Documento n.1: Montecassino
Sessant'anni fa l'inutile e devastante azione aerea alleata che rase al suolo il monastero: non c'erano tedeschi nell'abbazia, ma fu la stampa Usa a spingere per distruggerla
Un'esplosione «terribile» raggiunse i dieci monaci di Montecassino che, in ginocchio, stavano recitando l'antifona mariana «Ave regina coelorum». Nella cappella, in un seminterrato dell'abbazia, si era precipitato un inserviente, un sordomuto. Con gli occhi sbarrati dal terrore fece capire che la chiesa era crollata. Il B17 del capitano Evans l'aveva centrata in pieno. Erano le 9.28 del 16 febbraio 1944. A questa esplosione fece seguito un vero e proprio inferno di bombe sganciate dagli alleati. Centoquarantaquattro «fortezze volanti» seguite da altri 86 bombardieri partiti dall'aeroporto di Foggia ai quali si sarebbero aggiunti, nella tarda mattinata, 22 B26 decollati dalla base di Decimomannu, in quattro ondate successive, dalle 9.28 alle 13.33, scaricarono sull'abbazia oltre 453 tonnellate di bombe, 66 delle quali incendiarie. «Obiettivo pestato come si deve», scrisse uno degli aviatori. Quando i monaci, rimasti miracolosamente illesi, uscirono all'aperto scoprirono - come si legge in Montecassino di David Hapgood e David Richardson, edito da Baldini e Castoldi - che «il loro monastero era irriconoscibile... chiostri e colonnati erano in pezzi... c'era un cratere di liquido rossastro al posto della cisterna... La statua di san Benedetto era ancora in piedi, nel chiostro, ma senza la testa». Dappertutto feriti e morti. Almeno 150 questi ultimi. Tutti civili. Perché nel monastero si erano rifugiati in quell'inverno 1943-44 più di un migliaio di abitanti della zona. Nessun tedesco tra le vittime. Eppure proprio la «supposta» presenza di installazioni e di soldati del Reich all'interno dell'abbazia, fu all'origine del bombardamento di Montecassino. Il generale neozelandese Freyberg («personaggio di enorme coraggio e limitato intelletto») ne era così convinto che richiese l'autorizzazione per l'incursione - ottenendola - al generale Alexander, comandante in capo della forze alleate, mentre il generale Clark comandante della V Armata continuò ad essere perplesso (ma non si oppose). C'è da aggiungere che l'opinione pubblica inglese e americana era convinta della presenza dei tedeschi nell'abbazia. Alle 22.45 del 14 febbraio il delegato apostolico negli Stati Uniti aveva telegrafato rilevando che per la stampa americana Montecassino era divenuta «non un osservatorio, ma una fortezza nemica», da distruggere quindi. La verità fu che Montecassino, nonostante le assicurazioni e dei tedeschi e degli Alleati (ripetute anche al Vaticano) sul suo rispetto per i tesori d'arte che conservava (ma che erano stati già a novembre messi in salvo) e soprattutto per l'alto significato religioso e culturale dello storico e secolare monumento, venne a trovarsi nel pieno dello scontro fra le truppe di Kesselring, al quale Hitler aveva ordinato di tenere la «linea Gustav» ad ogni costo, e le armate angloamericane (ma le componevano anche neozelandesi, francesi, polacchi) che puntavano sulla conquista di Roma. Una guerra cruenta senza vinti e vincitori. Con la popolazione civile e i monaci a pagare il duro prezzo. Ai primi del dicembre 1943 i tedeschi decisero, per salvaguardare l'abbazia da qualsiasi rischio bellico, di istituirle attorno una zona neutra «interdetta a qualsiasi militare e a ogni installazione guerresca». Ma già il 5 gennaio «giornata tristissima, tra tristi giornate», come annotò nel diario uno dei monaci, la zona «neutra» fu abolita malgrado le proteste dell'abate Diamare, che rifiutò anche ogni invito ad abbandonare il monastero. «Se non con la violenza», aggiunse. Verso la fine di gennaio e quindi a febbraio Montecassino dovette subire quotidianamente il fuoco incrociato dei cannoni dei due eserciti, con le granate di entrambe le parti che finivano all'interno dell'abbazia. «...Assistiamo ormai impotenti alla sua graduale distruzione con il cuore pieno di amarezza», osservò ancora il monaco. Gli Alleati cercarono di forzare la situazione con il bombardamento. Nel primo pomeriggio del 14 febbraio alcuni abitanti portarono nel monastero alcuni volantini, firmati «La V Armata», abbondantemente sparati sul territorio circostante dai cannoni. Dicevano: «È venuto il tempo in cui a malincuore siano costretti a puntare le nostre armi contro il monastero... il nostro avvertimento è urgente. Lasciate il monastero». L'abate inviò dei giovani per avvertire i tedeschi. Ma l'informazione a un ufficiale tedesco giunse solo nella notte successiva e il tenente arrivò al monastero all'alba del 15 senza accogliere la proposta dei monaci di essere autorizzati a raggiungere le vicine linee della V Armata. L'ufficiale tedesco non credette all'avvertimento degli Alleati. Poche ore dopo il terribile bombardamento avrebbe smentito il suo scetticismo. Ma pure le supposizioni del generale Freyberg si rivelarono ben presto destituite da ogni fondamento. Le prove «inconfutabili» alla base del bombardamento e delle quali si parlò anche dopo la guerra non c'erano o non furono mai trovate. L'abate affermava, ed era la verità, che i militari del Reich non furono all'interno del monastero (c'erano probabilmente nelle grotte della zona «neutra»). Anche sul piano militare la distruzione dell'abbazia fu un grave errore. Fra l'altro consentì ai tedeschi di installarsi, come fecero due giorni dopo, tra le rovine del monastero e di resistere fino al maggio 1944, quando gli Alleati vinsero la cruenta e difficile battaglia di Montecassino. E Roma poté essere liberata.
