del governo. Non è un caso che negli ultimi mesi siano state più volte rilanciate dalla stampa ipotesi di un progetto governativo per un raddoppio delle retribuzioni in 5 anni.

    Yao Jian, portavoce del Ministero del commercio, già adesso non ha dubbi: “la forza lavoro a buon mercato non è più il maggiore vantaggio comparato della Cina per attrarre gli investimenti stranieri”. Dopo aver visto come funzionano alcune aree di attrazione di quegli investimenti, penso che abbia ragione.

    Beibei, per esempio, è uno dei nove distretti della municipalità di Chongqing (33 milioni di abitanti), e si trova nella parte centro-occidentale della Cina, tuttora in ritardo di sviluppo rispetto all’est e alla zona costiera. I potenziali investitori ricevono un volume con dettagliate informazioni sul distretto, i suoi istituti universitari, le tipologie di imprese già presenti negli 8 parchi industriali dell’area (oltre 2000, 345 delle quali di grandi dimensioni), le infrastrutture attuali e quelle che si stanno costruendo, i prezzi dei vari fattori di produzione (costo medio dei salari, ma anche prezzo di acqua, elettricità, gas) e le agevolazioni previste per chi investe. Nell’area è presente letteralmente di tutto: da grandi estensioni di terreno dedicate all’agricoltura biologica a un centro di acquacoltura gestito da una cooperativa agricola di produzione e vendita; da industrie farmaceutiche a fabbriche di motori e automobili.

    L’ossessione per l’energia verde

    Ho visitato la fabbrica di automobili Lifan. Privata, fondata nel 1992 con 9 dipendenti e un investimento di appena 200.000 renminbi (1 euro è pari a circa 8 rmb), oggi impiega 13.200 persone e costruisce auto, motori, motociclette, fuoristrada e autocarri. Nel 2009 il fatturato è stato di 13,3 miliardi di rmb, con profitti pari al 10% del fatturato. I suoi prodotti sono esportati in 160 nazioni, e quest’anno nel suo settore la Lifan è stata seconda solo a Chery quanto ad esportazioni. Lifan ha già anche numerose fabbriche all’estero: in Vietnam, Thailandia, Turchia, Russia, Egitto ed Etiopia. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono pari al 4% del fatturato e in questi anni hanno consentito alla società di registrare qualcosa come 4448 brevetti. L’impianto di assemblaggio non ha nulla da invidiare a quelli occidentali, tanto in termini di macchinari utilizzati quanto di condizioni di lavoro.

    Stessa musica a migliaia di chilometri di distanza, nella zona di sviluppo per industrie hi-tech di Weifang, nella penisola di Shandong: anche in quest’area di 39 kmq specializzata in elettronica, software e servizi avanzati, dove sono già insediate 130 imprese, ho trovato industrie di avanguardia.

    La Goer-Tek produce componentistica audio per imprese quali Nokia, Samsung, LG, Panasonic, Harman. Fondata nel 2001, fatturato e profitti sono decuplicati dal 2005 al 2008. In questo caso l’utile netto è superiore al 10% del fatturato. Ha numerosi centri di ricerca e sviluppo, e quest’anno stima di riuscire a registrare 200 nuovi brevetti. La AOD (Advanced Optronic Devices) è invece specializzata in sistemi di illuminazione avanzata. Il Vicepresidente e Chief Operating Officer, Keen Chen, mi spiega che la società è stata fondata nel 2004 da un cinese residente all’estero, grazie alle particolari agevolazioni statali previste per il rientro degli espatriati. Oggi l’organico è di 600 persone. Le lampade a led prodotte da AOD consentono un risparmio di energia sino al 70% e durano cinquanta volte di più di una lampada normale (e 10 volte di più delle usuali lampade a basso consumo). L’illuminazione stradale che mi aveva colpito al mio arrivo a Weifang è tutta a led ed è il risultato delle lampade di AOD. È facile immaginare cosa questo significhi in termini di risparmio energetico per una città di 8 milioni e 700 mila abitanti.

    L’attenzione a produzioni eco-compatibili accomuna le imprese del parco tecnologico di Weifang. Nella direzione generale della Weichai Power, società che costruisce motori diesel per automezzi, navi e generatori di energia (ma anche autocarri e componentistica per auto), ad esempio, un’intera sala è dedicata al motore “verde” a basse emissioni messo in produzione nel 2005. La Weichai Power è una società a prevalente partecipazione pubblica: quotata alle borse di Hong Kong e di Shanghai, ha lo Stato come primo azionista, con il 14% delle azioni. Esporta in Europa dagli anni Ottanta e nel 2009 ha acquisito una società francese, la Moteurs Baudouin. L’utile netto atteso per il 2010 dovrebbe superare il 12% dei ricavi (15 miliardi di rmb).

    È invece privato il capitale della Bin, un’impresa che costruisce biciclette, motocicli e auto con motore elettrico. Queste produzioni non sono un’eccezione. La Chery, il maggiore produttore cinese di automobili, sviluppa automezzi ibridi dal 2001, e dal 2009 ha prodotto la sua prima macchina completamente elettrica. Lo stesso ha fatto la Byd (che ha Warren Buffett tra i suoi azionisti).

    Sempre nello Shandong, a Qingdao, si trovano la direzione generale e gli stabilimenti di Haier. Si tratta di una grande multinazionale cinese, quotata a Hong Kong ma tuttora di proprietà pubblica. Fondata nel 1984, ha cominciato ad internazionalizzarsi nel 1998. Oggi ha 29 impianti industriali nel mondo, di cui 24 all’estero, anche se i tre quarti del fatturato provengono dalla Cina. Nel 2009 è risultata prima al mondo nella vendita di elettrodomestici bianchi (frigoriferi e lavatrici), con una quota del 5,1% del mercato mondiale, battendo la Whirlpool. Han Zhendong, membro del consiglio di sorveglianza, mi spiega che Haier ha raggiunto una quota di mercato del 10% nelle vendite di frigoriferi in Francia, ma – cosa molto più importante – nel 2009 ha accresciuto del 50% la quota di mercato dei propri prodotti di punta in Cina, grazie a 100.000 (!) punti vendita nelle campagne. Ha otto centri di ricerca e sviluppo tecnologico. Per la sua attenzione ai problemi ambientali ha ricevuto già nel 2000 il “Global Climate Award”dal programma UNDP dell’Onu. Produce tra l’altro lavatrici a basso consumo di acqua e di energia, pannelli solari per riscaldamento e condizionatori d’aria a energia solare.

    Obiettivo: attirare capitali esteri

    Una prima conclusione: in Cina, a differenza di quanto siamo portati a credere, l’emergenza ambientale è presa molto sul serio. E non soltanto da parte delle imprese più avanzate. Anche la skyline di diverse città cinesi lo conferma. Dal treno ad alta velocità che mi riportava da Weifang a Pechino ho notato che praticamente tutte le case della città di Dezhou avevano il tetto coperto di pannelli solari: e in effetti il 95% delle abitazioni di quella città è dotato di scaldabagni ad alimentazione solare. Il produttore di pannelli è una società locale, la Himin Solar Energy. La superficie della sua produzione ha già superato i 2 milioni di mq di pannelli, ossia il totale dei pannelli solari in uso nell’intera Unione Europea.

    Anche le multinazionali che operano in Cina sono state chiamate a fare la loro parte. Il 13 aprile scorso il governo ha pubblicato le "Opinioni su come continuare a fare un buon lavoro nell'utilizzo degli investimenti esteri". Il titolo del documento, come spesso accade in Cina, è piuttosto generico e indiretto: ma vi si delinea una vera e propria nuova politica nei confronti degli investimenti esteri in Cina. Si intende incoraggiare gli investitori stranieri ad investire in produzioni manifatturiere di qualità, nei servizi, nell’energie alternative e nella protezione ambientale, e al contempo esercitare serie restrizioni sulle produzioni che comportano “inquinamento elevato, alto consumo di energia e elevata dipendenza dalle risorse naturali”.

    Siamo insomma di fronte ad una complessiva strategia nei confronti del problema ambientale. Che può essere riassunta in uno slogan: trasformare il problema in opportunità. Si vuole fare della questione ambientale una leva per accelerare il progresso tecnologico, creare occupazione e accrescere la competitività. Per questo una parte non piccola dello stimolo economico messo in campo tra 2008 e 2009 contro la crisi è stata destinata a progetti ambientali, e adesso l’Amministrazione Nazionale dell’Energia ha fissato un piano di investimento nelle energie alternative per 5.000 miliardi di rmb tra il 2011 e il 2020. Si tratta di una cifra enorme, che consentirà di dotare la Cina, ed in particolare le sue aree di nuova industrializzazione, di tecnologie e infrastrutture di avanguardia a livello mondiale. In questo campo, del resto, la Cina vanta già dei primati: i 6.920 km di linee ferroviarie ad alta velocità, ad esempio, sono già superiori a quelli di ogni altro Stato del mondo, ma li si vuole raddoppiare entro il 2012 con un investimento di 800 miliardi di rmb; i treni sono già i più veloci del mondo (350 km/h), ma nei prossimi anni la velocità massima sarà portata a 380 km/h.

    L’opportunità della crisi

    Sul volo che mi riporta in un aeroporto del terzo mondo (Fiumicino) provo a tirare le somme di quello che ho visto. Crescente utilizzo di alta tecnologia a basso impatto ambientale, competitività sempre più basata sulla elevata produttività del lavoro anziché sul basso costo della forza-lavoro, manodopera qualificata, aumenti salariali al fine di creare un grande mercato interno, efficienza delle infrastrutture fisiche e amministrative (come lo sportello unico per le imprese che ho visto nel Comune di Qingdao: un solo interlocutore e 8 giorni per avviare un’impresa). In una parola: il contrario di quanto sta accadendo da noi. La Cina ha trasformato la crisi mondiale in opportunità per ridurre la propria dipendenza dalle esportazioni e puntare sulla crescita accelerata del mercato interno, così come sta rovesciando il problema ambientale in opportunità per conquistare un primato tecnologico.

    Conclusione: la nostra immagine di una Cina che vince grazie al basso costo del lavoro e all’uso irresponsabile delle risorse naturali non è soltanto sbagliata, ma pericolosa. Perché ci impedisce di capire su quali nuovi terreni si gioca oggi la competizione globale.

    Molte imprese tedesche hanno capito la situazione e stanno riemergendo dalla crisi proprio grazie alle esportazioni in Cina. Da noi, invece, c’è ancora qualcuno che pensa di recuperare competitività abbassando i salari e peggiorando le condizioni di lavoro, anziché aumentando gli investimenti in ricerca. O producendo automobili in Serbia (a spese della Bers e del governo di Belgrado) per venderle in Italia. Tanti auguri.



    La nuova Cina che abbiamo sottovalutato

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    Predefinito Rif: Repubblica Popolare Cinese

    CINA SOCIALISTA: NUMERO DUE O NUOVO LEADER ECONOMICO MONDIALE?


    A metà agosto i mass-media di tutto il globo hanno annunciato che il prodotto nazionale lordo della Cina ha superato per la prima volta quello del Giappone, durante il trimestre aprile - giugno 2010.

    Il dato riportato risulta reale, ma i giornalisti si sono dimenticatati di aggiungere che, in termini di parità di potere di acquisto (categoria economica utilizzata anche dall’ONU, a partire già dal 1953), la Cina prevalentemente collettivistica durante il 2009 ha superato anche gli Stati Uniti ed è diventata il nuovo primatista mondiale in campo economico, la prima potenza mondiale sul piano produttivo.

    Sullo storico “sorpasso” rimandiamo a un nostro precedente articolo del 22 febbraio del 2010, ritrovabile nel nostro sito nella sezione “Archivio”-febbraio 2010. A tale testo dobbiamo solo aggiungere che:

    - almeno secondo i dati forniti dalla IEA (International Energy Agency) in luglio, la Cina ha scavalcato già nel corso del 2009 gli USA come primo consumatore globale di energia, ponendo fine ad un primato che durava da più di un secolo (a livello procapite, invece, ogni americano consuma energia quasi come cinque cinesi…).

    - nel 2009 la Cina ha ulteriormente rafforzato il suo primato globale nel campo della produzione delle energie rinnovabili (eolica, solare,ecc.).

    . Bruce Kasman, ricercatore della JP Morgan Chase, è stato costretto a riconoscere che il fenomeno più impressionante “è stata la capacità per la Cina di superare un periodo molto difficile per la gran parte dei paesi, mantenendo una crescita elevata”.

    Sul blog di Grillo (16 agosto) si commentava il sorpasso cinese sul Giappone -già avvenuto da circa un decennio, sempre in termini di parità di potere di acquisto- con la frase “sono buone notizie per l’umanità? Non credo. Io rimpiango le immagini delle migliaia di biciclette senza auto sotto il cielo azzurro di Pechino”.

    Oltre alla (finta) sinistra alternativa, rimpiange sicuramente quei tempi la (reale) borghesia mondiale, rendendosi conto dell’impatto politico che sta avendo su tutto il pianeta persino la notizia del (già avvenuto da tempo ) passaggio di Pechino al secondo posto dell’economia mondiale: lo spettro del comunismo inizia a tornare a far paura, anche perché il vecchio e logoro mantra “in Cina non ci’è più il socialismo” sta ormai perdendo la sua precedente efficacia come arma preventiva in campo ideologico.



    La Cina Rossa

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    Predefinito Rif: Repubblica Popolare Cinese

    CINA, STATI UNITI: IL SORPASSO

    Nel corso del 2009 la Cina Popolare è diventata la più grande potenza economica mondiale ed il suo prodotto interno lordo (PNL) reale ha superato quello degli Stati Uniti. C’è ormai un nuovo “numero uno” a livello mondiale, in altri termini, dato che la Cina socialista ha scavalcato senza alcun dubbio gli USA per massa di ricchezze reali prodotte, anche se è ancora molto indietro per livelli di produttività pro-capite: i mass-media occidentali che straparlano di un futuro sorpasso economico della Cina sugli USA nel 2025, 2035 o 2050, semplicemente (e strumentalmente)… straparlano.

    Passiamo ai dati di fatto: nel 2008 il PNL degli Stati Uniti era pari, a valori nominali e di mercato, a 14204 miliardi di dollari secondo la Banca Mondiale, mentre anche i dati della Cia e del FMI su questo tema variano di pochissimo.

    Sempre nel 2008 l’ufficio Nazionale di statistica della Cina ha rilevato che il PNL della Cina risultava invece pari a 4590 miliardi di dollari in base ai valori nominali e di mercato. (1)

    Dal lato USA ben 14200 miliardi di dollari, dal lato cinese circa 4600 miliardi: sembra a prima vista che non ci sia storia nel confronto tra i due stati e con gli USA che superano la Cina di quasi tre volte, tenendo conto inoltre che la popolazione americana è inferiore di più di quattro volte a quella cinese.

    Nel 2009 c’è stato significativa variazione.

    Nel 2009 il PNL degli USA nel migliore dei casi vedrà una caduta dell’1,5%: PNL USA, pari quindi a 14000 miliardi di dollari a fine anno.

    Sempre nel 2009 il PNL della Cina è aumentato dell’8,7%: il PNL è pari quindi a 5000 miliardi di dollari (4560 miliardi + 8,7%).

    E allora, si potrebbe subito replicare? 14000 miliardi di dollari sono sempre 2 volte più di 5000, il dislivello tra i due stati in esame rimane ancora enorme, seppur in diminuzione: bel segreto, che ci avete propinato!

    Tenete a mente 14000 e 5000 miliardi di dollari, come PNL nominali delle due nazioni per il 2009, ed abbiate ancora pazienza.

    Fino ad ora abbiamo parlato di prodotti nazionali lordi ai valori nominali, ma il punto essenziale è che tutti gli economisti, ivi compresi quelli occidentali e statunitensi, sono d’accordo da molti decenni sul fatto che il processo di comparazione della potenza economica reale/PNL reale tra due o più stati deve sempre tener conto del criterio della parità di potere d’acquisto (PPA), con il suo effetto moltiplicatore/divisore sul PNL delle nazioni che vengono esaminate in modo combinato.

    Il criterio della parità di potere d’acquisto riequilibra infatti il valore reale del PNL dei vari stati rispetto al valori nominali dei loro PNL, in base appunto all’eventuale diversità dei prezzi nominali, (e dei rispettivi poteri d’acquisto nominali) degli stessi beni/servizi prodotti dalle diverse nazioni: se un bene X costa ad esempio un dollaro nel paese A, e lo stesso bene X costa quattro dollari nel paese B, si deve riequilibrare lo scarto fasullo e fittizio di 4:1 tra la ricchezza prodotta dalle nazioni A e B.

    Astraendo da mille fattori, supponiamo per assurdo che sia gli Stati Uniti che la Cina producano entrambi nello stesso anno solo ed esclusivamente un chilo di riso della stessa qualità, ma che negli Stati Uniti l’isolato chilo di riso venga venduto a 3,9 dollari, ed in Cina invece a un dollaro.Ai valori nominali, il PNL degli USA (che in tutto l’anno, nel caso assurdo ed esemplificativo proposto, è composto da un solo chilo di riso) risulterebbe maggiore di 3,9 volte rispetto a quello cinese, ma ai valori reali ( anche la Cina produce nello stesso anno 1 chilo di riso, della stessa qualità) tale superiorità nominale risulta fittizia e deve essere annullata e sostituita appunto con la parità del potere d’acquisto reale.

    Ora, tra il PNL degli USA e quello della Cina Popolare., il coefficiente di riequilibrio utilizzato dalla CIA (si, proprio dalla CIA di Langley nel suo World Factbook) e dal FMI/Banca Mondiale, per misurare il potenziale economico globale cinese a parità di potere d’acquisto, risultava pari a 4,1 fino al 2002, e poi a 3,94 fino al 2005. Con quest’ultimo moltiplicatore, ad esempio, il PNL nominale cinese del 2005 veniva moltiplicato x 3,94: visto che a livello nominale il PNL cinese risultava pari a 2680 miliardi di dollari, quest’ultima cifra moltiplicata per 3,94 portava il PNL reale, calcolato dalla CIA in termini di parità di potere d’acquisto diventava l’equivalente a circa 10500 miliardi di dollari. (2)

    Torniamo ora al dato empirico del PNL cinese per il 2009 ai valori nominali, ed a quello degli USA.

    5000 miliardi di dollari, il PNL cinese nel 2009.

    14000 miliardi di dollari, il PNL USA nel 2009.

    Prendendo una calcolatrice si verifica facilmente che, se moltiplichiamo i 5000 miliardi di dollari del PNL cinese 2009 (nominale) per il coefficiente di 3,94 (utilizzato dalla CIA, dal FMI e dalla Banca Mondiale fino al 2005, per il PNL cinese), otteniamo inevitabilmente la notevole cifra di 19700 miliardi di dollari nel 2009: e 19700 miliardi di dollari sono sicuramente una cifra molto più alta di quei 14000 miliardi di dollari che esprimono la ricchezza globale ed il PNL statunitense nel 2009.

    19700 miliardi (Cina Popolare)contro 14000 (Stati Uniti):nel 2009 il sorpasso su scala mondiale è avvenuto senza alcun ombra di dubbio, utilizzando proprio il coefficiente di moltiplicazione -targato CIA, lo ripetiamo volutamente- pari a 3,94.

    Non solo: la Cina avrebbe scavalcato nel 2009 gli Stati Uniti, per quanto riguarda il PNL a parità di potere d’acquisto, anche utilizzando un moltiplicatore pari a 2,81 (5000 x 2,81 = 14050).

    Certo, si potrà obiettare, i calcoli numerici sembrano inequivocabili : ma allora perché nessuno parla di questo “super segreto” in giro per il mondo?

    Per una semplice ragione: a partire dal 2006, CIA, FMI e Banca Mondiale hanno fatto crollare senza alcuna spiegazione il coefficiente usato per il PNL cinese ed il suo calcolo a PPA dal 3,94 sopracitato fino a …1,85, dimezzandolo senza alcun motivo plausibile.

    Con il nuovo coefficiente creato dalla CIA dopo il 2006, il PNL cinese del 2009 risulta pertanto pari a “soli” 9250 miliardi di dollari, cifra ancora sensibilmente inferiore ai 14000 del PNL USA.