(Da Avvenire del 16 febbraio 2004)
Documento n.2: Milano
E per bersaglio, i milanesi. 1942-1944, tra i civili gli orrori della guerra.
Oggi sembra che l¹inferno dei bombardamenti aerei debba toccare solo lontani e sfortunati popoli. Ma non dimentichiamo che anche Milano, quella ricca Milano che molti di noi vivono tutti giorni, conobbe 60 anni fa un simile calvario. A quel dramma, che spesso conosciamo solo attraverso i racconti dei familiari più anziani, è dedicata la splendida mostra ³Bombe sulla città, Milano in guerra (1942-1944), che si tiene fino al 9 maggio alla Rotonda della befana (Š) Qualche bombardiere inglese si era fatto vivo nei cieli della città già nella notte tra il 15 e il 16 giugno 1940, ma le incursioni erano state sporadiche per due anni. Fu solo a partire dal 24 ottobre 1942 che Milano subì massicce offensive aeree. Era l¹epoca in cui il Bomber Command della RAF, l¹aviazione inglese, era guidato dal Œmacellaio¹ Sir Arthur Harris, che sosteneva la validità dei bombardamenti terroristici notturni. Per vincere, pensavano gli inglesi, bisogna far cedere psicologicamente la popolazione nemica, farle provare una paura senza nome.
La città ferita. All¹indomani della notte fra il 15 e 16 agosto 1943, che aveva visto ben 199 bombardieri inglesi Lancaster violare i cieli lombardi, i milanesi ebbero il cuore più scosso che mai. Oltre ai lutti andavano infatti annoverate le ferite inferte alla città, alla sua storia e alla sua cultura. La distruzione mutava volto al mondo fino ad allora conosciuto dagli abitanti, allontanando sempre di più in un remoto e irreale passato di una vita normale. Una vita che, negli anni di pace, si era alimentata anche di luoghi o edifici che da generazioni formavano l¹ossatura della città. I famosi magazzini della Rinascente non esistevano più, mentre il Teatro della scala era un cumulo di rovine. La Milano dei grandi edifici, dei monumenti e delle opere d¹arte ebbe molto a soffrire dal terrorismo aereo nemico. Su 273 edifici sottoposti a tutela, ben 183 subirono danni più o meno gravi. In pratica si trattò del 65% dei monumenti cittadini. Il Duomo, Sant¹Ambrogio, Palazzo Reale molti altri simboli della città furono brutalmente sfregiati. La Soprintendenza ai Monumenti, guidata dal grande Gino Chierici, cercò di fare il possibile per proteggere i beni architettonici, ma non era impresa facile. I preziosi sacchetti di sabbia non erano sempre disponibili, nonostante Chierici sommergesse le autorità di richieste a tal proposito. Con la sabbia e i tubolari di ferro fu comunque possibile salvare molte opere. Ad esempio il Cenacolo di S. Maria delle grazie, che restò in piedi nonostante una bomba avesse centrato il chiostro. Andò invece male al Museo di Storia Naturale, le cui preziose collezioni arsero fra le fiamme della pazzia umana.
Gorla: quelle duecento piccole vittime innocenti. Quasi duecento alunni delle elementari, più maestri e bidelli, morirono per uno stupido errore dei piloti americani. Era la mattina del 20 ottobre 1944 quando l¹Usaaf attaccò le industrie milanesi. I bersagli erano i capannoni della Breda, dell¹Alfa Romeo e dell¹Isotta Fraschini. Per distruggerli, decollarono da Foggia ben 102 quadrimotori B-24, appartenenti a tre gruppi diversi. Purtroppo i 36 aerei del 451° Group commisero un tragico sbaglio. Dovevano colpire la Breda di Sesto San Giovanni, ma la loro rotta di volo risultò deviata di 15 gradi sulla destra. Non potendo tornare indietro, né riavvicinarsi all¹obbiettivo, gli aviatori USA si liberarono del carico di bombe, per poi tornare alla base. Rilasciare ordigni ormai inutili per alleggerire l¹aereo ed evitare rischi all¹atterraggio è una prassi consueta in guerra. D¹altronde, una volta avvistati, dei bombardieri non possono trattenersi sopra una città nemica per molti minuti,mentre la contraerea e i caccia intercettori sono in azione. Ma, anziché scaricare le stive sul mare, gli americani pensarono ³bene2 di farlo sopra il quartiere di Gorla. Ne risultarono 600 vittime civili, delle quali circa un terzo erano gli alunni della scuola Francesco Crispi. Esattamente 184 furono i piccini innocenti trucidati in modo così aberrante, non giustificato da nessuna necessità militare! Errore tanto più imperdonabile se si considera che la strategia aerea americana si era sempre distinta da quella terroristica inglese perché più propensa ad attacchi mirati compiuti in pieno giorno.
(Da la Padania del 24 febbraio 2004).
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Comunicato n. 20/04 del 28.02.2004
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