    Secondo il coefficiente 3,94 utilizzato dalla CIA, FMI e Banca Mondiale fino al 2006, pertanto, lo storico sorpasso cinese si sarebbe, verificato sicuramente nel 2009 (ed anche nel 2008…); invece, secondo il nuovo coefficiente di 1,850 nessun sorpasso di Pechino su Washington nel 2009 e per quasi un altro decennio, con tutta probabilità .

    “D’accordo: ma perché ritenere valido il criterio della Cia del 2004/2006, e non invece il nuovo criterio adottato da Longley nel 2007/2009?”

    Per molti e validi motivi.

    - Nel 2006/2007 non è successo niente di sconvolgente, sia nell’economia cinese sia in quella statunitense: nessun nuovo (e grave) fenomeno oggettivo che spiegasse l’enorme riduzione del coefficiente da 3,94 a 1,85.

    - La CIA, il FMI e la Banca Mondiale non hanno inoltre fornito alcun elemento concreto per giustificare la legittimità del passaggio del coefficiente da 3,94 a 1′85.

    - Passare da 3,94 a 1,85 non costituisce certo una lieve modifica , come quella invece effettuata dalla CIA e dal FMI nel 2003, già riducendo il coefficiente usato per il PNL cinese da 4,5 a 3,94: si tratta di un vero e proprio dimezzamento e di un enorme salto di qualità in negativo.

    - Un chilo di riso, una macchina, un elettrodomestico non costano in Cina due volte meno che negli Stati Uniti, anche a Shangai o Pechino. E il riso cinese equivale di regola a quello statunitense, gli elettrodomestici di Pechino sono di regola come quelli di New York (e spesso vengono esportati a New York , Los Angeles, ecc.): pertanto il coefficiente di 3,94, anche a prima vista è più credibile del “nuovo” 1,85. Nel 2005 T. Fishman notava che secondo gli esperti statunitensi “in Cina, con un dollaro si compra all’incirca quello che a Indianapolis si acquista con 4,70 dollari” (3)

    - Nel 2005 in Cina venivano immatricolati solo sei milioni di veicoli, contro i circa 12 milioni degli Stati Uniti. Nel 2009 gli USA hanno immatricolato , nel migliore dei casi 10 milioni di veicoli, la Cina invece ha raggiunto quota 13 milioni di veicoli. Nelle vendite di auto il sorpasso cinese c’è stato sicuramente, rispetto all’ex numero uno americano. (4)

    - Già nel 2008, secondo i dati di Wikipedia, la Cina aveva sorpassato gli USA per autoveicoli prodotti (9345000 Pechino, 8705000 Washington); nel 2009, la Cina raggiungerà almeno quota 13 milioni di veicoli prodotti, e gli USA rimarranno al massimo attorno a quota nove milioni. (5)

    - Ogni anno in Cina vengono costruiti due miliardi di metri quadrati di nuove abitazioni, metà circa dell’intera produzione mondiale e molto più che negli Stati Uniti anche in termini di indotto di impianti elettrici ed idraulici, piastrellature, ecc. (6)

    - Già nel 2003 la Cina deteneva il primato mondiale nella produzione mondiale di acciaio, cemento, articoli di abbigliamento, cotone, carbone e oro.

    - Nel 2008 la Cina Popolare aveva prodotto 528,5 milioni di tonnellate di cereali, mentre gli USA erano rimasti a circa tre quarti di tale cifra.

    - Nel 2009 la capacità energetica globale installata in Cina toccava 860 GW e si avvicinava al dato USA, a dispetto del pauroso spreco di benzina/energia che avviene in America ogni anno.

    - Già nel 2004 la Cina era leader mondiale nella produzione di TV, computer, lettori CD e DVD, condizionatori e piccoli elettrodomestici. (7)

    - Secondo le proiezioni contenute nel rapporto del 2007 del World Energy Outlook, era già previsto il sorpasso della Cina sugli USA entro il 2010 in termini di consumi di energia primaria. (8)

    - Già nel 2004, secondo Lester Brown, vi erano in Cina una volta e mezza più televisori che nel “concorrente” americano e quasi tre volte più cellulari. (9)

    - Nel giugno 2009 gli utenti di Internet in Cina erano pari a 338 milioni, molto più dei circa 240 milioni di internauti statunitensi: nelle aree rurali, più di 155 milioni di contadini cinesi ormai usano Internet grazie al telefonino. Alla fine del 2009 gli internauti cinesi erano saliti a quota 384 milioni. (10)

    - Nel 2009 la Cina è diventata il leader delle esportazioni mondiali, scavalcando (di poco) la Germania e di molto gli USA.

    IL sorpasso, lo storico sorpasso della Cina (prevalentemente) socialista rispetto al capitalismo di stato degli USA costituisce ormai una realtà attuale, molto sgradevole sotto tutti gli aspetti per la borghesia mondiale; diversa è invece la situazione nella produttività pro-capite della forza-lavoro cinese, ancora inferiore di circa quattro volte a quella statunitense anche a causa della gigantesca popolazione rurale tuttora esistente in Cina.

    Il segreto sta nel fatto che il sorpasso non avverrà tra due o tre decenni, come prevedono con spudorata falsa coscienza i mass-media occidentali e la CIA, ma che esso si è invece trasformato in un pesante dato di fatto del presente e dei nostri giorni, con evidente ricaduta sui rapporti di forza mondiali sia a livello economico che politico.

    Proprio in tale sottoprodotto politico-economico sta la ragione del cambiamento radicale nel coefficiente di riequilibrio, operato nel 2006: anche a Langley sanno contare (e modificare i calcoli…), sanno prevedere le dinamiche economiche almeno nel breve termine, sanno da sempre come “cambiare le carte in tavola” quando fa loro comodo.

    NOTE

    1 ) “China GDP growt revised upwards “, 26 dicembre 2009, in nextbigfuture.com

    2 ) List of countries by GDP (nominal)”, 2006 in en.wikipedia.org;

    John Tkacik junior, Questioning the CIA’s claim of a drop in China’s military spending”, 31 agosto 2007, in www.heritage.org;

    T. Fishman, ” Cina SPA”, pag 20, ed Nuovi Mondi Media

    3 ) T. Fishman, op. cit., pag. 20

    4 ) “Cina primo produttore mondiale di auto”, 8 gennaio 2010, in AGI China 24 - Home Page ;

    “Automobile industry in China”, in en.wikipedia.org

    5 ) “Cina primo produttore mondiale di auto”, op. cit.

    6 ) “E’ il terremoto edilizio cinese”, 3 marzo 2007, in eddyburg.it

    7 ) A. Blua, “Report says China overtakes U. S. as World’s leading consumer”, 18 febbraio 2005,

    in wwwvferl.org

    8 ) A. Pascucci, “La lunga marcia della Cina. I. La politica energetica”, 19 novembre 2008, in www.cartogeafareilpresente.org

    9 ) A. Blua, “Report says China overtakes U. S.

    10 ) C. Buckley, “China Internet population hits 384 million”, 15 gennaio 2010, in Business & Financial News, Breaking US & International News | Reuters.com



    2010 febbraio | La Cina Rossa

  7. #7
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    Predefinito Rif: Repubblica Popolare Cinese


    SOCIALISMO O CAPITALISMO?


    I PARTE


    Una NEP Cinese, con prevalenza del settore collettivistico (statale/cooperativo)

    1) La natura socioeconomica della Cina contemporanea, agli inizi del terzo millennio,rappresenta un tema importante che appassiona e divide la sinistra antagonista occidentale.

    Una netta maggioranza di quest’ultima,almeno in Italia,propende nel valutare i rapporti sociali di produzione e distribuzione esistenti attualmente in Cina come capitalistici e/o capitalistici di stato, almeno nelle loro linee essenziali: la nostra valutazione risulta invece in larga parte diversa ed opposta a concezioni simili a quelle esposte da “Padoa Schioppa”; il quale nell’agosto del 2005 affermò che gli innegabili successi economici raggiunti dalla Cina derivano dal fatto che quest’ultima fosse ormai diventata nelle sue linee essenziali un paese borghese e capitalistico.

    In via preliminare risulta tuttavia assolutamente necessaria una sintetica puntualizzazione relativa alle caratteristiche fondamentali delle categorie teoriche che si devono utilizzare nel processo di analisi nella concreta realtà attuale cinese,anche per evitare inutili fraintendimenti ed equivoci: il problema della denominazione, in altri termini, deve avere la precedenza.

    Se ad esempio per noi la giraffa rappresenta un mammifero con un collo molto lungo e che può superare i cinque metri di altezza, una volta raggiunta la piena maturità, con un mantello pezzato di bruno su fondo beige e pesante circa una tonnellata, mentre invece un nostro ipotetico contraddittore considera come “giraffa” un mammifero con il corpo ricoperto di peli e dotato di ali, capace di volare emettendo ultrasuoni come un radar,che si nutre di insetti dormendo di giorno, e andando a caccia di notte (un pipistrello, a nostro avviso), non potremmo mai trovarci d’accordo con il nostro interlocutore su quale sia il nome del particolare animale che abbiamo entrambi visto allo zoo nello stesso giorno/minuto ed in un determinato spazio recintato, anche se esso ha realmente un collo lungo circa tre metri e un mantello pezzato di bruno, su sfondo beige.

    2) Per capitalismo intendiamo un modo di produzione, un rapporto sociale di produzione e distribuzione fondato innanzitutto sulla proprietà, possesso e controllo privato dei mezzi della produzione (e della condizione della produzione, a partire dalla terra e dalle risorse naturali/energetiche) da parte di una minoranza della popolazione,in grado di assumere libere ed autonome forze-lavoro come salariati utilizzando l’erogazione collettiva di energie psicofisiche da parte loro per appropriarsi di un pluslavoro da parte di questi ultimi; la borghesia ottiene in tal modo un surplus ed un ” bottino ” gratuito di lavoro non retribuito, oltre alla massa di mezzi di sussistenza forniti ai produttori diretti in cambio dell’utilizzo della loro forza-lavoro ed alla massa necessaria per la riproduzione materiale del loro nucleo familiare.

    Nel modo di produzione capitalistico il sottoprodotto finale del processo produttivo, e soprattutto il plus lavoro erogato gratuitamente dai produttori diretti alla classe dei capitalisti si suddivide in tre parti:

    - fondo privato di accumulazione di questi ultimi, alias la proprietà/possesso privato sul prodotto finale del processo produttivo (che “appartiene al capitalista e non all’operaio”, come spiega Marx nel XXI capitolo del “Capitale”), sui “mezzi di sussistenza che comprano persone” (e l’utilizzo della loro forza lavoro) e sui “mezzi di produzione che fanno uso del produttore”. (1)

    - fondo privato di consumo dei capitalisti,alias il ” reddito ” (Marx, “Il Capitale”) ottenuto da questi ultimi e ” la ricchezza che si trova nel fondo di consumo dei capitalisti e che si può dissipare solo un po’ per volta ” da parte del “proprietario del plusvalore, il capitalista”. (2)

    - fondo privato di tesaurizzazione,e cioè il denaro (oro,argento e metalli preziosi) e la massa monetaria venuta in proprietà/possesso del privato della borghesia e non impegnata nel processo produttivo, a cui si aggiungono beni di consumo “estetici” (Marx, “Il Capitale”) quali opere d’arte e “oggetti d’oro e d’argento” di particolare valore. (3)

    Finora nelle singole nazioni/stati il modo di produzione capitalistico è coesistito in rapporti più o meno conflittuali con altre forme di rapporti di produzione,quali ad esempio i produttori autonomi venuti in possesso dei mezzi di produzione utilizzati nel processo produttivo e che non impieghino forza lavoro altrui,se non in modo saltuario: la categoria di formazione economico-sociale capitalistica esprime proprio la coesistenza/competizione nella stessa area geografica/stato di relazioni produttive capitalistiche egemoni e di rapporti sociali di produzione di altra natura, in posizione subordinata.

    3) Per capitalismo monopolistico di stato intendiamo invece il processo continuo di scambio, appoggio e cooperazione politico-economica che si crea costantemente dal 1870/1814 tra ilsettore statale e l’alta finanza privata,tra gli apparati statali e le multinazionali private, tra i nuclei politici al potere e i grandi monopoli privati: intercambio e cooperazione in formazioni economico-sociali nelle quali il settore pubblico-statale non possieda e controlli nel medio periodo più di un quarto del processo produttivo complessivo, comprendendo al suo interno la sfera industriale e quella bancaria- finanziaria, quella commerciale e dei servizi, l’attività agricola e quella estrattivo - mineraria.

    Il processo di cooperazione politico-economica che si sviluppa costantemente tra i due partner principali del capitalismo di stato non risulta di regola privo di attriti e contraddizioni (più o meno) secondarie, ma si concretizza da un lato nell’aiuto materiale e politico via via fornito dal settore pubblico a quello privato ed al processo di accumulazione capitalistico attraverso finanziamenti diretti-indiretti ed appalti statali, disposizioni legislative e fiscali favorevoli agli interessi generali e particolari del trust privati e una loro compartecipazione lucrosa nel settore degli armamenti, sostegno diretto-indiretto all’azione delle proprie multinazionali in campo interstatale e socializzazione delle perdite subite dal settore privato, una posizione privilegiata attribuita ai grandi monopoli nei processi di privatizzazione delle risorse collettive e di concentrazione dei capitali privati; dall’altro il settore statale controlla parzialmente ed in modo indiretto il processo produttivo e di accumulazione sia mediante “relazioni speciali“ di collaborazione via via createsi con il grande capitale finanziario e le multinazionali private che attraverso l’utilizzo mutevole dello strumento fiscale, delle politiche monetarie e commerciali, ecc..

    Spesso, ma non sempre (si pensi agli Stati Uniti nel periodo compreso tra il 1952 ed il 2008 , con la quasi totale assenza di imprese economiche statali) all’interno del capitalismo monopolistico di stato si riproduce un settore produttivo subordinato di proprietà pubblica che interviene in campo industriale, bancario e commerciale,mentre a volte(in periodi prebellici-bellici, o di grave crisi economica) si assiste anche alla creazione dall’alto di “cartelli obbligati” tra le principali aziende private e all’azione coattiva di meccanismi di pianificazione parziale degli investimenti, del livello salariale e della priorità socioeconomiche fondamentali, come avvenne nel caso della Germania nazista tra il 1935 ed il 1945 e del Giappone, tra il 1937 e la fine del secondo conflitto mondiale: l’elemento centrale ed essenziale del processo di riproduzione del capitalismo monopolistico di stato rimane tuttavia la cooperazione continua, anche se a volte non priva di tensioni conflittuali,tra stato e monopoli privati, tra governi e multinazionali, tra alta burocrazia civile/militare e finanza al fine principale e costante di favorire al massimo grado possibile il processo di accumulazione dei grandi monopoli privati, anche (ma non solo) per ottenere a cascata e in via derivato un aumento della potenza economica degli stati interessati e coinvolti dalle ” relazioni speciali “(miuki ishiki, in giapponese) createsi tra la sfera politico-statale e quella economico-privata.

    Capitalismo di stato: processo di socializzazione delle perdite e di privatizzazione dei profitti attraverso l’intervento statale, oltre che azione pubblica di natura politico-economica al fine di indirizzare in modo più o meno esteso un processo produttivo egemonizzato dalle imprese private.

    Il primo esempio significativo,duraturo e su larga scala di capitalismo monopolistico di stato venne alla luce in Giappone tra il 1871 ed il 1887, con i suoi “sentimenti di parentela”formatisi tra i principali monopoli privati (zaibatsu) e il governo e la burocrazia statale stabilitasi quasi fin dall’inizio del periodo Meiji durante tutta una prima fase compresa tra il 1871 ed il 1887, “il ruolo dello stato e dell’iniziativa privata cambiarono col tempo. Nel primo periodo lo stato rilevò le industrie manifatturiere dei daimyo” (i feudatari nipponici) “e ne costruì altre:arsenali e cantieri navali, ma anche cantieri edili,distillerie, zuccherifici, ecc; diffuse la conoscenza tecnica, acquistò macchinari stranieri, reclutò centinaia di esperti occidentali e costruì le infrastrutture per le comunicazioni. Tuttavia, questi investimenti,e la liquidazione dei privilegi feudali, fecero lievitare il debito statale. Dopo il 1880 la maggior parte delle industrie furono privatizzate; lo stato non si ritirò completamente dalla produzione - nel 1901 fondò le acciaierie Yawata che garantirono la maggior parte della produzione giapponese - ma impiegò meno di un lavoratore su dieci. La privatizzazione favorì l’affermazione di quattro grandi zaibatsu,-grandi gruppi monopolistici- che dominarono la scena economica fino al 1945:Mitsui, Mitsubishi, Sumitomo e Yasuda. I loro fondatori erano discendenti di vecchie dinastie mercantili (Mitsui e Sumitomo), oppure provenivano dal rango di samurai, come Iwasaki Yatarò (1835-1885), il fondatore della Mitsubishi. Durante i primi giorni della restaurazione, questi stabilirono rapporti particolari con i futuri leader del governo Meiji attraverso il finanziamento del movimento; ad esempio, Iwasaki mise a disposizione le navi per l’attacco di Taiwan nel 1875. come ricompensa, durante la privatizzazione ebbero la quota maggiore alle condizioni migliori.

    Essi coltivarono come fosse la loro attività più preziosa questa relazione speciale con il governo e con l’èlite amministrativa; così nacque un ” sentimento di parentela” (miuki ishiki) che assicurò la loro cooperazione con lo stato, con l’obiettivo degli investimenti nell’industria strategica e della formazione di cartelli in settori delicati. Gli zaibatsu furono lo strumento più importante per una guida flessibile dell’economia.”.(4)

    Come dimostrano tutte le esperienze storiche concrete, da quella giapponese iniziata nel 1871 fino alla realtà dei nostri giorni, il capitalismo di stato risulta principalmente un gioco a due, che si mantiene solo con la riproduzione socio produttiva continua del “giocatore privato”di una sfera privata - capitalistica in grado di mantenere un ruolo egemone (anche sotto l’aspetto quantitativo) all’interno del processo produttivo globale. (5)

    4) A nostro avviso il socialismo, prima ed inferiore fase di sviluppo della società comunista (Marx, “Critica al programma di Gotha”del 1875) viene contraddistinto innanzitutto dalla proprietà/possesso collettivo almeno dalla maggioranza dei mezzi di produzione e delle condizioni della produzione (terra, risorse naturali ed energetiche,ecc..) attorno o più del 50% del processo produttivo globale, specialmente nei suoi gangli fondamentali(industria, attività estrattiva e finanza) deve essere sottoposto al processo e controllo diretto della collettività, sotto forme statali e/o cooperative. Si tratta di una base socio produttiva indispensabile senza la quale non si può parlare in alcun modo di socialismo, ma (al massimo) di germi ed elementi secondari di socialismo sviluppatisi in una formazione economico-sociale capitalistica.

    Nella sua versione di matrice marxista, il socialismo prevede anche un processo di distribuzione dei generi di consumo disponibili secondo il lavoro erogato concretamente dai singoli produttori diretti,dopo aver effettuato tutta una serie di ” detrazioni” su cui si tornerà tra poco.

    Nel socialismo marxiano vige in sostanza il principio “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo il suo lavoro” mentre sempre secondo Marx solo in una seconda e più avanzata fase di sviluppo del m.p. comunista “la società può scrivere sulle proprie bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ciascuno secondo i suoi bisogni“.

    Marx scrisse nel 1875 che nella prima fase della società comunista “all’interno della società collettivista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato in prodotti appare qui come valore di questi prodotti, come una proprietà oggettiva da essi posseduta, poiché ora, in contrapposto alla società capitalistica, i lavori individuali non esistono più come parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto. L’espressione ” reddito del lavoro ” che anche oggi è da respingere a causa della sua ambiguità, perde così ogni senso.

    Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa, come emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le ” macchie ” della vecchia società dal cui seno essa è uscita. Perciò il produttore singolo riceve - dopo le detrazioni - esattamente ciò che le dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità individuale di lavoro. Per esempio:la giornata la giornata di lavoro sociale consta della somma delle ore di lavoro individuale; il tempo di lavoro individuale del singolo produttore è la parte della giornata di lavoro sociale fornita da lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro sociale. Egli riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’altra.

    Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di cose di valore uguale. Contenuto e forma sono mutati, perché, cambiate le circostanze, nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché d’altra parte niente può passare in proprietà del singolo all’infuori dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio di equivalenti di merci: si scambia una quantità di lavoro in una forma contro una uguale quantità in un’altra.

    L’uguale diritto è qui perciò ancora sempre, secondo il principio il diritto borghese benché principio e pratica non si azzuffino più, mentre lo scambio di equivalenti nello scambio di merci, esiste solo nella media, per il caso singolo.

    Nonostante questo progresso, questo ugual diritto reca ancor sempre un limite borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l’uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro.

    Ma l’uno è fisicamente o moralmente superiore all’altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo; e il lavoro, per servire come misura, dev’essere determinato secondo la durata o l’intensità, altrimenti cesserebbe di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto disuguale per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente la ineguale attitudine individuale, e quindi capacità di rendimento, come privilegi naturali. Esso è perciò, pel suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto. Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di una uguale misura; ma individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un’uguale punto di vista in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato: per esempio nel caso dato soltanto come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa. Inoltre: un operaio è ammogliato, l’altro no; uno ha più figli dell’altro ecc. ecc. supposti uguali di rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, l’uno riceve dunque più dell’altro, l’uno è più ricco dell’altro. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale dovrebbe essere disuguale.

    Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista, quale è uscita dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale da essa condizionato, della società“. (6)

    Risulta dal lungo passo riportato che, a giudizio di Marx, nella prima fase del m.p. comunista (alias nel socialismo) vige sia il principio del rendimento meritocratico e con la distribuzione dei mezzi di consumo a seconda del lavoro prestato, dopo aver effettuato tutta una serie di distrazioni, che una particolare concretizzazione della legge del valore (”lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di cose valore uguale”). Ma non solo: sussiste anche una disuguaglianza sociale tra i lavoratori, perché “l’uno è fisicamente o moralmente superiore all’altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro… e il lavoro deve essere determinato secondo la durata o l’intensità…”, anche se nei rapporti di distribuzione socialista non si produce/riproduce alcun sfruttamento del lavoro altrui, “niente può passare in proprietà del singolo all’infuori dei mezzi di consumo individuali” e il “diritto” (rapporti di distribuzione socialisti) “non riconosce nessuna distinzione di classe” (Marx 1875).

    La seconda caratteristica specifica del socialismo di matrice marxiana è quella di voler diventare un “socialismo dell’abbondanza” di generi di consumo (abbondanza relativa,in via di progressivo aumento), in aperto contrasto con le concezioni pauperistiche della società collettivistica, attraverso un processo di “estensione della produzione” ed una sua continua riproduzione allargata al fine di soddisfare sempre più efficacemente i crescenti bisogni materiali e vitali della popolazione.

    Sempre nel 1875 Marx specificò chiaramente che il lavoratore i lavoratori non ottengono direttamente il prodotto integrale del lavoro, dato che prima di distribuire il prodotto sociale complessivo e i fondi di consumo tra i lavoratori, al fine di soddisfare le “necessità economiche” ed i bisogni materiali nella società collettivistica/socialista, “si deve detrarre:

    Primo: la copertura per reintegrare i mezzi di produzione consumati.

    Secondo: una parte supplementare per l’estensione della produzione.

    Terzo: un fondo di riserva o di assicurazione contro infortuni, danni causati da avvenimenti naturali, ecc..

    Queste detrazioni dal “reddito integrale del lavoro”sono una necessita economica, e la loro entità deve essere determinata in base ai mezzi e alle forze presenti, in parte con un calcolo di probabilità, ma non si possono in alcun modo calcolare in base alla giustizia.

    Rimane l’altra parte del prodotto complessivo, destinata a servire come mezzo di consumo.

    Prima di arrivare alla ripartizione individuale, anche qui bisogna detrarre:

    Primo: le spese generali d’amministrazione che non sono pertinenti alla produzione.

    Questa parte è ridotta sin dall’inizio nel modo più considerevole,in confronto alla società attuale, e si ridurrà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando.

    Secondo: ciò che è destinato alla soddisfazione collettiva di bisogni,come scuole, istituzioni sanitarie, ecc.

    Questa parte aumenta sin dall’inizio notevolmente rispetto alla società attuale e aumenterà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando.

    Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro, ecc., in breve ciò che oggi appartiene alla cosiddetta assistenza ufficiale dei poveri”.(7)

    In altri termini, secondo la previsione marxiana del 1875 la società e lo stato socialista avrebbero in ogni caso destinato una parte del prodotto sociale e del surplus sociale per favorire “l’estensione della produzione” e per un processo di accumulazione/riproduzione allargata di tipo socialista, indirizzato a vantaggio di tutti i membri della collettività (ivi compresi “gli inabili al lavoro”): a giudizio del rivoluzionario tedesco, l’immatura società socialista non era certo statica e conservatrice, ma viceversa dinamica e tesa a raggiungere livelli sempre più elevati di benessere materiale, di sviluppo culturale e di tempo libero disponibile per tutti i “cooperatori colti” del futuro (Lenin,1922).

    5) Sempre secondo la concezione marxiana, il socialismo si rivela intriso di contraddizioni spesso feconde, e segnato da una centrale e principale contraddizione interna, il contrasto continuo che si riproduce tra il basso ed arretrato livello di sviluppo dalle forze produttive sociali e l’elevato grado di sviluppo dei bisogni materiali e culturali (ivi compreso quello del tempo libero,il “diritto all’ozio” di P.Lafargue): contrasto e contraddizione principale della società socialista “pura” che si traduce innanzitutto in una penuria relativa dei generi di consumo, la quale verrà superata solo progressivamente attraverso un’indispensabile”sviluppo multilaterale degli individui” ed un incremento continuo delle”forze produttive”di “tutte le sorgenti della ricchezza collettiva”.(Marx,”Critica al programma di Gotha”).

    Inoltre nella società e fase di transizione socialista, a differenza che nel comunismo sviluppato ed “in una fase elevata della società comunista “(Marx,1875), emergono e si riproducono altre importanti contraddizioni”secondarie” di natura sia economica che politica, anche nel caso più favorevole di una vittoria della rivoluzione socialista mondiale:

    - non è ancora scomparsa la divisione tra lavoro intellettuale e manuale

    - il tempo libero a disposizione è molto meno ampio che nella fase comunista successiva, vista l’immaturità relativa del processo di automatizzazione della produzione di beni e servizi.

    - esiste ancora lo stato con i suoi apparati necessari per gestire e controllare la distribuzione dei mezzi di consumo in base al lavoro ed il processo di calcolo delle quantità/qualità da quest’ultimo erogate via via dai singoli produttori diretti.

    - esistono differenze sociali nella retribuzione ottenuta da ciascun lavoratore,nella “quantità di mezzi di consumo” ricevuta da essi per via della disuguaglianza nel “rendimento” (Marx) e nella “durata e intensità” delle energie psicofisiche erogate via via da ciascun produttore diretto.

    - esistono delle serie differenze sociali tra la “quantità di mezzi di consumo “ottenuto dai lavoratori delle diverse aree geopolitiche del globo, anche a parità di durata ed intensità di lavoro, per effetto dell’enormi differenze delle rispettive basi produttive di partenza (si pensi alla situazione materiale di una Svezia collettivistica, rispetto a quella vissuta inevitabilmente dai lavoratori del Bangladesh anche dopo un’eventuale rivoluzione mondiale).

    Secondo Marx, le inevitabili contraddizioni del socialismo verranno risolte solo progressivamente e principalmente attraverso un continuo processo di crescita delle “forze produttive”e di “tutte le sorgenti della ricchezza collettiva”.

    “In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita,ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’augusto orizzonte giuridico borghese può essere superato e la società può scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”.(8)

    Utilizzando per comodità espositiva delle definizioni e categorie di matrice cristiana/dantesca, se l’inferno viene rappresentato capitalismo/capitalismo di stato ed il paradiso invece dal comunismo sviluppato e da “una fase più elevata della società comunista”, il socialismo costituisce un particolare purgatorio con alcuni lati inevitabilmente sgradevoli e” immaturi “: un purgatorio tra l’altro bidirezionale, da cui si può avanzare verso l’Eden comunista o ricadere invece nell’inferno del capitalismo di stato,come dimostra l’esperienza concreta dell’Europa orientale e delle ex repubbliche sovietiche tra il 1989 ed il primo decennio del terzo millennio.

    Proprio nel processo di analisi dell’immatura fase socialista, sono già emerse indirettamente le principali caratteristiche del comunismo (alias”fase più elevata della società comunista”) e le dinamiche concrete lo differenziano in modo molto sensibile dal socialismo:grande abbondanza dei generi di consumo,lavoro inteso come “primo bisogno della vita”, “estinzione dello stato e tempo libero a disposizione di ciascun individuo in quantità molto superiore a quella attualmente disponibile.

    Si può solo sottolineare come anche nel comunismo sviluppato emergeranno sicuramente nuovi e vecchi problemi, a partire da quello individuale/collettivo della morte e dell’alienazione esistenziale e si formeranno numerose contraddizioni interne al nuovo Eden, con la formazione assai probabili di nuovi partiti e tendenze alternative tra loro.

    Tra di esse si possono forse prevedere le contraddizioni che via via si sviluppano tra:

    - oziosi per principio e stachanovisti volontari,amanti del lavoro per il lavoro

    - Asceti(nei consumi individuali) ed edonisti ad oltranza.

    - proibizionisti ed antiproibizionisti(non solo per il tabacco…)

    - atei e credenti(si pensi al “problemino esistenziale” di cui sopra)

    - amanti dell’esplorazione spaziale/avversari delle avventure spaziali

    - amanti della vita avventurosa/amanti delle comodità “pantofolaie”

    - sostenitori della sperimentazione genetica, a partire dall’uomo, contro conservatori della “purezza” del DNA sempre a partire dall’uomo, ecc. ecc.

    6) Le concezioni di Marx sul socialismo/comunismo non sono rimaste senza antagonisti, aperti o mascherati, tanto che negli ultimi due secoli sono apparse nell’arena mondiale altre forme e tipologie di socialismo, sia a livello teorico che pratico, molto diverse da quella di matrice marxiana .

    Rimanendo agli ultimi decenni, si può partire dalle concezioni di A. Negri sul socialismo inteso come “trasformazione statalista del capitalismo”, dato che secondo Negri “un’economia pianificata è comunque un’economia capitalista, cioè un economia per il profitto “;sempre a giudizio del teorico padovano, diventa invece possibile già nel presente un passaggio diretto ed immediato al comunismo inteso come disutopia, “desiderio forte che sta dentro alle potenze del modo di produrre attuale, quindi nel nostro reale orizzonte”, saltando pertanto l’odioso ed antipatico “purgatorio” socialista. (9)

    Negri ovviamente non accenna neanche ad indicare le risorse materiali concretamente disponibili “nel nostro reale orizzonte” per effettuare tale enorme ed immediato salto di qualità epocale, che tra l’altro dovrebbe comprendere i lavoratori dell’India e Bangladesh, America Latina e Africa, Indonesia e Pakistan; ma pretendere concretezza e realismo da Negri sarebbe sicuramente una vera utopia irrealizzabile…

    Per Amadeo Bordiga il socialismo doveva invece caratterizzarsi(già nel 1952) con un “piano di sottoproduzione” volto ad ottenere progressivamente un sempre più “ridotto volume della produzione”, anche grazie ad un ferreo ” controllo autoritario dei consumi”: secondo Bordiga il vero socialismo è austero, anticonsumistico e molto lontano dall’”estensione della produzione” prevista da Marx nel 1875, tanto che la particolare concezione del socialismo espresso dal teorico napoletano ha anticipato parzialmente alcune tesi ecosocialista (Kovel e M. Lowj) relative ai “limiti della crescita” ed alla necessità di una profonda “trasformazione dei bisogni” in senso anticonsumistico, lontano dalla “dimensione quantitativa” di questi ultimi.

    Guai ai consumatori ed ai lavoratori-consumatori, in tutte e due le versioni. (10)

    Si mostra ancora più radicale la versione del socialismo/comunismo elaborata dall’anarco-ecologista statunitense John Zerzan, che ha esaltato come nuova stella polare per la liberazione globale dell’umanità il ritorno cosciente e volontario al modo di produzione paleolitico (inevitabilmente collettivistico, per assenza di un surplus costante ed accumulabile) basato sulla raccolta di cibo e della caccia : secondo Zerzan, all’origine dei problemi attuali del nostro pianeta si trova proprio l’essenza stessa della civiltà umana, alias la domesticazione di molte speci vegetali/animali e la formazione dell’agricoltura/allevamento, lo stesso linguaggio e le forme più avanzate del pensiero simbolico(matematica ed arte, ad esempio), tanto che tale presunta civiltà deve essere sostituita da una nuova società collettivistica fondata sul recupero su scala globale della raccolta di cibo/caccia e da un “futuro primitivo”(titolo di una sua opera).

    Un’altra concezione “radicale”del socialismo è stata quella attuata e messa in pratica in Cambogia dai Khmer rossi e dal loro leader supremo, Pol Pot.

    La soppressione radicale della moneta (”col tempo, con l’irrigidirsi del sistema , persino i baratti vennero scoraggiati”, ha notato lo storico P.Short), l’eliminazione quasi totale delle città e di tutti i generi di lusso, partendo dalle automobili, rappresentarono le novità introdotte dalla concezione del socialismo espressa, sintetizzata e trasformata in pratica concreta dai Khmer rossi tra il 1975 ed il 1979 con tragiche conseguenze per la popolazione cambogiana.(11)

    In tutte le sue fantasiose varianti,il socialismo ascetico ed egualitario rappresenta il cugino povero del comunismo di matrice marxista: socialismo, certo, ma distante anni luce sia dalla visione di Marx ed Engels che soprattutto dai bisogni materiali e culturali di miliardi di lavoratori e sfruttati, del passato come del presente e del futuro.

    Contro ed in opposizione alle tesi comuni al “comunismo rozzo”, si deve ribadire che non ci sono troppi beni di consumo al giorno d’oggi, ma ce ne sono troppo pochi a disposizione dei produttori diretti, degli operai e degli impiegati.

    Non c’è troppa tecnologia e scienza al giorno d’oggi: ne esiste ancora troppo poca, a partire dai processi di automazione e da quella tecnica di fusione termonucleare già sviluppata con successo in URSS fin dal 1969 che, tra qualche decennio garantirà all’umanità una fonte di energia abbondante, pulita , e quasi eterna (per almeno venti milioni di anni), spezzando per sempre i presunti “limiti oggettivi” allo sviluppo delle forze produttive sociali del genere umano.

    Le potenzialità produttive di quest’ultimo sono enormi e tendono ad aumentare, anche e soprattutto all’inizio del terzo millennio, entrando viceversa in contraddizione radicale ed antagonista con i rapporti sociali di produzione/distribuzione e di potere egemoni attualmente in larga parte del globo.

    7) Effettuata questa lunga, ma indispensabile premessa teorica si può finalmente passare all’analisi concreta della complessa e variegata formazione economica-sociale cinese, nel periodo compreso tra il 1978 ed il 2008, con la sua dinamica particolare e le sue contraddizioni interne (la realtà socio produttiva di Hong Kong e Macao risulta molto diversa e non è presa in esame)

    Tale dinamica è stata segnata molto profondamente dall’ingegnoso ed articolato “grande progetto“, di durata pluridecennale, elaborato progressivamente da Deng Xiaoping tra il 1973 ed il 1977, messo in pratica gradualmente con contraddizioni e zig-zag tattici, errori e ritirate provvisorie dall’inizio del 1978 sia dal nucleo dirigente del PCC (partito comunista cinese) guidata da Deng che dai due successivi, quello diretto da Jiang Zemin (1997-2002) e l’equipe politica guidata da Hu Jintao dal 2003 fino ad oggi.

    Il “grande progetto” si imperniava e si sostanzia tuttora nella teoria/pratica concreta tesa a creare e riprodurre una particolare NEP cinese, riprendendo in modo creativo gli elementi essenziali della svolta e della nuova politica economica attuata da Lenin nel 1921 e durata in Unione sovietica fino al 1928, basandosi nel passato come nel presente su linee-guida combinate dialetticamente tra loro.(12)

    Il cardine fondamentale della NEP cinese e del “grande progetto” denghista era costituito dallo sviluppo progressivo di una coesistenza conflittuale, ma prolungata nel tempo visto il basso livello di sviluppo raggiunto dalle forze produttive cinesi ancora alla meta degli anni settanta tra un settore economico socialista (di matrice statale e cooperativa) egemone e centrali nella formazione economico-sociale cinese, una sfera produttiva sotto il controllo/possesso del capitalismo privato autoctono ed internazionale ed un ampio segmento di produttori autonomi rurali, di contadini che potevano e possono tutt’ora godere dell’usufrutto pluridecennale della terra e vendere liberamente larga parte del prodotto della loro attività individuale.

    Rispettando le previsioni ed il progetto iniziale, una “linea rossa” collettivistica (ed egemone) si è confrontata per un lungo periodo con la “linea nera” capitalistica ed una “linea bianca” di piccoli contadini all’interno della sfera dei rapporti di produzione e della sfera produttiva cinese, come avvenne in URSS dal 1921 al 1929: ancora il 17 gennaio del 1979 Deng Xiaoping affermò pubblicamente che il partito comunista cinese “avrebbe dovuto permettere ai vecchi capitalisti e uomini di affari cinesi di giocare un ruolo” nell’economia della nazione, mentre a partire dal 1978 gli investimenti delle multinazionali straniere iniziarono a giocare un ruolo sempre più significativo nell’economia cinese, iniziando dalle “zone speciali” di Shenzen. (13)

    Per quanto riguarda il settore agricolo, a partire dal 1981 i terreni vennero in gran parte divisi tra le famiglie contadine, anche se si mantenne (e vige tuttora) il diritto di proprietà collettiva sugli appezzamenti rurali dei quali i produttori rurali autonomi hanno l’usufrutto, come avvenne del resto in Unione Sovietica tra il 1917 ed il 1929 e prima della grande ondata di collettivizzazione nelle campagne.(14)

    Un secondo elemento fondamentale della NEP cinese venne rappresentato dalla coesistenza via via formatasi tra l’azione egemone dei meccanismi di mercato, della legge della domanda/offerta e gli strumenti (subordinati) di pianificazione del processo produttivo, a partire dalla fondamentale pianificazione demografica introdotta - non a caso …- già nel 1981 è caratterizzata dalla politica del “figlio unico” per le coppie di nazionalità han (non per le minoranze etniche, a partire da quella tibetana…)

    Se fin dal 1978 diverse imprese statali ricevettero un’ampia autonomia finanziaria ed un notevole potere decisionale sui premi e sulla distribuzione dei profitti, a partire dal 1984 i dirigenti del PCC “vogliono limitare ai prodotti di importanza vitale il campo di pianificazione imposta, far svolgere una pianificazione orientativa, e introdurre le leggi di mercato per arrivare alla creazione di un’”economia mercantile socialista “. Poiché il controllo dell’economia attraverso il mercato si basa essenzialmente sul gioco dei prezzi, è necessario riformare in primo luogo il sistema irrazionale dei prezzi cinesi, fissati senza tener conto delle variazioni di qualità,né della relativa rarità dei prodotti (come è il caso, per esempio, dei prodotti energetici venduti a un prezzo nettamente inferiore rispetto ai mercati mondiali).

    Occorre per questo migliorare i metodi di controllo e, soprattutto,limitare il loro campo di applicazione,lasciando “fluttuare entro certi limiti” oppure “fissare liberamente” il prezzo di un numero crescente di prodotti.

    La liberalizzazione progressiva dei prezzi è al centro del progetto di riforma e ne condiziona l’applicazione. Vi aggancia tutta una serie di disposizioni che concernono il sistema monetario e finanziario, e che ridefiniscono le competenze di un’amministrazione che dovrebbe intervenire soltanto per garantire un certo controllo sul piano macroeconomico. Le imprese, in effetti,vedranno aumentare i propri diritti e il proprio potere: organizzeranno autonomamente la propria amministrazione, le proprie attività di produzione, il reclutamento e la retribuzione del personale. In breve diventeranno indipendenti e concorrenti, ossia produttive o, per riprendere i termini cinesi, “spine di vitalità“. (15)

    In conseguenza della riforma dell’autunno del 1984, circa la metà dei prezzi industriali ed agricoli fino a quel momento fissati dalle autorità centrali vennero liberalizzati in un processo che si sviluppò ulteriormente nel decennio successivo, mentre i dirigenti delle aziende statali acquisirono un ampio grado di autonomia nel determinare gli investimenti, la ridistribuzione dei profitti ed i soldi.

    Nella visione di Deng, ribadita esplicitamente il febbraio 1987, sia il mercato che la pianificazione non risultavano di per se stessi strumenti capitalisti o socialisti e dovevano pertanto essere utilizzati in modo bilanciato in Cina per sviluppare le forze del paese: ancora oggi il governo cinese si serve di tutta una serie di importanti strumenti di pianificazione al fine di influenzare il processo produttivo nazionale a partire dalla politica monetaria e fiscale, dagli interventi “dall’alto” sui prezzi (come è avvenuto anche nella prima metà del 2008 per il prezzo della benzina e di alcuni generi alimentari), dalle direttive impartite delle autorità centrali alle imprese statali e dall’elaborazione continua di piani quinquennali (sì, esistono ancora in Cina..) come importanti elementi di verifica/incentivo rispetto agli investimenti, prezzi e salari.

    Vennero in sostanza ripresi degli elementi già emersi in embrione negli anni compresi tra il 1961 ed il 1965 relativi ad un parziale autogoverno delle imprese e dall’importanza del profitto nell’economia socialista, elaborati sia dallo stesso Deng che dall’economista Sun Yeh-fang più di quattro decenni or sono. (16) Un ulteriore anello costitutivo del “grande progetto” e della NEP cinese era ed è tuttora la ricerca costante e tenace di un rapido sviluppo delle forze produttive , visto come base indispensabile per l’indispensabile e progressivo aumento del benessere materiale e culturale dei produttori diretti, sia urbani che rurali: veniva e viene rifiutata alla radice e simultaneamente qualunque concezione pauperistica del socialismo, l’egualitarismo ed il rifiuto degli incentivi materiali.

    Fin dal 1975 Deng Xiaoping elaborò tre importanti documenti, che ebbero larga diffusione e popolarità nel partito.

    “Il primo e il più importante di questi, s’intitola Programma generale di lavoro per l’insieme del Partito e della nazione, attacca gli ideologi radicali, che tratta da”metafisici”ossessionati dalla politica, dimentichi dell’economia, i quali pensano solo a favorire la rivoluzione e non nutrono nessun interesse per la produzione, pseudomarxisti incapaci di garantire la ” liberazione delle forze produttive”.Gli altri due documenti, Alcuni problemi concernenti l’accelerazione dello sviluppo industriale e Diversi problemi nel campo della scienza e della tecnologia,sviluppano e precisano questi temi.”L’egualitarismo è impossibile”.

    La remunerazione deve tener conto delle differenze di competenza, della qualità e della quantità del lavoro fornito. La riabilitazione degli esperti va di pari passo con quella degli incentivi materiali.”Quanto agli esperti”bianchi”, dal momento che lavorano nell’interesse della Repubblica popolare di Cina, valgono più di quelli che non fanno niente, provocano scontri tra fazioni e bloccano tutto”.(17)

    Più volte Deng ribadì che”per sostenere il socialismo noi dobbiamo eliminare la povertà” rilevando che ” durante la rivoluzione culturale la” banda dei quattro”lanciò slogan assurdi quali “meglio essere poveri sotto il socialismo e comunismo che essere ricchi sotto il capitalismo”.Ma come si può esigere di essere poveri sotto il socialismo ed il comunismo?… Così, per costruire il socialismo è necessario sviluppare le forze produttive. Povertà non è socialismo. Per sostenere il socialismo, un socialismo che sia superiore al capitalismo,rappresenta un imperativo in primo luogo e soprattutto eliminare la povertà“.(18)

    Deng era perfettamente cosciente della durissima realtà materiale subita degli operai cinesi degli anni Sessanta / Settanta, pericolosamente vicina alla linea di povertà assoluta persino in grandi città come Pechino, anche se relativamente distante dalla fame/morte per inedia tipica degli anni venti/quaranta, e proprio sua figlia Deng Rong descrisse la sua iniziazione al quartiere operaio di Fanghzhai a Pechino, quando nell’estate del 1967 suo padre venne incarcerato costringendo lei ed i suoi fratelli ad abbandonare il quartiere riservato agli alti funzionari del partito, a Zhongnanhai.

    “Non saprei in quale altro modo definire il posto in cui stavamo a Zhongnanhai, se non come una sorta di “torre d’avorio”. Qui a Fanghuzhai, invece, eravamo senza alcun dubbio nel mondo reale.

    Gli operai e gli impiegati del Gabinetto del Comitato centrale nostri coinquilini ci trattavano abbastanza bene, forse dietro ordine di qualcuno. Appena arrivati, molti ci chiesero se avevamo bisogno di qualcosa. Ci diedero dei porri e della salsa di soia. Avevamo ancora in mente Zhongnanhai e quel posto ci sembrava vecchia e cadente, ma gli operai e gli impiegati erano sempre vissuti là con le loro famiglie.

    Non pensavano che ci fosse nulla di sbagliato e noi iniziammo a capire che la gente comune viveva così. I loro stipendi erano bassissimi - da venti yuan al mese in su. Al massimo, quaranta. E questo stesso doveva bastare per una famiglia di tre generazione. Molte mogli per arrotondare incollavano scatole di cartone o di fiammiferi. In molte case i letti erano semplici tavole appoggiate su due lunghe panche sulle quali si coricava l’intera famiglia. I pasti consistevano in focaccine di farina di mais e verdure salate. Se c’erano i tagliolini fritti in salsa di soia con un po’ di carne trita era già una festa. I vestiti erano pieni di toppe. I bambini erano quelli che subivano le privazioni maggiori, ed erano fortunati se riuscivano a difendersi dal freddo.

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    Predefinito Rif: Repubblica Popolare Cinese

    La Cina Rossa

    SOCIALISMO O CAPITALISMO?

    II PARTE

    Di che cosa potevamo lamentarci? Non avevamo il diritto di essere insoddisfatti.

    Imparammo a vivere come quelle famiglie di operai. Prendevamo l’acqua dal rubinetto in cortile. Usavamo i bagni pubblici nel vicolo. Presentavamo i buoni per comprare le granaglie allo spaccio dei cereali, mostravamo il nostro libricino al deposito di carbone per comprarne. In quegli anni i cereali, il carbone, l’olio commestibile e molti altri prodotti scarseggiavano ed erano razionati.

    Nei periodi festivi, ci mettevamo in coda come gli altri per comprare dei funghetti, dei Fiori Gialli, delle spezie, che nei giorni feriali non si trovavano in vendita. Il formaggio di soia si vendeva una volta alla settimana, e quel giorno dovevamo alzarci alle quattro o cinque del mattino…”(19)

    Il quarto elemento costitutivo del “grande progetto” era (ed è tuttora) la ricerca costante e la pratica politico-economica finalizzata a far assurgere nel medio periodo la Cina popolare nel ruolo di prima potenza economica mondiale, superando per prodotto interno lordo globale gli Stati Uniti e cambiando profondamente i rapporti di forza mondiali sotto tutti gli aspetti fondamentali.

    Ancora nel marzo del 1975 Deng affermò che “la nostra economia dovrà espandersi in due fasi. Nella prima verranno creati entro il 1980 un sistema industriale e un’economia nazionale indipendenti e relativamente completi. Nella seconda, la Cina sarà trasformata, entro la fine del XX secolo, e cioè entro i prossimi venticinque anni, in una potenza socialista con una moderna agricoltura, industria, difesa nazionale, scienza e tecnologia. L’intero Partito e l’intero paese dovranno impegnarsi per raggiungere questo superbo obbiettivo. È una questione di primaria importanza…”(20)

    Deng sapeva benissimo che, in una nazione con un territorio pari a 9,57 milioni di km e una popolazione superiore di più di quattro volte rispetto a quella statunitense, il raggiungimento di un veloce e costante tasso di crescita (attorno all’8% annuo), nell’economia del paese avrebbe portato inevitabilmente la Cina a raggiungere e superare gli USA per massa globale di forze produttive e di ricchezza reale nel giro di alcuni decenni, anche rimanendo molto distante in termini di reddito e sviluppo produttivo pro-capite al gigante americano: i numeri stavano e stanno tuttora dalla parte della Cina, seppur solo nel medio-lungo periodo ed a patto di riuscire a conservare sia la stabilità politico-sociale che una continua ed accelerata riproduzione allargata del processo produttivo del paese.

    Non a caso proprio nel giugno del 1989, dopo la sconfitta del movimento controrivoluzionario promossa da una parte degli studenti a Pechino, Deng affermò in una riunione allargata del nuovo Comitato permanente del Politburo che “gli eventi recenti dimostrano quanto sia cruciale per la Cina restare fedele alla strada socialista e alla direzione del partito. Altrimenti, rimarremo sempre il paese satellite di qualcun altro e anche la modernizzazione non sarebbe facile: il mercato mondiale è già piuttosto concorrenziale, non è facile inserirsi. Solo il socialismo può salvare la Cina e trasformarla in un paese sviluppato. Su questo punto i disordini ci hanno effettivamente insegnato qualcosa: sono stati uno scossone salutare. La Cina non ha futuro al di fuori della strada socialista.

    “La Cina è solo un paese povero, ma la gente ne parla come parte del “grande triangolo” che comprende Stati Uniti, Cina e Unione Sovietica. Perché? Perché la Cina è un paese indipendente e autonomo. E perché siamo indipendenti? Perché siamo rimasti fedeli al nostro tipo di socialismo. Altrimenti staremmo facendo il verso agli Stati Uniti, ai paesi sviluppati, all’URSS o a chissà quale paese, e che razza di indipendenza sarebbe quella? Attualmente l’opinione internazionale si scatena contro di noi, ma possiamo resistere; non lasceremo che ci distruggano. La cosa importante è continuare a fare bene il nostro lavoro”.

    “Dovremmo mirare ad ottenere un buon tasso di crescita economica nel corso dei prossimi undici anni e mezzo.

    Il Partito centrale e il Consiglio di Stato devono avere potere e autorità in questi ambiti. Queste cose non si possono fare senza autorità! Ritengo che dovremmo organizzare un gruppo speciale che studi le strategie di sviluppo e faccia piani specifici per la prima metà del prossimo secolo. Gli elementi più importanti sono i piani per l’industria di base e il sistema di trasporto. Dovremmo ricorrere a misure forti per essere certi che la nostra crescita prosegua e ritrovi nuovo vigore. Come ho già detto prima, riguardo alla crisi che abbiamo attraversato, se possiamo sommare le lezioni del passato e applicarle al futuro, il nostro sviluppo potrebbe rivelarsi non solo migliore e più stabile, ma anche più rapido. C’è una possibilità reale che questa sventura si trasformi in un qualcosa di positivo. Dobbiamo rivolgere un occhio particolarmente attento anche all’agricoltura: in fin dei conti, in quel settore i problemi potrebbero venire risolti dalla scienza. La scienza è una grande risorsa e andrebbe valorizzata”.(21)

    L’attenzione e la cura meticolosa rivolta da Deng sia al futuro della Cina che alle sue dinamiche di medio-lungo periodo viene dimostrata ulteriormente dalla sua proposta di “un gruppo speciale” di studio, in grado di elaborare strategie e piani per l’inizio del terzo millennio e dal 2000 al 2050, oltre che dalla sua fiducia in uno “sviluppo più rapido” dell’economia cinese poi effettivamente verificatosi tra il 1989 ed il 2008, con forti ricadute sui rapporti di forza economici (e politici) mondiali.

    Un altro cardine della NEP cinese e del “grande progetto” di Deng era rappresentato dalla necessità assoluta di conservare egemonia del partito comunista cinese sulla dinamica politico-sociale ed economica del paese, anche per la coesistenza conflittuale di rapporti di produzione e sfere produttive diverse, alternative e alla lunga antagonista tra loro: fin dal marzo del 1979 Deng ed il partito comunista cinese hanno affermato con forza, e ribadito costantemente la teoria della “Quattro Bandiere”(o dei ” quattro principi “).

    La studiosa anticomunista Bergere ha rilevato correttamente che “il regime comunista cinese ha in sé una doppia eredità: marxista-leninista e maoista. Esso è più fedele al primo che al secondo. Questa fedeltà si manifesta, da un lato, con la persistenza dell’ideologia che esalta il socialismo e il ruolo dirigente del Partito e dall’altro, con la permanenza di un sistema istituzionale fondato sulla triplice gerarchia del Partito, dello Stato e dell’esercito.

    L’ideologia del PCC non è cambiata: essa si riassume nei Quattro Principi enunciati da Deng Xiaoping nel marzo 1979, che preconizzano la via socialista, il marxismo-leninismo, il pensiero di Mao Zedong e la dittatura democratica del popolo sotto la guida del Partito. Nel settembre del 1997 il XV congresso del Partito ha iscritto questi Quattro Principi nei propri statuti, conferendo ad essi la stessa autorità dei testi di Marx, Lenin, o Mao Zedong. In compenso non si citano più le dottrine specifiche marxiste dell’onnipotenza del Partito, del predominio della lotta di classe, del ruolo motore delle masse o del loro intervento diretto nella vita politica”.(22)

    Per quanto riguarda la valutazione della pratica politica-sociale da Mao, nel giugno del 1981 una risoluzione del PCC sulla storia del partito rilevò che i meriti di Mao Zedong sono “essenziali” e gli errori “secondari”. Il suo operato negli anni precedenti il 1949 si basa su concezioni giuste. Dal 1949 alla campagna antidestrista del 1957 la sua guida rimane corretta; dal 1957 fino al 1966, comprende diversi errori e diventa disastrosa durante l’ultimo decennio, dal 1966 al 1976. La risoluzione rimprovera a Mao Zedong l’arroganza, l’eccessiva fiducia in se che, fin dal 1956 lo spinge a disprezzare le regole della direzione collegiale e la democrazia all’interno del Partito, e a moltiplicare le misure arbitrarie. Ma la risoluzione è molto attenta a distinguere tra gli errori di Mao Zedong, originati da una applicazione frettolosa e sbagliata dei suoi principi,e il suo pensiero, che deve continuare a ispirare il Partito. Così il pensiero di Mao Zedong esce relativamente indenne alla condanna della Rivoluzione culturale”.(23)

    Fin dall’estate del 1978, in ogni caso, la pratica divenne”il solo criterio di verità“, sostituendo la precedente adesione (più o meno convinta) alle direttive e ai principi via via formulati da Mao Zedong.

    Il sesto elemento cardinale della NEP cinese è stato ed è tuttora rappresentato da una politica estera prudente, basata principalmente in campo politico sulla coesistenza pacifica e la cooperazione economica con tutti i paesi del globo e, come lato nettamente subordinato, sulla lotta all’egemonismo ed alla tendenza statunitense volta ad acquisire il dominio planetario (dal punto di vista materiale, contano ovviamente l’effettiva accumulazione da parte cinese di un’adeguata forza d’urto militare e nucleare ed il potenziale economico via via raggiunto dopo il 1949).

    Rivolta in una prima fase contro l’Unione Sovietica (1978/1983), dopo il 1985 la lotta sotterranea ma continua effettuata della Cina Popolare contro le tendenze aggressive e militariste più estreme dell’imperialismo statunitense ha costituito una delle due costanti della politica estera cinese sia sotto Deng che sotto i suoi successori, seppur subordinata al primato di una pratica politico-economica tesa a creare ed estendere al massimo grado possibile i rapporti multilaterali ed amichevoli con tutte le nazioni del globo, a partire da quella americana.

    Dal 1983 la politica estera cinese è fondata realmente su un opzione cooperativa e non competitiva rispetto alle relazioni internazionali, anche (ma non solo) per concreti e reali interessi politico-economici della Cina nel lungo periodo: come ha intuito G.Arrighi, sia Deng che i suoi successori ritenevano e ritengono tuttora che il tempo giochi a favore della Cina a patto di evitare conflitti militari di ampia portata e di favorire la coesistenza pacifica tra le nazioni. Cercando di prevedere le dinamiche interstatali dei prossimi decenni, dopo aver esaminato la strategia attendista utilizzata dagli stessi USA nei confronti della Gran Bretagna (allora prima superpotenza mondiale) nel periodo compreso tra il 1913 ed il 1941, Arrighi si è chiesto: “In un quadro di questo tipo la strategia di potenza ottimale nei confronti degli Stati Uniti non potrebbe essere per la Cina quella stessa adottata a suo tempo dagli Stati Uniti nei confronti dell’Inghilterra? Non potrebbe cioè essere nel pieno interesse cinese, primo, lasciare che gli Stati Uniti finiscano per dissanguarsi militarmente e finanziariamente in un’interminabile guerra al terrorismo; secondo, arricchirsi rifornendoli di merci e di crediti una superpotenza americana dalla politica sempre più incoerente ; e,terzo, usare l’espansione del proprio mercato interno e della propria ricchezza nazionale per convincere gli alleati (compresa qualche multinazionale americana) a istaurare un nuovo ordine mondiale con la Cina al suo centro, ma non necessariamente sotto il dominio militare cinese?”. (24)

    Dietro a tutta la politica estera cinese degli ultimi tre decenni,seppur con notevoli mutamenti nel tempo e contraddizioni rilevanti, emerge l’idea-guida di un’”ascesa pacifica” e progressiva del peso specifico e del prestigio internazionale della Cina che in ogni caso,ha rilevato recentemente Zheng Bijan,uno dei massimi sostenitori della dottrina,non ha fatto in passato e “non farà la scelta dell’uso della forza mirata al saccheggio delle risorse e dell’instaurazione di un’egemonia mondiale che è stata della Germania guglielmina nella Prima guerra mondiale e della Germania nazista e del Giappone Imperiale nella Seconda guerra mondiale”seguendo una particolare ed efficace interpretazione cinese di una coesistenza pacifica che risale ai tempi di Bandung tenutosi nell’aprile del 1955.(25)

    Infine la modernizzazione scientifico-tcnologica ha assunto ininterrottamente un ruolo assai significativo nel “grande progetto” di Deng Xiaoping e dei suoi successori.

    Secondo Deng, la scienza e la tecnologia erano ormai diventati da molto tempo la principale forza produttiva del nostro tempo,come rilevò un colloquio con il dirigente comunista cecoslovacco G. Husak :fin dai primi anni ottanta venne pertanto lanciato un grande progetto pluridecennale finanziato massicciamente dallo stato ed attraverso il quale la Cina doveva progressivamente conquistare i primi posti nell’high-tech,o partire dal settore informatico e spaziale;dopo meno di tre decenni,si può tranquillamente affermare che alla semina è già seguito un ampio,anche se non ancora sufficiente raccolto.(26)

    Deng Xiaoping aveva previsto lucidamente conseguenze le possibili conseguenze di un eventuale successo del “Grande progetto” e della NEP cinese. Nell’aprile del 1987,in un colloquio con il premiere comunista cecoslovacco Lubomir Strougal, rilevò che “dal 1981 alla fine del secolo dobbiamo quadruplicare il nostro PIL” (prodotto interno lordo) “e raggiungere una parallela crescita di prosperità con un PIL pro-capite pari a 800 dollari per abitante. Ora prendiamo questa cifra come un nuovo punto di partenza e cerchiamo di quadruplicarla di nuovo,in modo da raggiungere una cifra pro-capite di 4000 dollari in altri cinquanta anni se noi potremo raggiungere questo obiettivo in primo luogo avremo eseguito un compito enorme in secondo luogo avremo effettuato un reale contributo al genere umano;e per terzo,avremo dimostrato in modo più convincente la superiorità del sistema socialista…quando raggiungeremo questo obiettivo non avremo solo mostrato una nuova via ai popoli del Terzo Mondo,che rappresentano tre quarti della popolazione mondiale,ma anche-e questo è ancora più importante- avremo dimostrato al genere umano che il socialismo è la sola via e che esso è superiore al capitalismo”.(27)

    Parole (e previsioni) chiare.

    Parole e previsioni che si sono trasformate in realtà concreta,visto che tra l’obbiettivo previsto da Deng per la quadruplicazione del PIL cinese dal 1980 al 2000 è stato raggiunto e che tra il 2000 ed il 2008 la Cina ha già più che raddoppiato (in soli otto anni) il suo PIL e reddito pro-capite,ponendosi l’obiettivo di ottenere un nuovo raddoppio entro il 2020 quadruplicando ulteriormente la ricchezze globale e procapite nel giro di soli 20 anni, molto prima dei cinquanta previsti dal prudente (visto a posteriori) Deng Xiaoping. La superpotenza demografica cinese sta ormai diventando anche una superpotenza economica e tecnologica, seppur con una produttività procapite ancora molto inferiore a quella statunitense.

    Secondo il parametro (approssimativo e incerto,ma indispensabile per comprendere i reali rapporti di forza economici mondiali) del prodotto nazionale lordo misurato a parità di potere d’acquisto,che riequilibra la ricchezza globale posseduta dai vari stati in base alla quantità/qualità reale di beni e servizi da essi prodotta estrapolando dalla loro diversa traduzione monetaria (un chilo di riso rimane un chilo di riso,anche se negli Stati Uniti costa quattro volte più che in Cina), anche secondo le stime più pessimistiche il prodotto nazionale lordo cinese nel 2007 risulta ormai pari a più della metà di quello statunitense.

    Secondo le valutazioni effettuate dalla CIA e dal Fondo Monetario Internazionale, il prodotto interno lordo degli USA nel 2007 era pari a circa 13800 miliardi di dollari, mentre quello cinese era pari a circa 7000 miliardi di dollari a parità di potere d’acquisto e a 3250 miliardi di dollari senza il parametro correttivo sopracitato. (28)

    Se (un grosso se, certo) la Repubblica Popolare Cinese riuscisse a mantenere un ritmo di aumento annuo del PIL pari al 9% annuo tra il 2008 ed il 2016, contro il 2,6% di quello statunitense negli stessi anni alla fine del 2016, si avrebbe uno storico sorpasso della potenza economica globale cinese rispetto alla “vecchia” e detronizzata formazione statale statunitense.

    Secondo altre stime fornite da autorevoli economisti russi, A. Salickij e V. Fisjukov, i tempi per il “sorpasso” potrebbero essere invece molto più ristretti ed effettivamente sorprende notare come all’inizio del 2006 sempre la CIA, il FMI e la Banca Mondiale valutassero il Pil cinese (a parità di potere d’acquisto) come pari a circa 9000 miliardi di dollari, per poi tagliare e ridurre notevolmente il loro calcolo sulla Cina nel giro di due soli anni, portandolo ai 7000 miliardi sopra citati: anche la matematica diventa politica, in certi casi…(29)

    8) Per quanto riguarda la situazione reale e la dinamica concreta dei rapporti di produzione formati e cristallizzatisi in Cina nella seconda metà del 2008, si deve subito notare che - contrariamente a molte leggende metropolitane diffuse nella sinistra occidentale - il settore collettivistico (di matrice statale e cooperativo) mantiene una larga egemonia, seppur contrastata e non priva di contraddizioni interne, all’interno del processo generale di riproduzione della variegata formazione economico sociale cinese, innanzitutto e principalmente attraverso “quattro anelli” interconnessi tra loro.

    Il principale tassello materiale della “linea rossa” in Cina e della sua egemonia contrastata all’interno del processo produttivo globale del paese viene rappresentato dall’enorme spazio d’azione mantenuto dalle grandi imprese statali che operano nel settore industriale e bancario, estrattivo e commerciale della grande nazione asiatica.

    Il 3 settembre del 2007 il Quotidiano del Popolo di Pechino, l’organo di stampa più prestigioso del PCC, ha riportato che nel 2006 le 500 imprese della Cina (ivi comprese banche, settore petrolifero, e degli armamenti, ecc.) controllavano e possedevano l’83,3 del PNL cinese, in netto aumento rispetto al 78% del 2005 ed al solo 55,3% del 2001: tra questi 500 grandi colossi, 349 e quasi il 70% del totale sono di proprietà statale, in modo completo o con una quota di maggioranza della sfera pubblica.

    Sempre nel 2006 il giro di affari e le vendite delle imprese statali (completamente o in maggioranza statali) risultò di 14,9 migliaia di miliardi di yuan su un totale di 17,5 migliaia di miliardi di yuan di vendita globale collezionati dalle prime 500 imprese, alias a circa l’85% dell’insieme del giro d’affari della ricchezza prodotta da queste ultime; visto che la quota dei “500 big”sul prodotto nazionale lordo cinese era pari al sopracitato 83,3%, la quota percentuale delle 349 imprese statali sul PIL cinese ufficiale risultava pari a più del 70% e quasi tre quarti della ricchezza globale cinese.(30)

    Nel 2007 il giro d’affari delle SOE (imprese statali cinesi, in tutto o a maggioranza) era ulteriormente aumentato fino a quasi raggiungere i 18 migliaia di miliardi di yuan, per una quota e sempre pari a circa il 70% del PNL interno, equivalente a 24,66 migliaia di miliardi di yuan nell’anno preso in esame, mentre il numero di impiegati in esse era pari a circa 35 milioni.(31)

    Anche se una parte nettamente minoritaria delle imprese statali risulta in mano ai privati, autoctoni o stranieri, come soci di minoranza e anche se una quota del PIL cinese non risulta alle statistiche ufficiali, si tratta di dati innegabili e assolutamente sconosciuti al capitalismo monopolistico di stato egemone nell’area occidentale e giapponese, segnata tra il 1979 ed il 2005 da processi giganteschi di privatizzazione delle imprese produttive statali.

    La principale debolezza del settore statale cinese consiste nel suo minor tasso medio di profitto rispetto a quello privato, autoctono o straniero. La massa di profitto ottenuta dalla SOE è passata dai 90 miliardi di yuan del 1995 fino ai 221 del 2002, balzando poi nel 2007 alla cifra di 1620 miliardi di yuan (221,9 miliardi di dollari): un incremento eccezionale, dovuto anche al doloroso processo di ristrutturazione delle imprese statali sviluppatosi tra il 1998 ed il 2006, ma che non è ancora sufficiente a far raggiungere alle SOE i margini di redditività ottenuti negli stessi anni dal settore privato, che tra il gennaio e il novembre del 2007 avevano raggiunto una massa di profitto di 400 miliardi di yuan solo nel segmento delle grandi imprese private, trascurando le medie, piccole e piccolissime imprese.(32)

    Il secondo anello principale che garantisce tuttora l’egemonia contrastata della “linea rossa” all’interno della variegata formazione economico-sociale cinese viene rappresentato dalla proprietà pubblica del suolo cinese, che può essere concesso legalmente in usufrutto a privati solo in determinate condizioni e con l’approvazione preventiva dello stato. Ancora recentemente l’assemblea legislativa cinese ha rifiutato qualunque proposta di privatizzazione della terra in Cina ed il 30 gennaio del 2007 Chen Xiwen, direttore dell’ufficio agricolo del governo centrale, dopo aver ribadito un secco diniego alle ipotesi di privatizzazione ha notato che la terra veniva data in usufrutto ai contadini per trent’anni e che ogni ipotesi di subaffitto del suolo da parte dei contadini alle imprese industriali era da considerarsi come assolutamente illegale. (33)

    Secondo anche le nuove leggi entrate in vigore il primo ottobre 2007, la proprietà della terra in Cina si divide in due tipi fondamentali: quello statale per le aree urbane (le fonti di materie prime) e quella posseduta collettivamente dai singoli villaggi rurali nelle campagne del gigantesco paese asiatico, villaggi ed agglomerati riconosciuti come Organizzazioni Economiche Collettive (OEC).

    Gli OEC distribuiscono l’usufrutto della terra alle famiglie contadine e/o alle cooperative di produzione nei loro villaggi, usufrutto che persiste solo in presenza di un’effettiva partecipazione diretta dei singoli contadini/famiglie contadine all’attività rurale:se essi si trasferiscono nelle città stabilmente, perdono il diritto d’utilizzo della terra da loro precedentemente coltivata, mentre proprio a nessuno (ivi compreso gli OEC) è consentito di trasferire la proprietà della terra.

    Proprio nell’ottobre del 2008 le autorità centrali stanno presentando un progetto di legge che tutelerà molto di più gli OEC dall’espropriazione di terre per i bisogni produttivi delle imprese, per nuove strade, ferrovie, ecc.. consentendo allo stesso tempo alle famiglie contadine già usufruttuarie della terra un maggiore livello di protezione socioproduttiva e politica.

    Il terzo segmento socio produttivo che costituisce il mosaico della “linea rossa” in Cina è costituito dal settore cooperativo, in particolar modo dalle imprese cooperative industriali di villaggio, di proprietà di tutti gli abitanti del villaggio o municipi interessati secondo una pratica produttiva regolarizzata da una legge del 1990.

    Il Fondo Monetario internazionale (2004) ha stimato che se già nel 1980 le cooperative non agricole di villaggio impiegavano circa 30 milioni di lavoratori, nel 2003 la cifra era salita a 130 milioni di unità lavorative rimanendo quasi invariata negli ultimi 4 anni e coprendo circa il 20% dell’attuale forza lavorativa cinese, anche se alcune di queste cooperative hanno perso il loro carattere originario ed hanno subito un processo mascherato di privatizzazione.

    Come ha notato G. Arrighi, il momento fondamentale per il processo di sviluppo delle cooperative rurali non agricole è stato paradossalmente “l’introduzione, nel 1978/1983, del sistema di responsabilizzazione familiare, che faceva tornare il potere decisionale e il controllo sul sovrappiù agricolo alle famiglie, togliendoli alle comuni. Inoltre nel 1979, e poi ancora nel 1983, i prezzi pagati per gli approvvigionamenti di prodotti agricoli sono stati aumentati in misura significativa. Il risultato è stato un aumento importante della produttività delle fattorie e dei redditi agricoli, che a sua volta ha ringiovanito “l’antica” propensione delle comunità e delle brigate agricole a cimentarsi anche nella produzione non agricola. Tramite una serie di barriere istituzionali alla mobilità personale, il governo incoraggiava il lavoratore agricolo a “lasciare la terra senza abbandonare il villaggio”. Nel 1983, tuttavia, venne permesso ai residenti nelle aree rurali di intraprendere attività di trasporto e di commercio anche a grande distanza, alla scopo di trovare sbocchi di mercato ai loro prodotti. Era la prima volta nel corso di quella generazione che ai contadini cinesi veniva consentito di condurre affari fuori dai confini del proprio villaggio. Nel 1984 i regolamenti vennero ulteriormente addolciti, consentendo ai contadini di andare a lavorare nelle città vicine per presentare la loro opera in organismi collettivi noti come “imprese di municipalità e villaggio”.

    La nascita delle imprese di municipalità e villaggio era stata favorita da due altre riforme: il decentramento fiscale che aumentava l’autonomia delle amministrazioni locali nella promozione dello sviluppo economico e nell’impiego di eventuali avanzi fiscali come incentivi; e il passaggio a un sistema di valutazione dei quadri di partito in base ai risultati economici del loro territorio, cosa che incentivava fortemente le amministrazioni locali a sostenere la crescita economica. Le imprese di municipalità e villaggio sono così diventate le sedi privilegiate per l’orientamento delle capacità imprenditoriali dei quadri di partito e dei funzionari amministrativi in direzione dello sviluppo. Per le più autonome finanziariamente, le imprese di municipalità e villaggio sono state anche gli agenti principali della riallocazione in modo produttivo dell’eccesso di manodopera delle campagne in attività industriali ad alta intensità di lavoro.

    Il risultato fu la crescita esplosiva della massa di forza-lavoro rurale impiegata in attività non agricole, dai 28 milioni del 1978 ai 136 milioni del 2003, con gran parte dell’aumento localizzato nelle imprese di municipalità e villaggio. Fra il 1980 e il 2004 le imprese di municipalità e villaggio hanno creato un numero di posti di lavoro quadruplo di quelli persi nello stesso periodo nelle città delle imprese statali o collettive. Nonostante fra il 1995 e il 2004 il tasso di crescita dell’occupazione nelle imprese di municipalità e villaggio sia stato inferiore al tasso di disoccupazione degli impieghi urbani statali e collettivi, il bilancio dell’intero periodo mostra che alla fine le imprese di municipalità e villaggio occupano ancora più del doppio dei lavoratori impiegati complessivamente nelle imprese urbane a proprietà straniera, a proprietà privata e a proprietà mista.

    Il dinamismo delle imprese rurali accolto di sorpresa i dirigenti cinesi. Come riconobbe Deng Xiaoping nel 1993, lo sviluppo delle imprese di municipalità e villaggio “fu del tutto inatteso”. Da allora il governo è intervenuto per regolare e dare una normativa alle imprese rurali e nel 1990 la proprietà delle imprese di municipalità e villaggio è stata conferita collettivamente a tutti gli abitanti del municipio o del villaggio interessato. Il potere di assumere o licenziare i direttori delle imprese fu però conferito alle autorità locali, con la possibilità di demandare tale scelta a una struttura governativa. Anche la distribuzione dei profitti è stata sottoposta a normativa, introducendo l’obbligo del reinvestimento nell’impresa di più del 50% dei profitti per modernizzare e ingrandire gli impianti e per finanziare servizi e grafiche per i lavoratori, mentre la quasi totalità di quel che resta deve essere impiegata per infrastrutture agricole, miglioramenti tecnologici, servizi pubblici e investimenti di nuove imprese”. (34)

    A fianco delle cooperative rurali (non agricole) di villaggio tutt’ora esiste una grande e variegata rete di cooperative agricole ed edilizie, di consumo e/o urbane, che fanno parte della Federazione delle Cooperative cinesi interessando in forme diverse buona parte della popolazione cinese a partire da 10 milioni di persone che lavorano direttamente per i loro interessi nel 2003.

    Nel 2002 ammontavano a circa 100 milioni gli associati delle cooperative cinesi facenti parte dell’ Alleanza Internazionale delle Cooperative, mentre nel 2003 le 94.711 cooperative cinesi (di tutti i generi e tipologie) contavano al loro interno la modica cifra di 1.193.000.000 di uomini e donne associati a vario titolo.(35)

    Un ulteriore ed importante tassello della “linea rossa” cinese viene costituito dal “tesorone” di proprietà statale accumulato progressivamente dopo il 1977, dalla massa enorme di valuta straniera e da titoli del tesoro esteri via via accumulati negli ultimi tre decenni dall’apparato statale cinese.

    Mentre nel 1978 le riserve valutarie statali risultavano pari solo a tre miliardi di dollari (M. Bergere), a fine giugno 2008 il “tesorone” di proprietà pubblica della Cina ha raggiunto la cifra astronomica di 1810 miliardi di dollari ed un valore pari a circa il 50% del prodotto nazionale lordo (nominale) del paese: detta in altri termini, ai circa due terzi del PIL cinese (ufficiale) controllati dalle imprese statali va aggiunta un’altra massa enorme di denaro e risorse di proprietà pubblica convertibili in ogni momento con facilità, un’altra enorme quota di ricchezza saldamente in mano all’apparato statale ed a potenziale disposizione dei bisogni dello stato e del popolo cinese.(36)

    Un “tesorone” che a fine 2008 raggiungerà quasi i 2000 miliardi di dollari equivalente già ora a più del doppio delle riserve valutarie del Giappone, che risulta in parte già investito nella creazione di uno speciale fondo statale sovrano sulle cui attività all’estero ci dilungheremo in altra sede.

    Oltre che dai “quattro anelli” principali sopra descritti,la supremazia (contrastata) del settore socialista sull’insieme dell’economia cinese viene garantita e rappresentata da numerosi altri strumenti allo stesso tempo politici ed economici, quali:

    - Il possesso e controllo statale della stragrande maggioranza delle risorse naturali del paese, a partire da quelle idriche ed energetiche.

    - Il totale monopolio statale del settore militar- industriale, spaziale e delle telecomunicazioni.

    - La politica demografica del “figlio unico” (non applicata alle minoranze etniche del paese con i suoi evidenti e positivi riflessi sia sull’economia che sul processo complessivo di riproduzione della forza lavoro del gigantesco paese asiatico.

    - Il processo partigiano ed unidirezionale di concessione dei prestiti bancari, che ancora nel primo decennio del ventunesimo secolo sono destinati nella loro grande maggioranza a favore del settore statale e cooperativo e solo per una porzione secondaria vanno alla sfera privata. (37)

    - L’utilizzo del sistema finanziario principalmente al servizio dello stato, che infatti se ne serve anche “per scopi come la lotta all’evasione fiscale” riconosciuti anche da studiosi anticomunisti.(38)

    - Il progressivo aumento negli ultimi dieci anni della quota del PIL cinese amministrata direttamente dallo stato ed ottenuta grazie al sistema di tassazione diretto / indiretto, quota passata dal 11% circa del 1998 fino al 23% circa del 2007.(39)

    - La non-convertibilità dello yuan (o renminbi), la moneta nazionale cinese sottoposto al ferreo controllo delle autorità statali centrali con il derivato controllo su larga parte dei flussi finanziari da e per la Cina.

    - Il processo relativamente esteso di riacquisto dell’intera proprietà di alcune joint-ventures formatesi tra stato e multinazionali statali da parte del contraente pubblico cinese come testimoniato a denti stretti da Luigi Vinci (Rifondazione Comunista) in un suo articolo sulla dinamica politico economica cinese. (40)

    - Quasi tutte le principali multinazionali straniere che operano in Cina sono state costrette ad accettare di costruire joint-ventures alla pari (50 a 50 per cento) con aziende statali per poter operare in terra cinese, fuori dalle zone speciali: ad esempio la Volkswagen ha creato fin dal 1984 una joint-venture paritaria con l’azienda statale SAIC che durerà almeno fino al 2030, imitata in questo senso dalla General Motors, da Microsoft, ecc

    - L’intreccio spesso creatosi in Cina tra azionisti privati e proprietà pubblica/statale all’interno di imprese apparentemente capitalistiche, in tutto o in maggioranza, a volte può ingannare.

    Basti pensare che se la Lenovo, una delle più importanti imprese al mondo nella produzione di computer, agli occhi occidentali risulta di regola una compagnia privata, alla fine del febbraio 2008 almeno il 30% della Lenovo era in mano e di proprietà statale.

    - Dal 1977 fino al 2008 la crescita media del prodotto nazionale lordo cinese è risultata pari al 9,7% annuo e soprattutto immune alle crisi recessive tipiche del modo di produzione capitalistico, del capitalismo di stato contemporaneo: mentre quest’ultimo ha dovuto affrontare la recessione del 1980/82, del 1991/92, del 2001/2002 e sta entrando dalla seconda metà del 2008 in una nuova fase di “vacche magre”, questa dinamica produttiva è stata assolutamente sconosciuta alla formazione economico-sociale cinese, anche nel 2008 vedrà un aumento del suo prodotto interno lordo superiore al 9%

    - Il potere reale di fissare” dall’alto” per via politica i prezzi di alcuni beni e servizi, come è successo nei primi mesi del 2008 per benzina , grano, latte e uova al fine di combattere la crescente inflazione (misure analoghe vennero prese nel 1996 e 2003)

    - Il pieno controllo statale su decisive condizioni generali della produzione quali dighe, centrali elettriche, canali di irrigazione, sistema ferroviario e stradale, ponti e sistema di internet, la ricerca scientifica ed il settore high-tech, ecc.

    - Il processo di creazione e riproduzione di nuovi settori produttivi attraverso lo stato, come sta avvenendo per la fusione termonucleare (progetto East, già in funzione), i supercomputer made in China ed il nuovo polo aereonautico civile autoctono (gestito e finanziato direttamente dalla sfera pubblica con l’erogazione della notevole somma di 19 miliardi di yuan, a partire dall’estate del 2008), le nanotecnologie e le infrastrutture per telecomunicazioni, ecc. (41)

    Questi importanti strumenti politico-economici di controllo e direzione statale si collegano dialetticamente, rafforzando ulteriormente i “quattro anelli” fondamentali che riproducono costantemente l’egemonia contrastata del settore socialista nel processo generale di sviluppo dell’articolata formazione economico-sociale cinese, durante il primo decennio del nuovo secolo.

    Certo, se le 349 grandi imprese statali / a maggioranza statali venissero privatizzate in Cina, come è successo nell’ex-blocco sovietico tra il 1989 ed il 1998…

    Se venisse privatizzato il suolo e le risorse naturali cinesi, come è avvenuto nell’ex-blocco sovietico tra il 1989 ed il 1998…

    Se il settore cooperativo cinese scomparisse / venisse inglobato all’interno della sfera capitalistica, autoctona o estera…

    Se il “tesorone” venisse progressivamente destinato a riempire le tasche delle grandi imprese private del paese, o delle multinazionali estere…

    Se scomparisse il quasi-monopolio statale sulle risorse naturali del paese, sul settore delle telecomunicazioni e nell’industria degli armamenti a favore del “privato”…

    Se la quota statale della joint-ventures con le multinazionali estere fosse svenduta a basso prezzo, oppure tagliata a queste ultime…

    In questo ipotetico (ma non impossibile) scenario la configurazione concreta dei rapporti di produzione cinesi all’inizio del terzo millennio cambierebbe radicalmente e si affermerebbe invece, come nella Russia post-1991, una forma chimicamente (quasi) pura di capitalismo monopolistico di stato attraverso processi giganteschi di privatizzazioni delle forze produttive sociali e delle condizioni generali della produzione: processi che davvero trasformerebbero la Cina attuale in un nuovo Eldorado per il capitalismo internazionale.

    Ma a tutt’oggi non è questa la situazione dei rapporti sociali di produzione in Cina, e lo scenario delineato rappresenta a nostro avviso l’ipotesi meno probabile rispetto alla dinamica futura del paese.

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    Predefinito Rif: Repubblica Popolare Cinese

    La Cina Rossa

    SOCIALISMO O CAPITALISMO?

    III PARTE


    Proprio l’egemonia contrastata della “linea rossa”all’interno dell’articolata formazione economico-sociale cinese spiega, tra molti altri fenomeni, l’assenza totale di crisi globali di sovrapproduzione nel gigantesco paese asiatico durante gli ultimi tre decenni (e dal 1949 al 1977, ovviamente) e la solida tenuta della Cina rispetto alla gigantesca crisi finanziaria che ha colpito l’Asia durante il biennio 1997/98: strani “fenomeni”, altrimenti non spiegabili se non con un ipotetico potere “magico”del PCC e del popolo cinese.

    9) Passando invece al settore capitalismo, esso si divide nel settore in mano cinese (comprendendo al suo interno anche i capitali provenienti da Taiwan, Hong Kong e dalla diaspora cinese in Asia) e nella sfera produttiva controllata dalle multinazionali straniere.

    L’estensione quantitativa della “linea nera”, di matrice sia autoctona che straniera, risulta notevole ed in crescita continua: alla fine di settembre del 2007 la Cina vedeva ormai 5,3 milioni di imprese private regolarmente registrate nel paese, il cui flusso complessivo di affari risultava pari a 8,8 migliaia di miliardi di yuan con 70,6 milioni di persone impegnate al loro interno.(42)

    Anche se si tratta di risultati e cifre assai consistenti, siamo in ogni caso molto lontani dalla massa di mezzi di produzione e di vendite (18 migliaia di miliardi di yuan nel 2007), di risorse materiali/finanziarie e di occupati messi in campo dal settore statale e cooperativo: invece era superiore nel livello medio dei profitti raggiunti nel 2007 la sfera privata, la quale nel solo settore industriale / grandi imprese aveva raggiunto 400 miliardi di euro da gennaio a novembre 2007. (43)

    Dopo essersi sviluppate per più di un decennio nelle “zone speciali” del Guandong, a loro volta le multinazionali estere nel 2006 occupavano circa 10 milioni di forza- lavoro cinese esprimendo una composizione organica del capitale in media molto superiore a quella delle imprese private- concorrenti cinesi; inoltre le multinazionali straniere controllavano a volte delle quote significative, seppur come soci di minoranza, delle imprese a controllo prevalentemente statale e a partire dal 2006 avevano acquisito circa il 10% delle azioni di alcune delle principali banche pubbliche cinesi.

    Da alcuni decenni si riproduce inoltre in Cina una rete molto diffusa di imprese sommerse, che sfuggono in larga parte al controllo e fisco statale: il “lavoro nero”secondo alcune stime fornisce quasi il10% del PIL cinese e occupa al suo interno decine di milioni di persone, mentre nel settore illegale dell’economia si trova anche la ricchezza posseduta dai funzionari corrotti del partito comunista cinese, visto che una parte minoritaria, ma non irrilevante dei quadri del partito si appropria sotto molteplici forme illecite di fondi pubblici e della stessa proprietà di alcune aziende statali.

    Un discorso a parte vale invece per la “linea bianca” che si riproduce dal 1978/80 all’interno della complessa formazione economico-sociale cinese e che si materializza nelle diverse decine di milioni di contadini autonomi dell’immenso paese, con una propria azienda ed un terreno avuto in usufrutto pluridecennale dello stato.

    Nel 2003 il numero di agricoltori del paese era pari a 318 milioni di persone, una massa enorme che tuttavia era in sensibile riduzione rispetto al picco di 368 milioni raggiunto nel 1990, in un trend inevitabile visto lo sviluppo tecnologico-produttivo del paese e la progressiva migrazione della popolazione rurale verso la città: l’intero settore agricolo, comprendendo al suo interno anche le cooperative agricole, ormai contribuiva nel 2007per meno del 10% all’intero prodotto interno lordo cinese della prima parte del 2008.(44)

    Seppur in via di progressiva diminuzione qualitativa, dopo il 2002 i contadini autonomi cinesi sono diventati il secondo “cocco di mamma” e un altro soggetto sociale privilegiato dopo le imprese statali/cooperative, beneficiando di alcuni importanti provvedimenti politico-economici:

    - L’eliminazione totale di alcune tasse statali poste in precedenza a carico di contadini cinesi, a partire dall’inizio 2006.

    - L’enorme aumento dei sussidi statali al settore agricolo, arrivati alla somma di 42,7 miliardi di yuan del 2007 con un aumento di ben il 62% rispetto all’anno precedente.

    - L’eliminazione totale del 2007 di tutte le tasse ed imposte nei distretti e province più povere delle regioni centrali ed occidentali del paese, in cui vive una popolazione pari a diverse decine di milioni di unità.(45)

    In ogni caso, la contraddizione principale esistente tuttora all’interno della complessa e variegata formazione economica-sociale cinese rimane da tre decenni quella tra “linea rossa” e “linea nera“: quest’ultima, con i suoi concreti agenti socio-produttivi, sarebbe estremamente felice di inglobare ed annettersi la sfera produttiva statale e cooperativa a prezzi di svendita, come è già successo nell’ex-blocco sovietico tra il 1989 ed il 1999.

    10) L’indiscutibile egemonia esercitata dal 1977 al 2008 dalla “linea rossa”all’interno dell’economia cinese, seppur contrastata e non priva di contraddizioni endogene, non è caduta e non cade tuttora “dal cielo”(Mao Zedong) non essendo il sottoprodotto di naturali ed… inesistenti processi spontanei di natura economica, ma viceversa essa principalmente costituisce il risultato di precise scelte politico-economiche via via selezionate e messe in pratica dal PCC negli ultimi tre decenni.

    Se la sfera politica risulta sempre, almeno in parte “espressione concentrata dell’economia” (Lenin, 1920), tutto ciò è diventato al massimo grado vero nel corso della storia della Cina Popolare dove sfera politica ed economia sono strettamente interconnesse ed interagiscono l’una sull’altra, con un netto primato della prima sulla seconda.(46)

    Il PCC ed i suoi nuclei dirigenti che si sono succeduti dal 1978 fino ad oggi sono stati innanzitutto i “guardiani” sia della conservazione che della gigantesca riproduzione allargata del settore statale in Cina, impedendo preventivamente la sua distruzione attraverso processi di privatizzazione su larga scala dei mezzi di produzione e delle condizioni della produzione, a partire dal suolo.

    Le privatizzazioni in Cina, dal 1980 al 2007, sono risultate estremamente limitate sia sul piano quantitativo che qualitativo proprio a causa di chiare e precise scelte politico-economiche del PCC, distanti anni luce dai processi politico che hanno portato la Russia alla svendita ai privati del gigantesco apparato statale economico e delle stesse risorse naturali russe, petrolio e gas in testa, tra il 1991 ed il 2000, grazie alle decisioni e pratiche economico-sociali compiute da Eltsin, Cubais e Gaidor: la differenza tra la Cina e la Russia post- sovietica risulta così chiara da non richiedere altro che la mera conoscenza dei giganteschi processi di privatizzazioni e vendita delle risorse e mezzi di produzione ex-sovietici avviati tra il 1990 ed il 2000. (47)

    In secondo luogo la direzione del PCC dopo il 1978 ha continuato a finanziare soprattutto il settore statale e cooperativo, coprendo le perdite economico-finanziarie delle imprese pubbliche e sussidiando il difficile processo di ristrutturazione che a partire dal 1998 ha portato queste ultime da uno stato di forte passività diffusa ad un livello medio di profitti ormai accettabile: le aziende statali sono state sicuramente il “cocco di mamma”privilegiato dal partito comunista, anche se quest’ultimo non ha lesinato nell’ultimo decennio dei severi “ceffoni”ai figli “balordi”, alias alle imprese pubbliche gravate da perdite costanti. (48)

    Inoltre non cadono certo “dal cielo”la conservazione della proprietà statale del suolo e il processo continuo di accumulazione del “tesorone”, la non convertibilità dello yuan e la dinamica di finanziamento privilegiato alle imprese statali, l’aumento vertiginoso della spesa statale, ecc…

    Sia i “quatto anelli” che gli altri e variegati strumenti materiali di supporto alla “linea rossa”(possesso ed utilizzo della stragrande maggioranza delle risorse naturali del paese, totale monopolio del settore militare industriale e spaziale, controllo statale sulle condizioni generali della produzione, ecc) rappresentano la tangibile e concreta testimonianza della decisiva e fondamentale scelta di campo filo collettivistica compiuta e riprodotta dal PCC dopo il 1977 e fino ai nostri giorni, seppur affiancata alla subordinata e derivata accettazione della presenza prolungata ed ingombrante del capitalismo autoctono e straniero; solo la distruzione dell’egemonia del PCC può portare alla distruzione dell’egemonia contrastata della “linea rossa”all’interno della sfera socio produttiva cinese.

    Sujian Guo, un intellettuale cinese emigrato negli USA ed ex analista politico del Comitato Centrale del PCC, schierato ormai su posizioni apertamente filo capitalistiche, in un suo articolo del 2003 sul Journal of Contemporary China ha minimizzato giustamente la crescita degli elementi capitalistici nell’economia cinese ed ha attribuito correttamente ai principali dirigenti del PCC una protratta adesione al socialismo, perlomeno in prospettiva storica . Ma questo onesto fautore anticomunista del “libero mercato”ha soprattutto colto una verità fondamentale, che larga parte della sinistra antagonista occidentale non riesce ancora a comprendere, quando ha affermato che”privatizzare le enormi proprietà dello Stato col sistema e la struttura politica esistente è un vero problema ed è tecnicamente impossibile. L’esperienza di altri paesi ex comunisti ha dimostrato che non vi è neppure un caso in cui le privatizzazioni avrebbero potuto avvenire se il partito comunista fosse rimasto al potere e il suo sistema politico intatto”. (49)

    In estrema sintesi, l’azione politico -economica esercitata in questi ultimi tre decenni dal partito comunista cinese ha costituito il “cemento”principale nel processo di tenuta e riproduzione allargata della linea rossa all’interno della variegata formazione economica-sociale cinese.

    Per quanto riguarda le relazioni socio politiche sviluppatesi tra il settore economico di matrice capitalistica in Cina ed il partito comunista, il fenomeno esaminato in precedenza dell’assenza di processi di privatizzazione su larga scala dei mezzi e delle condizioni della produzione ha costituito sia un freno oggettivo formidabile alla espansione materiale del primo che il segno visibile (anche se in negativo) della distanza enorme esistente tra il partito comunista e gli interessi generali della borghesia interna straniera, della divaricazione profonda tra gli obbiettivi strategici dei due soggetti sia in campo economico che politico.

    Non solo la direzione del partito comunista ha sottoposto il settore privato ad un trattamento nettamente sfavorevole sotto l’aspetto dei finanziamenti bancari e pubblici, asimmetrico rispetto alla situazione esistente sotto questo aspetto nel mondo occidentale e nel reale capitalismo monopolistico di stato, ma lo ha anche escluso completamente dal controllo della proprietà e delle commesse nel vitale settore degli armamenti e del complesso militar-industriale.

    A partire dal 2006, il settore privato è stato inoltre sottoposto ad un’imposta del 25% sui profitti uguale sia per i capitalisti cinesi che per le multinazionali straniere, a differenza che negli anni precedenti, mentre la legislazione cinese in materia di sindacati(che prevede la presenza dei sindacati sul luogo del lavoro e la stipulazione di normative sui minimi salariali , tra le altre cose) è stata applicata con l’appoggio del governo ad almeno il 47,3% delle imprese private, piccole o grandi. Anche se ancora più della metà di queste ultime non rispetta la normativa politico -sociale esistente, il trend generale risulta nettamente indirizzato verso la sindacalizzazione dei rapporti tra capitale lavoro, in un’altra profonda asimmetria con la dinamica sviluppatasi nel mondo occidentale dopo il 1973/78: a metà di luglio del 2008 una gigantesca multinazionale come la Wal-Mart è stata costretta (caso unico al mondo, finora) a firmare un contratto di lavoro con il sindacato nel nord-est della Cina, a Shenyang, dovendo concedere un aumento di salario per i suoi dipendenti pari all’8% sia per il 2008 che per il 2009 ed aumentando le giornate di vacanze pagate.(50)

    Non a caso, proprio a partire dal 1 gennaio 2008, è entrata in vigore una nuova legge politico-sindacale che prevede “tutele più efficaci per i lavoratori “(F. Piccioni) quali la fissazione di un salario minimo, l’obbligo di pagamento degli straordinari, la liquidazione per i licenziati e difficoltà maggiori per le assunzioni temporanee, in netta controtendenza con il clima politico-economico dominante attualmente in Italia e nel mondo occidentale: in seguito all’entrata in vigore di questa normativa politico-economica, alcune multinazionali hanno trasferito la produzione dalla Cina ad altri stati asiatici, meglio disposti verso gli investimenti stranieri. (51)

    Inoltre lo stesso sistema capitalista autoctono, almeno nelle aziende grandi e medie, è spesso costretto ad accettare una compartecipazione statale nella proprietà delle aziende private: se da un lato una quota minoritaria delle imprese o banche statali risulta a volte in mano ai privati, i capitalisti cinesi di medio- grandi dimensioni spesso devono subire il controllo parziale della sfera pubblica sui loro affari, profitti complessivi e processi di accumulazione privata, in modo abbastanza simile al meccanismo delle joint-venture imposto alle multinazionali occidentali che operano in Cina fuori dalle “zone speciali”.

    Ma c’è di più: un osservatore attento (ma molto critico) dell’attuale realtà cinese come G. Arrighi ha notato come il governo ed il PCC non abbiano fatto alcuno sconto al capitalismo privato autoctono/internazionale anche rispetto alla pratica della libera concorrenza. Il socialismo di mercato di matrice cinese, paradossalmente, rimane uno dei pochi posti al mondo nel quale la borghesia non gode delle solite rendite di posizione intoccabili ed in cui il”mercato” dominato dai monopoli privati non significa “libera volpe in libero pollaio”, secondo la splendida definizione fornita da Che Guevara agli inizi degli anni sessanta.

    Secondo Arrighi “per il momento c’è un’altra caratteristica smithiana della transizione cinese all’economia di mercato che suggerisce cautela nell’identificarla con una transizione al capitalismo tout court. Si tratta dell’attivo incoraggiamento della concorrenza da parte del governo non solo tra i capitali provenienti dall’estero, ma fra tutti i capitali, stranieri o cinesi, privati o pubblici che siano. Anzi, dalle riforme è venuto un segnale assai più forte in direzione dell’aumento della concorrenza per mezzo della rottura dei monopoli nazionali e dell’eliminazione delle barriere che in direzione della privatizzazione. Il risultato è stato una condizione di perenne sovraccumulazione di capitale accompagnata da una pressione al ribasso sui saggi di profitto, che spesso è stata dipinta come la “giungla capitalistica cinese”, ma in realtà assomiglia di più a un mondo di capitalisti à la Smith costretti all’inarrestabile concorrenza a muoversi in direzione dell’interesse nazionale.

    Si lancia un nuovo prodotto, spesso a farlo è una multinazionale straniera, e nel giro di qualche mese una moltitudine di produttori, fra cui molte aziende private cinesi, cominciano ad analizzarlo e decifrarlo. Parte una accesa concorrenza che fa flettere subito i prezzi. Passa un po’ di tempo e i produttori sono già in caccia di nuovi mercati, spesso oltremare. A mantenere in moto questo meccanismo c’è una pluralità di forze che ha prodotto così uno dei mercati più competitivi del mondo. L’ondata di marea degli investimenti stranieri ha insegnato al paese alcune delle tecnologie più all’avanguardia. Un vorace appetito per le tecnologie estere spinge verso l’alto la produttività del sistema economico, mentre in tutto il paese, dalle rovine di quello che era una volta il sistema di pianificazione centralizzata germoglia lo zelo imprenditoriale”.(52)

    Anche il sistema di pianificazione di tipo orientativo “non risulta per niente in rovina “, come dimostrano (tra le altre cose) sia gli interventi statali tesi a congelare all’inizio del 2008 i prezzi di molti generi di prima necessità che l’enorme aumento delle spese pubbliche in Cina tra il 1998 ed il 2007, passate dal 13 al 23% e la cui componente più importante è stata ed è tuttora rappresentata dagli investimenti nelle infrastrutture e nell’alta tecnologia, senza assolutamente preoccuparsi del dogma liberista “meno stato/ austerità fiscale” e degli interessi generali / profitti del capitalismo autoctono ed internazionale.

    Keynes fino all’agosto 2008 era un “cane morto” in occidente, non certo a Pechino: inserito certamente in un contesto politico e socioeconomico in cui predomina il PCC con il suo “grande progetto”e la sua NEP cinese, e nel quale i rapporti di produzione collettivistici mantengono una loro egemonia contrastata (non priva di contraddizioni interne) anche e soprattutto grazie al supporto politico-economico della sfera politico e degli apparati statali di Pechino.

    Il settore economico socialista, di matrice statale e cooperativo, non vive in una sorta di vuoto cosmico risultando viceversa interconnesso, sostenuto e difeso nelle linee fondamentali dal potere statale, e dal PCC, come ha rilevato correttamente anche l’anticomunista Sujian Guo nell’estate del 2003: primato della politica sull’economia, come rilevò acutamente Lenin alla fine del 1920.

    11) Si può avanzare una prima critica alle tesi da noi proposte: “il socialismo non è identico alla proprietà statale e/o cooperativa, altrimenti l’Italia dell’IRI, ENI,banche statali ed ENEL sarebbe già stata un paese socialista”.

    Marx ed Engels ritenevano (a nostro avviso correttamente, anche prima del 1848 e del “Manifesto del partito comunista”) che il fine principale dei comunisti era “l’abolizione della proprietà privata” dei mezzi di produzione: troppo “vetero”,”antichi” e sorpassati i due rivoluzionari tedeschi?

    Certo, il socialismo di matrice marxista significa anche la soddisfazione crescente dei bisogni materiali e culturali dei produttori diretti, lo sviluppo accelerato delle forze produttive e della massa di mezzi di consumo e tempo libero a disposizione della popolazione, la progressiva estinzione dello stato e la trasformazione graduale del socialismo nella forse più avanzata del comunismo sviluppato, ma senza la condizione essenziale e la struttura socioeconomica fondamentale della proprietà collettiva (statale e/o cooperativa) dei mezzi di produzione e delle condizione della produzione non si può certo parlare di socialismo, di qualunque forma e tipologia possibile ed immaginabile.

    Per quanto riguarda l’Italia, tra 1962 ed il 1985 essa rappresentò uno dei casi di capitalismo avanzato in cui era più elevato il peso specifico del settore statale. Ma persino al suo interno, esisteva forse la proprietà pubblica del suolo? A parte le spiagge, le strade e le grandi zone forestali, a noi non risulta.

    Ci risulta che i monopoli privati fossero sostanzialmente dominanti anche nel processo di produzione industriale attraverso FIAT, Pirelli, e le numerosissime aziende medie e grandi unite in Confindustria e sostenute da Mediobanca: un polo capitalistico che persino nel 1968/78 possedeva e controllava gran parte della produzione industriale del paese, mentre tra le trecento imprese italiane di quegli anni solo 35 erano aziende pubbliche, seppur di grandi dimensioni.(53)

    Ci risulta che il settore commerciale ed agricolo fosse allora dominato dai piccoli produttori autonomi e dal grande capitalismo agricolo e commerciale, mentre la cooperazione aveva conservato in questi settori un peso specifico marginale, con la parziale eccezione delle “regioni rosse”dell’Italia centrale….

    Ci risulta che lo stato abbia finanziato prevalentemente e costantemente il settore privato, FIAT in testa, in forme dirette o indirette.

    Ed infine - a qualcuno potrà sembrare incredibile - ci risulta che IRI, ENI, ENEL, e le banche statali siano state privatizzate e svendute dopo il 1987/92, anche grazie al centro sinistra e ad alcune forze “comuniste” che tanto criticano attualmente la Cina per la presenza del capitalismo privato.

    Seconda possibile obiezione: “Il nostro modello di socialismo non prevede il volgare consumismo e l’aumento costante di benessere materiale della popolazione…”

    Il socialismo di matrice marxista invece si: pertanto proponiamo che si effettuino dei sondaggi tra operai ed impiegati, italiani/cinesi, sulle loro preferenze in merito,e che vinca il migliore, il più votato, (non è forse questa la democrazia reale, in Cina come in Italia?)

    Terza possibile critica: “ma in Cina il capitalismo privato è diventato molto forte ed in continuo aumento nel suo peso specifico”.

    Aumenta, ma aumenta anche il peso specifico del settore statale…..

    I dati disponibili sulle cinquecento principali aziende in Cina hanno chiarito quanto esso sia realmente potente ora, nel 2007/0849 di esse sono statali o a maggioranza statale, proprietà pubblica del suolo, come dimostrano anche i dati pubblicati il 31 agosto 2008 su questa tematica molto interessante.

    Rispetto allo sviluppo dei rapporti di forza economici tra le due “linee” in terra cinese, facciamo notare che da tre anni a questa parte il “tesorone” di proprietà statale è aumentato al ritmo annuo di 400/500 miliardi di dollari l’anno, cifra equivalente a quasi la metà dell’intero giro d’affari del settore privato nel corso del 2007 (8800 migliaia di miliardi di yuan, alias circa 1250 migliaia di miliardi di dollari).

    Per quanto riguarda invece le prime cinquecento imprese, 349 erano di proprietà statale nel 2005 e 349 sono rimaste in mano pubblica sia nell’anno successivo che nel 2007. (54)

    Rispetto ai profitti, le imprese statali / a maggioranza statale hanno registrato un aumento dei loro utili nell’intero 2007 pari al 31,6% nei confronti dell’anno precedente, in una dinamica percentuale abbastanza vicina a quella raggiunta dalla sfera concorrente privata. (55)

    Il capitale totale accumulato (”combined assets”) dalle 349 imprese statali nel corso del 2005 raggiunto l’astronomica cifra di 39 mila miliardi di yuan, pari al 95% del totale tra le 500 più grandi imprese: quasi la stessa percentuale del 2002, in cui esse detenevano il 96,4 del totale. (56)

    Pertanto la gara tra le due “linee” socioproduttive risulta come minimo e nel caso peggiore ancora molto aperta, rimanendo ai soli dati tecnologico-produttivi e dimenticando per un attimo il lavaggio del cervello subìto da larga parte della sinistra antagonista occidentale.

    12) Nella seconda sezione di questo lavoro cercheremo di demistificare la leggenda metropolitana sull’aumento continuo della disuguaglianze sociali in Cina (il processo si è invertito a partire dal 2005) e sui bassi salari in Cina (sono aumentati di almeno sei volte negli ultimi tre decenni, come ammesso a denti stretti da studiosi anticomunisti come F. Zakaria, in modo decisamente asimmetrico rispetto all’Italia ed al mondo occidentale), sviluppando un minimo di analisi concreta sulla dinamica dei rapporti sociali di distribuzione in Cina, sull’enorme e continua crescita del benessere materiale e culturale degli operai e contadini nel gigantesco paese asiatico durante gli ultimi tre decenni.



    NOTE

    1) K. Marx , “Il Capitale”, libro I, cap. 21

    2) K. Marx, op. cit. , libro I, cap. 22, par. III

    3) K. Marx, op . cit. , libro I , cap. terzo , par. III

    4) Jean-Marie Bouisseau, “Storia del Giappone contemporaneo “, pp 34-35, ed. Mulino

    5) R. Sidoli, “I rapporti di forza”, Prefazione

    6) K. Marx, “Critica al programma di Gotha”, cap. III, ed. Editori Riuniti

    7) K. Marx, op. cit. , cap. III

    8 ) K. Marx, op. cit. ,cap. III

    9) A.Negri ,”Goodbye Mr Socialism”, pp. 10 e 22-23, ed. Feltrinelli

    10) F. Livorsi, “Bordiga”, ed. Editori Riuniti

    11) P. Short, “Pol Pot”, pp. 386/419/460, ed. Rizzoli

    12) E. H. Carr,”La rivoluzione bolscevica”, pp.694/712, ed Einaudi; S. F.Cohen, “Bucharin e la rivoluzione bolscevica”, p.130, ed. Feltrinelli

    13) Deng Xiaoping, Opere Scelte, vol. II, 17 gennaio 1979; M. Bergere, “La Repubblica Popolare Cinese”, pp. 232/267, ed. Mulino

    14) M. Bergere, op cit., p. 245

    15) M. Bergere, op. cit., pp.249-250; G. Samarani, “La Cina del Novecento”, pp.314-316, ed. Einaudi

    16) Deng Xiaoping, op. cit., vol. III, 6 febbraio 1987 e vol. II, 26 novembre 1979; Autori Vari”La cultura di Mao”, pp. 182/192, ed. La Nuova Italia

    17) M. Bergere, op. cit., p.207

    18) Deng Xiaoping, op cit., vol. III, 26 aprile 1987

    19) Deng Rong,”Deng Xiaoping e la rivoluzione culturale”, p. 65, ed Rizzoli

    20) Deng Rong, op. cit., pag. 279-280

    21) Autori Vari, “Tienanmen”, pp. 492-494, ed. Rizzoli

    22) M. Bergere, op cit., p. 392

    23)M. Bergere, op cit., pp. 236-237

    24) G. Arrighi, “Adam Smith a Pechino”, pp. 348-349, ed. Feltrinelli

    25) G. Arrighi, op cit., p. 325; H. S. Hegner, “Cina: ieri, oggi, domani”, pp. 346/350, ed Sansoni; F. Barbieri, “Il miliardo “, p. 57, ed. Rizzoli

    26) Deng Xiaoping, op. cit., vol. III, 12 settembre 1988; F. Rampini, “Il secolo cinese”, p. 115, ed. Mondadori

    27) Deng Xiapoing, op. cit., vol. III, 26 aprile 1987

    28) Vedi Wikipedia, List of countries by GDP (PPP) 2007

    29) Vedi www.contropiano.org/documenti/2008/aprile 08 “La Cina nel 2007/2008″, parte I

    30) Quotidiano del Popolo, 3 settembre 2007 “Top 500 enterprises 2006…” e 3 settembre 2006 “Top 500 enterprises 2005…”

    31) Quotidiano del Popolo, 24 gennaio 2008 “China’s state owned enterprises…”

    32) Quotidiano del Popolo, 24 gennaio 2008, articolo citato e 3 febbraio 2008 “Private economy develops rapidly”

    33) Quotidiano del Popolo, 30 gennaio 2007 “China says no to land privatization”

    34) G. Arrighi, op. cit., pp. 398-399

    35) www.ernac.net-cooperatives China e Statistiche FMI, 2004-Cina

    36) La Repubblica, Affari e Finanza, 14 febbraio 2008, p. 3

    37) Le Monde, 13 novembre 2002 “Dossier Cina”; F. Sisci, “Made in China”, pp. 113-114, ed. Carrocci

    38) F. Sisci, op. cit., p. 113

    39) www.resistenze.org/sito/te/po/ci/poci8

    40) L. Vinci, rivista L’Ernesto, ottobre 2002

    41) La Repubblica, Affari e Finanza, 14 febbraio 2008, p. 40

    42) Quotidiano del Popolo, 3 febbraio 2008, “Private…” op. cit.

    43) Quotidiano del Popolo, 3 febbraio 2008, articolo citato

    44) Quotidiano del Popolo, 17 luglio 2008, “China’s GDP up 10,4 percent…”

    45) Il Manifesto, 28 marzo 2007; Quotidiano del Popolo, 30 gennaio 2008, “No. 1 central document focuses on rural issues for 5th years”

    46) V. I. Lenin, “Ancora sui sindacati”, 30 dicembre 1920

    47) R. Medvedev, “La Russia post-sovietica”, pp. 198/205, ed. Rizzoli

    48) L. Tomba, “Storia della Repubblica Popolare Cinese”, pp. 201/203, ed. Mondadori

    49) Sujian Guo, “Journal of Contemporary China”, agosto 2003

    50) Quotidiano del Popolo, 15 luglio 2008, “Wal-Mart signs collective…”

    51) F. Piccioni, “La Cina ora punta a un modello più evoluto”, Il Manifesto del 2 febbraio 2008

    52) G. Arrighi, op. cit., p. 396

    53) S. Cingolani, “Le grandi famiglie del capitalismo italiano”, p. 15, ed. Laterza

    54) Quotidiano del Popolo, 3 settembre 2006 e 3 settembre 2007, articoli citati

    55) Quotidiano del Popolo, 24 gennaio 2008, “China’s state owned enterprises…”

    56) Quotidiano del Popolo, “Top 500 enterprises 2005″, 3 settembre 2006 e rivista “Beijing Review”, 4 dicembre 2003, p. 15
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    Predefinito Rif: Repubblica Popolare Cinese

    La Cina Rossa

    CINA: IMPERIALISMO O SOCIALISMO?

    PARTE I



    CINA: POLO IMPERIALISTICO, OPPURE NAZIONE SOVRANA DI MATRICE PREVALENTEMENTE SOCIALISTA?

    Secondo molti esponenti ed organizzazioni della sinistra antagonista occidentale, la Cina contemporanea rappresenta una potenza imperialistica basata su rapporti sociali di produzione e distribuzione di tipo capitalistico (di stato).

    Alla fine del 2008, anche un intellettuale marxista preparato ed intelligente come G. Gattei ha purtroppo lasciato intendere che la Cina sia un “terzo imperialismo”, seppur di tipo originale e particolare, ” in cui la periferia, oltre a produrre materie prime per l’esportazione (Marx) e ad attrarre capitali dal centro per produrre manufatti per il mercato interno (Lenin), ha preso ad esportare i propri manufatti anche sui mercati del centro”imperialistico, Stati Uniti ed Europa occidentale in testa”.[1]

    Ma la Repubblica Popolare Cinese costituisce davvero una potenza imperialistica? Intendendo con Lenin per imperialismo (moderno), “il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo, in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione del capitale ha acquisito

    Grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici”, siamo in presenza di una nuova potenza statale “vampiro” ed egemonica?[2]

    Crediamo che la risposta sia negativa, perché la teoria della “Cina-polo imperialistico” si scontra con molti fatti testardi, che la demoliscono e falsificano alla radice.

    Il principale problema che incontra la concezione in oggetto è che i rapporti sociali di produzione e distribuzione nella Cina contemporanea sono ancora prevalentemente collettivistici, di natura statale o cooperativa, anche se affiancati simultaneamente dalla presenza di un robusto settore capitalistico, nazionale ed internazionale (multinazionali straniere).

    Senza”dominio dei monopoli e del capitale finanziario” (Lenin), pertanto sparisce l’imperialismo, o almeno l’imperialismo descritto da Lenin.

    Senza una base economica e rapporti di produzione prevalentemente capitalistici, non si può certo parlare di imperialismo moderno, che si fonda -sempre Lenin- su una precisa “fase di sviluppo del capitalismo finanziario” (banche private in testa) e del suo processo di accumulazione.

    Sotto il profilo della natura degli attuali rapporti di produzione esistenti in Cina, rimandiamo al nostro lavoro ” Cina: socialismo o capitalismo”, limitandoci a ricordare che nel 2008 tra le 500 imprese che operano in Cina (e che rappresentano circa l’84% dell’intero prodotto nazionale lordo del gigantesco paese asiatico), ben 349, (quasi tre quarti del totale), vengono controllate e possedute integralmente/prevalentemente dallo stato cinese; che in Cina vige la proprietà collettiva del suolo; che il potere pubblico cinese ha via via accumulato un “tesorone” pari a quasi 2000 miliardi di dollari alla fine del 2008, equivalente a più della metà del prodotto interno lordo cinese nell’anno in esame; che negli ultimi sette anni è cresciuto vertiginosamente il peso specifico della spesa pubblica sul PNL cinese, ruolo e funzione ancora aumentata sensibilmente dal gigantesco “New Deal” varato dalle autorità statali cinese agli inizi di novembre del 2008; che il settore cooperativo, rurale ed urbano, rimane fortemente radicato e diffuso all’interno della variegata formazione economico-sociale cinese; che … basta, non vogliamo ripeterci troppo.[3]

    La seconda difficoltà che incontra la tesi della “Cina polo imperialista” deriva dal fatto che il presunto imperialismo cinese viene sfruttato su larga scala (seppur in modo controllato, con precisi limiti e contropartite) e da quasi tre decenni da parte delle multinazionali occidentali e giapponesi (ed indiane, negli ultimi anni).

    G. Gattei ha perfettamente ragione quando ha notato che, “come se la profezia di Smith si fosse avverata, aggiungendo finalmente al proprio mercato interno anche il mercato internazionale, la Cina si è trasformata in una vera propria officina del mondo, esportatrice privilegiata di manufatti per il centro imperialistico”.[4]

    Ma il compagno Gattei, forse per motivi di spazio, ha dimenticato di analizzare un “fatto testardo ” di notevole importanza, alias che quasi il 60% del totale delle esportazioni provenienti dalla Cina e destinate in larga parte ai mercati consumatori occidentali rimane sotto la proprietà ed il controllo delle multinazionali occidentali e giapponesi: nel 2006 la quota in oggetto era pari al 58% del totale del commercio estero cinese.[5]

    La Cina è diventata “l’officina del mondo”, ma più della metà dei “manufatti per il centro imperialistico” (Gattei) che essa esporta ogni anno risulta di proprietà proprio del capitalismo estero: più della metà dei “manufatti esportati annualmente dalla Cina” costituiscono delle preziose fonti di profitti per le multinazionali occidentali, dalla Wal-Mart in giù.

    Pertanto ogni anno una consistente massa di plusvalore/plusprodotto/profitti, creati e generati in Cina dagli operai e dai salariati cinesi assunti nelle multinazionali occidentali che sperano nel gigantesco paese asiatico, entra nelle tasche degli azionisti e dei capitalisti occidentali e ne alimenta il processo di accumulazione.

    Che strano imperialismo, quello cinese.

    Anzi, che misero imperialismo, che non sa neanche difendere per il proprio “capitale” e”capitalisti” buona parte della massa di plusvalore via via riprodotta a Pechino, Shangai e nelle regioni costiere cinesi.

    Le dimensioni assunte dal capitalismo privato in Cina, nella sua sezione “multinazionale”, sono sicuramente consistenti ed innegabili.

    Ancora alla fine del 2006, avevano investito parte dei loro capitali in Cina circa 590000 multinazionali piccole o grandi, partendo dai colossi come Wal-Mart e General Motors, destinando all’utilizzo produttivo della forza- lavoro cinese una somma complessiva ormai pari a circa 800 miliardi di dollari e via via accumulatosi nel periodo compreso tra il 1979 ed il 2007: sempre nel 2007, le imprese straniere davano lavoro a 15.830.000 salariati cinesi ed avevano contribuito al 20,2% delle entrate fiscali della nazione asiatica, mentre gli investimenti diretti delle multinazionali in Cina erano pari a 460 miliardi di dollari nel 2004 ed a 700 miliardi nel 2007.[6]

    Il processo è via via aumentato a partire dagli inizi degli anni 80: mentre dal 1979 al 1983 gli investimenti annui del capitalismo straniero erano ancora pari alla modesta somma di 600 milioni di dollari annui, negli ultimi quattro anni la cifra annua era salita ad una media pari a circa 80 miliardi di dollari ed era arrivata fino alla quota totale di 82,7 miliardi di dollari nel solo 2007.[7]

    Il partito comunista, introducendo la “NEP cinese” attraverso le riforme elaborate da Deng Xiaoping nel 1975/78, ha accettato di subire i lati negativi creati dalla presenza massiccia delle multinazionali occidentali e giapponesi in Cina (loro potere di pressione economica; esportazione di larga parte di profitti ottenuti nelle metropoli imperialistiche; sfruttamento della manodopera cinese, ecc..) perché li ha considerati inferiori ai vantaggi ottenuti parallelamente dal processo produttivo cinese: accumulazione su larga scala di valuta straniera (visto il monopolio statale sui flussi di capitale monetario dall’estero), acquisizione a ritmi accelerati di alta tecnologia, entrate fiscali derivanti dalla tassazione dei profitti delle multinazionali estere (aliquota del 25% su questi ultimi, dal 2007), relativa protezione per le esportazioni cinesi dalle possibili misure protezionistiche dei paesi occidentali (che ricadrebbero per più della metà sulle “loro” imprese e monopoli privati).

    In ogni caso, anche tenendo conto dei contributi fiscali pagati dalle multinazionali occidentali allo stato e della parte consistente di esportazioni autoctone provenienti dalla Cina, pari nel 2006 a circa il 42% del totale, il flusso costante di plusvalore e profitti dalla Cina alle metropoli imperialistiche che si crea tramite le multinazionali occidentali rappresenta un processo materiale innegabile, che fa a pugni con la teoria dell’imperialismo di matrice cinese: non sono certo le aziende cinesi a sfruttare la manodopera salariata occidentale (se non in misura irrisoria, come si vedrà più avanti), ma è vero invece il contrario “la cicala” occidentale è anche un “vampiro” che assorbe annualmente masse consistenti di plusvalore e profitti prodotti in Cina dalla forza lavoro cinese ottenendo tra l’altro il vantaggio ulteriore di acquisire beni di consumo a basso prezzo che, comprati su larga scala dagli operai occidentali, diminuiscono di valore della loro forza-lavoro, aumentando parallelamente il raggio di plusvalore estorto nel suo insieme dalla borghesia ai salariati europei, giapponesi e nordamericani.

    Solo nel 2005, secondo il grande istituto finanziario UBS, le multinazionali presenti in Cina avevano rimpatriato reinvestito una massa di profitti pari a 27 miliardi di dollari: una discreta sommetta, non c’è dubbio.[8]

    Terza difficoltà, sempre collegata e generata dal ruolo oggettivo svolto dalla Cina nel processo produttivo mondiale: è la manodopera cinese ad emigrare, seppur in termini percentuali molto bassi, nel mondo occidentale ed a creare/riprodurre quote di profitto consistenti per il capitalismo dei paesi più avanzati. Non sono certo gli operai e gli impiegati di Milano, Roma o Napoli che vanno a lavorare in pianta stabile nelle regioni costiere cinesi, alimentandone il processo di riproduzione: solo la comunità cinese in Italia conta ormai più di 100000 residenti regolarizzati, in larga parte impegnati nella produzione di beni e servizi.[9]

    Quarto scoglio per la tesi della “Cina polo imperialistico”: il livello estremamente modesto, sia in termini assoluti che percentuali, dei capitali cinesi esportati/investiti nel settore produttivo del resto del pianeta e la loro matrice prevalentemente statale.

    Alla fine del 2006, l’insieme degli investimenti produttivi cinesi all’estero risultava pari a soli 73,3 miliardi di dollari, di cui circa 80% proveniente dalle imprese statali e destinato principalmente ai settori delle materie prime fonti energetiche e delle infrastrutture produttive, quali strade, ferrovie dighe e telecomunicazioni.[10]

    Alla fine del 2008 la quota totale era salita fino a toccare i 110 miliardi di dollari, diventando pari a circa 28 miliardi di dollari nel 2008: a titolo di paragone l’insieme mondiale degli investimenti diretti effettuati nel 2007 risultava comunque pari a 1883 miliardi di dollari, somma globale in cui il flusso di investimenti cinesi pesava solo per poco più del 1% del totale.[11]

    1883 miliardi contro… 25, 25 miliardi di dollari per di più in larga parte di matrice pubblica e provenienti dalle principali aziende statali cinesi: un debole “imperialismo”, tra l’altro contraddistinto dall’egemonia schiacciante (4 a 1) del settore pubblico rispetto al capitalismo autoctono cinese nelle operazioni all’estero.

    Sempre secondo l’Unctad nel 2007 lo stock di investimenti diretti all’estero delle multinazionali non finanziarie aveva superato nel 2007 i 15.000 miliardi di dollari, somma 150 volte superiore a quella espressa globalmente dalla Cina nell’anno in oggetto: il peso specifico di Pechino sul flusso di investimenti mondiali risultava pari a solo 0,75% circa del totale, quota minimale in cui in ogni caso giocano un ruolo centrale le imprese statali.[12]

    Quinta difficoltà per la teoria in oggetto: l’acquisto su scala, da parte dello stato e del potere pubblico cinese, dei titoli di stato degli USA e delle quote di compartecipazione in istituti parastatali statunitensi, come Fanni Mae e Freddy Mac.

    Sorpresa: mentre il livello qualitativo e la massa degli investimenti produttivi cinesi all’estero risultano assai modesti in termini percentuali, in un campo particolare la Cina Popolare vanta invece già da due anni un primato mondiale indiscutibile, che ha per oggetto il possesso (da una parte dello stato cinese, degli apparati statali cinesi) dei titoli pubblici di Washington e di prodotti finanziari parastatali relativamente simili.

    Le dimensioni quantitative di questo fenomeno, allo stesso tempo politico ed economico, sono gigantesche e frutto di un processo -voluto e diretto dal partito comunista cinese- di durata oramai pluridecennale.

    Come ha riconosciuto lo stesso Barack Obama durante la sua vittoriosa campagna elettorale ed ancora nell’ottobre 2008, “Pechino detiene la quota maggiore del debito estero americano (circa mille miliardi di dollari) e, secondo alcuni esperti cinesi, obbligazioni di Fanni Mae e Freddy Mac (i due istituti finanziari che garantiscono i fondi per il mercato immobiliare americano, da poco salvati dal Tesoro degli Stati Uniti) per un valore di 400 miliardi di dollari”.[13]

    Prendiamo il dato ormai sicuro di mille miliardi di dollari: si tratta del vero, essenziale e centrale “investimento diretto” della Cina all’estero, che G. Gattei ha per il momento dimenticato di analizzare.

    Ma che tipo di investimento è, e quali sono le cause di questo gigantesco processo economico?

    I fondi statunitensi via via acquisiti dalla Cina negli USA sono titoli e bond statali del Tesoro, costituiscono dei titoli pubblici emessi dal governo statunitense.

    Non solo: la massa monetaria cinese che li ha acquistati e parallelamente di proprietà pubblica e statale, controllata esclusivamente dal governo cinese.

    Non solo: il rendimento dei buoni del tesoro e delle obbligazioni statali degli USA, acquisiti dallo stato cinese, risulta mediamente molto basso ed appena sufficiente a superare il tasso di inflazione statunitense (ed il carico fiscale che li grava). Tra il maggio 2006 ed il maggio 2007, ad esempio, i titoli di stato statunitense a dieci anni -tra quelli che garantiscono i tassi di profitto maggiori - hanno espresso un rendimento annuo che oscillava tra il 5,10 ed il 4,80%, mentre nello stesso periodo il tasso di inflazione degli USA oscillava attorno al 30%: rendimento quasi zero, insomma se depurato del dato inflattivo e del carico fiscale a vantaggio dell’esauste casse statali di Washington.[14]

    Non solo: il continuo flusso di acquisti dei titoli USA da parte della Cina viene determinato principalmente da ragioni politiche e geopolitiche, extraeconomiche e lontane da fini di lucro. Finanziando il deficit degli Stati Uniti, la Cina mantiene infatti nei confronti di Washington un forte potere contrattuale, che prima o poi al nucleo dirigente cinese verrà utile e che già ora svolge un ruolo importante di deterrente potenziale contro le tendenze più aggressive espresse dall’imperialismo statunitense contro Pechino.

    Ragionando in termini strettamente economici, chi sfrutta chi nel settore del gigantesco e continuo flusso di finanziamento cinese verso il debito statunitense?

    Gli indebitati cittadini e l’apparato statale americano arricchiscono i risparmiatori e lo stato cinese?

    O viceversa, sono gli operai e contadini cinesi che alimentano in modo masochistico sia i processi produttivi del capitalismo statunitense che il flusso di acquisti dei cittadini /salariati degli USA?

    Chi sfrutta chi?

    Sotto il profilo strettamente produttivo, si tratta di un gioco a somma zero in cui il rapporto tra costi/benefici economici per le due parti rimane per ora relativamente simmetrico, anche se è la parte cinese che contribuisce maggiormente fornendo grandi risorse con un basso ritorno materiale: non a caso l’agenzia di credito Finch ha previsto per il 2009 una diminuzione assoluta degli acquisti cinesi del debito USA, vista sia la sua aleatorietà/bassa redditività che il grande e costoso piano statale di sviluppo economico lanciato all’inizio di novembre del 2008 dal PCC.[15]

    In ogni caso, uno degli elementi centrali all’interno dei rapporti produttivi sviluppatosi negli ultimi tre decenni tra la Cina Popolare ed il resto del mondo sfugge completamente alla logica dello sfruttamento imperialistico, anche per la relazione tra stato (Cina) e stato (USA) che la contraddistingue sul piano finanziario e materiale.

    Ulteriore scoglio per la tesi della “Cina-polo imperialistico “: le relazioni paritarie e simmetriche sul piano politico ed economico,formatesi negli ultimi decenni tra la Cina ed i paesi in via di sviluppo,a partire da quelli africani.

    Una premessa, innanzitutto: il fabbisogno energetico totale della Cina è coperto per il 67%, per circa due terzi dal carbone - di cui Pechino è addirittura un esportatore -, mentre sul fronte petrolifero la dipendenza della Cina dalle importazioni di petrolio nel 2008 è stata pari al 45% circa, meno della metà.

    Partendo dal continente africano, si deve subito rilevare come l’interscambio commerciale tra Cina ed Africa abbia superato i 100 miliardi di dollari nel 2008, aumentando più del 30% rispetto all’anno precedente: sempre nel 2008 la Cina ha avuto un deficit con la controparte in oggetto pari a più di cinque miliardi di dollari.[16]

    Sul piano commerciale e finanziario, inoltre, a partire dal novembre 2006 e dal summit cino-africano tenutosi a Pechino la Cina ha garantito l’eliminazione delle tariffe e dazi doganali per ben 466 categorie di prodotti, esportati al suo interno da più trenta paesi africani.

    In aggiunta a ciò la Cina ha via via cancellato unilateralmente e senza contropartite, a partire dal 2006, tutti i debiti pregressi che si erano accumulati nei suoi confronti fino al 31 dicembre 2006 da parte di più di trenta paesi del cosiddetto”Quarto Mondo”, in larga parte africani.[17]

    Per il 2009, Pechino ha già messo a disposizione dei paesi africani un fondo statale pari a cinque miliardi di dollari per i loro bisogni materiali, a dispetto della crisi finanziaria mondiale e con tassi d’interesse molto favorevoli: non è certo un caso che il FMI e la Banca Mondiale abbiano visto crollare i loro “affari” in Africa nel corso degli ultimi anni, visto che alcuni paesi africani hanno utilizzato i (favorevoli) finanziamenti statali cinesi proprio per estinguere i debiti accumulati in precedenza, a condizioni economiche molto vantaggiose, con i due amorevoli istituti finanziari occidentali.[18]

    Secondo la stessa Banca Mondiale, mentre a fine 2003 gli investimenti cinesi - in larga parte e fino all’80% statali- risultavano pari a circa 8 miliardi di dollari, essi sono saliti fino a quota trenta alla fine del 2007, con una punta di sette miliardi di dollari nel corso del 2006.

    Su questa massa totale di investimenti, circa un sesto del totale è andato a finanziare progetti relativi alle infrastrutture produttive (strade, ferrovie, dighe, ecc.) e sociali (scuole ed ospedali), coprendo un “buco”enorme lasciato dalle multinazionali occidentali:secondo i dati forniti dalla Banca Mondiale, Pechino ha finanziato 35 paesi africani per un valore annuo pari ad un miliardo di dollari nei due campi d’azione sopracitati.[19]

    A partire dal 2007, la Cina ha offerto programmi gratuiti di addestramento per 10910 lavoratori provenienti da 49 nazioni africane, e manderà a sue spese nel solo 2009 cento esperti cinesi del settore agrotecnico in 35 stati africani (Quotidiano del Popolo, 20 gennaio 2009).

    Per quanto riguarda invece il flusso di investimenti cinesi nei diversi settori produttivi africani, essi sono concentrati in buona parte nel settore energetico e minerario e provengono quasi esclusivamente da aziende statali e società pubbliche cinesi, lasciando ovviamente la proprietà del suolo, delle ricchezze naturali e/o risorse energetiche ai paesi ospiti africani e contribuendo in larga parte/completamente agli investimenti in loco. Gli enti statali cinesi pagano le materie prime ottenute in Africa a prezzi di mercato,oppure in alternativa lasciano una quota maggioritaria dei profitti ottenuti al paese ospite nelle joint-ventures che si formano a tale scopo.

    La forza-lavoro impiegata in Africa dalle società pubbliche cinesi in parte proviene dalla Cina, mentre anche grazie all’importazione cinese di materie prime/energia (ed alla sua crescita impetuosa) i rapporti di scambio delle materie prime e dell’energia, a partire dal 1999, si sono modificati profondamente a favore delle nazioni africane: se nel 1995 un barile di petrolio costava 10 dollari, nell’estate del 2008 il suo prezzo era salito fino a circa 140 dollari aumentando di dodici volte nel giro di meno di un decennio, prima di crollare per la recessione planetaria in corso.

    Sul piano politico-sociale infine, anche alcuni osservatori ipercritici rispetto alla multiforme attività cinese in Africa (definita addirittura un ” mostro partorito dalla globalizzazione”) sono stati costretti ad ammettere controvoglia, agli inizi di novembre del 2006, che la Cina “non è interessata, ad esempio, a generare profitti spingendo per la privatizzazione di servizi anche essenziali (come invece la “globalizzazione di stampo occidentale”); invece “al contrario si può permettere di investire un minimo anche nel sociale, visto che per ora l’unico interesse è rivolto alle risorse … Nella gestione del debito, che i paesi africani stanno accumulando, la Cina è poi decisamente più flessibile ed arriva, anzi, ad aiutare con prestiti vantaggiosi gli strati a pagare gli onerosi interessi, se non a saldare le pendenze nei confronti degli stati e delle usuraie istituzioni occidentali. Molto importante anche la politica della non-interferenza: se l’occidente continua ad usare il ricatto per imporre la ricetta neo -liberista, la Cina si limita a fare buoni affari senza immischiarsi nelle vicende nazionali”.[20]

    Subito dopo l’Angola, il Sudan rappresenta uno dei principali partner commerciali di Pechino nel continente africano.[21]

    E proprio focalizzando l’attenzione sulle relazioni, politico-economiche progressivamente sviluppatesi tra Cina e Sudan, sotto il mirino dei soliti critici “umanitari” occidentali, si può subito notare come un accordo del 1997 avesse attribuito il 40% del controllo della futura estrazione del petrolio in un’ampia fascia del territorio sudanese alla compagnia statale cinese CNPC, il 30% ad un’impresa malese, il 25% all’India ed il 5% allo stato sudanese.

    Se gli investimenti nei campi petroliferi erano e sono a carico delle imprese straniere, la proprietà delle riserve petrolifere rimaneva e rimane tuttora al Sudan: le royalties pagate dalle compagnie petrolifere interessate all’erario sudanese hanno dal canto loro assunto un notevole peso, sia in termini assoluti che relativi, visto che già nel 2006 il 48% e quasi la metà dell’insieme delle entrate fiscali sudanesi era costituito dalle tasse e vendite erogati dalle aziende petrolifere estere, in primo luogo (ma non solo) di nazionalità cinese.[22]

    Sul piano politico, la principale accusa rivolta alla Cina ha per oggetto il suo sostanziale disinteresse e non-ingerenza negli affari interni dei paesi africani: senza entrare nel merito, si tratta di una critica molto diffusa anche a sinistra, ma che certo non depone a favore della teoria del polo imperialista, sempre collegato storicamente a forme più o meno dirette di egemonismo e ricatto politico, militare e/o economico esercitato dallo “stato-guida” sulle nazioni ed aree geopolitiche “vassalle” e subordinate, anche se formalmente indipendenti (il fenomeno del neo-colonialismo, in estrema sintesi).

    Per quanto riguarda le relazioni commerciali e l’interscambio politico-economico formatosi tra Cina e America latina/Asia, non sono state ancora rivolte accuse di imperialismo e neocolonialismo a Pechino: i governi delle aree geopolitiche in esame hanno anzi espresso di regola almeno del sincero rispetto nei confronti della politica (politica economica) svolta dalla Cina Popolare nei loro confronti, mentre il Venezuela, Cuba socialista ed il nuovo Nepal - dopo la primavera del 2008 - hanno manifestato sicuramente un sincero apprezzamento nei confronti delle loro relazioni multilaterali con il gigantesco paese asiatico, a partire dal lato economico, commerciale e finanziario.

    La Cina non ha mai cercato di strangolare e ricattare economicamente le nazioni dell’ipersfruttato Terzo Mondo.

    Per usare due soli esempi, il feroce blocco economico e finanziario (oltre che politico) contro Cuba non è stato certo esercitato da Pechino, ma da un’altra nazione molto vicina alle coste cubane; il boicottaggio commerciale e le sanzioni economiche contro l’Iran non provengono certo dalla Cina Popolare, che proprio nel gennaio 2009 ha invece firmato con Teheran un nuovo importante accordo in campo energetico, di durata pluridecennale.[23]

    Sesta contraddizione reale: la totale assenza di stati ed aree geopolitiche controllate e dominate dal presunto “polo imperialistico” cinese, sia sotto l’aspetto politico/politico militare che in campo economico.

    Nel 1916 Lenin notò giustamente che due delle caratteristiche fondamentali dell’imperialismo contemporaneo consistevano nel “sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo” (multinazionali e banche private) e “la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche”: nascevano varie sfere d’influenza, controllate dai più grandi paesi capitalistici.[24]

    In un’altra sezione del suo splendido lavoro, Lenin rilevò anche che ” ai vecchi momenti della politica coloniale, il capitalismo finanziario aggiunse ancora la lotta per le sorgenti di materie prime, quella per l’esportazione di capitale, quella per le”sfere di influenza”, cioè per le regioni che offrono vantaggiosi affari, concessioni, profitti monopolistici, ecc., e infine la lotta per il territorio economico in generale”.[25]

    Pertanto imperialismo significa anche controllo politico e sfruttamento economico dei “territori economici” (Lenin), composti da altri stati ed aree geopolitiche, da parte delle “zone centrali” e delle potenze dominanti.

    Imperialismo significa anche controllo politico e sfruttamento economico delle nazioni estere, sotto forme coloniali e neocoloniali.

    Imperialismo significa anche ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche, processo attraverso il quale i diversi poli imperialistici si ritagliano e dominano una “propria” ed esclusiva sfera d’influenza, sfruttandola sotto molteplici forme a vantaggio e mediante le “proprie” multinazionali e capitalismi finanziari, attraverso le proprie “associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti”(Lenin).

    Ora, dov’è l’area d’influenza della Cina, dove si trovano i “territori economici” sottoposti allo sfruttamento economico esclusivo e prevalente di Pechino, le zone d’influenza egemonizzate e controllate dalla Cina?

    Andiamo per esclusione.

    Stati Uniti? Crediamo di no, anche se alcuni esponenti della destra repubblicana avevano parlato di “pesanti influenze” cinesi sull’amministrazione Clinton…

    Europa di Maastricht? Crediamo di no, vista anche l’isterica campagna anticinese sviluppatasi nel marzo-aprile 2008 dopo il pogrom anticinese di Lhasa…

    Giappone? Le basi militari collocate in Giappone non sono certo cinesi, ma a stelle e strisce…

    Corea del sud? Come sopra…

    Canada e Messico? Crediamo che i due stati siano sicuramente delle aree d’influenza e “territori economici” altrui, ma di un paese a loro molto più vicino (e confinante, tra l’altro) della Cina.

    Europa centro-orientale, ivi compresi paesi baltici, Ucraina e Georgia? Sono sicuramente semi-colonie, ma non certo di Pechino…

    Vietnam? Immaginiamo le (giuste e sacrosante) urla di protesta dei comunisti vietnamiti, anche solo a proporre loro per un istante questa ipotesi assurda…

    Laos? Come sopra…

    Cuba? Come sopra…


    [1] G. Gattei, “L’imperialismo di oggi: China export”, in Contropiano nr. 4 del 2008, pag. 2

    [2] V. I. Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, cap. VII, Ed. Editori Riuniti

    [3] M. Leoni e R. Sidoli, “Cina: socialismo o capitalismo”, parte I

    [4] G. Gattei, Contropiano, op. cit.

    [5] “Foreign Investment in China, in www.uschina.org.2007″, febbraio 2007

    [6] K. Gruppioni, “Investimenti stranieri? Ancora sì, grazie!”, 24/10/08, in club.quotidianonet.ilsole24ore.com/gruppioni

    [7] H. Jaffe, “Caos o ordine in Cina”, in Proteo, n. 1 del 2008

    [8] “Foreign Investment in China. Forecast 2008″, in Welcome to the US-China Business Council, febbraio 2008

    [9] R. Oriani e R. Staglianò, “I cinesi non muoiono mai”, pag. 13-14, Ed. Chiarelettere

    [10] “Foreign Investment in China. 2007″, op. cit.

    [11] Fonte: Unctad, WIR 2008, in Centro Estero per l'Internazionalizzazione - Home Page e www.scipol.unito.it/materiale_corsi

    [12] Unctad, op. cit.

    [13] E. Scimmia, “Per l’America Pechino è un partner terribile ma decisivo”, 14 ottobre 2008, in l'Occidentale

    [14] “77a Relazione annuale della Rri, cap. VI”, giugno 2007, in www.economia.unimore.it

    [15] Il Manifesto, 10 gennaio 2005, “La Cina compra sempre meno deficit USA”, pag. 3

    [16] english.peopledaily,com.cn, “Sino-african trade top 100 billion USD in 2008″, 22 dicembre 2008

    [17] english.peopledaily,com.cn, 22 dicembre 2008, op. cit.

    [18] english.peopledaily,com.cn, “China net to reduce assistance to Africa despite financial crissi”, 19 dicembre 2008

    [19] China Digital Times, luglio 2008, “China narrows Africa’s infrastructure deficit”

    [20] vedi www.megchip.info, 8 novembre 2006, “Cina: la globalizzazione ha partorito il suo mostro”

    [21] english.peopledaily,com.cn, 20 gennaio 2009, “Angola becomes China’s largest African trade partner”

    [22] “UN: create Darfour recovery founds for sudanese oil revenue”, 18 marzo 2007, in Home | Human Rights Watch

    [23] english.peopledaily,com, “CNPC to develop Azadegan oilfield”, 16 gennaio 2009

    [24] V. I. Lenin, “L’imperialismo”, op. cit., cap. VII

    [25] V. I. Lenin, op. cit., cap. X
    Ultima modifica di Stalinator; 24-10-10 alle 19:19

 

 
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